Libri > L'Attraversaspecchi
Segui la storia  |       
Autore: MaxB    25/04/2020    8 recensioni
Ossessionata dalla saga de La Passe-Miroir, non riesco a pensare ad altro da settimane.
E ho bisogno di approfondire alcune scene dei primi tre (e spoiler del quarto) volumi.
Ci saranno missing moments, scene descrittive relative a Thorn, soprattutto alla sua infanzia, e immersioni nei dialoghi tra Ofelia e Thorn, per come me li immagino io. Ed eventuali scene mancanti che ci starebbero bene.
Per possibili spoiler sul quarto volume verranno dati avvisi in cima alla pagina.
Aggiornamento irregolare.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Eccomi qui! Premetto subito che il capitolo è stato scritto dietro "richiesta" di Cheodionicknam, Tati Saetre, Carla_995 e in piccola parte di Drastoria47, per la quale rispetterò meglio la richiesta nel prossimo capitolo^^ Grazie per avermi espresso la vostra preferenza, è stata molto utile.
Il capitolo si basa sulle pagine 250 in poi del libro terzo, La memoria di Babel, capitolo Spaventapasseri, quando Ofelia incontra Thorn.
Ho cercato di rendere come ho potuto la vita di Thorn lì al Polo, i suoi pensieri e le sue abitudini, ricostruendo uno scenario ipotetico (spero che sia anche coerente) sulla base di queste informazioni:
- Thorn odia il fatto che Dio tenga sott'occhio Ofelia. E' la ragione per cui Ofelia lo vede sempre in tensione: Thorn prova una rabbia divorante per Dio
- Nel volume 4 c'è una parte, non vi faccio spoiler eh, in cui Thorn fa riferimento alla sua mania di lavarsi le mani, che ho un pochino trattato qui
- Nel capitolo Thorn pensa spesso ad Ofelia e questo fatto non è incongruente con la sua personalità se valutiamo il fatto che alla fine del libro terzo lui dice di non volere mezze misure, e che nel corso della storia più volte le chiede se ha qualcosa da dirgli: Thorn è un uomo e come tale vorrebbe starle vicino in quel senso. Quindi la pensa. Spesso (a mio parere)
Spero di aver giustificato in parte ciò che leggerete, e che la mia visione non si discosti troppo dalla vostra.
Grazie mille a tutti in anticipo.


6. Trois jours

Thorn attese pazientemente, contando automaticamente i secondi che passavano. La sua Memoria comportava anche questo: l’eccessiva attenzione al dettaglio, il calcolo della misura di ogni superficie che incontrava, lo scandire automatico e insito dello scorrere del tempo. O forse era una sua peculiarità, estranea agli Storiografi?
Thorn non lo sapeva, e non lo avrebbe mai saputo. A chi poteva chiederlo, lì, nella stanza dell’Ordinatore, al Memoriale, a Babel? Non avrebbe potuto chiederlo nemmeno a qualcuno del Polo, a dire la verità. Per un istante, un fugace secondo, s’immaginò in una conversazione superficiale e frivola con i suoi cugini da parte di madre, gli stessi che lo avevano attaccato a Sabbie d’Opale, al circo, una vita prima. Con…
Era ovvio che non avrebbe mai potuto fare domande circa il suo potere familiare ai suoi parenti. Non aveva mai potuto chiedere nulla a nessuno, nella vita, e aveva imparato a sbrigarsela da solo, a non contare su nessuno se non su se stesso, ad essere indipendente. Tutte le volte che aveva cominciato a fare affidamento su qualcuno, quel qualcuno era sparito o lo aveva tradito, ferito. E la persona che più di tutte desiderava rivedere…
Scosse la testa. Due anni, otto mesi e ventun giorni erano trascorsi da quando si era dato alla fuga, con una gamba ridotta in pezzi e il cuore straziato.
Irritato con se stesso, si alzò di scatto. Non voleva pensare a quelle cose. Non doveva pensare a quelle cose. Non poteva permettersi distrazioni. Aveva una missione, uno scopo, un obiettivo, e il tempo che scorreva inesorabile era agli sgoccioli.
Mosse le dita infilate nel guanto d’arme pesante e protettivo per portarle al taschino dove per undici anni, due mesi e cinque giorni aveva risieduto stabilmente il suo orologio, come una parte del proprio corpo. Poi gli sovvenne che il regalo di sua zia non si trovava più lì da quando lo aveva ceduto a…
Avrebbe voluto dire, avrebbe tanto voluto affermare che lei gli tornava in mente solo quando, distratto, si accingeva a prendere un orologio che non c’era, ricordandosi in quel momento che lo aveva lei. Ma sarebbe stata una bugia. A Thorn lei tornava in mente ogni giorno, ogni ora, spesso ogni minuto, più di quanto avesse voglia di ammettere o riuscisse, lui con la sua Memoria portentosa, a ricordare. Solo quando si concentrava sull’Ordinatore non la pensava, ma nel momento in cui si staccava lei arrivava di soppiatto e reclamava la sua attenzione prepotentemente. Attribuiva tutta la colpa, ancora, alla sua Memoria, che gli impediva di dimenticare, facendogli rivivere nitidamente ogni istante trascorso con lei. Anche in quel caso però, non aveva nessuno a cui chiedere conferma dei suoi sospetti. Le persone col tempo dimenticano. Lui no. Fortunatamente, perché ricordare era l’unico sprone per continuare ad avanzare, lavorare per proteggerla, e per poterla rivedere, un giorno. Solo, ovviamente, nel caso in cui anche lei si fosse ricordata di lui.
