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Autore: matisse91    27/04/2020    0 recensioni
La storia che sto per raccontarvi ha avuto inizio in un giorno particolare, quel giorno, diversamente da tutti gli altri, sentivo che qualcosa stava per cambiare irrimediabilmente. Era come se ogni cellula del mio corpo si rifiutasse preventivamente di affrontare il futuro che stava per incombere e divenire il mio presente.
Questa storia non parla di supereroi, né di gesta eroiche o avventure mozzafiato. No..., nulla di tutto ciò sarà oggetto delle lettere che riempiono questi bianchi fogli.
Perché? Semplice, ognuno di noi, nel nostro piccolo, nella nostra imperfetta umanità è un eroe, e vivere, vivere sul serio, al meglio delle nostre capacità la nostra vita, è un'avventura, eroica, estenuante, e a suo modo entusiasmante.
Per questo, ho deciso di raccontarvi la mia storia, per immortalare l'amore che ha dato un senso ad ogni mia azione, e le amicizie che mi hanno sorretto nei suoi momenti più bui.
Ma il vero protagonista di questa storia non sono io, ma il tempo.
Genere: Avventura, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico, Universitario
Capitoli:
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Capitolo I

Sole

 

 5 Settembre 1996, Blakeney

Era una bellissima mattina autunnale, il cielo era terso e limpido, di quell'azzurro unico, irriproducibile, o almeno così pensavo. L'aria profumava di pioggia, di terra umida e di sole al tempo stesso. Ero contenta di andare a scuola, finalmente avrei potuto conoscere nuove persone, stringere nuove amicizie. Con la mano saluto mia madre che attende, all'angolo del cancello dell'entrata, che entri dentro la scuola. Troppo impegnata nel saluto non presto la dovuta attenzione a dove stessi mettendo i piedi, così inciampo su un sasso e finisco a terra come un sacco di patate.
Le lacrime premono per uscire dai miei dotti lacrimali, pronte a dar sollievo e voce a quel dolore bruciante che mi infiamma le ginocchia.
"Tutto bene?", mi chiede una vocetta sopra la mia testa.
"Mi sono fatta male alle ginocchia", borbotto cercando di trattenere i lacrimoni.
Una mano compare nel mio campo viso, è poco più grande della mia, le unghie sono tutte mangiucchiate e sporche di terriccio. Alzo lo sguardo al proprietario di quella mano, e un sorriso spontaneo mi sboccia in volto, le lacrime e il dolore, ormai solo un vago ricordo.
Una zazzera di luminosi capelli biondi arruffati in tutte le direzioni, e un paio di occhi azzurri come il cielo di quella mattina, mi guardano con leggera preoccupazione. Preoccupazione che subito lascia il posto ad uno spontaneo sorriso in risposta al mio. Afferro la sua mano e mi tiro su. Zoppicando mi conduce alla prima panchina, poi, come un cavalier servente d'altri tempi, s'inginocchia dinanzi a me, scrutando le piccole ferite che mi costellavano entrambe le ginocchia.
"Sara! Tutto bene?", esclama mia madre avvicinandosi con passo spedito, dietro di lei una giovane donna con dei bellissimi capelli rossi.
"Si mamma. Menomale che c'era...", lascio in sospeso la frase rendendomi conto di non conoscere il nome di quel bambino.
Lui, comprendendo il mio cruccio, solleva il volto verso il mio e, con un sorriso, mi si presenta come Nathan Collins.
"Vuole dei fazzoletti imbevuti?", domanda la donna dai capelli rossi.
"Grazie", risponde mia madre annuendo. "Lei è sua madre?", domanda poi.
"Si, sono Catherine Collins", risponde l'altra porgendo a mia made una confezione di salviette disinfettanti.
"Io sono Penelope Walsh. È un piacere conoscerla signora Collins. E complimenti per aver educato un giovanotto così perbene".
A quella frase madre e figlio arrossiscono.
"Chiamami Catherine ".
"E tu Penelope".
Entrambe si sorridono amichevolmente.
Dopo che mia madre ebbe disinfettato le escoriazioni alle mie ginocchia, Nathan vi depone un piccolo bacio su entrambe, lasciandomi meravigliata per un simile gesto.
"La mia mamma dice che con un bacio passa ogni dolore. Ti fanno ancora male?", mi domanda.
Mi alzo lentamente in piedi, e con la testa gli faccio un segno di diniego.
"Nathan! Sei sempre il solito", lo riprende bonariamente sua madre, con sorriso caloroso e malinconico allo stesso tempo.
Il suono della campanella ci ricorda che oggi è il nostro primo giorno di asilo.
"Andiamo!", mi incita Nathan afferrandomi per mano e trascinandomi dentro la scuola.
Mi volto indietro per salutare mia madre, e la vedo sorridere con Catherine e salutarci con il braccio teso in alto.
"Con che maestro sei?", mi chiede Nathan.
"Con il maestro Gladwyn".
"Anch'io!", esclama contento. "Vedrai, ci divertiremo un sacco, e saremo ottimi amici", mi assicurò facendomi sedere accanto a lui.
"Cosa vuoi fare da grande, Sara-chan?", mi domanda.
Fu una semplice domanda, eppure, udirlo pronunciare per la prima volta il mio nome con quel vezzeggiativo, mi sconvolse al punto da farmi arrossire.
"Voglio fare la giornalista", affermo soddisfatta della mia risposta.
"La giornalista?", mi domanda perplesso piegando la testa da un lato, come se cambiando angolatura gli potesse apparire più chiaro il significato della mia risposta.

