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Autore: MaxB    18/04/2020    7 recensioni
Ossessionata dalla saga de La Passe-Miroir, non riesco a pensare ad altro da settimane.
E ho bisogno di approfondire alcune scene dei primi tre (e spoiler del quarto) volumi.
Ci saranno missing moments, scene descrittive relative a Thorn, soprattutto alla sua infanzia, e immersioni nei dialoghi tra Ofelia e Thorn, per come me li immagino io. Ed eventuali scene mancanti che ci starebbero bene.
Per possibili spoiler sul quarto volume verranno dati avvisi in cima alla pagina.
Aggiornamento irregolare.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Buongiorno a tutti, eccomi qui a tediarvi. Quello che ho scritto è basato sul capitolo La stazione di Fidanzati dell'Inverno, Libro 1, pagine 419-431.
L'intento era quello di descrivere solo la scena tra Ofelia e Thorn in cui lei lo ripudia e gli rivela di non amarlo, ma ci sono scappati in mezzo pure Godefroy e Freya, non invitati, e ho dovuto inserirli.
Sempre dal punto di vista di Thorn, ormai mi ci sto affezionando. Spero solo di non averlo fatto troppo confuso perché l'ho reso così confuso a causa dei propri sentimenti che alla fine mi sono confusa anche io e ne è uscita una lotta tra me, lui, la vendetta e l'amore e insomma, una gran confusione.
Avrei un favore da chiedere: se avete piacere, solo se avete piacere, mi aiuterebbe molto capire quale stile preferite, se capitoli narrati da Thorn (4 e 5), non detti e non narrati (cap 1), digressioni quotidiane (cap 2) o scorci di vita con flashback e approfondimenti (cap 3). E se ne preferite uno in particolare, su quale argomento vorreste che scrivessi. Oppure quale scena del libro vorreste sviscerare. Non garantisco di riuscire ad accontentare tutte le richieste, purtroppo se una cosa non viene da me faccio fatica a scriverla, però potreste darmi degli utilissimi spunti o farmi notare qualcosa che al momento mi sfugge.
Altrimenti continuo per la mia strada sperando di rendervi meno ardua l'attesa fino al 15 giugno *sclera*.
Grazie mille dell'attenzione e del fatto stesso che siete qui^^ Buona lettura (spero)


5. Je ne vous aime pas

Odiava quella serata. Quel caos. Quella calca di corpi pressati tra loro come se fosse normale invadere lo spazio personale altrui, come se fosse addirittura apprezzabile e consigliato. Non si sarebbe trattenuto un minuto in più di quanto aveva pattuito per non dare adito a screzi o malintesi, o peggio ancora, offese di natura non specificata ma che a corte spuntavano come funghi. Si sarebbe mostrato ai presenti, così che nessuno potesse avanzare la pretesa di dire che Thorn non si era presentato al rinfresco post-spettacolo, e se qualcuno non avesse fatto in tempo a fermarlo per poter parlare con lui, tanto peggio per quella persona: lui c’era, sarebbe stato quell’individuo ad essere stato troppo lento. 
Così, faceva buon viso a cattivo gioco. Ergo, stava in silenzio, sovrastando gli altri, e sfruttando la sua altezza per evitare i conoscenti da cui più di tutti voleva tenersi lontano. Lanciava occhiate torve in giro per tutta la sala, sempre sul chi-va-là, temendo un abbordaggio da volti illustri ed indesiderati, rifiutando di mescolarsi alle conversazioni. Peccato che, per quanto lui le rifuggisse, quelle anime in preda ai fumi dell’alcol e all’eccitazione dello spettacolo sembravano interessate a parlare con lui, e lui soltanto. Soprattutto per rimostranze, celate dietro sorrisi falsi e melensi che diventavano parole intrise di fiele quando i lamentatori erano certi di avere la sua attenzione. 
Stava ancora cercando di liberarsi di tre panciuti ometti che si auguravano che la caccia fosse fruttuosa quando intravide Ofelia, o meglio, Mime il valletto, avvicinarsi per porgergli un calice di champagne. L’insofferenza verso quegli uomini che avevano bisogno più di un digiuno che di una caccia abbondante fu sostituita dallo sconcerto, che mascherò dietro un semplice sopracciglio sollevato. E il suo cuore gli balzò speranzosamente in petto, ma quello nessuno lo avrebbe mai saputo, per quanto lui stesso ne fosse irritato. La sua fidanzata turbava il meccanismo di pompa di quell’organo così preciso e meticoloso, avrebbe dovuto cercare di regolarlo. O regolare se stesso ogniqualvolta si trovava in sua presenza. 
Notando lo sguardo insistente del valletto, per quanto potesse esserlo quella maschera di inespressività, Thorn afferrò il calice e congedò quella massa di uomini ciccioni e strizzati dentro le redingote che avevano bisogno di essere allargate. Avrebbe fatto stilare una legge che prevedesse obbligatoriamente indumenti di una taglia in più per coloro che superavano una certa soglia di eccesso ponderale, così da evitare inutili feriti a causa di bottoni saltati da giacche e camicie troppo strette e sparati a velocità folle contro gli occhi di qualcuno. 