Mano a mano che indugiava in quei pensieri futili e devianti il suo umore peggiorava. Si tolse i guanti, posandoli sul banco di lavoro dove la macchina taceva, in attesa di ricevere o spedire ordini. Era una macchina utile, doveva ammetterlo, ma ancora non abbastanza performante. Il margine di miglioramento era ampio, troppo ampio, e in quei due anni gli sembrava di aver fatto meno progresso di quanto avrebbe voluto. I Genealogisti attendevano.
Assicuratosi che nessuno gli avesse effettivamente spedito nuovi riferimenti, traduzioni o annotazioni, e che quindi era tempo per lui per riposare, si allontanò in uno sferragliare metallico che gli feriva le orecchie. Ci aveva fatto l’abitudine, ormai, a quella sottospecie di protesi, ma la sua presenza lo disgustava, rammentandogli ciò che un tempo era e non sarebbe più potuto essere. In quel momento era uno storpio. In quel momento e per il resto della sua vita. Non c’era alcuna possibilità di guarigione, la sua gamba era stata distorta troppo malamente perché potesse tornare ad essere quella di un tempo.
Arrivato in fondo alla stanza aprì la porta della sua stanza, adiacente alla sala da lavoro per praticità e risparmio di tempo. Oltretutto, lo disturbava dover percorrere lunghi tragitti in quelle condizioni menomate. Non era certo per un motivo di ego: sapeva che tutti, quando camminava, lo guardavano, lo additavano e chiacchieravano, ma quella non era mai stata una novità. Lo avevano soprannominato “automa”, un appellativo che, paragonato a quelli che gli avevano propinato al Polo, era persino lusinghiero. Decisamente meno sprezzante di “bastardo”. Ma non era quello il problema. Tollerava i commenti altrui, gli scorrevano addosso senza scalfirlo; era il suo giudizio che non accettava. Il supplizio di sentire l’armatura scricchiolare, deriderlo, limitarlo.
La sua mente stava vagando troppo, Thorn se ne rese conto con fastidio. Il chiaro segno che aveva bisogno di riposare. Era sveglio da venti ore e trentasei minuti. In ventiquattro minuti avrebbe dovuto lavarsi e coricarsi per dormire quelle tre ore che si concedeva come riposo. Gettò una veloce occhiata all’alloggiamento fantopneumatico che conteneva la cena che avrebbe dovuto consumare circa sei ore prima. Non aveva fame, e la vista di quella massa informe di alimenti fantomizzata non gli faceva certo venire l’acquolina in bocca. Ma lui era un tipo pratico: non consumare la cena significava non avere abbastanza energie per nutrire il suo cervello, che aveva bisogno di calorie per lavorare al massimo della sua capacità e forza. In secondo luogo, lasciare quella pappa informe lì costituiva uno spreco, nel caso in cui non l’avesse ingerita, e un accumulo, quando a distanza di poche ore gli sarebbe stata fatta pervenire anche la colazione. Decise di includere il pasto in quei ventiquattro, anzi, ventritre minuti e quarantadue secondi che gli rimanevano prima di potersi coricare.
Si diresse senza esitazioni verso il ripiano dove teneva tutti i disinfettanti del caso. Svitò la boccetta di alcol farmaceutico, sperando che quell’odore penetrante gli schiarisse la mente annebbiata dalla stanchezza, e si sistemò sopra la bacinella per versarsi il liquido sulle mani. Le guardò senza vederle, odiandole, con quelle cicatrici sui polsi e le lunghe dita ossute e pallide, disgustanti. Quella di disinfettarle era diventata un’abitudine solo di recente, da quando aveva dovuto cominciare a maneggiare manoscritti antichi, fragili, e l’idea di contaminarli con le sue mani sporche lo aveva spaventato. Solo in seguito la sua era diventata un’ossessione: come rischiava di contaminare la carta, il mondo contaminava lui con la sua stessa aria, i microbi e i pensieri altrui. E lui voleva rimanere integro, pulito, così come desiderava eliminare la sporcizia da sé.
Era passato dal non voler rovinare i libri antichi a voler proteggere se stesso dagli agenti ambientali esterni e infine al voler purificare se stesso. Cosa impossibile. Non ci sarebbe mai riuscito. Ma l’idea che le sue mani potessero comunque essere meno sporche lo tranquillizzava, aveva un effetto catartico su di lui. Come se potesse rimuovere le incrostazioni che aveva nell’animo e rendersi adatto a lei, essere abbastanza: rimuovere il sangue che aveva macchiato quelle mani, le morti, l’odio, la malvagità. Erano pensieri irrazionali, ne era consapevole. Non si poteva redimere un assassino solo lavandogli le mani, ma in quei gesti meccanici e nell’odore penetrante del disinfettante trovava una sorta di pace. Un giorno sarebbe riuscito a fare così anche con se stesso, e sarebbe stato degno di lei, forse.
Chiuse la boccetta di alcol e mise via la bacinella, poi andò a lavarsi e cambiarsi, mangiò e si disinfettò ancora. Gli era avanzato un minuto: aveva tre ore e un minuto per dormire e recuperare le energie. Nel momento in cui toccò il cuscino, però, capì che non sarebbe riuscito a prendere sonno. La sua mente continuava a vagare tra i paesaggi del Polo e di Anima, della sua casa, del suo ufficio all’Intendenza, ovunque ci fosse lei. Doveva essere più stanco del previsto. Oltre ad un calo d’efficienza cerebrale, comunque, la mancanza di riposo garantiva ai suoi artigli fuori controllo maggior spazio d’azione, e quella era di gran lunga la cosa peggiore che potesse accadere. Gli serviva energia per imbrigliare il suo potere familiare, che aveva cominciato a ragionare di testa propria da quando, alla cerimonia del dono, aveva ereditato l’animismo di... Ofelia.
