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Autore: RegalGina    02/05/2020    3 recensioni
Mani, ovunque. Avevano osato, quindi. Senza pietà.
Lo sapevano. Lo sapevano che era una donna abusata. Aveva sporto denuncia, un ordine restrittivo. Ma, ancora, si stupiva di quanto l’essere umano potesse essere infido. E ipocrita.
Per questo se n’era andata.
Perché sapeva di avere anche lei un lato oscuro. Ma, almeno, aveva smesso di fare finta che non fosse così.
Come aveva fatto ad essere così stupida? Un albero liscio, senza rami. Anche un bambino avrebbe scelto un altro albero. E invece no. E così, l’avevano presa. L’avevano uccisa alle orecchie del mondo. Alle orecchie del Professore. E poi, l’avevano messa su un fottuto blindato e l’avevano “perquisita”, come dicevano loro. L’avevano spogliata, rivestita. E molto altro. E poi Angel era entrato nel furgone. L’aveva abbracciata. Solo un altro povero ipocrita.

[Lisbona-Professore]: What If ambientata a partire dalla fine della terza stagione.
Cosa sarebbe successo se invece di portare Lisbona nella tenda per interrogarla, Sierra si fosse decisa a fare molto di peggio?
ATTENZIONE: SPOILER 4 STAGIONE
Genere: Angst, Introspettivo, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Il professore, Raquel Murillo
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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My life is going on.

I walk through the valleyof the shadow of death
and I fear no evil because I’m blind to it all
and my mind, and my gun
they comfort me,
because I know I’ll kill my enemies when they come.

 Surely goodness and mercy will follow me
all the days of my life
and I will dwell on this earth forevermore
Sad, I walk beside the still waters and they restore my soul

 But I can’t walk on the path of the right,
because I’m wrong.