"Perché la giornalista?".
"Perché amo scrivere!".
"Potresti scrivere libri, sai una bella storia d'amore".
"Bleah! Sono così sdolcinate"
"Non ti piacciono le storie d'amore?! Che razza di femmina sei? A tutte voi piacciono", ribatte sinceramente scandalizzato.
"No. Tu invece?", gli domando.
"Se mi piacciono le storie d'amore? Certo! Mia mamma me ne racconta una ogni sera prima di andare a letto".
"No, non le storie d'amore. Che lavoro vuoi fare da grande?", lo correggo ridacchiando per quella risposta così spontanea.
"Ah!", esclama visibilmente imbarazzato passando ripetutamente una mano tra i folti capelli già di per sé arruffati.
"Voglio fare il poliziotto come il mio papà", dice orgoglioso.
"Tuo papà è un poliziotto?", chiedo meravigliata.
"Era... è morto quando ero piccolo per salvare un bambino", risponde in un sussurro, gli occhi divenuti blu dalla tristezza.
Gli afferro la mano stringendola tra le mie.
"Allora sei il figlio di un eroe!", gli dico cercando risollevargli il morale.
"Si", mi conferma con un sorriso sghembo, gli occhi nuovamente luccicanti di vivacità.
"Sole", sussurro sovrappensiero.
"Come?", mi domanda incuriosito.
"Sei come il sole. Hai i capelli del suo stesso calore", gli dico indicandoli.
"E poi hai gli occhi più azzurri che abbia mai visto, e ne ho visti tanti", affermo convinta.
"Davvero? E dove li hai visti?", mi domanda prendendomi contro piede.
In realtà non ne avevo visti parecchi, ma sapevo già che i suoi sarebbero stati i più azzurri e luminosi in assoluto.
"Lo so e basta", lo zittisco perentoria.
"però è strano che non ti piacciano le storie d'amore", borbotta leggermente infastidito.
"E perché? Non è che debbano piacer a tutte le ragazze", gli rispondo acida.
"Lo so, ma sei così rosa!", continua imperterrito.
"Baka!", lo riprendo per poi girarmi offesa dall'altra parte.
"E dai Sara! Non possiamo litigare il primo giorno di scuola", si lagna.
"E chi lo dice?", gli domando.
"Io", risponde battendosi un pugno sul petto strappandomi un sorriso e facendo evaporare ogni risentimento.