Ofelia.
Tra tutte le cose che poteva trasmettergli, gli aveva trasmesso la sua mancanza di disciplina, la sua capacità di influenzare gli oggetti con il suo stato d’animo. E gli artigli erano un oggetto in fondo: erano un’arma.
Indispettito, si alzò dal letto e si diresse verso l’armadio. Spostò le grucce a cui erano appese le camicie e osservò i nastri perforati al suo interno, sbarrati da una croce nera. I suoi fallimenti. Gli era rimasta solo una possibilità, il registro di portineria che la nuova apprendista di cui non gli interessava niente, Mediana, si stava adoperando per decifrare.
Era la sua ultima possibilità. Se nemmeno quello avesse contenuto l’informazione che gli serviva, i Genealogisti lo avrebbero fatto sparire. Thorn dubitava che il loro toglierlo dalla circolazione si limitasse ad una stretta di mano di ringraziamento per il lavoro svolto e un biglietto per un’aeronave diretta al Polo.
Toglierlo dalla circolazione significava fare in modo che nessuno, mai, potesse mai più trovarlo.
Lui non avrebbe più fatto ritorno in patria.
Non avrebbe più rivisto sua zia Berenilde o la cuginetta che si stava prodigando per crescere.
Non avrebbe più visto Ofelia.
Sua moglie.
Si lasciò sfuggire un mezzo sospiro di esasperazione.
Doveva essere davvero, davvero al limite della stanchezza se il suo cervello gli faceva baluginare in mente quell’appellativo. Moglie. Per quanto fosse corretto, dal momento che lui e Ofelia si erano effettivamente sposati, il matrimonio non era stato consumato, e non aveva un’effettiva validità.
Si alzò di scatto, rovesciando lo sgabello. Aveva tolto l’armatura di sostegno nel momento in cui si era coricato, così ora si stava appoggiando sulla gamba sana mentre caricava meno peso su quella storpia, ma percepiva lo stesso il dolore e le ossa distorte, in alcuni punti polverizzate.
Accolse quel dolore come una redenzione e insieme una punizione per i suoi pensieri, e smise di trattenere gli artigli. Era così stanco... animato solo dalla rabbia, che gli scorreva nelle vene al posto del sangue, mentre il ricordo del viso intristito di Ofelia, così sinceramente preoccupato per lui, gli faceva battere il cuore e spingere quel livore nel resto del corpo, ad alimentarne gli organi. Sentiva gli artigli saggiare l’ambiente, in cerca di minacce, famelici e mostruosi, e desiderò, li implorò, di colpire lui, di devastarlo, di ferirlo. Ma se c’era una cosa che non poteva fare era rivolgerli contro se stesso, sfortunatamente.
Non si azzardò a guardare l’orologio quando si fu calmato. La mascella era così contratta da scricchiolare, e temette che fosse diventata insensibile quando la mosse per appurarne il corretto funzionamento. Gli artigli si erano placati, e ora si muovevano pigramente attorno a lui, quasi compatendolo. Si trascinò fino al letto e ci si lasciò cadere sopra, senza coprirsi, senza muoversi, esausto. Chiuse gli occhi e cercò di addormentarsi ricorrendo all’unico pensiero, immaginario, che riusciva a distendergli i nervi: quello di avere Ofelia accanto a sé.
Arginò il resto e si concentrò sul suo volto, dipingendola accanto a sé, vigile, che lo osservava senza occhiali, serena accanto a lui. Sapeva che era solo una fantasia deleteria, ma era l’unica cosa in grado di spingerlo a proseguire nel suo piano, in quell’arca, in quella vita.
Si sentì solo come non era mai accaduto, ma il ricordo di Dio, della sua minaccia, gli diedero la volontà di dormire.
E così fece.
 
Due ore e mezzo dopo si alzò di soprassalto, più concentrato e meno... sentimentale. Odiava indugiare in quelle emozioni degradanti e avvilenti, ma quando la sua mente era stanca non c’era nulla in grado di contenerne i pensieri vorticanti, a migliaia, ingigantiti dalla sua Memoria, che si agitavano come vermi indistinti.
Il suo filone di pensieri riprese da dove si era interrotto la sera precedente, ma mentre si disinfettava, si lavava, si vestita, ingurgitava quella sbobba fantomizzata e di disinfettava di nuovo, lasciò che si allontanasse da Ofelia per dirigersi verso Dio.
La sua rabbia crebbe a dismisura come se avesse gettato benzina sul fuoco, e si sentì pervaso da una carica che la sera precedente avrebbe giurato di aver perso. Così come il ricordo del viso di Ofelia lo aiutava a dormire, il ricordo di Dio e del loro incontro lo aiutava a rammentare perché era lì, perché era così importante ciò che faceva: doveva distruggerlo.
Tenerlo lontano da Ofelia. Ecco qual era il suo nobile scopo, il suo tentativo di restituire i dadi al mondo. In realtà, avrebbe rinunciato a tutto pur di sapere che Ofelia era al sicuro, che nessuno l’avrebbe mai più cercata o infastidita, di certo non quell’essere immondo che aveva promesso di non perderla d’occhio.
Di non perdere d’occhio lei, Ofelia. Sua moglie.
Pervaso da quella scarica di adrenalina, mentre la violenza di quell’odio imperversava in lui, chiuse la porta della sua stanza e riprese posto all’Ordinatore, infilandosi i guanti e riprendendo il lavoro da dove lo aveva interrotto la sera prima.
Un'ira funesta era assai più vantaggiosa di una nottata di sonno: ti manteneva sveglio più a lungo, ti dava più energia. Ti elettrizzava.