  Mani, ovunque. Avevano osato, quindi. Senza pietà.
Lo sapevano. Lo sapevano che era una donna abusata. Aveva sporto denuncia, un ordine restrittivo. Ma, ancora, si stupiva di quanto l’essere umano potesse essere infido. E ipocrita.
Per questo se n’era andata.
Perché sapeva di avere anche lei un lato oscuro. Ma, almeno, aveva smesso di fare finta che non fosse così.
Come aveva fatto ad essere così stupida? Un albero liscio, senza rami. Anche un bambino avrebbe scelto un altro albero. E invece no. E così, l’avevano presa. L’avevano uccisa alle orecchie del mondo. Alle orecchie del Professore. E poi, l’avevano messa su un fottuto blindato e l’avevano “perquisita”, come dicevano loro. L’avevano spogliata, rivestita. E molto altro. E poi Angel era entrato nel furgone. L’aveva abbracciata. Solo un altro povero ipocrita.
Gli occhi vitrei, lo sguardo fisso. Figli di puttana. Se fosse uscita viva da quel furgone, da tutta quella merda, gliela avrebbe fatta pagare.
La giustizia”, cos’è infondo?
Dove sta la soglia? Tra ciò che è giusto e ciò che è necessario?
E se ciò che è necessario fosse totalmente ingiusto, potrebbe forse diventare giusto per il semplice motivo che la causa per la quale viene messo in atto sia essa stessa giusta? Renderebbe l’ingiusto meno ingiusto?
La verità è che è la pretesa stessa di giustizia ad essere totalmente e paradossalmente trascendentale. L’atto di ritenersi al di sopra di qualsiasi umanità, a qualunque costo, a qualunque prezzo. Anche a prezzo di sacrificare segretamente quell’ideale di giustizia tanto agognato. Ma, in silenzio, ovviamente. I media non devono saperlo.
Aveva scelto. Il giorno in cui aveva davvero capito fino a che punto per tutti quegli stronzi nella tenda era più importante ciò che i giornali dicevano piuttosto che ciò che fosse davvero importante.
Alla fine, si riduce tutto ad una questione di punti di vista.
E di chi si vuole essere.
Un eroe, ipocrita e privo di onore.
O un criminale, fottutamente sbagliato ma con qualcosa di vero per cui vivere.
Fissò le catene ai polsi ed alle caviglie. Era fregata, per davvero stavolta. Fece un respiro profondo, nonostante il dolore all’addome, e giurò che non avrebbe mai tradito la banda. Per nessun motivo. Ormai, le cose erano due. O la tiravano fuori di lì, oppure era completamente fregata. Non c’era una terza alternativa. Indulto, riduzione della pena, buona condotta. Cazzate. Non avevano avuto pietà nel metterla su un blindato, non ne avrebbero di certo avuta da quel momento in avanti.
Sentiva le sirene spianate.
Ripensò al Professore ed a quello che le aveva detto quando era chiusa in quel pollaio, prima che l’inferno cominciasse davvero. Era stata la più bella dichiarazione d’amore che qualcuno le avesse mai fatto.
All’improvviso, il motore si spense. Non seppe quantificare quanto tempo fosse passato, ma era ancora giorno perché quando la porta si aprì la luce la investì accecandola. Entrarono due agenti che le fecero mettere una giacca e un passamontagna da poliziotto. Perché travestirla come uno di loro? Forse volevano umiliarla. Non ne sarebbe rimasta stupita. La obbligarono a scendere, slegata, ma con una pistola puntata alla schiena, un’altra ipocrisia. Il mondo vedeva una cosa, mentre ne accadeva un’altra.
Si guardò intorno e vide una folla di persone urlanti dietro delle transenne, la maggior parte portavano la maschera di Dalì. Capì. Erano alla banca di Spagna. La fecero entrare nella tenda e lì la vide. Alicia. L’ultima persona che desiderava vedere sulla faccia della terra. Si tolse il passamontagna e tutti nella tenda si voltarono e sussultarono nel vederla. Un sorriso le affiorò sulle labbra, aveva lasciato un segno in ognuno di loro. E anche bello grosso, a giudicare dalle loro facce. Un segno invisibile, ma che ti corrode, da dentro. “L’ispettore, colei che abbiamo ammirato e seguito per tanti anni, di cui ci fidavamo, ci ha traditi. È passata all’altro lato. Vorrà pur dire qualcosa no? Ah, no. Noi siamo i bravi poliziotti, lei è la cattiva!”
- Ciao, Raquél -
Un impeto di rabbia la pervase. Si trattenne dal rispondere. In sole due parole aveva rischiato di mandare all’aria la sua relazione, chissà cosa avrebbe potuto fare in tutte le ore che la aspettavano in sua compagnia. Ma non gliela avrebbe data vinta, mai.
- Non mi rispondi? Mi sento dispiaciuta, credevo fossimo amiche! -
Rise
- È Lisbona – le rispose infine.
Anche Alicia rise. Ma non aggiunse altro, si voltò e le fece strada verso il fondo della tenda. Non che Lisbona la seguisse di sua spontanea volontà. La fecero sedere in un luogo isolato della tenda e la ammanettarono ad un tavolo.
Alicia si sedette di fronte a lei e si mise a fissarla in silenzio.
- Lo sai che non ti dirò niente, Alicia –
- Oh sì, lo so bene, Lisbona
- E allora perché mi hai fatta portare qui? –
- Beh, Lisbona. Pensavo di ricattarti. O meglio, usiamo un termine più accettabile. Pensavo di proporti un accordo. –
Lisbona rise.
- Potrei proporti un accordo, del tipo: tu ci consegni il Professore e io ti offro una riduzione della pena. Oppure ci consegni il Professore e io farò finta di non sapere dove vivono tua madre e tua figlia. Sarebbe un peccato se quella piccola bambina adorabile andasse a vivere con un depravato come il tuo ex marito! –
Si fermò per guardare Lisbona, che aveva smesso di ridere. Se l’era aspettato, era ovvio che l’avrebbero ricattata. Che le avrebbero proposto un accordo. Ma erano tutte palle, non appena avesse parlato avrebbero fatto completamente il contrario di ciò che Sierra le stava offrendo. E poi, Sérgio sapeva che l’avevano presa. Sapeva che avrebbe dovuto spostare la sua famiglia e metterla in salvo in un porto sicuro non rintracciabile dalle forze speciali. Per questo non avrebbe parlato. Le due cose più importanti della sua vita erano in salvo. Questa era l’unica cosa importante.
- Ma so che non accetterai – continuò Alicia.
Lisbona la guardò di sbieco, senza capire.
- Mi hai chiesto perché ti ho fatta portare qui, se già sapevo che sarebbe stato inutile? Beh, se non faccio finta di proporti un accordo, e se non dimostro a tutti che tu lo rifiuti, come pensi che io possa mantenere la mia dignità quando ti porterò negli scantinati dei servizi segreti per fartela pagare per aver infangato l’immagine dei servizi investigativi spagnoli? Oh, e poi, sotto tortura tutti parlano, cara –
Lisbona fu scossa da un tremito. Si era sbagliata. Il vero inferno non era ancora iniziato.
Quella era solo l’anticamera.
La lasciarono in isolamento per ore. Senza sapere cosa stesse succedendo fuori. Finché, la sua attenzione non fu attirata da qualcosa che stava succedendo dall’altra parte del telo che divideva il suo isolamento. Tutti si erano alzati in piedi, all’improvviso, con gli occhi fissi sullo schermo. Si alzò, doveva essere successo qualcosa. Doveva vedere. Qualcuno cercò di trattenerla ma Sierra blaterò qualcosa in merito al rispetto di un momento delicato. Guardò gli schermi. E la vide. Una bara, che usciva dalla banca di Spagna portata da quattro uomini in completo nero. I militari tutto intorno, visibilmente pronti per un assalto, si erano pietrificati. Lisbona scoppiò in lacrime, un’altra vita. Un’altra vita rubata. Incontrò la spalla di Angel su cui piangere, ma non le diede poi tutto quel conforto. Nessuno della banda aveva mai attentato alla vita di nessuno. Il loro scopo non era mai stato la violenza. “Iniezione di liquidità”, quelle erano le parole che le avevano fatto aprire gli occhi. Potevano definirli criminali, ladri, depravati. Ma non erano assassini. Mentre invece, in quel momento, era la cosiddetta giustizia ad essersi appena trasformata in un’assassina. Forse il modo in cui volevano dimostrare la scorrettezza del sistema era poco ortodosso, ma dopotutto, il fine non giustificava i mezzi?
- Allora? Dov’è il Professore? –
Alicia le si era parata davanti e aveva pronunciato quella domanda con uno dei suoi sorrisi falsi. Che stronza.
- Fanculo – fu la risposta di Lisbona.
Fu la sua condanna. Sierra fece un cenno con la testa, e quattro agenti la strattonarono, la rivestirono da poliziotta e la portarono fuori, sbattendola di nuovo sul blindato che l’aveva portata in quella tenda solo qualche ora prima. Prima che la porta venne sbattuta fece in tempo ad intravedere la bara appoggiata a pochi metri dal furgone. Riuscì a leggere cosa c’era scritto. Nairobi.
Non si meritava questo.
Nessuno di loro lo meritava.
 

