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Autore: Danny Fan    24/04/2020    0 recensioni
[Il Giro del Mondo in 80 giorni]
[Il Giro del Mondo in 80 giorni]Una pazza scommessa, un viaggio intorno al mondo, un incontro voluto dal destino. Una storia d'amore senza tempo, fra i rintocchi dell'orologio e il tè dell'India coloniale.
Genere: Avventura, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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General Grant, traversata del Pacifico, dal 14 al 2 dicembre 1872


I giorni a bordo del piroscafo che compiva la rotta transpacifica del viaggio furono decisamente più tranquilli della prima sera, soprattutto dopo che la storia di come Aouda e il signor Fogg erano giunti a bordo dalla goletta ebbe esaurito il suo fascino. Ben presto divennero due passeggeri sconosciuti qualunque, anzi tre, visto che Passepartout si era finalmente riunito a loro.
Aouda gli aveva narrato con entusiasmo tutto ciò che era accaduto da quando lo avevano perduto, e Passepartout si era scusato mille volte col suo padrone per una imperdonabile nottata di bevute in una fumeria di Hong Kong, dove aveva finito per essere intossicato dall’oppio.
<< Un signore di nome Fix e che diceva di conoscervi è salpato con noi sulla Tankader >>, disse Aouda, notando il cipiglio un po’ turbato del servo a quell’affermazione.
<< Oh, un compagno di viaggio col quale ho parlato spesso >>, disse il francese, annuendo, << Amabilissimo >>.
Aouda terminò la seconda delle lunghe trecce con le quali aveva deciso di acconciarsi quel giorno e sospirò, << Sono contenta di riavervi con noi, Passepartout. Mi siete mancato >>.
Il giovane sorrise con giovialità, << Anche voi, signora Aouda >>, fece una piccola pausa, con gli occhi azzurri che brillavano di una luce furba, << Se cercate il signore, è nel salone del ponte B >>.
Aouda fece vagare un po’ lo sguardo attorno, sperando che il francese non si accorgesse del suo rossore, << E... era impegnato? Forse con dei giocatori di whist? >>.
<< No >>, rispose Passepartout, << Stava badando agli affari del suo viaggio >>.
<< In tal caso... visto che qui mi annoio un po’, forse andrò a disturbarlo >>.
<< Non credo lo noterete, ma di sicuro gli farà piacere >>.
Aouda rise di quell’innocente abitudine di Passepartout di prendere in giro l’impenetrabilità del suo padrone, e salutò il servo attraverso lo specchio.
Una volta sola, fissò la propria immagine, un poco combattuta.
Si alzò, andò al lavamano e raccolse un panno insaponato, esitando qualche istante prima di strofinarlo delicatamente sulla fronte, e cancellare così le ultime tracce, seppur ancora evidenti, del suo tilaka matrimoniale.
Va bene, Aouda. Non sei più una donna sposata.
È ora di aprirti verso la tua nuova vita.
Di andare... verso di lui.
Si osservò per un altro lungo attimo, poi si levò, e guidò le gonne fuori dalla porta della lussuosa cabina, fino al salone indicato.
Il signor Fogg era in effetti là, seduto ad un tavolo in disparte coperto di carte.
Il pomeriggio di inizio inverno era fulgente, e un sole che si rifletteva sull’acqua del mare, seppur pallido e un po’ nembo, rendeva l’atmosfera del bellissimo salone molto luminosa. Phileas Fogg era vestito di chiaro, il che lo amalgamava splendidamente all’ambiente, come una di quelle mirabili statue che si sposavano armoniosamente in un dato paesaggio.
Aouda, che sorrideva un attimo prima, fu turbata dalle proprie sensazioni.
Subito le si mozzò il respiro, sentì un nodo allo stomaco, e un’ondata di calore le salì dal collo al viso, provenendo da una decisa stretta al cuore. Si fermò, per cancelare gli eventuali segnali fisici di quello stato d’animo e riprendere il controllo di sè. Per rimproverarsi anche, come se la colpa fosse direttamente sua. Perchè?! Perchè?! Quelle emozioni, che ricordava fin dai primi giorni del suo viaggio in compagnia dell’inglese, e che lei ancora attribuiva, razionalmente almeno, alla gratitudine, stavano prendendo il sopravvento e diventavano sempre più violente, incontrollabili.
Aouda strinse i pugni e si avviò.
Phileas Fogg sedeva al tavolo con la schiena dritta, come sua normale postura, ma era un po’ chino in avanti e stava scrivendo qualcosa con una bella penna stilografica nera e dorata.
Mentre si avvicinava, ancora non vista, Aouda notò particolari che sembrarono pioverle addosso come fuoco di artiglieria; il sole che giocava sui capelli del gentleman ad ogni suo piccolo movimento, trasformando i più chiari in fili d’oro lucente, il contrasto fra il suo incarnato d’avorio e il color beige della giacca che egli indossava aperta, sopra un panciotto di seta bordeaux, la forma affusolata delle sue dita, le quali tuttavia andavano a formare una mano grande, virile. La sua espressione era intenta, concentrata, proprio come la prima volta che lo aveva guardato, nello scompartimento del treno per Calcutta, dopo essere morta e rinata a causa sua.
La sua ombra che si proiettava sul tavolo la tradì, e il gentleman alzò la testa, raddrizzandosi un poco, << Signora Aouda >>.