Thorn sapeva che, a lungo andare, quella determinazione lo avrebbe prosciugato, ma non gli importava. Aveva rinunciato alla felicità da molto tempo, forse non l’aveva mai nemmeno contemplata nel suo futuro. Però sapeva anche che, per quanto deleteria fosse la forza che l’odio concedeva, nel suo cuore albergava un germoglio di speranza che gli avrebbe impedito di crollare.
Si crogiolò in quella consapevolezza per un istante prima di mettersi le cuffie e spegnere il cervello su ogni questione secondaria.
Ofelia.
Non la pensò più per ore, diventando una macchina egli stesso. Aveva un obiettivo da raggiungere.
 
 Thorn interruppe il suo lavoro quando una voce sgradevole e autoritaria gli ronzò nelle cuffie, interrompendo maleducatamente e brutalmente una richiesta di riferimento da parte di un apprendista volenteroso.
La voce di Lady Septima.
Thorn ascoltò la comunicazione in silenzio, desiderando tirare un pugno alla superficie dell’Ordinatore per sfogare la propria frustrazione, ma il gesto, per quanto liberatorio, sarebbe stato più controproducente che altro. Doveva controllarsi, nonostante la pessima notizia e il tono saccente della sua interlocutrice. Era compito di quest’ultima prendersi cura dei propri allievi, ma lui ne pagava le conseguenze.
Lady Septima era un’incompetente come tutti gli altri. Anche qualcosa di più. Sì, perché lei era obnubilata dall’orgoglio e dall’arroganza, dalla considerazione poco obiettiva e spropositata di sé come superiore a chiunque. Thorn aveva notato le occhiate bieche e sdegnate che gli lanciava quando non poteva fare a meno di condividere il suo stesso spazio, l’opinione bassa e sdegnata che aveva di lui era palese nei suoi occhi. Il sentimento era reciproco.
Si era aspettato un giorno come gli altri: avrebbe lavorato una ventina di ore, sperando che non ci fossero visite o messaggi a sorpresa da parte dei Genealogisti, avrebbe consultato brevemente l’apprendista che stava esaminando l’ultimo manoscritto che poteva servire al suo scopo, avrebbe continuato a lavorare e poi, come la notte precedente, avrebbe dormito tre ore e ricominciato. Non aveva tempo di soffermarsi a riflettere su quanto noiosa e abitudinaria fosse quella vita. Non gli interessava. La noia non era mai stata una condizione cambiabile, un’incognita. Era un dato di fatto, e lui l’accettava per ciò che era. Ma quando in ballo c’era il destino del mondo, il destino di Ofelia, la noia era un carburante, non un intralcio.
Invece il programma per la sua giornata era stato cambiato brutalmente, distrutto, e ora doveva arginare il nervoso che lo assaliva come un’onda ogni qualvolta qualche incompetente svolgeva un lavoro che non era chiaramente in grado di portare avanti.
Staccò le mani, che nel frattempo avevano continuato a volare su pulsanti e manovelle dell’Ordinatore, lasciando che Lady Septima perdesse la pazienza. Non gli importava, non godeva nel farla attendere, ma doveva meditare su cosa dire per non risultare troppo offensivo: Lady Septima era pericolosa, di ciò era sicuro.
- Come intendete sopperire a questa mancanza?
Thorn poté quasi sentire, al di là delle cuffie fino all’interfono da cui la donna stava parlando, la sua stizza. Quella situazione le piaceva poco quanto a Thorn, ma lei non sapeva nulla dell’importanza di quel compito.
Gli aveva appena comunicato che Mediana, l’apprendista che si stava occupando, in maniera abbastanza meticolosa, doveva riconoscerlo, dell’antico registro di portineria, era stata vittima di un incidente. Un colpo apoplettico. Un altro. La cosa non gli quadrava al cento per cento, ma di certo non aveva tempo e risorse da spendere in un’indagine. Per un istante gli balenò in mente l’investigazione che aveva condotto con Ofelia a Chiardiluna, il modo in cui avevano collaborato. Vinto. Ma il pensiero si ritirò subito, tornando al suo posto. Non era importante in quel momento.
Doveva sostituire una recluta che stava facendo un buon lavoro. Come intendeva procedere Lady Septima?
- Vi presenterò un’altra apprendista. Vi chiamerò tra poco, non appena riuscirò a mettermi in contatto con lei, così che possiate vederla e spiegarle il lavoro.
- Sarà all’altezza?
La voce di Lady Septima, che non celava il suo furore bene quanto Thorn, era palesemente irritata, la risposta mordace. – I miei allievi sono sempre all’altezza, sir Henry. Io svolgo bene il mio lavoro, so qual è il mio posto, e ottengo dei risultati.
Ogni singola lettera era intrisa di veleno, a cominciare dal nome che aveva pronunciato con tanto sdegno. Non scalfì minimamente Thorn, in alcun modo: né per l’acredine, né per l’allusione al fatto che lui non aveva ancora trovato ciò che cercava. Poco importava, ci sarebbe riuscito. Stava per riuscirci. Era compito di quella donna procurargli del personale in grado di assolvere ai propri incarichi.
- Me lo auguro. Attendo la convocazione.
Chiuse la linea di comunicazione con Lady Septima e strinse i pugni. Aprì simultaneamente un’altra linea e ordinò un rapporto completo e aggiornato della situazione di catalogazione a cui erano arrivati, chiedendo che gli venisse fatto pervenire tramite Lady Septima. Successivamente ricominciò a lavorare, rispondendo alle richieste che si erano accumulate, in fila una dietro l’altra, mentre lui discuteva con la professoressa di specializzazione. Il suo dialogo di un minuto scarso aveva comportato un accumulo di ben venti richieste di riferimenti.