---

Don't ask why
Don't be sad
Sometimes we all must alter paths we planned
Only try understand
I want to save you from the lost and damned

Non riusciva a togliersi dalla testa il rumore di quegli spari. L’aveva pregata di dire che si sarebbe consegnato, che sapeva dove fosse. Ma dall’altra parte, solo tre parole. “Non lo so”.
L’aveva salvato. Ma si era sacrificata.
L’avevano giustiziata.
O meglio, glielo avevano fatto credere, quei figli di puttana, ma ci avrebbe giurato, se non gli fosse stata utile l’avrebbero uccisa davvero, senza troppi scrupoli.
Ed ora, anche Nairobi. Questa non era più un’iniezione di liquidità. Non era più un attacco al sistema. Era una guerra.
Da quando tutto il piano era andato a rotoli non riusciva più a pensare lucidamente. Troppe emozioni avevano sopraffatto la sua ragione. Doveva riprendere il controllo, a tutti i costi.
Il telefono squillò. Era Tokyo.
- Tokyo! Dammi buone notizie –
- Professore… abbiamo preso Gandìa – aveva la voce rotta dai singhiozzi.
- È vivo? –
- Sì, ma non ancora per molto –
- Tokyo, ascoltami. È importante che rimanga vivo. È un tassello fondamentale del piano –
- Quale piano, Professore!! Il piano è andato a puttane! Nairobi è morta!!! –
Una lacrima solcò la guancia del Professore.
- Tokyo, capisco quello che state passando… -
- No Professore, non puoi capirlo!! –
- Ascoltami Tokyo, cerca di calmarti. Sai benissimo anche tu che ci serve vivo –
Silenzio. Nessuno rispose. Poi si sentì la voce di Helsinki, e subito dopo degli spari. Il sangue del Professore si gelò.
Fu Palermo a parlare di nuovo dall’altro lato della cornetta.
- È vivo, Professore –
- D’accordo. Avete scoperto dov’è la panic room? –
- Si accedeva da un passaggio segreto all’interno del bagno del governatore –
- Cosa? È entrato e uscito da lì per tutto questo tempo e non avete sentito niente? Nessun rumore? Possibile che nei bagni non si senta mai nulla?! … Non importa. Palermo, tenetelo in un luogo dove non si possa liberare in attesa della fase 3. Nel frattempo dovete continuare a fondere l’oro, il più velocemente possibile. Senza l’oro, non posso farvi uscire –
- D’accordo, Professore. E poi, quando saremo fuori, andremo a riprenderci Lisbona –
- Sì, andremo a riprenderci Lisbona… -
Attaccò.
Era folle, completamente folle. Ma era l’unico modo.
Si spogliò, si infilò i guantoni da boxe e si tuffò nell’allenamento. Doveva liberare la mente, doveva pensare. Non poteva permettersi di sbagliare. Doveva tirarli fuori.
Altrimenti, per Lisbona non ci sarebbe stata speranza.
 

---

Caught in the frame work, dying to belong
Escape the wasteland
Don't forget who you are
Amnesiac 

Don't let the world revolve around you
Don't wait another day to re-erase your memory
Amnesiac 

Don't let the dream dissolve without you
The more you know, the more they hold you back
Amnesiac