4 Gennaio 2015, Blakeney. Ore 17:33

Sono qui, davanti al tuo letto, a pregare per una salvezza che so già non arriverà: la tua.
Perché da oggi sarò privata del mio sole, e come si può vivere senza di esso?
Non lo so, e francamente non voglio saperlo. Voglio solo sdraiarmi accanto te, bearmi del tuo calore, sentire le tue mani stringere le mie, dormire abbracciata a te, la testa sopra il tuo cuore, e lasciarmi cullare dai suoi battiti. Voglio solo vedere i tuoi bellissimi occhi azzurri sorridermi, anche per un'ultima volta. Voglio svegliarmi da quest'incubo con te al mio fianco che sussurri il tuo solito Sara-chan. Quel chan che vale mille volte in più del classico tesoro, o amore.
Quindi svegliati razza di baka. Fammi scorgere un'altra volta il cielo, permettimi di scaldarmi con i tuoi sorrisi.
Un singhiozzo mi scuote il petto.
Svegliati. Svegliati. Svegliati. Svegliati. Svegliati. Oddio non puoi non svegliarti, non puoi realmente lasciarmi qui, in questo mondo, senza te che mi sostieni.
Non puoi privarmi del cuore, perché il mio è andato a pezzi.
"Nathan...", sussurro avvicinandomi.
"Nathan... sv... svegliati", ripeto spiritata.
"Signorina, è cerebralmente morto. Stiamo aspettando la lista con i nomi di chi riceverà gli organi", mi fa notare con poco tatto un'infermiera.
Celebrarmene morto.
Morto.
Collins Nathan è morto.
Il mio primo amico, il mio sole, il mio primo bacio, il mio primo ragazzo, il mio primo tutto è morto. Morto. Andato.
Stanno solo aspettando di avere conferma dei nomi di chi riceverà gli organi.
"Donerà tutto?", chiedo trattenendo il respiro.
"Si, anche la pelle", mi risponde.
Mi accascio su quel letto e con le mani tremanti d'angoscia e d'amore gli sfioro la pelle che presto apparterrà a qualcun altro. L'accarezzo, così liscia, ambrata dalle giornate di sole. Mi porto le sue mani alle labbra e le bacio dolcemente, ringraziandole per tutte le carezze che mi hanno dedicato, per tutte le volta che mia hanno aiutato a rialzarmi.
Poi passo alla punta di quel naso impertinente, che arricciava ogni qualvolta lo rimproveravo. E poi è il turno degli occhi, quelle liquide pozze blu come il Mediterraneo, piene di vitalità e ottimismo, occhi che presto non gli apparterranno più, che possibilmente incrocerò incastonati nel viso di qualche sconosciuto.
So che dovrei essere orgogliosa e soprattutto felice del fatto che lui continuerà a vivere nei corpi di altri persone, ma... non ce la faccio. Mi sento derubata. Ogni singolo pezzo di lui mi appartiene. È sempre stato mio, solo mio. Perché dovrei cederlo a qualcun altro? Chi può pensare di meritare questi occhi e questo cuore? Nessuno ne sarà mai degno, nemmeno io.
Stringo in un pugno il camice di carta che indossa, in prossimità di quel cuore così forte che ora tace al mondo. Calde lacrime vi cadono sopra.
"Non è giusto", affermo in un singulto.
"Non è giusto, perché lui?", domando all'intera stanza di infermiere.
"PERCHÉ LUI?! LUI È GENTILE, E BUONO... è così buono che meriterebbe di vivere almeno fino ai cent'anni... no, non può essere lui.... Infermiera! È sicura che si tratti di Nathan Collins? Perché noi dovevamo invecchiare insieme...", mi volto verso il mio fidanzato, inconsapevole di fare la figura della pazza e di aver allertato l'infermiera.
"Tu me lo avevi promesso... ME LO AVEVI PROMESSO CAZZO! MI AVEVI DETTO CHE NON SARESTI MORTO PRIMA DI ME! NON SEI UN EROE NATHAN, SEI UN CODARDO! MI LASCI QUI SENZA DI TE, A VIVERE QUESTA VITA DI MERDA! A ME! COME FACCIO SENZA DI TE! COMEEEE... IO TI ODIO!", urlo. Mi brucia la gola e inizio a piangere disperata. "TI ODIO!". Ripeto cercando di prendere fiato ignorando la stretta ferrea che mi stritola il cuore. "TI ODIO PERCHÉ MI HAI LASCIATO! Ti odio perché mi hai lasciato. Non respiro. Non respiro". Mi abbandono sul suo petto ansimante.
Stupido cuore, smettila di battere così forte. Smettila di rimbombarmi nelle orecchie. Smettila di ferirmi.
Ma sapevo già che il dolore al petto non era dovuto alla morte di Nathan, no, era colpa della mia insufficienza cardiaca congenita.
"Codice blu! Codice blu! Portate un carrello per la rianimazione", urlava l'infermiera.
Volevo dirle di tranquillizzarsi, succedeva sempre così, ed ero ancora viva. Magari questa volta muoio sul serio, almeno così potremo stare insieme amore. La vista mi si sfoca sempre più.
L'ultima cosa che riesco a vedere è il volto di un medico chino sopra di me, poi il nulla.