Le sue mani volarono sui pulsanti, più veloci di prima, mentre a voce rispondeva senza una sbavatura di insicurezza a tutte le domande postegli.
Pochi minuti dopo si era rimesso al passo, e il suo cervello aveva cominciato a riflettere sulle conseguenze del malore dell’apprendista virtuosa. Non gli interessava granché di lei, ricordava il suo nome, Mediana, solo grazie alla sua infallibile Memoria. Ma una cosa era certa: c’era sotto qualcosa. Non era possibile che due persone cadessero vittima di un colpo del genere nell’arco di poco tempo. Era una casistica contraria ad ogni legge combinatoria, ergo: non era un caso. Più di quello, però, lo preoccupava il ritardo che quel piccolo inconveniente avrebbe portato alla sua tabella di marcia. Il tempo era agli sgoccioli, i Genealogisti attendevano un riscontro positivo. Positivo, o nulla, lo sapeva bene. Nessun margine di errore, e nessuna proroga alla scadenza.
Mediana si era portata a buon punto, e ora si trovava a dover delegare il lavoro ad un’altra, che non sapeva nemmeno come cercare e non era al pari di quell’apprendista infortunata. Sapeva che non sarebbe stata alla sua altezza, perché Lady Septima reclutava sempre i migliori allievi per quei lavori. In ordine di meriti e risultati. Se Mediana era stata scelta prima dell’apprendista che gli avrebbe presentato a breve, significava che era più capace di lei. Quindi la prestazione lavorativa che si aspettava sarebbe sensibilmente calata, era un dato di fatto.
Accantonò quel pensiero dopo essere arrivato ad una chiara conclusione: non poteva farci nulla. Lui stesso non aveva le capacità o gli strumenti per decifrare quel manoscritto antico, e quello che più gli serviva era uno sguardo vergine. Lui non ce l’aveva, preda di mille congetture com’era, influenzato dai risultati che doveva e pensava di ottenere.
Continuò a lavorare, senza badare all’ora o al pasto che aveva saltato diverso tempo prima, concedendosi giusto una breve pausa per andare in bagno. Poteva capire perché gli avevano affibbiato l’appellativo di automa: era una macchina da lavoro, con un sostegno meccanico alla gamba. Si rifiutava di chiamarla protesi. Un’armatura. Ma sembrava soprattutto una macchina, lo sapeva, eppure era insito nel suo modo di essere. L’importante era raggiungere gli obiettivi prefissati. Il resto era una perdita di tempo.
- Sir Henry.
La voce che lo aveva chiamato, abbastanza alta da sovrastare il rumore dei macchinari che producevano e archiviavano dati a pieno regime, era indubbiamente quella di Lady Septima. Thorn non si girò finché non ebbe risposto anche all’ultima richiesta e comunicato a chi di dovere che si assentava per un periodo che sperava non fosse superiore ai trenta minuti.
Trenta minuti. Quelli sì che erano un vero spreco di tempo.
Alla fine si voltò verso Lady Septima, si alzò, maledicendo lo stridore metallico che fece mutare lo sguardo della precettrice da insofferente a malignamente soddisfatto, e la raggiunse, desideroso di rimettersi al lavoro quanto prima. Lady Septima gli allungò con un gesto altezzoso il rapporto che lui aveva richiesto dopo la loro comunicazione di qualche ora prima, circa l’andamento del lavoro di archiviazione. Aveva bisogno di fare il punto della situazione. Mentre seguiva la donna seppellì il lungo naso in quei fogli, leggendo minuziosamente le informazioni riportate per aggiornare la propria tabella di marcia. Si accorse a malapena di essere entrato in un ascensore, perché rischiò di sbattere la testa, alto com’era, e dovette arcuarsi per poter stare in quello spazio angusto. Del resto, non si era certo aspettato che la professoressa lo avvertisse. Era pronto a scommettere che quella piccola donna avrebbe goduto nell’osservarlo procurarsi un dolore fisico, e sentì i suoi artigli reagire di conseguenza.
Dovette impiegare ogni briciolo di volontà che aveva per trattenerli dall’infastidire Lady Septima, bramosi com’erano di violenza. Lo disgustavano. Si rintanò nell’angolo più lontano.
Arrivarono alla sala di consultazione prima di quanto previsto, ma Thorn non aveva ancora finito di studiare il documento di riepilogo e non accennò ad alzare il viso. Tanto meno lo sguardo. Sfogliò le pagine in fretta, cercando di farsi un’idea generale delle cifre che venivano trattate. In alcune sezioni c’erano delle gravi carenze di personale e materiale mentre in altre un sovraffollamento. Questo comportava uno sbilanciamento nell’impiego delle risorse, avrebbe dovuto farlo presente quanto prima a chi di dovere in modo tale da poter procedere con ordine. Voleva dare un’occhiata ai grafici…
Non si accorse nemmeno del gesto che Lady Septima fece, mentre gli indicava l’apprendista in mezzo alla stanza. Percepì solo il freddo invadere lo stretto ascensore. Se avesse avuto un secondo libero avrebbe sospirato, impercettibilmente, ma avrebbe sospirato: il freddo era una delle poche cose che considerava piacevoli. Era catartico, lo faceva sentire vivo. Gli avevano reso il Polo vivibile. Non come quel calore insopportabile e appiccicoso, per nulla decoroso, che c’era a Babel.
Ma non aveva il tempo per pensarci.
Lady Septima stava parlando, e lui stava ovviamente registrando quanto aveva da dire, ma c’erano delle priorità: i grafici riportavano dati e risultati disastrosi. Gli importava poco di accertarsi di chi fosse la recluta di Lady Septima. Le scadenze non sarebbero state rispettate, di quel passo, e la produzione sembrava essersi arenata e aver cominciato una lenta e inesorabile discesa.