Fu l’odore di marcio che le inquinò il naso a svegliarla. Non che “sveglia” fosse la parola adatta a descrivere il suo stato. Non avrebbe saputo dire dove fosse o perché, l’unica cosa che ricordava da quando era entrata nel blindato era che le avevano iniettato qualcosa. Probabilmente una dose da cavallo di narcotico, a giudicare dalla nebbia che aveva in testa. Sentì la guancia a contatto con una superficie fredda ed umida e capì di essere sdraiata prona. Cercò di alzarsi, ma le risultò molto complesso. Sentiva dolore alla schiena ed un intorpidimento generale e, come se tutto quello non bastasse, capì di essere legata. Non poteva alzarsi, non poteva neanche voltarsi. Osservò le catene intorno ai polsi, erano assicurate ad un anello incastonato nel muro ed erano fermate da un lucchetto grosso quanto una delle sue mani. Le sembrò ridicolo. Improvvisamente sentì la porta aprirsi alle sue spalle, ma non si voltò. Aspettò, senza nascondere il fatto che fosse sveglia. Alla fine, non era difficile comprendere la situazione. Probabilmente si trovava in un buco dimenticato da Dio, in qualche scantinato dove i servizi spagnoli portavano le persone per torturarle. Non era neanche difficile comprendere il destino che la attendeva, ma in fondo se l’era immaginato e sapeva che sarebbe andata a finire così. Aveva deciso che le stava bene nel momento in cui aveva mandato a fanculo quella stronza di Sierra. 
- Sei sveglia, tesoro! –
Ah. Beh, in fondo, parli del diavolo… La aveva riconosciuta dalla voce e decise di non voltarsi, nemmeno quando la sentì sedersi su una sedia accanto a lei.
- Non sei molto accogliente con i tuoi ospiti, Lisbona. Girala! – ordinò a qualcuno.
Si sentì strattonare per le spalle e qualcuno la obbligò a voltarsi sulla schiena, schiacciandola violentemente contro il pavimento irregolare. Ma perché le doleva così tanto la schiena? Sussultò, ma proprio non capiva. Era come se fosse ferita, ma non riusciva a ricordare.
- Ehi, ti sembra il modo di trattare una signora? – disse Sierra con un tono indispettito, ma palesemente falso.
Cazzo se poteva essere stronza. La più grande stronza sulla faccia della terra. Tuttavia si rifiutò di guardarla in faccia. Ma poi, era ancora incinta, dopo tutto quel tempo? Dopo tutto quello stress?? Ah ma forse risolvere le rapine non le provocava affatto stress, ecco perché. Del resto, ci si potrebbe aspettare qualcosa di diverso da una stronza così?
Forse la stava insultando troppo però. O forse, la dose di narcotico che le avevano somministrato era veramente da cavallo.
- Sai perché sei davvero fottuta, Raquél? Perché a differenza di tutte le altre persone che sono passate di qui, tu non uscirai mai.. Perciò, non devo per forza fare tutte quelle cose, odiose, come il non lasciare segni. Diciamo che nessuno ti vedrà mai più, perciò, non interessa a nessuno il tuo aspetto, mi sbaglio? –
Lisbona ancora non la guardava in faccia, ma dentro di sé ebbe un tremito.
E Alicia se ne accorse. Un sorriso affiorò sulle sue labbra.
- Hai vinto una battaglia, ma non vincerai la guerra. Ma, se anche mi sbagliassi e la tua banda di depravati capeggiati dal Professore autistico dovessero uscire vivi dalla banca… Beh, tu non uscirai viva di qui, puoi starne certa. –
Lasciò che il silenzio rendesse ancora più pesanti quelle parole.
- Ti stai chiedendo perché ti fa male la schiena? –
Le sventolò davanti una piccola fotografia di polaroid. C’era una donna, sdraiata in una cella buia, con la schiena nuda. E sulla schiena degli squarci, come se fosse stata graffiata da degli artigli. Solo che con molta probabilità non erano stati artigli, ma una corda, o una cinghia… Cercò di fermare il pensiero, non voleva nemmeno immaginarselo. Ma fu la memoria a continuare il lavoro, perché ricordò di come ci era arrivata in quella cella.
Le frustate, le cadute. Le mani che la rialzavano. E poi di nuovo, e di nuovo. Fino a svenire. Per lo meno avevano avuto la decenza di rivestirla.
Rivestirla”.
Aveva il busto coperto solamente da una fasciatura e realizzò di essere in mutande. L’umiliazione più totale.
Una lacrima solcò la sua guancia, ma non fece in tempo ad arrivare all’orecchio che una lama fredda ed affilata fermò la sua corsa. Sierra raccolse sadicamente quella lacrima, senza ferirla però, e la osservò soddisfatta.
Poi, guardò l’uomo che era stato nella stanza per tutto quel tempo, gli fece un cenno e dichiarò, con un sorriso enorme:
- Apriamo le danze! – 