Lo stesso giorno, a Norwich, ore 10:39.

Seguivo la lezione di linguaggio politico del professor Franklin Keshawn. Zeke siede accanto me, una sua mano è poggiata sulla mia gamba, come per non farmi dimenticare della sua presenza.
Una strana sensazione mi pervadeva quella mattina. Mi era svegliata nel letto di Zeke, dopo una focosa notte di sesso, con un'incontenibile voglia di piangere. Come al solito il mio primo pensiero andò a Nathan, e al pungente senso di colpa, che ormai da mesi albergava in me.
Sono una puttana, una lurida, squallida, fedifraga puttana, mi ripeto ogni volta che scorgevo il viso riflettersi in qualche specchio o vetrata.
Dopo aver fatto colazione insieme, Zeke mi propone di andare a conoscere i suoi genitori, visto che ormai ci frequentiamo da tre mesi. A quella proposta mi balena in mente il volto di Catherine : cosa penserebbe di me se venisse a conoscenza della mia tresca?
"Non credo sia il caso Zeke, sono solo tre mesi, cosa vuoi che siano? E poi non stiamo mica insieme. Tu sei fidanzato, e lo sono anch'io. Anzi, credo che sia il caso di tagliare questa cosa", affermo decisa, forse un po' troppo bruscamente.
Una smorfia gli raggrinzisce il bel volto.
"Quindi è una cosa da nulla condividere il letto, dormire insieme, praticamente convivere?", mi domanda con tono amaro.
"Si, stiamo con altre persone, te l'ho..."
"Parli a vanvera Sara, ecco cosa fai. Tu pensi solo a te stessa, non hai un briciolo di considerazione per chi ti sta accanto. Non so quale sia il problema che ti affligge, non ti obbligherò a parlarne, ma devi risolverlo. È evidente che nella tua vita qualcosa non sta andando come dovrebbe".
Forse è il fatto che sono in attesa di un trapianto di cuore dalla bellezza di quattro anni, vorrei rispondergli, ma rimango in silenzio.
"Senti Sara", sospira, "io ho lasciato Katya cinque giorni dopo averti conosciuta", mi rivela.
Ed è una vera rivelazione. Come avevo fatto a non accorgermi di nulla?
Perché pensi solo a te stessa, mi rimbomba la sua voce.
"Mi dispiace", sussurro affranta.
"Non provi nulla per me?", mi domanda fissandomi con quegli occhioni neri come la pece, lucidi di un sentimento che non avrei mai sospettato.
"Si che provo qualcosa", sbuffo. "Quando rimango qui, sola con te, sento che quello che c'è tra noi è qualcosa di giusto, che merita un'occasione, ma...".
"Ma...?", mi sollecita, i suoi occhi sempre puntati nei miei.
"Ma quando torno a casa... a Blakeney rivedo lui, e mi sento come se tutto fosse tornato al suo posto. Sto con lui da quando ho dodici anni!", gli rivelo.
A una tale notizia spalanca gli occhi.
"State insieme da sei anni?", mi domanda incredulo.
"Si", sospiro.
"Capisco. Conviene andare, o faremo tardi a lezione", mi dice dirigendosi verso la camera da letto.
"Sara", mi chiama fermo sotto l'arco della porta.
"Io sono sempre qui, non dimenticarlo. Rifletti sulla decisione che devi prendere, perché è chiaro che devi scegliere come gestire il rapporto che hai con lui. Non tutto tra voi va come deve andare, altrimenti questo", e indica me e lui, "Non sarebbe mai accaduto".
"Sono io che non vado bene", gli rispondo prima di uscire.
Ed eccomi qui a lezione, almeno fisicamente, la testa vola tra i meandri della mia immoralità.
Come ho potuto fare una cosa del genere a Nathan?
Di colpo, senza alcun preavviso, una scarica mi oltrepassa il petto facendomi accasciare sul banco.
"Sara, tutto bene?", mi domanda ansioso Zeke.