Preda di quei pensieri da funzionario diligente, si voltò con l’intento di allontanarsi dalla sala, sperando che il valletto alle sue spalle lo seguisse. Non poteva permettersi di girarsi per appurarlo, perché qualcuno avrebbe sicuramente notato il suo interesse per un semplice e indegno domestico, ma contava sulla capacità di Ofelia di leggere tra le righe. Il suo intento era quello di guidarla verso la hall del teatro, dove poi avrebbero potuto… 
Non portò a termine il pensiero. Tra tutti gli invitati con cui poteva intrattenersi, che aveva evitato e che non aveva potuto ignorare, si imbatté proprio nei due con cui non voleva avere nulla a che fare. Mai più. 
Freya e Godefroy. I fratellastri. 
Nonostante i riflessi pronti e gli artigli che saggiavano delicatamente l’aria come dei termometri, alla ricerca di minacce, non vide arrivare l’enorme mano di Godefroy, che lo urtò talmente violentemente da fargli rovesciare lo champagne che teneva in mano. 
Così come il suo cuore era stato lesto a svegliarsi e agitarsi alla vista di Ofelia, seppur mascherata, fu rapido anche a congelarsi e sprofondare nell’abisso in cui quelle due serpi avevano costretto Thorn a nasconderlo. Per proteggersi. Per evitare di soffrire ancora, come loro avevano fatto soffrire lui. Per non provare più affetto, per nessuno, perché quel sentimento caduco ed effimero innalzava la persona per poi abbatterla senza pietà quando l’illusione svaniva e il velo si spezzava. 
Provare affetto per qualcuno, legarsi a qualcuno, portava solo sofferenza. 
Non voleva pensare a Ofelia in quel momento. 
Sentì lo stomaco annodarsi quando Godefroy lo chiamò “fratellino”. Forse un tempo lo era stato, un fratellino, con tutte le connotazioni positive che quell’appellativo recava con sé. Ma non lo era più. Non lo era decisamente più da anni. 
Godefroy lo apostrofò come un vecchio amico il cui ritrovo dissipa la nostalgia, ma Thorn non era così tonto da lasciarsi raggirare. Sapeva bene che, dietro i modi camerateschi, ciò che provava Godefroy era in tutto e per tutto identico a quello che grondava dagli occhi predatori di Freya: odio. Disprezzo. 
Desiderio di violenza, di cui portava l’evidenza sulla pelle. 
Ciò che voleva meno al mondo era intrattenersi con loro, a parlare di nulla, ma non poté fare a meno di correggerli entrambi quando pretesero di sapere da quanti anni non si vedevano tutti e tre insieme. Non cinque, non quindici, ma sedici. Sedici, un mese e cinque giorni, per l’esattezza. Thorn ne aveva appena compiuti otto quando finalmente avevano deciso di sparire dalla sua vita. E non gli erano mai mancati. 
Il suo intento era quello di non lasciarsi coinvolgere, di starsene lì immobile e zitto finché si fossero stufati e allontanati. Lui non poteva attaccarli essendo un bastardo che sarebbe stato accusato a prescindere in caso di violenza, ma nemmeno loro avevano libertà d’azione a quel rinfresco. 
Tuttavia, non poté fare a meno di irrigidirsi quando Freya alluse velatamente ad un incidente di caccia per Berenilde. Nonostante il contegno e l’apatia che si era imposto, lo sforzo che stava facendo per non lasciar trapelare il suo fastidio nei loro confronti, Thorn non si trattenne dal restituire a Freya la sua stessa occhiata, solo più intensa: odio. Disprezzo. Dieci volte più espliciti e chiari, alimentati dal ricordo delle cinquantasei cicatrici che gli avevano inferto, che in quel momento, una a una, sembravano pulsare per ricordargli cosa quelle due Bestie gli avevano inflitto. 
Anche Freya sembrò ricordarsi di quei marchi, i marchi da bastardo, perché gli ricordò che lui non poteva prendere parte alla caccia. Lui, da parte sua, avrebbe voluto ricordarle che lui amministrava e gestiva tutto il denaro del Polo, varando leggi economiche e apponendo il veto alle decisioni finanziarie, il che comportava un potere e una responsabilità enorme che non prevedevano il rischio di morte da parte di Bestie appena uscite dal letargo. Lui non si sporcava le mani. Ma stette zitto, senza ribattere come un adolescente che non sa mordersi la lingua, soprattutto sapendo che la sua ripicca non era inattaccabile: serve a poco contabilizzare le spese se non c’è cibo che sfami chi fa girare l’economia. 
Fortunatamente Freya si allontanò e Thorn si augurò di non vederla per altri sedici anni. Anche qualcosa di più. Del resto, il sentimento era reciproco. 
Godefroy, d’altro canto, sembrava in vena di chiacchiere amene tra fratelli, come se non lo odiasse. Era quella la cosa che più di tutti l’aveva ferito: aveva ammirato Godefroy, il fratello maggiore bello e prestante, simpatico, carismatico, affascinante, capace di farti sentire importante e portarti in palmo di mano, ma che sapeva distruggerti con altrettanta facilità. Come ti innalzava, Godefroy non ti faceva inciampare, ti faceva precipitare. Ti scaraventava via. 
Era più pericoloso di Freya, che era solo un fuoco di paglia, impulsiva e senza discernimento. Godefroy era un pianificatore, un calcolatore. Il cacciatore migliore. 
Thorn prestò poca attenzione alle confidenze del fratellastro circa il nuovo aborto della moglie. Gliene fregava poco. Non poté però evitare di essere punto sul vivo dalle sue insinuazioni circa la famiglia che di lì a qualche tempo avrebbe formato con Ofelia. 