<< Signor Fogg. Spero di non disturbare >>.
Egli scosse il capo, << Affatto. Avevo quasi finito. Gradite del tè? >>.
<< Magari dopo. Se vorrete farmi compagnia >>.
<< Certamente. Datemi solo un attimo >>.
Aouda esitò un secondo, poi disse, << Posso sedermi? >>.
<< Oh, sì. Naturalmente >>.
Lei sbirciò la quantità di fogli che copriva la superficie. C’era una carta geografica, non tanto grande, che recava il segno di come solitamente fosse ripiegata in due e trasportata dentro un libro, o dentro lo stesso Bradshaw, verosimilmente, che era riposto, chiuso, sopra di essa, con la sua copertina rossa dall’intestazione dorata. Il signor Fogg aveva invece aperto davanti a sè un piccolo quaderno nero, sul quale, prima che lei lo interrompesse, stava facendo dei calcoli.
Aouda sbirciò e lesse: Trans. Pacif. 20 d. 480 h. 28.800 min.
Il signor Fogg poi trascrisse quel calcolo su un altro quaderno, un po’ più grande, che lei gli aveva visto maneggiare molto spesso, soprattutto quando salivano sui treni, o nei momenti di pausa del viaggio.
Due pagine aperte e contigue erano divise in righe e colonne, come una tabella. Su ogni riga era indicata una città del mondo, e sulle colonne... Aouda non riusciva a leggere.
<< Posso vedere? >>, domandò, intuendo cosa stesse osservando. Il famoso “programma”, quello nel quale, in un modo o nell’altro, doveva rientrare anche lei, come da scusa tipica del gentleman per ogni carineria che le riservava.
<< Sì >>, soffiò Phileas Fogg, apparendo un poco stupito che a lei interessassero quelle cose.
Aouda consultò il programma con le labbra piegate all’insù. Era... emozionata. E ammirata. Per ogni città che doveva essere toccata dal viaggio in giro per il mondo, il signor Fogg avava annotato data di presunto arrivo, giorno, ora e minuto, e data di effettivo arrivo. Un’altra colonna era riservata al calcolo del tempo guadagnato o perduto, e un’altra a degli scarni appunti, per esempio “perso piroscafo Carnatic, ovviato con goletta Tankader, 800 miglia, intercettato piroscafo Gen. Grant a 3 miglia da Shangai”. E così via. Aouda andò indietro a prima del loro incontro, e lesse tutto quello che il signor Fogg aveva fatto, riassunto in quello schema, fino all’arrivo in India e all’acquisto dell’elefante. L’Indian Peninsular Railways era incompleto, ogni altro mezzo a Colbi preso, e Aouda si rese conto solo in quell’istante che la sua salvezza era dipesa da semplici quanto incredibili circostanze che si erano susseguite, piccoli e grandi incidenti e contrattempi, a partire dai due giorni di guadagno che il signor Fogg aveva puntigliosamente segnato nella colonna dei guadagni, fino all’attraversamento forzato delle foreste del Bundelkund in groppa a Kyuni.
Il destino... , pensò, riconcentrandosi poi sul meticoloso lavoro del suo compagno di viaggio. Emozionata e ammirata, proprio così, dallo scrupolo con cui egli aveva tenuto quel programma. Il modo in cui era organizzato le parlò dell’uomo che era, di come lavorava la sua mente, di come era logica la sua intelligenza. Logica e matematica. Il programma del signor Fogg le mostrò una parte della sua anima, e Aouda sentì quasi le mani che tremavano.
<< Bello >>, commentò, restituendogli il quaderno.
<< Bello? >>, chiese lui, in quel suo tono di voce un po’ sussurrato.
<< Proprio così >>, disse Aouda, guardandolo negli occhi, << Il vostro modo di ragionare è chiaro, schematico, assolutamente organizzato. Ora capisco perchè siete così sicuro di riuscire. È un calcolo matematico, questo viaggio. Almeno per voi >>.
<< Sì >>, rispose Fogg, << Non avrei scommesso ventimila sterline se non fossi certo che fosse possibile attuarlo >>.
<< Non avete paura di perdere la vostra fortuna? Voglio dire... >>.
<< No >>, la interruppe il signor Fogg, << Perchè non perderò >>.
Aouda sorrise con divertita condiscendenza, e decise di non mettere in discussione tanta risolutezza.
<< Però state spendendo molto denaro >>, mormorò, addocchiando un foglio coperto di quelli che erano, senza dubbio, i calcoli delle spese fatte fino a quel momento, << E mi dispiace di pesare sul vostro bilancio >>.
<< Signora Aouda >>, scandì Phileas Fogg, riservandole un lieve sorriso,  << Il denaro è fatto per essere speso. Con raziocinio e decenza, certo, ma la sua funzione è innegabile >>.
Aouda cercò di leggere nel suo sguardo la risposta alla domanda che le era giunta spontanea dopo quella sua affermazione. Avrebbe voluto chiedergli se tutto il suo denaro lo avesse mai reso felice. Eppure, guardando in quei suoi occhi celesti, splendidi ma impenetrabili, la risposta era chiara.
No. Phileas Fogg non era un uomo felice.