Non sapeva quanto tempo era passato.
Ore.
Giorni.
Ma indubbiamente doveva essere trascorso tanto tempo.
Perché non si può infliggere tanto dolore ad una persona in poco tempo.
Non è umanamente possibile.
O forse, era proprio questo il problema. Quella donna non era umana.
Aveva perso il conto di tutte le torture che le aveva inflitto. La cosa peggiore era quando un uomo le copriva la faccia con un panno bagnato ed un altro le versava sopra dell’acqua. Ogni volta era come affogare. Aveva perso il conto anche delle volte in cui era svenuta, e di quelle in cui l’avevano svegliata. Per affogarla di nuovo, e di nuovo.
- Dov’è il Professore – diceva Sierra.
E lei non rispondeva.
E loro l’affogavano.
E ancora, e ancora.
Aveva scoperto che poteva fuggire però, con la mente. Andarsene lontano da quel luogo e non soffrire. Come se non fosse davvero lì.
Le avrebbero tolto la vita, ma non le avrebbero tolto l’identità.
Non le avrebbero tolto i ricordi.
E così, ogni volta che affogava, tornava a quando lei e Sérgio avevano fatto il bagno vestiti. A quando avevano fatto l’amore nel mare. E l’acqua diventava un po’ meno nemica. E si dimenticava che stava affogando. Il suo corpo si dimenava, i suoi polmoni urlavano, ma la sua mente sorrideva, e dentro di lei continuava ad esserci vita.
Sarebbe morta, ma avrebbe vinto. Lo capiva da come Sierra la guardava, che la stava battendo. Non stava soffrendo e questo per lei rappresentava un terribile fallimento. Stava lì, seduta sulla sedia ad accarezzarsi il pancione mentre qualcuno faceva il lavoro sporco al posto suo.
Finché, non si stufò.
- Senti figlia di puttana, non parli? Ok, ammetto che mi sarei aspettata che cedessi sai, non credevo che quel Professore ti avesse ammaliata fino a questo punto. Adesso è ora di fare sul serio –
Si inginocchiò goffamente al suo fianco per sussurrarle all’orecchio.
- Inizierò dalle braccia… poi scenderò, sull’addome. E se ancora non avrai parlato… Potrei pensare di rovinare quel bel faccino che tanto ha fatto innamorare il tuo genio. Ma tanto, non importerà a nessuno, o mi sbaglio? –
Le piantò la lama del coltello nell’avambraccio ed iniziò a tagliare. Sapeva cosa stava facendo. Niente vene che avrebbero potuto compromettere la sua vita, per ora. Ma un dolore assurdo, quello sì. E per la prima volta da quando si era ritrovata in quel buco, Lisbona emise un lamento.
Poi fu il turno del petto. Sierra si era decisa a sfregiarla per bene. Tentò disperatamente di non urlare, rifugiandosi di nuovo nella sua mente. Ma ora era più difficile, era diverso. Era stanca. E soprattutto, era presente, e il dolore vivido.
Ma quando fu il turno del volto, non resistette più. Alicia le stava schiacciando con una mano la faccia contro il pavimento e continuava a ripeterle
- Non muoverti! Potrei sbagliare! –
Non sapeva nemmeno dove stava incidendo la lama, perché ormai il dolore si era fatto pressante in tutto il corpo. Le bruciava tutto. Le mancava l’aria, forse per le urla, forse per i singhiozzi.
Dopo attimi orribili ed interminabili, finalmente Alicia si alzo, con aria soddisfatta. Le sorrise, si voltò, e senza dire una parola uscì. Gli uomini che l’avevano affogata fecero per seguirla, ma Alicia ne fermò uno e le disse qualcosa che Lisbona non capì. Lui si avvicinò con aria insicura e la fissò, senza fare nulla. Lisbona non riusciva nemmeno a distinguere il suo volto, aveva la vista annebbiata ed era come se ci fosse un velo tra lei ed il mondo.
- Allora?! – la voce di Alicia risuonò dal fondo della stanza. Ancora non se ne era andata?
Il pugno arrivò come se fosse stato un mattone. La colpì in pieno volto, dove Sierra aveva appena finito di tagliarla.
Il dolore fu talmente forte, che tutto divenne nero.
Finalmente.
Un po’ di riposo.  

---

A warning to the people, the good and the evil
This is war

To the soldier, the civilian, the martyr, the victim
This is war

It's the moment of truth and the moment to lie
And the moment to live and the moment to die
The moment to fight, the moment to fight,
To fight, to fight, to fight!

To the right, to the left
We will fight to the death
To the edge of the earth,
It's a brave new world, from the last to the first