- Compatisco la donna che dovrà vedere la tua lugubre faccia ogni mattina. 
Invece di pensare alla provocazione, pensò alla veridicità di quella frase. Avrebbe voluto lanciare un’occhiata alla diretta interessata, dietro di sé, ma si trattenne. Per lui non era una cattiva prospettiva quella di svegliarsi ogni mattina con il viso di Ofelia davanti, per quanto avrebbe desiderato di poter affermare il contrario. Non si illudeva certo che lei morisse d’amore per lui, ma forse avrebbe tollerato di buon grado il suo viso. Di mattina. Nel loro letto… 
Si impose di concentrarsi sull’individuo sadico ma di scarso acume che aveva accanto. 
- Una faccia lugubre che hai decorato a modo tuo – gli rispose, intridendo ogni sillaba di veleno e acredine. 
Perché era vero. Non avrebbe avuto quella tre cicatrici a definirgli la pelle del volto se Godefroy non l’avesse sfregiato. Così come non avrebbe avuto le altre cinquantatre sparse per il resto del corpo. 
Godefroy se ne andò dopo un’ultima stoccata cui Thorn non diede peso. Non voleva continuare la conversazione, e quell’uomo muscoloso e privo di sagacia pensava che avere l’ultima parola sancisse la vittoria in un dibattito. Non aveva capito che la meglio in una discussione ce l’ha chi non ribatte di fronte ad un avversario di indubbia inferiorità intellettuale. Inoltre, rispondergli avrebbe solo protratto quel supplizio, invece lui voleva solo andarsene. 
Mormorò brevemente un’indicazione a beneficio di Ofelia, sperando che l’avesse sentito, e si incamminò verso l’atrio. Si diresse al guardaroba, vuoto, ma non potevano parlare in quella stanza, rischiavano troppo. Se qualcuno fosse entrato, avrebbe visto parlare il valletto muto. Orecchie indiscrete erano sempre in ascolto dietro l’angolo, pronte a carpire i fatti loro. E non potevano avere… intimità, lì. 
Scacciò il pensiero e si avvicinò al suo armadio. Condusse Ofelia attraverso alcune rose dei venti, e quando fu certo che nessuno li aveva seguiti si fermò nella stazione abbandonata che nessuno frequentava in inverno. Si affrettò ad accendere una lampada a gas per illuminare l’ambiente. Poi si avvicinò ad una stufa mentre rispondeva alle domande di Ofelia. Sempre domande, non si esaurivano mai, e lui aveva finito con l’abituarcisi. Odiava che le persone gli ponessero quesiti, sia quando espletava le sue funzioni di intendente che quando non praticava, di qualsiasi natura, personale o di altro genere. Le domande di Ofelia invece lo incuriosivano, lo aiutavano a capire cosa le passasse per la testa, dal momento che era una persona di così difficile interpretazione, diversa da chiunque avesse mai incontrato. 
Ofelia tremava visibilmente, quando parlava le battevano i denti, così si affrettò ad accendere la stufa in ghisa che avrebbe almeno dovuto ridarle un po’ di calore. A lui quel freddo non dispiaceva, lo aiutava a schiarirsi le idee. Era impietoso e inesorabile, il freddo. Catartico. Solitario. Lo faceva sentire vivo. Gli sembrava di essere parte del freddo stesso, perché ne riconosceva la natura: il freddo imperversava anche dentro di lui. Erano spiriti affini. 
- Siamo fuori da Città-cielo? 
Siamo soli. Siamo in un posto dove siamo soli, tu e io. Lontani dal mondo. – Ho pensato che qui non ci avrebbe disturbato nessuno. 
Thorn non era un individuo romantico, rifuggiva le smancerie e non aveva idea di cosa fosse un corteggiamento. A dire il vero, aveva represso la sua natura stessa di uomo, il bisogno umano di calore e affetto, e di una compagna. Tutte cose, necessità, che Ofelia aveva risvegliato in lui. Che gli aveva fatto scoprire. 
Quindi non fu il romanticismo a farlo rabbrividire impercettibilmente di aspettativa, ma la possibilità. Di toccare Ofelia, in quel luogo abbandonato in cui esistevano solo loro due. Toccare per la prima volta un essere umano, lui che aborriva i contatti fisici. Sentire la sua pelle calda sotto le dita… 
Baciarla. 
Maledetta lei che lo aveva scombussolato, il suo orologio interiore non segnava più l’ora così precisamente come aveva sempre fatto, giorno dopo giorno. Ecco perché si affidava così tanto al suo orologio da taschino: era reale, fisico, materiale. Concreto. Vero. Lo aiutava a concentrarsi, gli ricordava chi era e dov’era. Con Ofelia dimenticava persino di essere un bastardo. Come se potesse essere qualcosa di diverso, con lei. 
Ofelia continuava ad incalzarlo con le domande, a cui lui rispondeva senza nemmeno guardarla. Il desiderio tenue che mulinava impazzito dentro di lui si stava accendendo come il fuoco della stufa, e rivolgere lo sguardo a lei sarebbe stato deleterio, anche se indossava i panni di un uomo. Bastava la sua voce a farlo sragionare. Non poteva permettersi errori. 