Viveva senz’altro una vita comoda, a Londra, regolata in ogni dettaglio dai ticchettii del suo orologio. Ma se davvero avesse amato quell’esistenza, comprese Aouda, egli non l’avrebbe mai messa a rischio in ogni modo possibile con quel viaggio. Per quanto sicuro della riuscita potesse essere.
Phileas Fogg spostò gli occhi sulla sua fronte, e questi si fecero interrogativi.
Aouda abbassò lo sguardo, un poco imbarazzata. Non credeva possibile che lui si accorgesse che non aveva più il tilaka; per sua esperienza, gli uomini erano poco osservatori rispetto a queste cose, specie se non rientravano nella loro cultura.
Il signor Fogg si voltò di nuovo completamente in direzione delle sue carte con gesto un po’ meccanico, e il suo viso assunse un cipiglio di finta indifferenza che la fece sorridere.
Aouda dubitava che egli comprendesse il senso recondito e, in un certo qual modo, romantico, della sparizione di quel marchio indiano, anche se non escludeva che conoscesse il suo significato sociale.
Si alzò e fece per spostarsi nel salottino attiguo, << Vi aspetto per il nostro tè, allora >>.
Il signor Fogg annuì, e anche quella giornata scorse veloce come il piroscafo sull’Oceano Pacifico.
 
 
 
Nella giornata del 18 novembre, Aouda chiese a Passepartout di riferire al suo padrone di scusarla per quel giorno, se non sarebbe comparsa sopracoperta.
<< Vi sentite poco bene? >>, si preoccupò subito il francese.
<< No >>, lo rassicurò lei, << Ho solo... nostalgia di casa >>.
Lo guardò, e fu certa che Passepartout avesse compreso che si trattava solo di una scusa, e che la sua nostalgia era di natura diversa.
Aouda aveva bisogno di stare un giorno da sola. Per riflettere. Per capire.
Passepartout annuì e le sorrise con incoraggiamento, lasciandola.
Aouda si distese sul comodo letto della sua cabina, e abbracciò il cuscino con un lungo sospiro.
La notte precedente, o forse al primo mattino, aveva sognato il signor Fogg. Anzi, Phileas, come era autorizzata, dalla sua coscienza, a chiamarlo nel sogno. Passeggiavano, come avevano fatto spesso anche nella realtà, ma in un meraviglioso giardino soleggiato. Poi si fermavano accanto ad un alto albero, e si abbracciavano fortissimo, come lei ora stava facendo con l’inerte ammasso di piume.
Il cuore di Aouda aveva preso il volo, e ancora lo faceva, al ricordo delle effimere sensazioni provate.
Non era vero niente, comunque, e lei stava facendo solo castelli in aria, perchè Phileas Fogg, quello vero, era identico al “normale se stesso” del loro secondo tè. Non era cambiato niente in lui, e Aouda si sentiva stupida, a pensare... già, a che cosa?
Serrò gli occhi, provando ad escludere tutto quanto.
Che cosa provo, veramente? Se non capisco questo, per prima cosa, come posso pensare di decifrare lui?
Cercò di andare con ordine.
Gratitudine.
Sì. Immensa.
Gli voglio bene?
Sì, oh, tanto!
Quello era un sentimento che aveva scoperto da poco. Ma era diverso dall’essere affezionata a qualcuno. Certo, era anche questo. Era affezionata sia a lui che a Passepartout, e anche a quest’ultimo voleva bene. Ma in modo differente. Come, era un mistero per Aouda. Il sentimento, quello per Fogg, le faceva anche paura, cosa che si sforzò di combattere. Doveva mettere da parte i timori per poter essere sincera con se stessa.
Mi attrae...?
Sì. Incontestabilmente.
E non si trattava solo di una mera questione fisica. Di uomini belli ne esistevano tanti, dopotutto.
Phileas Fogg era anche... affascinante, nella sua stranezza. Era... interessante. Innegabilmente sagace, intelligente, dotato di una buona dose di furbizia e navigatezza, data dall’età e dall’esperienza, soprattutto nel campo della marina, e in generale, dei viaggi. E poi la sua calma; un tale sangue freddo anche nelle situazioni più incredibili era capace di farle pensare che sarebbe andato sempre tutto bene. Poi, era un uomo buono. Educato. Paziente. Galante. Generoso. Aouda poteva continuare all’infinito.
Aveva anche difetti. Certo.
La sua fissazione riguardo il tempo, sebbene ad Aouda paresse di più una caratteristica piuttosto che un vero e proprio difetto. Inoltre... ci pensò un po’ su. È difficile capire cosa prova; di conseguenza, le persone, lei compresa a volte, non sapevano come approcciarglisi. Spesso non si capiva se fosse di buonumore o di cattivo umore, anche se Aouda stava imparando a decifrarlo un pochino. E avrebbe voluto avere tutto il tempo del mondo per capirlo volta per volta, per arrivare a conoscerlo a memoria, ogni giorno un po’ di più.
E poi venne la domanda che la tormentava.
Lo amo?
Aouda non lo sapeva. Come poteva capirlo, se non era mai stata innamorata in vita sua?
Quello che sapeva, era che non avrebbe voluto mai separarsi dal signor Fogg. Auspicava per lui tutto il bene del mondo, avrebbe voluto che fosse felice, sempre. Avrebbe voluto essere felice anche lei, assieme a lui.