Fin dal giorno in cui avevano messo piede in quel monastero a Firenze era sembrata una follìa a tutti.
Ed ora, eccoli lì. Davanti all’uscita principale della Banca di Spagna, con le tute rosse e le maschere di Dalì, come il primo giorno, in attesa della resa dei conti.
Anche se mancava qualcuno all’appello.
Per due giorni avevano continuato a fondere oro come dei matti, fino allo sfinimento. Avevano ridotto i turni di riposo e sfruttato fino all’ultimo ostaggio per cercare di velocizzare la produzione di quelle fottute sfere dorate. Ma erano in guerra, e in guerra non è concesso alcun lusso, tantomeno il riposo.
Avevano ucciso Nairobi.
Avevano preso Lisbona.
Avevano mentito, avevano infranto la tregua.
Avevano perso qualche battaglia, ma non avrebbero perso la guerra. E avrebbero combattuto fino alla fine, fino alla morte. Niente avrebbe fatto tornare in vita la loro compagna, ma Lisbona se la sarebbero ripresa eccome.
Ma prima, avrebbero dovuto umiliarli fino all’ultimo. Il piano del Professore sembrava folle, come tutto il resto, certo, ma questo se possibile lo era ancora di più. Lo aveva chiamato piano Hiroshima. Pretenzioso, ma rispecchiava bene l’entità del danno che avrebbero causato. Non sarebbe stato un danno in termini di vite umane, ma lo sarebbe stato a livello economico e di sistema. Perché di quell’oro, loro non ne avrebbero tenuto neanche un grammo. No, il piano era quello di umiliare la nazione e regalare, letteralmente, l’oro alla popolazione.
Il Professore aveva fatto i conti fin nei minimi dettagli. Numero di agenti, squadre antisommossa, militari. Quante armi, posizioni, protezioni. E poi, aveva scatenato il delirio nei media, così che mezza Madrid era accorsa alle porte della banca di Spagna per protestare. Erano troppi, letteralmente troppi per le forze dell’ordine. Soprattutto se qualcosa avesse fatto scattare il delirio tra la folla. Sarebbe stato impossibile contenerla.
E così, fecero la loro uscita trionfale. Facendosi beffe di tutta la Spagna, la porta principale della banca si aprì e rivelò una cinquantina di persone in piedi, in fila, armate, con le tute rosse e le maschere di Dalì, che fissavano l’esterno, immobili. E piano piano una sparaneve si fece largo tra loro e si attivò. Ma non sparò neve.  
Sparò l’oro.
Miliardi di minuscole sfere dorate iniziarono a volare a decine di metri di distanza dalla banca.
E la folla entrò in delirio.
Se la polizia avesse aperto il fuoco, qualche civile sarebbe sicuramente rimasto colpito, e un altro scandalo mediatico era l’ultima cosa di cui le forze dell’ordine avevano bisogno. Non che quello non lo fosse, ma la morte di un innocente non avrebbe di certo migliorato le cose. Perciò, non ci fu modo di arginare la follìa. I calcoli del Professore erano corretti, le squadre antisommossa non erano abbastanza e vennero spazzate via come una scialuppa in mezzo ad una tempesta. La calca impazzì e scoppiò il putiferio proprio di fronte alle porte della banca di Spagna, dove l’oro era maggiormente concentrato. E così, i cinquanta personaggi in maschera fecero la loro uscita trionfale.
E la banda si dissolse, invisibile ed inosservata in quella situazione completamente paradossale.
Ciò che successe dopo, è di poca importanza paragonato ad un’impresa di tale entità: il buon Marsiglia, onnipresente, si era casualmente fatto trovare a pochi metri di distanza, alla guida di un insospettabile furgone di hot dog. Li caricò e li portò nell’hangar. E come promesso, non portarono con sé nemmeno un grammo d’oro. Tranne qualche lingotto che non avevano fatto in tempo a fondere, era un peccato lasciarli lì. E una valigetta piena di segreti di stato, anche quella sarebbe potuta tornare utile, non si sa mai.  

Quel ricongiungimento sarebbe rimasto nei cuori di tutti loro. Indelebile, indimenticabile. La luce negli occhi di ognuno ricordò a tutti di quanto fossero importanti i legami che avevano creato tra loro. Avevano iniziato imponendosi la regola di non costruire relazioni, ma ora si guardavano come si guardava la propria famiglia. Si concedettero quel piccolo momento di gloria, ma sapevano che non era finita. La guerra non era giunta al termine, avevano vinto la battaglia più importante, ma ora veniva la parte più delicata e più il tempo passava più la vita di Lisbona era in pericolo. Sierra non ci avrebbe messo molto ad ucciderla non appena fosse venuta a conoscenza della notizia della loro fuga. Non l’avrebbe fatto tanto con uno scopo preciso, quanto per il puro gusto di danneggiarli. Si era dimostrata spietata ed ora che era alle strette non sarebbe sicuramente stata da meno. Lisbona non gli sarebbe più servita e Sierra sapeva che ucciderla li avrebbe indeboliti. Avrebbe indebolito il Professore, spingendolo a fare qualcosa di avventato. E allora sì, che avrebbero perso la guerra. Ma erano tutti risoluti perché questo non accadesse.
Il Professore aprì una mappa su un tavolo ed iniziò a spiegare. Aveva scoperto dove tenevano Lisbona, si trovava in un magazzino abbandonato che era diventato proprietà dello stato anni prima, quando era stato requisito. Il posto perfetto quando si vuole torturare qualcuno, ma non si ha tempo di espatriarlo o portarlo nelle prigioni dei servizi segreti. In poche ore aveva elaborato un piano che poteva funzionare, anche se folle. Ma del resto, quali delle cose che avevano fatto insieme non era folle?
Lo squadrone di hacker pakistani che fino a quel momento li aveva tolti dai guai fu fondamentale, ancora una volta. Manomisero filmati di sorveglianza, procurarono nomi ed identità di tutti gli uomini che lavoravano in quel magazzino; planimetrie, passaggi segreti, celle telefoniche ed intercettazioni. E soprattutto la conferma che Lisbona si trovava lì.
Il piano era semplice. Eliminare le guardie all’esterno e sostituirle. Sarebbe stato il ruolo dei Serbi.
Poi, fare irruzione. Il più silenziosamente possibile.
Eliminare chiunque si trovasse sul loro cammino.
Entrare nello scantinato dove era tenuta Lisbona.
Prenderla e portarla via. Il più in fretta possibile.
Il Professore avrebbe coordinato tutto da un veicolo a poca distanza dal magazzino.
Semplice, pulito. Poteva funzionare. Non ci sarebbero state molte guardie, si trovavano in una struttura abbandonata all’insaputa di chiunque, in un luogo disperso fuori Madrid durante uno degli eventi più memorabili della storia spagnola. C’erano solo due regole. Tirare fuori Lisbona viva, e non commettere nessun omicidio. Ovviamente la prima aveva più importanza della seconda.
- Professore, come possiamo “eliminare chiunque si trovi sul nostro cammino” se non dobbiamo commettere omicidi? – chiese Tokyo con aria beffarda.
- Narcotici. Sarete armati, ma i vostri fucili d’assalto avranno proiettili a schegge imbevuti di narcotico. Strano, per un fucile d’assalto, lo so, ma li ho fatti progettare anni fa. Avrete l’onore di essere i primi ad utilizzarli. Li ferirete, li addormenterete, ma non moriranno. Questo vi permetterà di entrare, fare il vostro lavoro ed uscire. Non preoccupatevi però, avrete anche una pistola. Non voglio che nessuno di voi perda la vita là dentro. Questa guerra è già costata fin troppo –
Un silenzio di approvazione seguì quella spiegazione esaustiva.
- Vamonos – disse il Professore – andiamo a vincere questa guerra! –
- Sì cazzo! Andiamo! – esclamarono tutti all’unisono.