Si accovacciò di fronte alla stufa finalmente accesa e Ofelia si avvicinò con le mani tese verso la fonte di calore, come aveva previsto, con le piccole e sottili dita avvolte nel guanto da lettrice. La posizione scomoda gli permetteva di rimanere lucido, e l’essere più in basso di lei, per una volta, lo aiutava a tenere gli occhi fissi di fronte a sé, senza cercare il contatto con i suoi, dietro la livrea, dietro gli occhiali, giù per la sua anima. 
Sarebbe volentieri rimasto in quella posizione, in quel silenzio rassicurante, cullato solo dallo scoppiettio dei ciocchi di legno, dalla presenza di Ofelia accanto a sé. Ma non poteva rimandare a lungo quella conversazione, e non gradiva rimanere sulle spine. Sperava che Ofelia avesse buone notizie, ma ne dubitava. Raramente ne aveva. Nella maggior parte dei casi erano notizie foriere di sventura e grattacapi che toccava a lui sbrogliare. Temeva per la sua incolumità, e paventava una confessione circa un’ulteriore violenza infertale. Non avrebbe sopportato oltre quel trattamento nei suoi confronti, non un singolo capello torto. E aveva paura che lei stesse per cedere, per dirgli che non aveva più forze, che lo odiava e odiava tutto ciò che lui rappresentava, che la costringeva a subire. 
Per quanto lo desiderasse, non credeva che Ofelia volesse parlare di sentimenti. Non positivi, almeno. Per cui cacciò con forza quelle vane e vacue speranze nelle nere profondità della sua anima disillusa e ruppe il silenzio. 
- Volevate parlarmi. Vi ascolto. 
Fu così che scoprì che Ofelia voleva metterlo a parte dello stato malinconico e depressivo della zia. Dall’incredulità passò alla stizza: tra tutti gli argomenti di cui avrebbe potuto parlare, quello era forse il più futile ed irrisorio che avrebbe mai potuto tirare fuori. A parte il fatto che della salute della signora Roseline gli interessava poco, gli pareva ridicolo che Ofelia avesse messo a rischio la sua copertura per rivelargli la condizione emotiva della vecchia zia. Assurdo e insensato. 
O forse era perché si aspettava un qualche tipo di confessione o ammissione? Scacciò quel pensiero con ancora più irritazione e rispose alla preoccupazione di Ofelia a denti stretti.  
Non era nulla di importante. Si rifiutava di accettare il fatto che lei gli avesse discretamente chiesto di appartarsi per parlare di una simile quisquilia. Toccava a lui dare spessore al loro incontro. 
- Anch’io devo parlarvi. 
Le ordinò, anzi, le richiese di potersi occupare di sua zia Berenilde, di vegliare su di lei e di trattenerla affinché non partecipasse alla caccia del giorno successivo. Era da incoscienti, e fortunatamente aveva ottenuto da sua zia la rassicurazione che non vi avrebbe preso parte, ma da quando l’interno clan dei Draghi le aveva fatto visita prima dello spettacolo lei aveva cambiato idea. Doveva onorare le tradizioni di famiglia. O meglio, doveva mostrarsi all’altezza delle aspettative. Per quanto il senso di appartenenza di Berenilde a quella famiglia fosse labile e sottile, ci teneva a fare bella figura, e si ripeteva sovente che era comunque la sua famiglia, con le sue tradizioni, le sue abitudini e i doni che le avevano permesso di arrivare dov’era in quel momento. Berenilde era una mosca bianca sotto molti aspetti: preferiva la vita di corte a quella isolata dei Draghi, e si era presa cura di Thorn con affetto quando lo stesso padre Vladimir lo aveva condannato e ripudiato, insultato e sbeffeggiato. Non avrebbe avuto problemi a dire la sua e opporsi alle decisioni di fratelli, zii e nipoti, ma in quel frangente lei non voleva farlo. Il fatto stesso che si azzardasse a dire la sua e pensare con la propria testa la rendeva una minaccia: l’indipendenza e il distaccamento erano sempre una minaccia. 
E Thorn aveva bisogno che Ofelia la trattenesse, che la sorvegliasse e le impedisse di compiere una simile sciocchezza. Perché lui percepiva che c’era qualcosa sotto, e non aveva alcuna intenzione di perdere la sua protettrice. 
La donna che lo aveva cresciuto come un figlio, nonostante fosse un bastardo e un disonore. Non poteva perderla. 
Quando finì di discuterne con Ofelia, rimase in silenzio a fissare il fuoco crepitante dentro la stufa. Ad un tratto intuì che lei aveva altro da chiedere, come suo solito, e sentì i suoi occhi sul volto, che lo scrutavano. Che gli osservavano le cicatrici, traendo le dovute conclusioni. 
Di sicuro la mettevano a disagio, la disgustavano. Avrebbe voluto cancellarle solo per lei, perché potesse vedere oltre quelle linee bianche intrise di dolore, vedere lui. Si ingannava da solo, ma in cuor suo sapeva che non sarebbe stato uno bello spettacolo ciò che Ofelia avrebbe potuto vedere, con o senza cicatrici. 
Alla fine, finalmente, lei mise fine all’attesa. – Non mi avete mai parlato di vostra madre - mormorò con un filo di voce, quasi intimidita eppure curiosa, incapace di trattenersi. 
Lui non era altrettanto condiscendente. La domanda lo fece trasecolare, facendogli montare dentro un turbine di emozioni in modo così inaspettato che fece fatica a domarlo. E come sempre, quando si trovava messo alle strette dai suoi pensieri e dai suoi sentimenti, reagì con rigidità. Parole taglienti e modi rudi, gesti secchi e toni freddi. Perse definitivamente il controllo della propria apatia e della calma di facciata quando Ofelia insistette con quella vocina labile sempre sul punto di spegnersi come una fiammella con un colpo di vento. 