L’idea la sgomentò. Come si era ritrovata a provare tutte quelle cose, quasi a sua insaputa?! Sembrava che il suo stesso cuore le giocasse un brutto tiro!
E se fosse tutta colpa di quel sogno?
O era forse il sentimento che aveva ispirato quest’ultimo?
Si fece allora un’altra semplice domanda: se, ragionando per assurdo, mi chiedesse di vivere con lui, in Inghilterra, come sua moglie, cosa gli risponderei?
Sì.
Dio, sì.
<< Oh, no! >>, gemette Aouda, ad alta voce.
 
 
 
Tre colpi discreti alla porta.
<< Venite >>, disse Phileas, riconoscendo il modo di bussare del suo domestico.
Mentre Passepartout entrava, si affrettò a posare il libro sul tavolino accanto alla poltrona, con la copertina rivolta verso il basso. Solo il cielo sapeva che idee avrebbe potuto farsi il francese se avesse visto che stava leggendo un libro sull’India.
<< Signore. Il vostro tè >>.
Phileas lanciò una rapidissima occhiata all’orologio sopra la cassettiera, e vide che Passepartout aveva spaccato il minuto.
<< Grazie >>, gli disse, indicandogli il tavolino.
Passepartout posò metà del vassoio e prese il libro, che evidentemente credeva abbandonato, per assicurare la teiera fumante sulla limitata superficie disponibile.
Phileas provò un brivido gelido nell’osservare il giovane voltarsi alla libreria della camera e riporre l’oggetto. Naturalmente, prima di metterlo via, ne lesse il titolo, da curioso qual era.
Phileas si affrettò a fingere indifferenza. Versò il tè nella tazza e aggiunse una zolletta e un po’ di latte, mescolando tre volte in senso orario e tre in senso antiorario.
<< Signore, desiderate qualcos’altro prima che mi ritiri? >>.
<< No, Passepartout, grazie. Fra venti minuti sarò al letto, come sempre >>.
Il servo piegò brevemente il busto. Fece per uscire, ma tornò indietro.
<< Signore... Perdonate... >>.
Phileas lo guardò di sottecchi, << Sì? >>.
<< Spero... auspico... che abbiate perdonato la mia notte brava di qualche giorno fa. Io davvero... >>.
<< Vi siete già scusato. Sul serio, Passepartout, fortunatamente si è posto rimedio alla situazione. E dopotutto... >>, aggiunse, in un tono più sommesso, << ... vi capisco, sono stato giovane anch’io >>.
<< Ma voi siete ancora giovane, signore! Perbacco! >>.
Phileas non ribattè, nè mosse alcun muscolo facciale a quell’accorata osservazione.
Davvero? Quarant’anni, quattro mesi e dodici giorni. Sì, era ancora giovane, almeno esteriormente. Dentro, però, per gran parte della sua vita, si era sempre sentito vecchio. Soprattutto quel giorno, di nuovo solo con se stesso, senza la compagnia di Aouda.
Era stata una giornata perfettamente regolata, come di rado gli era capitato da quando era partito. Ogni sua azione compiuta nell’ora stabilita, con un Passepartout puntualissimo e sollecito, per certo desideroso di farsi perdonare. Eppure, Phileas non aveva gioito troppo della sua ritrovata routine. La sua zona di comfort... non gli dava più comfort.
L’infatuazione per Aouda poteva ben essere una cosa seria.
No, non è così. È semplicemente... tardi per queste cose. Se fosse esistita una donna capace di capirmi e di accettarmi, l’avrei già incontrata. Per me è tardi, ormai.
E Aouda non pensava nemmeno lontanamente a lui. Non in quel senso. Non era il caso di farsi illusioni.
Se avessero trovato a Hong Kong quel suo cugino, e l’avesse lasciata là con lui, forse queste fantasticherie inutili non gli avrebbero nemmeno sfiorato la mente, ed egli avrebbe ritrovato il suo equilibrio. Ma sarebbe stato molto triste. Esattamente come quella lunga, noiosa giornata.
Aouda dava un senso ad ogni momento del giorno, ad ogni attimo di quel viaggio, che senza di lei sarebbe stato soltanto un vuoto vagare.
E quando lei non c’era, Phileas la cercava... in un libro.
Avrebbe dovuto leggerne un milione, una volta tornato in Inghilterra, per sfamare quel bisogno.
Aouda, di certo, avrebbe scoperto i giovani gentleman della buona società inglese, quelli veramente giovani, suoi coetanei, magari. Quelli che erano ricchi perchè il loro padre lo era stato, e il padre del padre prima di loro. Ed egli avrebbe dovuto sopportare di vederla passeggiare al braccio di uno di loro, di vederla sposata con uno di loro. Tutti quei pensieri lo stordivano. Il senso di ribellione, che egli cercò e riuscì a tenere imbrigliato, gli diede un deciso mal di stomaco. Prese un lungo sorso di tè per calmarsi.
Mi sto rodendo per niente, si disse. Sono cose che capiteranno, e le devo accettare già da ora. Devo... prepararmi psicologicamente a perderla.
<< Signore >>.
Il francese era ancora là.
<< Sì, Passepartout, puoi andare a dormire >>, gli disse, senza guardarlo.
<< Ecco, io... volevo solo... >>.
Phileas sollevò lo sguardo.