Non riesco a respirare, il mio cuore è come se fosse stretto in una morsa di ferro. Che male! Ma non è un attacco cardiaco.
Gli occhi mi si riempiono di lacrime che copiose mi scivolano lungo le gote fino ad arrivare al quaderno degli appunti. Un singhiozzo sfugge al mio controllo rompendo il silenzio che regnava nell'aula, immediatamente seguito da un altro.
Scoppio a piangere dirottamente con acuti gemiti di dolore. Sentivo il cuore in procinto di spaccarsi a metà.
"Sara!", mi chiama Zeke poco prima di prendermi in braccio e condurmi fuori all'aperto.
"Che cavolo ti prende?", mi chiede preoccupato.
"N...non...non...lo...s...so", ansimo alla ricerca di fiato.
"Tieni", mi dice porgendomi una bottiglietta d'acqua minerale. Non so perché ho notato il dettaglio che fosse minerale, so solo che mi strappa un sorriso facendomi pensare al fatto che Nathan avrebbe sicuramente bevuto dell'acqua frizzante. Non sapeva nemmeno che esistesse l'acqua minerale!
"Ti sei calmata?", mi chiede il moro carezzandomi dolcemente i capelli.
"Si".
Sento il mio telefono vibrare nella tasca posteriore dei jeans. È un numero sconosciuto.
"Pronto?", rispondo.
"Parlo con Sara Walsh?", mi domanda una voce.
"Si", rispondo tremula alzandomi in piedi.
"Sono Luke Merton, la chiamo per riferirle che Nathan Collins è stato vittima di un incidente, stamattina. È stato investito da un pirata della strada mentre aiutava un bambino ad attraversare la strada. Mi dispiace...".
Non riuscii ad udire altro. I battiti del mio cuore mi stavano assordando con il loro ritmo frenetico. Sapevo che non dovevo agitarmi, per via del cuore, ma un'ondata di rabbia cieca mi investì riducendomi in cenere.
È stato vittima; pirata della strada; mi dispiace.
Il cervello mi ripeteva in sequenza queste parole, ma non riuscivo a comprendere appieno il loro significato.
"Sta b...ene...", balbettai, gli occhi nuovamente gonfi di lacrime.
"No. Hanno dichiarato la morte celebrare. Stanno aspettando il via dal centro trapianti per procedere con l'espianto degli organi".
Ira, non più rabbia.
Ira nera e funesta verso me stessa, verso il relitto che ero diventata, per averlo allontanato da me, e per cosa? Per del sesso!
Lasciai cadere il cellulare, incurante di chi stesse al telefono, di Zeke, dei miei colleghi che passeggiavano tranquillamente per il campus.
Per l'ennesima volta contavo solo io e il mio dolore.
Mi risedetti su quella panchina malandata per poi sdraiarmici. Le mani strette in petto in un gesto universale di preghiera, il volto rivolto alla maestosità di quel cielo terso, così azzurro...
L'azzurro era sempre stato il mio colore preferito. Mi richiamava la vastità del cielo, mi infondeva calma e gioia per la vita. Poi incontrai Nathan, e persino il cielo mi sembrò sbiadito in confronto all'azzurro dei suoi occhi. Occhi che avevo ammirato per più della metà della mia vita.
Guardo il cielo, e so che lui è lassù che mi guarda. Scommetto che finalmente si è reso conto di che razza di persona ha scelta di amare.
È morto.
Come potrò mai venire a patti per il rancore che provo nei miei confronti?
È morto per salvare un bambino da un pirata della strada, proprio come suo padre. Anche lui è morto da eroe.
"Dovevi fare per forza l'eroe, vero? Non potevi essere di meno di quel che eri? PER UNA BUONA VOLTA NON POTEVI PENSARE SOLO A TE STESSO?!", urlo al cielo.
Poi solo l'oscurità .

 

   
 
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