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If I stay with you, if I'm choosing wrong
I don't care at all

If I'm losing now, but I'm winning late
That's all I want

Whatever happens in the future, trust in destiny
Don't try to make anything else even when you feel

I don't care at all
I am lost
I don't care at all
Lost my time, my life is going on

  - Mi scusi, ha un caricatore? Mi si è scaricata la batteria –
- No, mi dispiace… -
- Se vuole, può usare il mio… -
- Grazie, lei è molto gentile! –
Si svegliò, e lui era ancora accanto a lei. Le capitava spesso di ripercorrere in sogno il loro primo incontro, ed ogni volta si svegliava con la paura che potesse non essere reale. Ma poi, se lo trovava accanto ed ogni mattina era la più bella scoperta dopo anni di frustrazioni ed abusi.
 Il profumo di erbe Thailandesi la fece sorridere, sembrava il paradiso. E Sérgio addormentato, nudo al suo fianco. Appoggiò la testa sul suo petto ed ascoltò i battiti del suo cuore. Lo accarezzò dolcemente ed osservò il suo petto sollevarsi ed abbassarsi al ritmo dei suoi respiri. Non c’era altro posto in cui avrebbe voluto essere. Doveva essere mattino presto a giudicare dalla luce, ma sembrava che il sonno l’avesse abbandonata. Scoccò un bacio alle labbra di quello che inaspettatamente era diventato il suo uomo e si mise a sedere sul letto, ma sentì una mano accarezzarle la schiena nuda.
- Dove pensi di andare… - disse una voce assonnata alle sue spalle.
Si voltò e lo guardò, sorridente. Aveva ancora gli occhi chiusi, ma sorrideva anche lui.
- Pensavo di andare a fare una corsetta… ho bisogno di fare esercizio- rispose lei.
- Esercizio? – aprì gli occhi guardandola con aria maliziosa. Le cinse il braccio e la tirò a sé, baciandola con passione. Non sarebbe mai riuscito a vivere senza quel sapore, senza quella dolcezza. La loro storia era nata per sbaglio, ma era la cosa più giusta che gli fosse mai capitata nella sua intera vita da lazzarone - Posso aiutarti io a fare esercizio … - aggiunse.
Lei ricambiò il suo bacio e si sedette a cavalcioni sopra di lui. Si guardarono, si sorrisero.
Era il momento più felice della sua vita.
E sperò che potesse non finire mai.
Si baciarono di nuovo, ma piano piano quel bacio iniziò ad avere un sapore diverso. Incominciò ad essere, quasi… soffocante. Sempre di più, sentiva di non poter respirare, cosa stava succedendo?
Cosa… ?  