- Né io né voi la conosceremo mai. Non avete bisogno di sapere altro. 
Ofelia tacque dopo quell’intimazione implicita, quel troncamente del discorso, e Thorn ne rimase sorpreso. Solitamente non lo ascoltava, continuava imperterrita per la sua strada. Che l’avesse offesa con il suo tono decisamente troppo brutale in quella circostanza? 
Non voleva che si offendesse. Non voleva che pensasse male di lui, o che lo vedesse sotto una cattiva luce. Non voleva che chiudesse del tutto la conversazione e se ne andasse, lasciandolo lì da solo, com’era sempre stato. 
Voleva averla al fianco ancora per un po’, con la sua presenza che lo riscaldava più di quanto stesse facendo quella vecchia stufa congelata. 
La guardò con intensità, conscio di non essere riuscito a nascondere del tutto la preoccupazione e il nervosismo nei suoi occhi. 
– Mi esprimo male. È colpa di questa caccia... – si costrinse a mugugnare quando riebbe ottenuto il controllo di sé ed ebbe accantonato il pensiero della madre che lo aveva abbandonato in un angolo oscuro del suo cervello. Con Ofelia, aveva notato, dire la verità era sempre la scelta migliore. La fidanzata, oltre che a leggere con le dita, sembrava capace oltremisura di leggere le persone, con le loro inclinazioni, i toni di voce e le intenzioni. Soprattutto le intenzioni. E capiva meglio di chiunque altro quando qualcuno mentiva. Lui non le aveva rivelato tutta la verità circa il matrimonio e i suoi piani, e forse un giorno la cosa gli si sarebbe ritorta contro, però in quel momento non voleva pensarci. Voleva essere onesto, per lei. - La verità è che sono più preoccupato per voi che la signora Roseline. 
Continuò a fissarla, a cercare di carpirne i pensieri, mentre lei non fiatava, consapevole di avere il suo sguardo addosso, che ricambiava con la coda dell’occhio, come indecisa su cosa rispondere. Ofelia era preoccupata per la zia, e lui lo era per lei. Voleva che lo sapesse, perché ciò che lei provava nei confronti della zia era ciò che lui provava per lei. Il medesimo sentimento, solo rivolto a persone diverse e in modi diversi. 
Fu quando Ofelia riavvicinò le mani alla stufa che Thorn si accorse di una macchiolina sul suo guanto. Il fuoco che gettava su di loro ombre sinistre e cupe non serviva a rischiarare l’ambiente come la luce del sole o una lampada, eppure Thorn seppe indubbiamente che quella macchia era sangue. L’indecisione lo divorava, eppure non poteva ignorarlo. Sangue che apparteneva a lei, con ogni probabilità. 
Si fece forza per allungare il lungo braccio e afferrarle il polso, con goffaggine, non avvezzo ai contatti. Non restò sorpreso dallo scoprire che in realtà la sensazione che derivava dal toccare lei era del tutto diversa da quella che provava per qualsiasi tocco umano in generale: non era disgusto, ripugnanza o uno spiacevole ricordo che veniva evocato, ma tepore, fragilità e una fugace ed effimera promessa. Una speranza. Ofelia aveva il polso sottile sotto le sue dita, così tenero da poterlo spezzare senza fatica. Chissà se tutte le donne erano così. Di sicuro non tutte gli ispiravano quel senso di protezione e possessività che gli trasmetteva lei. Anzi, nessuna, tranne lei. 
- C'è del sangue sulla vostra mano. 
A giudicare dalla sua reazione, quello sul guanto era veramente sangue, il suo sangue, e nemmeno lei si era accorta di averlo perso. Né ne conosceva la fonte. Thorn non la perse d’occhio, quasi non batté le palpebre, quando lei si tolse il guanto e portò la mano nuda verso il viso. 
Il viso. Era divorato dall’angoscia, che non trapelava da nessuna parte del suo corpo eppure imperversava come una tempesta dentro di lui. 
Poi la vide rimettersi il guanto come se niente fosse, nonostante il sangue fresco e l’evidenza di una ferita fresca da qualche parte sotto quella pelle fasulla e posticcia. 
- È stata vostra sorella. C'è andata giù un po’ pesante. 
Ovunque passasse, quella donna lasciava cicatrici e desolazione. Era stata in grado di ferirlo ancora una volta, in modo addirittura involontario, senza alzare nemmeno un dito su di lui. Del resto, ormai Ofelia era diventata il suo punto debole. Doveva proteggerla, a costo di lasciarsi infliggere altre cinquanta cicatrici. Senza emettere un lamento. 
Irrigidito dalla preoccupazione, turbato e spaventato all’idea che Ofelia gli stesse nascondendo la reale entità del colpo che le era stato inferto, Thorn si alzò e svettò su di lei, guardandola dall’alto, per avere sotto controllo ogni cosa. Aveva la mascella contratta quasi dolorosamente, per trattenere quel tumulto che solo Ofelia, anche se indirettamente, gli scatenava dentro. 
- Vi ha aggredita? 
- Poco fa, al ricevimento. Nono sono stata abbastanza rapida a sgombrare il passo. 