<< La signora Aouda mi ha chiesto di dirvi che stasera stava già meglio, e che domani mattina sarà a colazione come sempre >>.
Phileas non lasciò trapelare il sollievo. Annuì e disse, << Molto bene >>, in tono monocorde, << Buonanotte >>.
<< Buonanotte, signore >>, e Passepartout si defilò.
 
 
 
Il sole filtrava fra le nuvole, e inondava parte del ponte coperto e la passeggiata del ponte alto.
Il vento però era freddo, e Aouda aveva indossato la cappa sopra un abito di lana.
Alla fine della sua giornata di riflessione, intorno alle sette di sera, si era pentita di aver perduto così tante ore da poter trascorrere assieme al signor Fogg. Tant’è che era giunta alle sue conclusioni già dal mattino! Doveva però decidere cosa fare, come comportarsi. Respingere i propri sentimenti per l’inglese? Reprimerli? Nasconderli? Aouda aveva pensato di farlo, ma era certa che non sarebbe riuscita nell’impresa. E una volta accantonati i timori, quel sentimento era così bello, così compenetrante, da non poter far altro che abbandonarsi ad esso. Voleva vivere le emozioni che derivavano dall’essere innamorata per la prima volta in vita sua. La prima e l’unica volta.
Naturalmente, non voleva nemmeno agire come una di quelle donne che ancora, molto spesso, ronzavano attorno al signor Fogg. Ed io che pensavo di essere immorale!
Aouda non voleva imporsi. Non voleva essere esplicita. Non perchè non fosse nel suo carattere, ma perchè non aveva idea di come il signor Fogg potesse reagire, se messo alle strette da delle attenzioni così singolari da parte sua. Non voleva che le cose si guastassero fra di loro. Voleva vivere quel viaggio incredibile con lui, fino alla fine. Forse, dopo, quand’egli sarebbe stato libero dal pensiero della scommessa, avrebbero potuto discuterne.
Nel frattempo, però, Aouda voleva mostrarsi disponibile nei confronti del gentleman. Voleva fargli capire che la sua gratitudine stava traboccando in un sentimento diverso. Senza essere diretta. Con piccoli gesti. Parlandogli con gli occhi. Così forse avrebbe anche capito a sua volta cosa passasse per la testa di lui.
Si erano incontrati sul ponte all’uscita dalle rispettive cabine, e adesso si stavano dirigendo a colazione.
Il signor Fogg si era subito premurato di chiederle se stesse bene. Aouda aveva risposto che sì, era in perfetta salute.
<< Dovete scusarmi per ieri. Un patema d’animo passeggero >>.
La versione ufficiale era quella, e ormai non poteva cambiarla.
Phileas Fogg camminava col suo passo lento e distinto che a lei piaceva tanto, reggendo con disinvoltura un elegante bastone da passeggio in ebano dal pomello argentato.
<< Non vi preoccupate, signora Aouda. L’importante è che sappiate di poter contare su di me per ogni vostra necessità >>.
Aouda sorrise, << Siete molto caro >>, disse a mezza voce, scegliendo accuratamente di non usare la parola “gentile”, come di norma avrebbe fatto, ma un altro termine, più confidenziale.
La cosa non parve sortire alcun effetto, e Aouda abbassò la testa, in un momento di scoraggiamento.
Non ha alcun interesse per me. Non dal punto di vista che vorrei.
Entrarono nella sala ristoro, e si accomodarono ad un tavolo appartato, ben illuminato dal timido sole novembrino.
Quando la colazione fu quasi terminata, il signor Fogg le chiese, << Signora Aouda, gradite un altro po’ di tè? >>.
<< No, grazie, signor Fogg. Uhm... >>, esitò, prendendo coraggio, << Mi piacerebbe che d’ora in avanti mi chiamaste solo Aouda, se non vi dispiace >>.
Lui sollevò lo sguardo dal rivolo di tè che calava pigro nella sua tazza, e puntò gli occhi nei suoi per un lungo attimo, immobile.
<< Come preferite, Aouda >>, rispose però l’attimo dopo, posando con flemma la teiera vuota.
Aouda, ancora riscaldata dal suono della sua voce profonda che la apostrofava in modo così intimo, gli guardò le mani, ma non vide il minimo tremore, nè alcun cenno di emozione sul suo volto. In più, il signor Fogg non aggiunse altro, e non la autorizzò a sua volta a chiamarlo per nome, come lei sperava di ottenere. La cosa le fece precipitare l’umore sotto le scarpe. Si volse a guardare fuori dal grande oblò ad arco, cercando di non far trasparire troppo la delusione.
<< Mi rincresce >>, le disse il gentleman, << Che l’India vi sia ormai preclusa >>.
Aouda lo guardò. Davvero credeva che avesse nostalgia? Non avete capito niente di niente, signor Fogg. E forse non lo capirete mai. O magari, più verosimilmente, non volete capirlo.
Non gli rispose, e la conversazione morì di colpo, portando un silenzio che durò per più di cinque minuti, tanto più abissale considerando che il gentleman aveva ormai finito quel poco di tè rimasto, e non stava perciò compiendo nessuna azione che riempisse il vuoto. Aouda si stupì, perchè la gente, di solito, in situazioni simili diceva sempre qualcosa, anche una sciocchezza, per evitare momenti di così prolungata quiete. Ma Phileas Fogg no. Non temeva il silenzio, non lo turbava. Gli era complice.