- Siamo troppo in ritardo sul calendario previsto. I Genealogisti finiranno per esigere spiegazioni – annunciò, mantenendo l’accento di Babel senza sforzo. La sua Memoria aveva tanti difetti, tra cui la probabile tendenza a renderlo ossessivo-compulsivo, ma tornava indubbiamente utile per le lingue.
Chiuse di scatto il rapporto, dopo averlo visionato: deludente. Doveva incrementare il lavoro in qualità e quantità. A partire dalla sala in cui stava per entrare. Aveva già rischiato di perdere un manoscritto a causa della temperatura elevata, il freddo che lo aveva investito era gelido rispetto all’esterno, ma decisamente tiepido rispetto al livello di temperatura necessaria per mantenere quegli antichi registri in buono stato.
- Peraltro, ho bisogno che i Negromanti vengano qui con la massima urgenza. Temperatura e tasso di umidità sono troppo alti nell’emisfero orientale del Secretarium. Stiamo perdendo personale, evitiamo di perdere anche collezioni.
Mentre pronunciava quell’ordine, uscì dall’ascensore per dirigersi verso il manoscritto posto sul leggìo. Sperava ardentemente che quel registro di portineria contenesse l’informazione chiave che stava cercando. Il fallimento avrebbe avuto conseguenze catastrofiche per l’intera umanità: nemmeno un’arca sarebbe stata risparmiata. Tanto meno…
Si lasciò distrarre dal rumore metallico dell’armatura mentre camminava. L’aveva regolata male, quella mattina se l’era infilata in fretta e ora quel sostegno cigolava da tutte le parti, lamentandosi. Alla fine decise di ignorarlo, così come ignorava lo sguardo di malcelato ribrezzo negli occhi di Lady Septima. Si chinò sul leggìo, per prendere visione personalmente del punto in cui erano arrivati, e ne voltò una pagina. Mediana aveva fatto un buon lavoro, ma la nuova recluta avrebbe saputo fare altrettanto? Intravide l’apprendista con la coda dell’occhio, nascosta nel buio. Poco gli importava che faccia avesse.
Si rivolse brevemente a Lady Septima per sapere ciò che davvero contava: - La recluta conosce le lingue antiche?
- No, sir. Tuttavia penso che sia in grado di svolgere i compiti dell’apprendista Mediana. È un’Animista, una lettrice.
Thorn si dedicò nuovamente ad ispezionare la pagina che teneva con la punta delle dita inguantate, per un secondo senza vederla. Un’animista. Una lettrice.
Lui conosceva forse l’unica lettrice in grado di assolvere quell’incarico. Nessuno sarebbe stato bravo quanto lei. Sua zia l’aveva accuratamente scelta per lui. Cercò di calmarsi per evitare di polverizzare quella pagina delicata. Si soffermò invece sul resto del testo, rovinato e irrecuperabile, almeno per lui.
- È in grado di recuperare il testo mancante?
- No, sir. Ma potrebbe ricostruire la sostanza penetrando nella percezione di quelli che l’hanno letto. Idealmente, di colui che l’ha scritto.
Non era una cattiva idea, e gli diede così tanto da pensare che non badò nemmeno per un istante allo sguardo di fuoco di Lady Septima sul suo gambale. Lo avrebbe sempre considerato inferiore, indegno, un’aberrazione. Poco importava, era abituato ad essere considerato così da tutta una vita. Il suo pensiero corse ad Ofelia, di nuovo, in pieno giorno, mentre era concentrato su una conversazione e una questione della massima urgenza.
Ofelia sarebbe stata in grado di penetrare quelle intenzioni. Era la lettrice migliore, e per un istante gli sovvenne quando aveva dovuto leggere anche lui, nel suo ufficio dell’Intendenza, in un’altra vita, quando aveva preso in mano una lettera dei suoi familiari. La corrispondenza trafugata. Possibile che…?
No, era impossibile che la recluta fosse proprio lei. Come avrebbe potuto trovarlo? Non aveva lasciato tracce, Ofelia non aveva i mezzi per riuscire nell’intento. Lui era su un’altra arca, con un’altra identità, usciva raramente e stava tutto il giorno nella sala dell’Ordinatore a lavorare. Era impossibile che Ofelia fosse la recluta. Sfidava ogni casistica e probabilità. Era un risultato matematicamente non raggiungibile. Doveva rimanere concentrato, smetterla di lasciar vagare la mente. Cercò di focalizzare le questioni fondamentali. Tra cui, la scomparsa della precedente apprendista. Ancora.
- Dov’è attualmente l’apprendista Mediana?
Attese la risposta mentre controllava gli appunti lasciati lì e i rapporti di traduzione. Di sottecchi fissava Lady Septima, cercando di carpire la risposta alla domanda non solo con l’udito, ma anche con la vista. Chi non aveva il controllo di sé lasciava trapelare col proprio linguaggio corporeo più di quanto avrebbe mai voluto ammettere.
Mentre con la precettrice intercorreva quello scambio di battute, Thorn sentì montare in sé la rabbia, quella che lo alimentava, come sempre. Lady Septima rispondeva implacabilmente alle sue domande, alle sue osservazioni, senza balbettii o tentennamenti di alcun tipo. Se sapeva qualcosa non lo lasciava a vedere, eppure… due incidenti non potevano essere un caso. Avrebbe dovuto indagare, ma non poteva: non aveva letteralmente tempo. Il disdegno e l’altezzosità di Lady Septima non aiutarono di certo la sua irritazione a placarsi, e per un attimo a Thorn sembrò che la donna fosse dotata di un tipo di artigli diverso, capace non di ferire, ma di portare al limite della sopportazione qualcuno.