Thorn percepì chiaramente il sangue defluirgli dal viso, lasciandolo pallido e sconcertato. Ofelia aveva rivelato l’attacco come se niente fosse, come una cosa di poco conto. E lui, da parte sua, come poteva dire di volerla proteggere se non era in grado di farlo nemmeno quando lei era a pochi passi da lui? Ofelia era costantemente lontana, fuori dalla portata dei suoi occhi vigili, ma veniva colpita a prescindere. Era come se qualcosa o qualcuno si fosse accanito contro di lei da quando era arrivata al Polo, nonostante tutti i suoi tentativi di nasconderla e tenerla al sicuro. 
Non era in grado di proteggere nessuno. Era atterrito e deluso da se stesso. 
- Non lo sapevo. Non me ne sono accorto... 
Era la prima volta che il controllo gli scappava così grossolanamente da indurlo a parlare da solo, in un soffio di stupore e orgoglio ferito. 
- Non è niente – rispose Ofelia, minimizzando con il chiaro intento di tranquillizzarlo. Nemmeno a lei era sfuggita la sua alterazione. 
- Fatemi vedere. 
Non gli servivano parole. Doveva vedere la realtà dei fatti con i suoi occhi, l’estensione della ferita, la profondità, la natura stessa di ciò che a lui era sfuggito. Notò la rigidità di Ofelia, ma la imputò al freddo che provava. Non stavano facendo nulla di sconveniente, lui doveva assolutamente accertarsi che stesse bene e non stesse nascondendo in realtà un colpo più grave del previsto. 
- Vi dico che non è niente – gli rispose infatti, meccanicamente, spingendolo ancora di più a voler scavare per capire cosa fosse successo. 
- Lasciate giudicare a me. 
- Non tocca a voi giudicare! 
Sorpreso, Thorn la osservò in silenzio, a corto di parole. Non si aspettava quel rimbrotto da parte della fidanzata; la resistenza sì, l’aveva prevista, ma non l’acredine nella sua voce. Mescolata a stanchezza e ad una punta di esasperazione. 
Aveva alzato la voce con lui. Non aveva mai assistito ad una scena del genere con lei, che parlava sempre piano, con voce pacata e quasi atona. Lo aveva preso in contropiede. La sorpresa venne presto mascherata da un’espressione distaccata, impassibile, ma dentro di lui albergava un cattivo presentimento. 
- E a chi altro dovrebbe toccare? - domandò infatti, teso, temendo il peggio. 
Lei era la sua fidanzata. La sua futura moglie. Non sapeva come funzionavano le relazioni, ma di una cosa era certo: la salute e l’incolumità della propria compagna erano prerogativa del marito. Anche la valutazione dei danni. Quindi perché esitava? Si sarebbero sposati entro breve. Non stavano accelerando i tempi o facendo qualcosa di oltraggioso, ma lei doveva permettergli di... 
- Ascoltate. Vi sono riconoscente di volermi proteggere e vi ringrazio per il sostegno che mi offrite, ma c’è una cosa che dovete sapere di me. 
Gli occhi di Thorn si assottigliarono. Vedevano solo lei, la sua difficoltà nel parlare, il suo disagio. E la sua determinazione a rilasciare quella confessione a lungo trattenuta, nonostante non fosse nella sua indole dire certe cose. Thorn si rese conto in un istante che erano sulla stessa lunghezza d’onda, che i loro pensieri erano gli stessi: sarebbero diventati marito e moglie, legati per la vita, quindi lui era legittimamente autorizzato ad accertarsi che lei stesse bene, a prendersi cura di lei. Sì, i pensieri erano gli stessi, ma non i sentimenti. Mentre lui nutriva qualcosa di sconosciuto e profondo, divorante, per lei, Ofelia non lo provava minimamente. E Thorn, che si era voluto illudere per tutto quel tempo, crogiolarsi nella fantasia di un matrimonio conveniente non solo per ciò che avrebbe politicamente ottenuto, vide il suo castello di carte crollargli addosso. Sapeva cosa stava per dirgli Ofelia. 
E il suo cervello, per una volta, si fermò, in stallo, in attesa del colpo, ricettivo. 
- Non vi amo. 
Io sì. 
Quando si riebbe, e vorticanti pensieri e sensazioni gli invasero di nuovo il cranio sguazzando nella sua materia grigia, afferrò l’orologio da taschino e consultò l’ora per assicurarsi di essere reale, che tutto quello che lo circondava fosse reale, anche se sperava dal profondo del cuore che non lo fosse. Si era permesso di staccare i piedi da terra per provare ad allungarsi e toccare il cielo, sognare, ma non avrebbe più commesso lo stesso errore. Non poteva più permetterselo. 
Le tre parole di Ofelia erano categoriche; la grammatica era come la matematica: il senso di una frase era uno, non poteva essere manomesso e reinterpretato a piacimento.  
Non vi amo. Era un valore assoluto. Non una stasi temporanea, una condizione momentanea, era un fatto. Una verità. 
Non vi amo. Non posso amarvi. Non vi amerò mai. 
Eppure, rigido come uno spaventapasseri, teso fino allo spasimo, si inginocchiò metaforicamente di fronte a lei. Alla ricerca di una flebile speranza, di una possibilità. Di un perché. 
- È per colpa di qualcosa che ho detto... o non ho detto? 
