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Autore: Eris Gendei    22/04/2020    2 recensioni
[Acciaio]
[Acciaio]Piombino, via Stalingrado, piena estate.
Sotto l'insolita maglietta a maniche lunghe Francesca nasconde un segreto doloroso e terribile, così tremendo da vergognarsi di guardare chiunque negli occhi: persino la sua migliore amica, che più che amica è sorella da sempre.
Eppure non c'è sofferenza più grande del rendersi conto che chi dovrebbe rivolgere a lei il suo sguardo non lo fa più, chissà da quanto tempo…
[Questa storia partecipa al contest "Scriptophobia" indetto da Soul_Shine sul forum di EFP]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Nota dell'autrice
Questa storia si inserisce nel fandom di Acciaio, meraviglioso libro di Silvia Avallone, da cui riprende personaggi, ambientazione e temi: il panorama è quello del moderno proletariato dei quartieri popolari, in cui la vicenda si svolge.
All'interno del contest si associa al prompt ommetafobia, ossia la paura degli occhi altrui, di guardare in faccia le persone e di sostenerne gli sguardi; la protagonista, che sin da piccola è vittima della violenza del padre, arriva al punto di non riuscire più a ricambiare gli sguardi, tanta è la vergogna per la sua condizione e tanto è insopportabile l'idea di essere guardata e scoperta.
L'ommetafobia è uno dei principali disturbi sociali identificati nella letteratura tecnica come derivanti da forti traumi infantili.
Buona lettura!




Erano le due del pomeriggio in via Stalingrado; quell’ora morta dopo il pranzo in cui il sole altissimo trapana gli occhi, piove sul viso diretto come uno schiaffo e spinge vecchi e bambini nell’abbraccio afoso del materasso. Solo gli adulti, metalmeccanici col muso sporco che uscivano, svuotati, dalla bocca rossa dell’altoforno, commesse alla fine del turno, fianchi impigriti e smorfie storte di frustrazione, strizzavano grati le palpebre a quella carezza troppo potente, come se il sole riuscisse a portarsi via un poco del buio che avevano dentro.
Era una gratitudine rabbiosa, come tutto da quelle parti; le madri erano costantemente arrabbiate con i figli, i mariti con le mogli, con il datore di lavoro infame, con il governo che non si cura di quella tana di fumo e cemento, i giovani non si sa con chi.
Francesca no, lei non era mai arrabbiata.
Non socchiudeva gli occhi contro il sole, si limitava ad abbassare la testa, una cascata di capelli a separarla dal mondo; non alzava mai la voce, non tirava schiaffi e veleno come le altre femmine del quartiere.
Camminava e basta, dura e buia anche nella luce violenta del primo pomeriggio, quella che affila gli spigoli e fa pulsare le tempie.
Le pareva di pulsare anche lei, sentiva il cuore battere in punti del corpo che non erano quelli giusti, sotto il seno e sulla schiena, nell’interno delle cosce indolenzite, sulle ginocchia e sulla nuca e in mille altri che forse non avevano neanche un nome.
Si portò la mano sul costato, toccandosi senza toccarsi davvero, le dita serrate sull’orlo della manica perché non scivolasse giù.
Chissà cosa avrebbe detto Anna vedendola vestita in quel modo: “Francé, ma che adesso è una moda mettere le maniche lunghe d’estate? E da quando metti ‘ste gonne, tu?”
Quel “tu” solo pensato le provò uno scossone nello stomaco. Avrebbe capito subito, Anna che sapeva tutto, che sapeva da sempre.
La verità è che quella mattina si era spogliata, la tapparella chiusa e la chiave girata due volte, ed era rimasta completamente nuda nello specchio sbeccato; muta, aveva cercato le tracce di quello che gli occhi dei ragazzi e dei vecchi ammiravano quando la frugavano per strada o sulla spiaggia, ma il mosaico viola che la tappezzava continuava ad ipnotizzarla.
Era stato bravo, il mostro.
L’aveva distrutta, ma solo dove gli altri non potevano vedere, dove avrebbe potuto coprirsi.
La curva delicata del seno, la serica morbidezza del bacino che ad Anna piaceva tanto, annegavano in un mare livido e verdastro, le uniche isole intoccate sul suo corpo offeso. Non riusciva a staccarsi da quella perversa decorazione, quel male che tocca solo alle ragazze cattive o a quelle sfortunate; alzando la testa si era scoperta incapace a guardarsi negli occhi. Lo sguardo che le restituiva lo specchio, il suo sguardo, sopra quel corpo indecente era troppo da sopportare.
Si era lasciata sfuggire un singhiozzo e si era coperta con la mano, vergognandosi di se stessa; si era gettata verso l’armadio aperto, la tapparella era schizzata verso l’alto.