Doveva tranquillizzarsi. Tornare padrone di sé. Da quella pomposa professoressa non avrebbe ottenuto alcunché. Continuavano a squadrarsi con rigidità, sebbene lei non facesse nemmeno lo sforzo di guardarlo in volto. Gli fissava la gamba, cercando di sminuirlo, di farlo sentire inadeguato. Come se una gamba potesse essere fondamentale. Avrebbe potuto vivere senza entrambe le gambe con facilità, anche se non avrebbe gradito molto la cosa. A Thorn occorse uno sforzo immane per contenere l’odio che provava e non lasciarlo trapelare dai suoi occhi.
Controllo. Doveva controllarsi.
Ordinò più turni di lettura, concordando con Lady Septima la direzione da intraprendere. Ritmi più serrati e controlli più rigidi. Alla controbattuta della professoressa, Thorn non poté fare a meno di ribattere causticamente, sottolineando l’evidenza che quella donna tanto orgogliosa voleva rifiutarsi di vedere.
- Basta che ciò non influisca sulla cura del dettaglio. I vostri allievi commettono ancora troppe imprecisioni, e non mi riferisco agli errori di codifica.
Era un duro colpo per Lady Septima, ma era una certezza, e lui non avrebbe indorato la pillola a nessuno. L’efficienza non era un’opzione, era un fondamento. E la qualità era una massima, non una teoria. Ovviamente l’espressione della precettrice si indurì, infastidita. Come ogni individuo privo di nerbo e incapace di incassare i colpi, Thorn sapeva che si sarebbe sfogata su qualcuno. E quel qualcuno non poteva essere lui. La osservò con distacco e senza espressioni mentre si voltava con sguardo di fuoco a fissare l’altra persona presente in quella stanza: l’apprendista sostitutiva, della quale aveva quasi dimenticato la presenza. Quasi. Lui non dimenticava nulla. Semplicemente, la sua importanza era passata in secondo piano rispetto allo scambio di battute che aveva avuto con Lady Septima.
- Apprendista Eulalia, volete restare con le mani in mano all’infinito? Piantatela di mettermi in imbarazzo e dimostrate a sir Henry che sarete all’altezza delle sue aspettative.
Come se il lavoro di un’altra persona potesse compensare per la sua corruzione e innalzare i suoi metodi di insegnamento. Patetica. Incassare la lode per le altrui capacità era una delle cose che aveva sempre disprezzato di più.
Indugiare in quei pensieri lo salvò dallo smascherarsi.
Perché quando si girò a guardare quell’apprendista di cui gli interessava solo il lavoro che avrebbe potuto svolgere, sentì la terra mancargli sotto i piedi, e il suo stomaco fece un balzo come se stesse precipitando. La sorpresa fu tale che il suo sguardo rimase assolutamente neutro, immobilizzato così come lo era il suo corpo. Trattene il fiato, stupito. Anche qualcosa di più.
Ofelia era di fronte a lui. Con i capelli corti, i ricci scomposti ad incorniciarne il viso come una massa di artigli capricciosi. Gli occhiali rettangolari sempre al loro posto, a schermare i suoi occhi, a nasconderli. Avrebbe voluto squadrarla da capo a piedi, avvicinarsi a lei e toccarla, abbracciarla dopo tutti quegli anni di lontananza. La nostalgia che aveva a stento trattenuto lo investì come un pugno, come un’artigliata di Godefroy. Peggio, di padre Vladimir. Fortunatamente la perplessità, la confusione di domande che aveva in testa e l’incredulità gli impedirono di vacillare. O di mostrare troppo interesse.
Rimase immobile e impassibile mentre veniva messo a dura prova da quello che avrebbe potuto paragonare all’attacco delle Bestie, di una tormenta del Polo in pieno inverno e dalla famiglia di Ofelia, tutte insieme. Era inerme. Incapace di muoversi o articolare parola.
La dichiarazione di Ofelia dopo tutti quegli anni lo riscosse, schiarendogli vista e pensieri. – Non vi deluderò.
Il suono della sua voce, quelle parole così propositive e sicure… Thorn voleva andarsene immediatamente. Una tempesta di emozioni infuriava in lui: rabbia, perché la sua presenza lì avrebbe rischiato di rovinare i suoi piani; sollievo, perché stava bene, era viva; stupore, perché lo aveva trovato; fastidio e incredulità, perché ancora una volta aveva demolito ogni probabilità possibile e immaginabile, riuscendo dove chiunque altro avrebbe fallito; nostalgia, al ricordo dell’ultima volta in cui si erano visti; malinconia, nel rendersi conto che le parole che avrebbe voluto sentir pronunciare dalle sue labbra erano molto diverse da un “non vi deluderò”. Lui aveva fatto crollare ogni velo sui sentimenti che provava per lei, si era messo a nudo, le aveva offerto se stesso in ogni modo possibile e immaginabile. Per quanto sconvolta e disperata, però, Thorn lo ricordava bene, Ofelia non aveva risposto a quella confessione. Più volte si era fatto trarre in inganno dal suo atteggiamento, e quello che aveva confuso per un bocciolo d’amore per lui era in realtà tutt’altro. Voleva una conferma da lei, una risposta a quella conversazione avuta durante le loro nozze.
Quella di fronte a sé era sua moglie.
Quel tumulto di pensieri non durò più di due secondi, e allo scoccare del terzo Thorn era già tornato padrone di sé. Quella che gli stava di fronte non era sua moglie Ofelia, ma Eulalia, l’apprendista virtuosa incaricata di leggere il manoscritto per scoprire il segreto di Dio e riferirlo ai Genealogisti.
