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Autore: AdelaideMiacara    20/04/2020    0 recensioni
Era il pomeriggio del 13 luglio. Sulla riva del Prue, nella sponda appartenente a Little Garden, Mary era sdraiata all’ombra di un eucalipto rosso mentre con le dita accarezzava l’acqua che scorreva, e desiderava morire.
*
Dalla finestra socchiusa entrava un filo di vento stridente che tentava di rinfrescare quella giornata afosa del 13 luglio, mentre la camera da letto restava ombreggiata grazie alla posizione del sole nel cielo a quell'orario. Louis si avvicinò alla finestra lentamente e la aprì per sporgersi e guardare il deserto di Cornwell Street. Era una strada lunga e stretta, parallela a quella principale del centro città, ma decisamente più pittoresca.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2.

 

Mary riprese conoscenza gradualmente, distesa sul pavimento della sua stanza e circondata dagli inquilini di casa Williams al completo, Proust compreso. Harry le accarezzava dolcemente il viso mentre le sussurrava parole di conforto, Jane le poggiò un panno umido sulla fronte, e Victor stava in piedi sull’uscio della porta ad osservare la scena impassibile. Quando la ragazza aprì gli occhi, inizialmente non riusciva a mettere a fuoco le immagini, ma poco dopo queste divennero nitide. Mary si ricordò di ciò che era successo qualche attimo primo e credette di essere impazzita.

«Cara bambina, cara…» disse la governante, carezzandole il braccio. Mary accennò un sorriso e provò a tirarsi su, ma la testa ancora girava e si sentiva troppo debole. Così, Harry la prese in braccio, proprio come quando era piccola e si faceva male correndo, e la adagiò sul letto matrimoniale.

«Non è niente, solo un mancamento» mormorò la ragazza con gli occhi socchiusi, mentre il grosso gatto rosso le si sedeva accanto.

«Mangi troppo poco, Mary!» la rimproverò severamente Jane, prendendo da terra il panno che prima aveva messo sulla fronte della ragazza. Questa cercò di protestare, ma fu fermata dal fratello che diede ragione alla governante.

«Mangi poco e bevi troppo» la riprese quest’ultimo, passandosi una mano sulla fronte e cercando di imitare un tono più severo possibile. Harry cercava sempre di riprendere Mary nelle sue sregolatezze, ma in lei rivedeva una versione femminile di se stesso dieci volte più forte ed esuberante, e sapeva che qualsiasi imposizione con lei sarebbe stata inutile. Per questo non ha mai fatto la parte del fratello geloso e possessivo, lasciandola libera in ogni scelta della sua vita. Questa è stata la base del loro meraviglioso rapporto.

Mary alzò gli occhi al cielo mentre sorseggiava un bicchiere d’acqua poggiato sul suo comodino. Sapeva benissimo che il fratello stava cercando di farle una ramanzina senza crederci davvero, e soprattutto sapeva che lui era quasi messo peggio.

Dall’angolo opposto della stanza, un piccolo spettatore scrutava i movimenti di quelle persone che a tratti gli sembravano fin troppo distanti. Quelli che per Victor erano le uniche persone più vicine a dei parenti che aveva, oltre sua madre, certe volte gli sembravano così strani e grotteschi. Il bambino avrebbe tanto voluto che la giovane donna gli facesse da sorella maggiore, ma erano entrambi sfuggevoli a vicenda. Mary d’altronde era troppo concentrata sulle feste e sugli uomini.

La ragazza invitò tutti a lasciarla riposare, mentre scivolava sotto le coperte e trascinava con sé un Proust già mezzo addormentato. Pensò che la camminata sotto il sole di qualche ora prima non le aveva fatto bene e decise di recuperare le forze.

«Non te la puoi cavare semplicemente svenendo, Mary» interruppe improvvisamente il silenzio una voce, la stessa di poco prima, facendo saltare in aria la ragazza distesa. Mary guardò dritto davanti a sé e si disse di poter sbagliare una volta, ma non due: quella davanti a lei era proprio una copia identica di se. Si alzò piano dal letto, procedendo a tentoni verso la scrivania.