Non voleva guardarla. Non voleva cogliere la miriade di espressioni che sfrecciavano su quel viso così incapace di nascondere i propri pensieri. Stringeva l’orologio, tangibile, osservava lo scorrere immutabile del tempo, unica certezza in quel luogo isolato e fuori dal mondo. Eppure, se l’avesse guardata, si sarebbe ricordato che con indosso la livrea da valletto il volto di Ofelia non era visibile, nascosto da un’espressione neutra e distante. Ma non se lo ricordava. La sua tensione, però, quella la percepiva, a ondate, e gli faceva male come una marea di artigli. 
- Non è colpa vostra. Vi sto sposando perché non ho scelta, ma non sento niente per voi. Non condividerò il vostro letto e non vi darò figli. Mi dispiace. Vostra zia non ha scelto la persona giusta per voi. 
Thorn chiuse l’orologio di scatto, stizzito. Berenilde. Sua zia gli aveva fatto dono di quell’orologio. Sua zia aveva scelto la persona giusta per lui. 
L'unica giusta. L'unica possibile. 
Era stato lui, come al solito, a tradire la sua fiducia e rovinare tutto. Ofelia era perfetta. Il matrimonio era perfetto, con i benefici politici ed economici che avrebbe comportato. L’unica variabile, si rese conto, era lui. E il risultato dell’equazione era impossibile. Perché lui era sbagliato. Lui non andava bene. Lui non sarebbe nemmeno dovuto nascere, cosa si aspettava? 
La tensione di Ofelia era come gli artigli dei familiari, sì, ma lo ferivano di più. 
Il suo dispiacere era sincero, lei era desolata, e proprio perché la sua onestà era così evidente, le sue parole lo ferivano di più. 
Il suo tono era sommesso, pacato, come se tentasse di rabbonire una Bestia, ed era per questo che lo feriva maggiormente. 
Ofelia non lo amava. Non lo avrebbe mai amato. 
Lui non era amabile. Non lo sarebbe mai stato. 
Si infuriò con se stesso, si odiò, si maledisse. E riversò la sua acredine su di lei, che non aveva colpe. Eppure era la causa di tutto. Un esserino così piccolo, così insignificante, gli aveva rovinato la vita. E peggio di tutto, lo aveva illuso. 
Gli tornò in mente la sensazione che aveva provato alla vista di Godefroy e Freya. Ripensando fugacemente al loro passato insieme, aveva ribadito a se stesso che l’affetto, quel sentimento caduco ed effimero innalzava la persona per poi abbatterla senza pietà quando l’illusione svaniva e il velo si spezzava. 
Provare affetto per qualcuno, legarsi a qualcuno, portava solo sofferenza. 
Come aveva potuto pensare che con Ofelia la cosa sarebbe stata diversa? Si era infatuato di lei, no, peggio, si era innamorato, e quel sentimento era stato calpestato come un piccolo bocciolo, non ancora pronto a sbocciare con fulgore, e già tranciato. 
La odiò profondamente. In fin dei conti, le persone erano tutte uguali, che fossero nobili o poveri, o nati su arche diverse. La meschinità era ciò che le comandava, e sarebbe sempre stato così. 
Sul suo viso calmo non trapelò nulla. Almeno le sue emozioni e i suoi pensieri dovevano rimanere suoi, e suoi soltanto. Era un intendente, come tale doveva comportarsi. Si sedette sulla panchina, un po’ scostato da lei, incurvato dal peso delle spiacevoli rivelazioni acquisite. 
Pragmatismo. Legislazione. Causa ed effetto.  
Causa ed effetto. Dichiarazione di non ottemperanza ai doveri coniugali per mancanza di amore? Causa. 
Effetto? - Stando così le cose ho il diritto di ripudiarvi, ne siete consapevole? 
Quella era l’ultima spiaggia. Forse Ofelia non sapeva che, stando così le cose, con le sue affermazioni lui poteva rescindere il contratto matrimoniale e condannarla. Non si sarebbero salutati pacificamente con una stretta di mano e un addio: lei sarebbe stata disonorata. A vita. Aveva ancora una possibilità di non lasciar naufragare il matrimonio, perché dubitava che lei conoscesse di preciso a quali conseguenze sarebbe andata in contro. A giudicare da dove veniva, da quel luogo così fantasioso e indulgente, non aveva idea dell’inferno che avrebbe passato. 
Invece Ofelia annuì lentamente, come se ammettere che sapeva a cosa si era condannata le costasse fatica. Preferiva l’esilio a lui. Preferiva il ripudio. Preferiva il disonore. 
Thorn la odiò. E desiderò farle provare ciò che stava provando lui. Aveva fatto tutto il possibile per metterla in salvo, per provvedere ai suoi bisogni, per essere... umano. E quello era il risultato. Un risultato impossibile. 
Stando così le cose... 
- Volevo parlarvi in tutta onestà. Sarei indegna della vostra fiducia se vi mentissi su questo punto. 
Perché quella donna minuscola continuava a lacerargli il cuore? Avrebbe voluto strapparselo dal petto pur di non sentirlo più battere e sanguinare. Ofelia gli parlava di onestà e fiducia, ma lui avrebbe preferito violenza e silenzio. Tornare al passato, alla cicatrice numero uno, e poi alla due, e alla tre, fino alla cinquantaseiesima, perché il dolore fisico era assai più sopportabile di quello mentale. 
Però, per quanto lei avesse seppellito ciò che di positivo, per una volta nella vita, Thorn si fosse concesso di provare, non poteva lasciarla andare. Non poteva lasciare che soffrisse, che si distruggesse per una scelta del genere. 