In quella, un inserviente della sala si accostò con un mezzo inchino e le porse un vassoio sul quale si reggeva una piramide formata da delle barrette avvolte in modo decorativo in dischetti di pizzo.
<< Oh, non... non l’ho richiesto... >>, disse Aouda all’uomo, convinta che avesse sbagliato tavolo.
L’inserviente però scoccò una rapidissima occhiata al signor Fogg e non si mosse.
Phileas Fogg intanto aveva assunto quella sua aria di finta indifferenza e si era messo a fissare fuori dalla finestra.
Aouda sentì le guance colorarsi e il cuore rinfrancarsi. Sorrise con tutto il deliziato imbarazzo che provò.
L’inserviente posò il vassoio al centro del tavolo, e Aouda osservò le barrette, di un color marrone tendente al nero, che facevano un bel contrasto con le bianche confezioni di pizzo.
<< Che cos’è? >>, chiese, quasi fra sè, << Ha un odore buonissimo... >>.
<< Cioccolato >>, rispose il signor Fogg, con un sorriso appena accennato.
Aouda trattenne il fiato rumorosamente, << Ne ho sentito parlare... >>.
E non è un dolce a buon mercato...
<< Dicono che faccia bene all’animo e al morale >>.
Il signor Fogg aveva pronunciato quelle parole con il solito distacco, senza guardarla direttamente, e Aouda lo fissò, sconcertata da quel pensiero così tenero, soprattutto considerando il fatto che lei non aveva affatto nostalgia di casa! Passepartout gli aveva per certo riferito quella scusa che lei aveva usato, ed egli si era subito prodigato per farla stare meglio...
<< Signor Fogg... io... grazie. Non so come... >>.
<< Non c’è bisogno, signora. Aouda >>.
Guardò il vassoio e lei si lanciò all’assaggio, con un enorme sorriso.
Il cioccolato era... non c’erano parole. Era quanto di più gustoso, nell’accezione più sconvolgente del termine possibile, esistesse.
<< Volete...? >>, chiese Aouda, offrendo di favorire.
Phileas Fogg però scosse il capo, << Grazie, ma no, grazie. Non fa per me >>.
Aouda ridacchiò, << Non vi piace farvi tirare su il morale da un dolce, signor Fogg? >>.
<< Non ne ho bisogno >>, stette al gioco lui, usando quel tono pimpante che la riempiva di gioiosa sorpresa, << Il mio morale è perfettamente bilanciato >>.
Aouda non resistette, e scoppiò a ridere sommessamente. Quando si sporse per prendere un’altra barretta, notò che nel fondo del vassoio c’erano due pezzi di carta che assomigliavano a dei biglietti.
<< E questi? >>.
Fogg rimase impassibile.
Aouda lesse e comprese che si trattava appunto di due biglietti per un concerto di pianoforte che si sarebbe tenuto a bordo quella sera. Rialzò la testa.
<< La musica ha un potere riequilibrante sullo spirito >>.
Aouda cercò di non mostrare troppo il fatto che il cuore le stesse battendo così forte da scuoterla, e mormorò la domanda quasi a mezza voce, << Vi piace la musica? >>.
<< Sì >>, rispose il signor Fogg, con naturalezza, << A chi non piace? La musica è una forma d’arte >>.
<< Beh, ora che l’ho assaggiato, posso dire che anche il cioccolato lo è >>.
 
 
 
Phileas consegnò il cappello e il bastone al valletto, il quale attese che si sfilasse i guanti, quindi prese in consegna anche la pelliccia della signora Aouda.
Entrarono nel salone adibito ad uditorio, e presero posto sulle morbide poltrone, ai piedi di un basso palco sul quale stava il pianoforte, un bello strumento a coda, le cui corde dovevano per certo essere fatte di ferro, vista l’ampiezza della sala; solo così il suono si sarebbe propagato in modo piacevole e avrebbe soddisfatto il nutrito pubblico.
Aouda si accomodò agevolando le gonne in modo molto elegante, ma con quella sorta di accortezza un po’ incerta che caratterizzava ogni suo gesto. Quando si erano incontrati, pochi minuti prima, gli era sembrata più serena rispetto a quella mattina. Non aveva smesso di sorridere un attimo, e lo guardava con gli occhi enormi e colmi di aspettativa. Phileas aveva dovuto cercare ogni volta un altro punto al quale rivolgere il suo sguardo, perchè quelle profondità nere e brillanti sembravano risucchiarlo e togliergli ogni brandello di razionalità.
Quella sera lei aveva prestato parecchia cura nell’acconciarsi, lasciando calare due corpose bande un poco ondulate ai lati del viso, e girandole sopra le orecchie. Quei capelli così scuri e serici le incorniciavano il volto, rendendolo ancora più puro e delicato, e accentuando la finezza dei suoi tratti. E per tutti i santi, non c’era una donna più bella di lei dentro e fuori da quel piroscafo che navigava in mezzo all’Oceano. E se c’era, lui non la vedeva. O comunque non era Aouda, e non aveva tutte le splendide qualità morali che la rendevano la migliore in assoluto.
Tali pensieri lo stavano rendendo nervoso, quindi inspirò ed espirò profondamente, sperando che il concerto cominciasse presto, così da distrarsi.