«Tu… tu sei uguale a me…» disse, gli occhi spalancati e la voce tremolante. Per un attimo sentì di nuovo le gambe cedere, ma si disse di resistere questa volta.

«Io sono te» replicò la sua proiezione. Mary si sedette sulla panca imbottita ai piedi del letto, prese la testa tra le mani e cercò di ragionare.

«Che significa che sei me? Sono impazzita, forse?» rispose, spaventata dall’idea di parlare con una sua fotocopia. «Sei tipo la mia coscienza?»

«Chiamami come vuoi. Ci conviene fare amicizia, passeremo molto tempo insieme» replicò questa. Mary iniziò ad innervosirsi, cercava con tutte le sue forze di scacciare via quella visione e tornare alla realtà, ma ogni volta che riapriva gli occhi era sempre lì davanti a lei.

«Io voglio capire perché sei qua, anzi, perché sono due volte qua! Che sta succedendo?» sbottò, alzandosi e camminando verso il balcone. Si affacciò, guardando il cielo. Alle sue spalle, la seconda Mary faceva i suoi comodi e si lanciava sul suo letto.

«Sii onesta con te stessa, Mary. C’è qualcosa che non va in te» disse quest’ultima. Mary si sentì ferita nel profondo e offesa allo stesso tempo. Sapeva che era la verità, c’era da tempo del marcio dentro di lei di cui non si riusciva a liberare e che giorno dopo giorno le corrodeva la mente. Ma era troppo orgogliosa per ammetterlo. «Io sono qui per aiutarti»

«Non ho bisogno di alcun aiuto» rispose infastidita la ragazza, voltandosi a guardare la copia di se stessa con risentimento. Mary sentì dentro di sé una scarica elettrica, una sensazione che avvertiva ogni volta che si preparava ad essere cattiva con qualcuno. Negli ultimi tempi il sarcasmo, suo carattere distintivo, si stava progressivamente trasformando in cattiveria, alle volte ferendo anche senza una precisa ragione, solo per il gusto di sentirsi potente. Il vero esercizio di potere sulle persone, diceva Mary, è farle soffrire. «Forse sei tu la Mary che ha bisogno di essere aiutata. Forse in te c’è qualcosa che non va» continuò, avvicinandosi alla ringhiera del letto. «Lasciati aiutare…»

La ragazza si fermò improvvisamente quando sentì un leggero colpo alla sua porta, e si spaventò che qualcuno potesse ascoltare i suoi deliri. Si avvicinò rapidamente e abbassò la maniglia in uno scatto, per trovarsi davanti un inerme Victor colto in flagrante. Le sorrise, sporgendosi di poco in avanti verso il bambino.

«Oh, Victor…» gli disse guardandolo negli occhi, «non sai che i bambini non devono intromettersi negli affari degli adulti?».

Il bambino la fissò per qualche istante, il volto inespressivo, e poi scappò via perdendosi nel lungo corridoio. Quando Mary rientrò nella stanza, la sua copia era ancora lì ad aspettarla con sguardo inquisitore, come un giudice sul punto di emettere la sentenza. Questa si alzò, tenendo il contatto visivo fisso, e procedette verso la sedia della scrivania.

«Cosa è andato storto, Mary?» chiese la coscienza-giudice, sedendosi a cavalcioni sulla sedia mentre Mary faceva avanti e indietro per la stanza, nervosa.

«Di che cosa stai parlando?» sbottò, alzando il tono della voce, ma cercando di contenersi non appena se ne accorse. Anche se tutto ciò che stava accadendo era surreale, Mary decise di stare momentaneamente al gioco e vedere fin dove la sua mente malata era in grado di spingersi. Aveva paura che da un momento all’altro fosse entrato Harry, sorprendendola a parlare da sola, credendola pazza per poi metterla sul primo treno per il manicomio.

«Voglio che tu mi dica qual è stato il momento preciso in cui ti sei rotta» rispose la seconda. Mary avvertì un tonfo al cuore, una seconda coltellata autoinflitta. Non voleva cedere, non si voleva abbandonare a quella nuova figura per timore di perdere anche l’ultimo lembo che la teneva ancorata alla realtà.