Rimettere tutto nella giusta prospettiva lo aiutò, e doveva averlo fatto anche Ofelia, a giudicare dalla sua posa statuaria e della sua voce senza incrinature. Non era quello il momento di lasciarsi distrarre.
Thorn prese i rapporti di Mediana dal leggìo e allungò il braccio per porli ad Ofe… ad Eulalia, senza muovere un passo nella sua direzione. Doveva starle il più lontano possibile, la sua presenza lo destabilizzava troppo. Inconsciamente, non voleva attrarre l’attenzione più del dovuto con lo sferragliare metallico che l’armatura avrebbe prodotto ad un suo passo. Non voleva che Ofelia lo fissasse con… pietà.
- Avete tre giorni di tempo per mandare a memoria questa traduzione e imparare a maneggiare documenti antichi. Dopo di che verrete qui ogni sera dopo i gruppi di lettura. Tre giorni, siamo intesi, apprendista?
Tre giorni. La distanza che li separava.
Tre giorni e sarebbero stati soli, senza identità fittizie, dopo due anni, otto mesi e ventidue giorni.
Non lasciò intravedere che aveva colto l’espressione piena di dubbi di Ofelia, sperando che Lady Septima potesse interpretarla come una sorta di timore da parte di Eulalia. Comprensibile, accettabile. Il suo era un compito arduo e importante, una certa apprensione era tollerabile.
Thorn si girò per non doverla più guardare. Non riusciva a sostenere il suo sguardo. La sua presenza. Si diresse verso l’ascensore senza una parola di commiato o altre direttive, né per una donna né per l’altra. Non guardò più nessuna delle due.
Giunto nella Sala dell’Ordinatore, notando che erano passati solo quindici minuti, decise di prendersene cinque per sé. Per riordinare i pensieri e le priorità, tracciare linee, piani, alternative. Si diresse verso camera sua a lunghe falcate, facendo cigolare sinistramente quell’arnese che si portava appresso. Si tolse i guanti d’arme velocemente e si disinfettò le mani febbrilmente, come in preda ad una crisi.
Ofelia lo aveva trovato. Ofelia era lì. Aveva un piano, o era lì per lui? Come aveva fatto ad arrivare a Babel? E al Memoriale? Era sola o con qualcuno? Lo conosceva, quel qualcuno…?
Strinse i pugni mentre dentro di lui infuriavano sollievo, gioia, paura e sconcerto. Non rientrava in quella categoria di umani che si chiedeva se una realtà inaspettata fosse un sogno. Lui sapeva che non era un sogno. I sogni sono residui di memoria che vengono analizzati, processati e catalogati, senza un inizio né una fine. Lui invece aveva ben presente ogni singolo dettaglio di quel giorno e del giorno prima.
Mancavano due minuti.
Rimise a posto alcol e bacinella, si infilò i guanti e si chiuse la porta alle spalle, prendendo di nuovo posto alla sua scrivania.
Una sola cosa era certa in quel caos di pensieri e teorie, supposizioni e incertezze: dopo tre giorni avrebbe rivisto Ofelia.
Da solo.
Dopo un tempo che sembrava infinito.
E per proteggerla doveva assolutamente portare a termine il suo lavoro, così come lei doveva prendere sul serio il suo compito e impegnarsi nella lettura. Potevano farcela, insieme, come insieme avevano anche già risolto un caso investigativo di quel tipo. Al di là di calcoli e logica, Thorn sapeva di essere immensamente più forte e concentrato quando lei era al suo fianco. Più spronato.
Si rimise le cuffie e accese la comunicazione, pronto per impartire direttive e rispondere a richieste di riferimenti, analizzando le catalogazioni altrui.
Dopo tre giorni avrebbe rivisto Ofelia, e le avrebbe chiesto perché era lì. Un caso? O lui era l’obiettivo che lei aveva raggiunto? Poteva anche darsi che lei avesse iniziato delle indagini per conto suo. Non ci sarebbe stato di che sorprendersi.
Ripensò fugacemente al calore della sua spalla quando vi aveva appoggiato la testa, in quella cella carceraria dorata. Ofelia era riuscita a trasformare un ricordo doloroso in uno dei più cari e significativi per lui. Lo aveva stretto a sé, con tanto ardore da aver dovuto staccare lui stesso le sue dita dalla sua camicia spiegazzata. Non era mai stato così vicino a nessuno.
Un ramo di pensiero fuggì senza controllo verso quella direzione, immaginandosi uno scenario di riconciliazione, che sarebbe avvenuto dopo tre giorni, ben lontano da quello apatico e indifferente appena svolto. Lei che gli correva incontro, abbracciandolo, quando lui era ancora seduto sullo sgabello. Lui che si chinava per baciarla, anticipato da lei, impaziente come sempre. E basta. Non sarebbero mai potuti andare oltre, non in quel luogo, non con quel poco tempo che avevano a disposizione.
Con una smorfia Thorn soffocò quelle ridicole fantasie. Era improbabile che quella situazione potesse verificarsi. Non si sarebbe verificata. Mai. L’importante era capire perché lei fosse lì.
Strinse con forza gli occhi per un attimo e quando li riaprì fece scattare le mani verso le manopole e i pulsanti che solo lui era in grado di azionare velocemente e con precisione assoluta.
Tre giorni.
Aveva aspettato anni per rivederla, ma d’un tratto tre giorni gli parvero un frammento di tempo troppo dilatato.
Tre giorni di assiduo lavoro. Tre giorni prima di averla accanto.
Un’eternità.
  
Leggi le 8 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > L'Attraversaspecchi / Vai alla pagina dell'autore: MaxB