Mentre arraffava vestiti a casaccio aveva cercato di calmarsi, di tornare a respirare regolarmente. Una foto di Anna, il viso abbronzato incorniciato di Uniposca fucsia, la fissava da sopra una pila di magliette, congelata nella gioia di un momento passato, un po’ sfocato.
Anna che sapeva, Anna che aveva visto.
Anna che cercava sul vocabolario i sinonimi, livido, ecchimosi, tumefazione, per dare un nome a quel male inspiegabile, immotivato; ma tanto non cambiava niente, che si nominasse o meno restavano le chiazze viola e restava il dolore.
Anna finì per terra con i vestiti, gli occhi insostenibili rivolti al pavimento e schiacciati sotto i piedi.
Nessuno doveva vedere cosa c’era sotto la maglietta a maniche lunghe, inadatta a quel caldo terribile, sotto la gonna al ginocchio che la faceva somigliare a sua madre.
Uscì dalla stanza camminando lentamente, la furia sepolta sotto gli abiti con i lividi e i tagli, sul viso l’espressione apatica e chiusa con cui teneva il mondo lontano.

Francesca indugiò con le dita sul campanello; le sembrava di sentir pulsare l’ematoma sul petto e ancora di più quel livido trasparente nell’anima, quello che non se ne andava mai.
Odiava sostare davanti alle porte, lo spioncino le sembrava un occhio maligno messo lì apposta per spiarla: temeva che Anna potesse osservarla  da lì dietro, non vista, con quel suo sguardo che vedeva sempre troppe cose.
Sentiva le mani imperlarsi di sudore e le strofinò sulla stoffa consumata della gonna, che le pendeva addosso con una bandiera stanca, un segno di resa.
Sapeva che l’occhiolino magico, miracolo incomprensibile di lenti, permetteva di osservare tutto il pianerottolo, non poteva nascondersi dal suo sguardo impietoso; per un attimo sentì il bisogno irrefrenabile di correre a perdifiato giù per le scale e chiamare Anna dalla finestra, o forse non chiamarla affatto. L’idea di stare senza di lei, la sua metà, la fece sentire così squilibrata che premette di colpo le dita sul campanello, come se il suono gracchiante fosse un grido di aiuto.
Fu questione di un attimo, l’uscio si spalancò con impeto e Anna comparve incorniciata dal corridoio, calda e sempre uguale.
Sorrideva entusiasta, complice e lontana, e Francesca ne studiava il riflesso incurvato sulla maniglia di metallo lucido, senza riuscire a sollevare gli occhi per guardarla in faccia.
Mormorò un flebile “ciao” al pavimento e l’altra la afferrò per il polso, trascinandola nel corridoio scuro e odoroso di fumo e sapone, un odore di casa, ignara della pelle offesa che pulsava sotto le dita.
Francesca sussultò nel rendersi conto che Anna non si era accorta di niente, non del suo sobbalzo ne del gemito che si era lasciata sfuggire; non aveva neppure commentato il suo abbigliamento assurdo, persa com’era in qualcosa di nuovo, di altro. Qualcosa di cui Francesca ebbe paura.
Si chiese se, da quando aveva smesso di guardare l’amica negli occhi, Anna avesse a sua volta smesso di guardare nei suoi, di leggervi dentro con quella sua saggezza bambina.
Si lasciò trascinare davanti alla porta della cucina, pensò che magari voleva farle vedere qualcosa, che l’avrebbe portata sul balcone; voleva illudersi che avesse visto, che avesse capito, e stesse solo aspettando di costringerla ad alzare la testa.
In verità, nel minuscolo cucinino affollato di stoviglie, c’era Alessio e con lui un ragazzo nuovo, uno sguardo nuovo.
Terrorizzata, Francesca si piantò nella cornice della porta a soffietto, con Anna che ridacchiava alle sue spalle; era assente in quella stretta che le avvolgeva mollemente il polso, che la lasciava indietro invece di trascinarla con sé.
Il ragazzo nuovo, alto, bruno e comodamente stravaccato su una sedia, la osservò senza interesse per un istante, prima di lasciarsi catturare dalla presenza ingombrante di Anna, che scuoteva la chioma ricciolina per attirare l’attenzione e fingeva di essere passata lì per caso.
Francesca era intrappolata tra i fuochi di due paia d’occhi e non riusciva ad alzare la testa, a fuggire: la mano pendeva inerte dal corpo dell’amica, come se fosse solo un suo prolungamento, un arto in più che va atrofizzandosi.
Nessuno sembrava essersi accorto del suo malessere, della nausea che le premeva potente in gola.