Poco dopo, gli inservienti abbassarono un poco le luci, un gradito particolare che avrebbe creato una rilassante atmosfera.
Aouda gli strinse il braccio fra le piccole mani, << Sono emozionata >>, confessò, sporgendosi un poco verso il suo orecchio.
Phileas si raddrizzò sulla poltrona, cercando di reprimere il morso allo stomaco dato dalla tenerezza.
In quel momento, fortunatamente, entrò il pianista, il quale si sedette e attese che il piccolo applauso di saluto si fosse esaurito prima di cominciare a suonare.
Il concerto iniziò con un brano abbastanza ritmato, molto piacevole. Il musicista era alquanto dotato, e le note scorsero in un fluire elaborato e aggraziato, per poi spegnersi con delicata enfasi.
Ci fu un sonoro e breve applauso, sintomo che l’uditorio era catturato e desiderava la prosecuzione della musica. Durante questa breve pausa, Aouda si era voltata verso di lui e aveva cercato di dire qualcosa, ma dalla sua espressione Phileas capiva che era troppo sconcertata per esprimere quello che provava.
<< È la prima volta che sentite suonare un pianoforte? >>, le chiese, dubbioso.
Lei annuì con un vigoroso cenno del capo e un sorriso pieno di attesa per il prossimo brano, il quale iniziò in quell’istante. Phileas riconobbe la canzone, e apprezzò moltissimo l’esecuzione, nel suo solito modo, ossia senza renderlo manifesto, anche se, doveva ammettere, aveva voglia di battere il ritmo col piede. Aouda era contenta; per lei doveva essere un’esperienza indimenticabile. Quando aveva acquistato i biglietti non aveva pensato che per lei fosse stato difficile sentir suonare un pianoforte, anche quando viveva a Bombay. Non poteva che essere felice di averle regalato quel momento. Forse, lo avrebbe ricordato sempre, anche quando, un giorno, si sarebbero separati. Ogni volta che avrebbe sentito suonare il piano, avrebbe ricordato quella prima volta, e forse un po’ anche lui.
Phileas chiuse gli occhi, perchè il pensiero era piacevole e triste allo stesso tempo. Straziante, anzi.
In più ecco partire quel brano immensamente bello e malinconico, del quale egli conosceva anche le parole, perchè era una vecchia canzone inglese, grave, toccante, sublime nella sua nubilosa dolcezza.
Durante l’applauso sonoro che seguì, Phileas volse un rapido sguardo verso Aouda, e si accorse che stava asciugandosi con discrezione le guance. Si affrettò a porgerle il fazzoletto di seta che aveva alla tasca della giacca, e lei annuì in un silenzioso ringraziamento.
Phileas tornò a voltarsi verso il palco, accorgendosi di aver assunto una postura rigidissima e immobile, come se i propri muscoli stessero cercando di domare quel miscuglio di tenerezza e slancio che stava provando per la prima volta in vita sua a causa di quella creatura sensibile che gli sedeva accanto, commossa dalla musica.
Se gli fosse stato permesso dalla più basilare decenza, l’avrebbe avvolta fra le braccia e stretta al petto, in modo da farle sentire il martellare del suo cuore.
Devo smetterla. Questi sono solo sogni. Solo illusioni. Non succederà mai. Mai.
Aouda intanto si era riconcentrata completamente sullo strumento, e arricciava un po’ il naso nello scacciare l’ultimo brandello di commozione, mentre stringeva e accarezzava il suo fazzoletto nel pugno, sul grembo.
A fine concerto, si alzarono in piedi per applaudire il virtuoso musicista, e le luci si rialzarono.
Pian piano, tutto il pubblico si diresse nella sala attigua, dove venne offerto dello champagne e delle tartine, come aperitivo alla cena.
<< Oh, signor Fogg, è stato...! Oh! >>, sospirò Aouda, cercando le parole adatte.
<< Il pianista ha reso giustizia ai brani >>, commentò lui, sorseggiando pacatamente dal suo bicchiere, con la speranza di calmare i nervi.
<< È come se suonassero due persone diverse >>, si stupì Aouda, quasi fra sè, << Una più piano, in sottofondo, e una più forte... oh... Che sciocca... >>.
Phileas non riuscì a non sorridere di quell’entusiasmo, e Aouda rimase immobile a guardarlo, come ipnotizzata.
<< Qualcosa non va? >>.
<< Oh, no. Perdonatemi, devo aver sciupato il vostro fazzoletto... >>, gli rispose, spiacente, indecisa se renderglielo o meno.
Phileas le toccò la mano che lo reggeva, << Tenetelo. È solo un fazzoletto >>, poi le porse il braccio, << Vogliamo andare? >>.
 
 
Dopo cena, il signor Fogg si offrì di riaccompagnarla fino alle porte della sua spaziosa cabina, accanto alle quali si fermarono, l’uno di fronte all’altra.
<< Non so come ringraziarvi per oggi >>, disse Aouda, che si sentiva sfinita dalle continue emozioni, << È stata una delle giornate più piacevoli della mia vita >>.
Il signor Fogg la guardò negli occhi per un tempo un po’ più lungo della solita manciata di secondi, << In merito alla vostra nostalgia, ho da augurarvi che non stiate rimpiangendo troppo il vostro defunto marito... >>.