Non poteva lasciarla andare. Non poteva. 
Come ultima ragione, gli venne in mente che lei gli serviva. Le sue mani, il suo dono gli serviva, ma lui non voleva ignorare la sua dichiarazione per quello. Voleva ignorare la sua dichiarazione perché una vita senza quel tornado che calamitava catastrofi gli era impensabile. 
E poteva fargliela pagare. Dopo tutto quello che lui aveva fatto per lei, Ofelia non voleva stare al suo fianco? Allora lui l’avrebbe sposata, legandola a sé con un giuramento, una cerimonia e la protezione della legge. Per tutta la durata delle loro vite. Se ne infischiava dei sentimenti. 
Con le dita premute l’una contro l’altra, curvo su se stesso, ruppe il silenzio. - In questo caso farò finta di non aver sentito. 
Un sospiro. - Thorn, non siete obbligato... 
Il matrimonio era un obbligo, un obbligo che lei non voleva rispettare. Che non osasse accennare agli obblighi! L’ira trasparì dalla sua voce, mischiata al suo dolore. - Certo che lo sono. Avete idea della sorte che viene riservata agli spergiuri, da queste parti? Credete che vi basti scusarvi con me e mia zia per tornare a casa vostra? Qui non siamo su Anima. 
Finalmente la portata della sua pericolosa ammissione sembrò colpirla. Era in trappola, e lui era la sua gabbia. Il suo carnefice e il suo salvatore insieme. La condannava ad una vita con un uomo che non amava, e la salvava da un’esistenza peggiore della morte, ripudiata, disonorata, maltrattata. O peggio. 
Thorn si raddrizzò, le si avvicinò, e incatenò i suoi occhi in tempesta a quelli di lei, sotto la livrea da valletto, dentro la sua anima. L’innegabile istinto di protezione che lo legava a quella donna lo fece parlare quasi controvoglia. - Non ripetete a nessuno quanto mi avete detto, se tenete alla pelle. Ci sposeremo come convenuto. Poi, affé mia, la questione riguarderà solo noi due. 
Noi due. Lui e lei, marito e moglie. Gli sembrava una giusta punizione. Eppure sentiva una specie di rimorso. Si rese conto con sgomento che compativa quella giovane donna, quella ragazza, che era stata costretta a condividere il suo destino. Che colpa ne aveva lei? 
Voleva allontanarsi. Si raddrizzò del tutto. Il matrimonio si sarebbe celebrato lo stesso, quello era un castigo sufficiente, anche se lei non se lo meritava. 
Si intimò di essere egoista. Aveva un piano da portare a termine. Lei gli serviva. Punto. Era solo una vittima malcapitata, tutto lì. 
E per quanto odiasse lei, se stesso, la situazione, avrebbe cercato di renderle la vita più serena possibile, con libertà e concessioni. Non gli importava più, aveva solo ghiaccio dentro di sé, e paura. Paura di diventare un essere spietato e vendicativo, come la metà violenta dei suoi familiari. Lui non era così. 
Odiava essere così indeciso, così in confusione, provare quella marea di emozioni incontrollabili e insensate, cambiare idea così tante volte. Cercò di focalizzarsi: matrimonio, lettura, riabilitazione. Fine. Ofelia era solo un variabile di poca importanza, necessaria ma non decisiva. Il piano era il fulcro. 
- Non volete saperne di me? Non ne parliamo più! Non desiderate marmocchi? Perfetto, io li detesto. Sparleranno alle nostre spalle, poco male. 
Lui non feriva gli altri, non infliggeva dolore volontariamente. Ofelia aveva tutti i diritti di non amarlo. La sua furia incosciente e la sua delusione infondata derivavano da un errore che lui aveva commesso: la speranza. Raccoglieva tempesta da tutta una vita, cosa mai poteva essere un amore non corrisposto? Non era mai stato corrisposto da nessuno, non era certo una novità. 
Avrebbe fatto il possibile per accontentarla, povera malcapitata il cui unico sbaglio era stato quello di essere brava a gestire il proprio potere familiare. 
Thorn non poté vedere le emozioni sul suo viso, coperto com’era dall’illusione di Mime, ma percepì ogni cosa nella sua voce: - Mi dispiace... 
Colpa, tristezza, gratitudine, stupore. Desolazione. Accettazione coatta. 
Rassegnazione. 
Le scoccò un’occhiata intransigente, celando la pietà che provava. Per lei. 
- Aspettate a scusarvi. Rimpiangerete presto di avermi come marito. 
 



 
 
Non era una minaccia. 
Era un dato di fatto. 
Lui era un errore. La sua vita di privazioni e isolamento lo dimostrava. 
Avrebbe dovuto compatire se stessa, Ofelia, non lui. Perché era lei quella condannata a vivere attaccata a lui, sotto il suo stesso tetto, per tutta la vita. 
L'avrebbe rimpianto come marito allo stesso modo in cui lo rimpiangeva come fidanzato. E lui avrebbe rimpianto di non poterle dare ciò che lei meritava: la felicità. Perché una vita con lui era l’antitesi della gioia. 
E si odiò per questo. Perché l’amava, ma ciò che poteva offrirle era solo quello, se stesso. 
Un ammasso di pietosi sentimenti non corrisposti che lo avevano ridotto ad un relitto. Un reietto. 
Un essere non amabile. 
Mai. 
  
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