«Signorina Mary!» sentì la ragazza chiamare dalle imponenti scale della casa, riconoscendo la voce di Jane la governante. Colta alla sprovvista, si fermò all’istante sul posto, gelandosi. Sapeva benissimo che ciò che stava accadendo non era reale, eppure sentì dentro di sé il dovere di nascondere la fotocopia di sé dagli altri inquilini di Villa Williams. Mormorò un “tu resta qui” tra i denti alla coscienza dai panni umani e lasciò la sua camera, per affacciarsi dalla balaustra in marmo.

«Suo fratello la desidera nel suo studio» annunciò Jane, mentre spolverava dell’argenteria su una credenza del piano terra, vicino l’ingresso. La ragazza scese le scale a piedi nudi, per andare verso una discreta porta in un angolo quasi nascosto vicino la porta di casa. Prima di sparire dentro lo studio, però, si voltò a guardare Jane e le rivolse un sorriso.

La stanza emanava un forte odore di fumo, Harry era solito fumarci dentro, come stava facendo in quel momento accompagnato da un cognac.

«Mia cara» disse lui, togliendo i piedi dalla scrivania e andando verso Mary, «mia preziosa, mia bella...» la abbracciò, dandole un bacio sulla fronte.

«Sai che questo studio sta diventando una topaia, Harry?» chiese lei con un sorriso, per poi abbandonarsi sulla chaise-longue di metallo dai cuscini neri in pelle. Ogni volta che entrava in quella stanza, si immaginava come sarebbe stato suo zio al posto che occupa adesso Harry. Sicuramente più composto e severo, molto meno sregolato.

«Stasera daremo una festa, mia bella» annunciò il fratello con un sorriso smagliante. Questo annuncio fece drizzare le antenne di Mary, che fino a quel momento credeva di essere stata richiamata per una ramanzina sul mangiare di più e più sano. Si alzò dalla chaise-longue e si avvicinò a un Harry sdraiato sopra la scrivania, intento a fissare il soffitto con un’espressione estasiata.

«Prima o poi dovremo iniziare a vendere i biglietti, caro fratello, almeno potremmo recuperare la metà dei danni che riscontriamo a fine serata, ogni santa volta» ribatté, punzecchiandolo sullo stomaco e provocandogli solletico. Il ragazzo si contorse ridendo sulla scrivania, per poi sedersi e assumere uno sguardo ancor più divertito. Il pensiero di prezzare le sue feste epiche si fece strada nella sua immaginazione, vedendo se stesso immerso nella montagna di soldi ricavati. Harry scacciò in fretta quell’idea, tornando alla realtà: già disponeva di una montagna di soldi, non aveva bisogno di speculare. Ciò che a lui veramente importava era essere amato. Dagli amici, da sua sorella, dagli sconosciuti: poco importa chi, Harry aveva bisogno di sentirsi importante e apprezzato per la sua vera natura. Cosa che in pochi riuscivano ad apprendere, essendo stato etichettato a Little Garden come lo scapolo d’oro. Guardò sua sorella fantasticare sul vestito da mettere per l’occasione, e pensò di possedere il bene più grande del mondo. Si promise, per l’ennesima volta, di proteggerla per il resto della sua vita, da tutto e tutti. Anche da se stessa. Harry conosceva il suo dolore e, allo stesso tempo, sapeva che non avrebbe mai potuto salvarla da quello.

«Tu cosa indosserai, tesoro?» gli chiese Mary, riportandolo alla realtà. Senza nulla togliere agli ottimi consigli della governante, Harry se ne intendeva di moda, eccome. Ogni giorno cambiava d’abito, anche quando non usciva dalla villa, e in ogni occasione più o meno speciale sfoggiava i più diversi look, invidiati da tutta la popolazione maschile di Little Garden.

«Sorpresa» rispose con un occhiolino, «adesso sparisci, ho da lavorare. L’alcol non si compra da solo!».

   
 
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