Aouda non riuscì a non sgranare un poco gli occhi ad una tale affermazione, << Il Raja? >>, chiese, come se quella supposizione fosse assurda, << Lui... no. Lui... non era un uomo buono, che una sposa possa rimpiangere >>.
<< Capisco >>, mormorò il signor Fogg.
Quella scusa si stava rivelando davvero infelice, pensò Aouda. Pareva che Phileas Fogg si stesse interrogando troppo sulla natura della sua malinconia, e la cosa le dispiaceva, perchè non voleva che se la prendesse così a cuore per una innocente bugia.
Decise di ribadirgli i fatti, di sua bocca, così che si mettesse l’anima in pace su quell’argomento.
Fogg però la precedette, << Pensavo... >>, riprese, quasi un poco incerto, << Visto che la vostra malinconia è cominciata quando avete rimosso del tutto il segno del vostro status matrimoniale... >>.
Oh, cielo. Disperò Aouda, senza sapere esattamente se essere lusingata o frustrata da quella logica ferrea che aveva portato il suo salvatore ad una conclusione così plausibile.
<< Non lo sposai di mia volontà >>, gli raccontò, a mezza voce, << Egli scelse me perchè ero la cittadina in età da marito con più beni a Bombay. Aveva  ottant’anni. Ed era già malato quando furono pronunciati i voti. Tre mesi dopo morì, ed io fugii, sapendo che destino mi aspettava. Rimasi tre giorni a vagare nelle foreste, mentre la fame mi attanagliava. Mi trovarono perchè ero disidratata e debole. Decisero di drogarmi, per evitare che fuggissi ancora >>.
Quando finì il suo breve riassunto, le parve che il signor Fogg avesse aggrottato un po’ le sopracciglia, come se immaginasse che lei fosse ancora sperduta e ricercata in India. Era sera tardi, però, e le luci del corridoio tenute basse, perciò Auda non fu esattamente sicura di quel minimo segnale di interesse.
<< Adesso però sono al sicuro, e non rimpiango più la mia terra. Ho deciso di andare verso il futuro >>, mise in chiaro.
Il gentleman annuì, quasi fra sè, << Molto bene >>, disse soltanto. La voce era ferma, pacata. Come sempre.
<< Vi ringrazio di esservi preoccupato, comunque >>, aggiunse Aouda.
<< Dovere >>, rispose il gentleman, raddrizzando la schiena e riassumendo il suo atteggiamento compunto, << Passate una buona notte, Aouda >>.
Lei annuì, un po’ abbattuta, << E voi, signore >>. Phileas...
L’inglese rimase per un attimo a guardarla, rigirandosi il cilindro fra le mani, più con noncuranza che con imbarazzo, quindi annuì ancora e calzò il cappello con gesto austero ma elegante, voltandosi e incamminandosi col suo passo calmo e regolare, senza aggiungere niente.
Aouda rimase sulla porta  e lo guardò scomparire in fondo al corridoio, quindi si decise a ritirarsi a sua volta.
Si tolse la pelliccia, e si inoltrò, slacciando la sopragonna, ricordandosi solo in quel momento che nella tasca di quest’ultima si trovava ancora il fazzoletto del suo salvatore. Lo riprese di corsa e lo accostò al viso, come aveva fatto quando la musica e la vicinanza di lui l’avevano commossa fino alle lacrime. La seta, riscaldata dal calore del corpo dell’uomo, le aveva bruciato la pelle, o così le era sembrato in quel momento così totalizzante, quando aveva sentito il leggero profumo della sua colonia che oramai le era così familiare e caro. Anche ora, l’oggetto era capace di infiammarle i sensi.
Sono sfuggita al rogo solo per bruciare di un altro fuoco... , si disse.
Mentre si svestiva per la notte, decise di non dare ai lavandai del battello il prezioso rettangolo di stoffa perchè fosse lavato. Il signor Fogg le aveva detto che poteva tenerlo, e così avrebbe fatto.
Quando fu sotto le calde coperte, la sua mente le rimandò tutti i più piccoli particolari della serata. Prima che il concerto iniziasse, mentre entravano nella sala, gli altri passeggeri, quelli imbarcatisi in Giappone, li avevano guardati con occhiate compiaciute, e non con malizia, come se fossero una coppia normale... una coppia effettiva. E potevano ben esserlo; Aouda era giovane, ma non aveva certo l’aspetto di una ragazzina, mentre il signor Fogg aveva l’aria di un uomo adulto, seppur piuttosto giovanile, al quale si potevano attribuire al massimo quarant’anni, non di più. Erano perciò, nel complesso, una coppia più che plausibile.
Sorrise al ricordare come, durante un brano, egli aveva iniziato a tamburellare piano con le dita sul bracciolo della poltrona, seguendo il ritmo della melodia. Non immaginava che gli piacesse così tanto la musica, che conoscesse molte delle canzoni eseguite dal pianista quella sera. Era così contenta di aver scoperto quella novità che rise ancora fra sè, rigirandosi sul materasso e tornando invece all’attimo nel quale lui le aveva sfiorato la mano quando le aveva permesso di tenere il fazzoletto. Quel tocco così diverso da una stretta di mano... il calore del quale la addormentò in pochi istanti, con la morbida seta ancora stretta nel pugno.
  
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