Mattia, avrebbe scoperto che quello era il suo nome, non la vedeva.
Si voltò di scatto e vide lo sguardo di Anna viaggiare sopra di lei, oltre lei.
Non la guardava più.
Fu come se qualcosa le si rompesse dentro.

Non si era accorta che in quella stanza c’era un’altra persona, che aveva sentito il suo crack.
I cucchiaini da caffè posati sul tavolo e le mattonelle lucide le dissero che Alessio la stava guardando fisso, poteva sentire le pupille scavarle il viso come succhielli, in cerca del suo segreto.
Il panico le montò dentro e le serrò il petto in una stretta molto più dolorosa dei lividi: nessuno, a parte Anna, doveva sapere.
“Ehi,Francé, come va? Stasera ci vieni al pattino dromo?”
La voce del ragazzo sembrò rimbombare nella piccola cucina, metallica e deformata come se venisse da molto lontano.
“Ciao Alessio” rispose atona la ragazza.
Abbassò gli occhi ancora di più, nella speranza di scoraggiare la conversazione: “Sì, ci vengo con Anna” borbottò al pavimento, il sudore che cominciava ad imperlarle la fronte e la nuca bollente.
Il giovane si lasciò sfuggire una risata storta: ”Ma dai, mia sorella va alla festa di ferragosto? Non lo sapevo…  non l’avevo mica sentito dire cento volte negli ultimi due giorni… ”
“Ah ah ah!” le arrivò la voce sarcastica di Anna: “La prossima volta dammi il permesso senza fare storie, visto che ti do così tanto fastidio!”
Francesca sapeva che avrebbe dovuto ridere, forse in un’altra occasione lo avrebbe pure fatto, ma sentiva gli occhi di Alessio ancora puntati in faccia. Se avesse potuto aprire una voragine sul pavimento di piastrelle unte e sparirvi dentro lo avrebbe fatto, inghiottita dal cemento del palazzone, finalmente al sicuro dallo sguardo di chiunque.
Alessio non doveva vedere.
Avrebbe voluto parlare, pregarlo di smettere di fissarla in quel modo, come se gli dispiacesse per lei o peggio, come se avesse paura per lei; ma non poteva riuscirci, la sola idea di sollevare gli occhi le dava la nausea, le mani le tremavano come quando sentiva suo padre rientrare dal turno di notte alla Lucchini.
Per un attimo immaginò quello sguardo vacuo e cattivo, che la guardava da dentro la sua testa, da dentro l’anima, e non bastava voltare la testa per nascondersi.
“Francé, tutto a posto? Che hai?”
La voce di Alessio la riportò alla realtà. Fu questione di un istante, il riflesso incondizionato di volgersi verso il richiamo, e le pupille di lui erano nelle sue.
Una bolla acida di malessere le esplose nello stomaco, bruciandole le viscere e spingendo un rigurgito fin nella gola; battere convulsamente le ciglia era inutile, gli occhi di Alessio non si staccavano da lei e lei percepiva solo il panico inchiodarla a terra.
“Ora svengo” pensò e si voltò verso Anna in cerca di aiuto, ma l’amica era completamente presa dal ragazzo nuovo, assorbita nella sua aura quasi solida di fascino e impegnata in una schermaglia di occhiate che avevano troppi significati.
Nell’unico momento in cui era riuscita a puntarle gli occhi addosso, Anna non la stava guardando.
Si sentì fluttuare via, evanescente, perché, pur non riuscendo a reggerne il peso, lo sguardo di Anna era l’unica cosa che la faceva esistere.
“Francè, parlami, che succede?!”
Alessio si era allarmato di fronte al suo volto sbiancato come un cencio.
Fece l’unica cosa sensata che il cervello le suggeriva in quel momento, correre.
E corse via, sfilando a testa bassa oltre i casermoni sfiniti dall’arsura, oltre gli spigoli rosicchiati di Stalingrado, fino al loro rifugio, il piccolo parco che avevano scoperto da piccole.
Riuscì a fermarsi solo alla vista delle altalene penzolanti, della capanna scrostata e arrostita dal sole, la sicurezza delle cose immobili; si lasciò cadere a peso morto sull’erba secca, una mano premuta sulla bocca e l’altra che artigliava la maglietta.
 Se solo fosse stata capace di guardare Anna come faceva una volta, di dirle tutto con gli occhi, comunicarle tutto il suo amore e la sua paura, forse la sua amica non l’avrebbe lasciata indietro.
Rannicchiata nella piccola capanna di legno, il viso sgualcito dal pianto e la terra che le si infilava persino nelle mutande, si strinse le braccia intorno al busto per mantenersi intera, per non crollare sotto il peso terribile dello sguardo di chi non ti guarda più.

  
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