Seduta
da sola nella sala del trono della Tredicesima Casa, ridotta quasi del
tutto in
macerie al punto che, dal soffitto ridotto a un colabrodo, poteva
vedere lembi
di cielo azzurro, Saori teneva gli occhi chiusi mentre stava accomodata
con il
vestito raccolto sotto i piedi su uno dei gradini rimasti
miracolosamente
integri.
Era
stanca, Athena, stanca come mai si era sentita in vita sua e, per la
prima
volta nella sua vita mortale, sentì il peso della sua anima
divina e immortale:
ogni cellula del suo corpo anelava riposo dopo una battaglia
così tremenda come
quella conclusasi da pochissime ore; probabilmente avrebbe dovuto
riposare,
concedere al proprio fragile corpo di carne il tempo di riprendersi, ma
il
tempo era l’unico lusso che, al momento, non poteva
concedersi per alcuna
ragione.
Doveva
agire in fretta.
Con
il viso contratto in una smorfia di dolore per lo sforzo immane cui
stava
sottoponendo perfino il proprio Cosmo, la giovane donna cercava di
concentrare
in un punto solo ogni singolo frammento di essenza divina a cui
riusciva ad
aggrapparsi: sentiva ancora i loro Cosmi, poteva riconoscerli uno per
uno, pur
nella loro infinita debolezza, quasi invisibili nelle vie del Cosmo, ma
ciononostante
li sentiva ancora.
Ecco
l’Ariete… Poi l’impronta calorosa del
Toro, del Leone… Ecco il doppio Cosmo dei
Gemelli…
E
poi via, via, fino ai Pesci, e ancora un altro che conosceva meno, ma
del quale
non poteva ignorare la carezza gentile di chi ha vissuto per secoli e
secoli e
ha sperimentato per ben due volte la morte fisica.
Simili
ferite non possono non avere un impatto anche sullo spirito.
Aleggiavano
ancora attorno a lei, come se non volessero abbandonare quel posto per
cui
avevano sacrificato tanto, per cui erano morti, tornai in vita e morti
di nuovo…
Dagli
occhi chiusi della Dea sgorgarono un paio di lacrime roventi, che
scivolarono
lungo le sue guance pallide mentre un sorriso di madre ne sfiorava le
labbra e
le dita andavano a intrecciarsi tra loro in una struggente preghiera
per un
miracolo, forse quello più importante: perché, a
volte, perfino le divinità
pregano, quando non gli è rimasto più nulla da
fare nella loro potenza. E Athena
non era da meno: sarebbe strisciata fino ai piedi di Zeus padre per
implorare
pietà, per strappare anche solo uno dei suoi guerrieri alle
grinfie di un limbo
oscuro lontano dalla vita.
Come
era riuscita a riportare a casa i suoi ragazzi, le stelle
più brillanti del suo
firmamento personale, quelle persone che anelava chiamare famiglia ma
che non
osava associare a un simile pensiero per non illudersi di non essere
soltanto una
Dea senza radici e senza possibilità di essere felice,
avrebbe fatto qualsiasi
cosa per salvare almeno uno dei suoi Gold Saint.
“Tornate
da me…” sussurrò con un filo di voce
che sembrò riecheggiare come un’esplosione
nella stanza deserta: “Tornate da me, guerrieri miei, figli
miei…” le parole
eruttarono dalla sua bocca con violenza miste a singhiozzi, mentre le
due dita
si flettevano come su una tastiera di pianoforte nel tentativo di
afferrare
almeno un lembo di quel Cosmo dorato debole che, poteva vederlo, era
davanti a
lei nelle strade infinite che si dipanavano davanti agli occhi del suo
cuore.
Uno…
Soltanto uno…
Almeno
uno…
I
polpastrelli sfiorarono quella luce fioca e la afferrarono come se
fosse stata
fisica, la tirarono con tutta la forza che avevano, centimetro per
centimetro
la trascinarono e più si avvicinava più ad Athena
sembrava che prendesse
energia, che il Cosmo Divino la alimentasse, la nutrisse, per
strapparla alla
morte.
Poteva
farcela…
Doveva
farcela, si disse, scuotendo la testa senza azzardarsi a sollevare le
palpebre.
Almeno
uno.
Glielo
doveva.
In
un tempo che, dilatatosi, parve durare secoli, finalmente lei
sentì un corpo
caldo tra le proprie braccia, pulsante di vita seppur fragile come uno
stelo d’erba
dopo una lunga siccità.
Non
osò aprire gli occhi, ma poteva riconoscerne
l’impronta spirituale mentre in cielo
sentiva ritornare a splendere l’Ariete.
Il
cuore le sobbalzò nel petto quando, mentre sorreggeva tra le
proprie braccia il
corpo vivo di Mu, sentì anche gli altri Cosmi
avvicinarglisi, sfiorarle le
braccia come se fosse immersa nel profondo dei loro spiriti.
Erano
lì, sentì le lacrime affollarle gli occhi mentre
razionalizzava quel pensiero.
Si
erano fatti forza vicendevolmente, non si erano lasciati portar via.
Forte
di quella nuova consapevolezza, semplicemente Athena lasciò
ogni cosa.
Con
la forza di una supernova che esplodeva nella profondità
dell’Universo, la Dea
osò ciò che mai aveva anche solo azzardato di
pensare di osare: come già spesso
aveva sentito fare ai suoi ragazzi, a quel Seiya che in quel momento
combatteva
tra la vita e la morte su un aereo diretto in Giappone, fece esplodere
il
proprio Cosmo divino.
L’intero
Santuario venne inglobato prima da una luce accecante, poi si
udì un lontano
scampanellio, che divenne via via sempre più forte ad ogni
corpo e spirito che
la Dea - immersa completamente nella luce dorata – strappava
con la pura
disperazione che le albergava nel cuore alla morte.
Aldebaran…
Death
Mask…
Aphrodite…
Shaka…
Aiolia…
Kanon…
Shura…
Milo…
Camus…
Dohko…
Shion…
Saga…
Per
ultimo, proprio mentre le ultime forze la abbandonavano e la nausea la
assaliva
a ondate pressoché continue, costringendola a piegarsi sul
pavimento gelido
mentre lo stomaco si svuotava della bile, Aiolos rotolò al
suo fianco,
atterrando forse con troppa violenza tra lei e Saga.
La
luce si spense improvvisamente, il rumore di passi in corsa che si
avvicinavano
alla sala del trono riecheggiò nelle orecchie di Saori, che
si era accasciata
sul corpo di Aiolos; era esausta ma la presenza viva dei Gold Saint al
suo
fianco la ripagava di ogni minima stilla di energia perduta.
Ce
l’aveva fatta.
Ormai
senza freno, le lacrime scorrevano sulle sue guance e lei
lasciò che il loro
calore la scaldasse e la rinfrancasse: i muscoli si rilassarono e la
spossatezza lasciò il posto alla gioia.
All’improvviso,
la porta si spalancò e il silenzio divenne grida di soldati
e imprecazioni, salvo
poi ammutolirsi una volta viste le persone riverse le une sulle altre,
impossibile non riconoscerle.
Fu
la mano gentile di Marin a sfiorarle il polso e a invocarne il
risveglio.
Troppo
spossata per rispondere in maniera coerente, Saori alzò
appena la testa e riuscì
a obbligare le sue palpebre a sollevarsi: quando vide la maschera di
metallo
incastonata tra i capelli rossi, le rivolse un sorriso debole:
“Non potevo
lasciarli…”
Pur
perdendo i sensi subito dopo, Saori sapeva di aver vinto.
Li aveva portati tutti a casa.