- Finalmente! Mi stavo preoccupando, Raquél, per un momento ho temuto che non ti saresti più svegliata! –
Questa volta, il sogno era davvero un sogno. Un ricordo, di un momento ormai lontano. Che probabilmente non avrebbe vissuto mai più.
Tossì, le avevano rovesciato un secchio intero di acqua ghiacciata in faccia, ecco perché si sentiva soffocare. Aveva la vista annebbiata, non sapeva quanto tempo era passato dall’ultima volta in cui… Sierra le aveva fatto visita. Per la prima volta realizzò davvero quanto quella situazione fosse estrema, drammatica. Faticava a ricordare perché si trovasse lì, ma poco importava. L’unica cosa che contava era che non aveva tradito la banda, non aveva tradito Sérgio. Aveva scelto da che parte stare anni fa, e ora, non le importava più della sua vita. Aveva votato la sua esistenza ad una causa, ad un amore, e non si sarebbe tirata indietro. Se morire in quel sudicio buco per mano di una psicopatica era il suo destino, che così fosse. Non si sarebbe opposta.
Lei amava Sérgio, e lui amava lei, questa era l’unica cosa che importava.
Stava perdendo la vita perché lui potesse vivere, questo importava.
Che Sierra non vincesse, anche questo importava.
Tutto il resto, era irrilevante.
Scoppiò a ridere tirando le fila di quei pensieri, cosa che fece indispettire non poco la sua aguzzina. Ma Alicia non si decompose, come suo solito.
- Ci sono novità, sai? I tuoi compagni sono usciti dalla banca, ed indovina? Non ne abbiamo preso neanche uno! – gesticolò come a voler dire “com’è possibile?!” in un modo incredibilmente caricaturale. Lisbona rimase stupita da quella notizia. Se erano usciti dovevano essere passati giorni da quando l’avevano presa.
Ma nemmeno questo importava, ciò che contava era che ce l’avevano fatta, anche senza di lei. Ed erano andati avanti, fino alla fine, anche senza di lei.
Sorrise.
- Puoi sorridere, tesoro, ma ancora per poco. Perché ora che i tuoi compagni sono scappati, immagino che tu non sappia davvero dove andranno. Perciò, sorpresa! Non ci servi più! –
Quella sentenza non fu una novità per Lisbona, ma sentirlo dire da qualcuno che non fosse la sua testa le fece raggelare il sangue. Era il momento, dunque.
- Hai qualche ultimo desiderio? Non so, vuoi una delle mie caramelle gommose? Mi sento misericordiosa, apprezza questo gesto d’amore – scoppiò a ridere sadicamente – Pistola, per favore – disse ad uno dei due uomini accanto a lei. Impugnò la pistola e gliela puntò alla testa.
Lisbona chiuse gli occhi, cercando di tornare al sogno che stava facendo prima che quei figli di puttana la svegliassero. Ma non ci riuscì, perché gli spari arrivarono prima del previsto. Ma non erano così vicini come dovevano essere. Riaprì gli occhi e vide che Sierra aveva abbassato la pistola e stava guardando preoccupata la porta.
Gli spari continuarono.
I due uomini uscirono subito, armi alla mano, mentre fuori iniziarono a sentirsi anche delle urla.
L’avevano trovata allora. Non l’avevano abbandonata. Scoppiò a piangere e ridere insieme, mentre guardava Sierra sbiancare sempre di più. Ma non ci mise molto a ricomporsi e puntarle di nuovo contro la pistola.
Ma certo, l’avrebbe presa in ostaggio. Quanto poteva essere scontata se presa alla sprovvista. Allora, era umana anche lei in fondo!
Finalmente, dopo minuti interminabili di spari, degli uomini vestiti di nero fecero irruzione sfondando la porta. Le guardie erano stese a terra.
- Fermi, figli di puttana, o le pianto una pallottola in testa! – urlò Sierra. Nonostante avesse cinque fucili d’assalto puntati contro, cercava ancora di giocare al negoziatore. Lisbona non seppe dire se le faceva onore, o se faceva solo pena.
Ci fu un momento in cui la situazione rimase immobile, congelata dalla tensione. Nessuno parlò, nessuno mosse un dito. Finché, uno degli uomini fece un passo avanti estraendo la pistola e con un movimento rapido mirò in direzione di Lisbona ed esplose il colpo ancora prima che qualcuno potesse muovere un muscolo. Poi ci fu un urlo, quello di Sierra. Marsiglia si tolse il passamontagna e andò subito a prendere la sua arma, ormai a terra insanguinata. Le aveva sparato alla mano con la quale teneva sotto tiro Lisbona. Ci voleva una mira da cecchino per centrare un colpo simile con una tale rapidità. Spinse via Alicia e gli altri subito la presero sotto tiro, poi andò a liberare Lisbona dalle catene. La prese in braccio.
- Sei al sicuro, adesso ti porto da Professore – le disse sorridendo, con quel suo accento così buffo.
- Forza, andiamo. Lasciamo qui questa stronza – era la voce di Denver. Sentì dei passi dietro di loro mentre Marsiglia la portava fuori da quell’inferno.
- Attenti, potrebbe essercene ancora qualcuno cosciente –
Stoccolma.
Un rumore improvviso interruppe quello dei loro passi.
- Attenzione! Davanti a te Marsiglia! – urlò Tokyo.
Marsiglia scartò di lato riparandosi dietro una colonna di ferro mentre una catena di colpi esplodeva a pochi centimetri da loro. Gli altri si erano riparati nello stesso modo, poco più indietro.
- Cosa facciamo?! È corazzato, i nostri proiettili non gli faranno niente! – disse nuovamente Stoccolma.
- Aspettiamo che finisca il caricatore?! – ironizzò Denver.
- Non muovetevi, voi! Ci pensa Marsiglia! – urlò Marsiglia, sovrastando il rumore dei colpi.
Senza preoccuparsi di mettere giù Lisbona, si espose al fuoco e sparò un colpo con la sua pistola, che in confronto all’F-16 del nemico sembrava una formica al cospetto di un gigante. Eppure, il colpo apparentemente andò a segno, perché i gli spari cessarono all’improvviso. Marsiglia aveva mirato alla parte scoperta tra il giubbotto antiproiettile ed il casco, ed aveva fatto centro.
- Marsiglia, sei un grande! – la risata fragorosa di Denver risuonò in tutto il magazzino, ormai completamente silenzioso.
- Andiamo – rispose lui, imperativo.
Uscirono, e Lisbona fu accecata dalla luce del sole. Ma durò poco, perché la scarica di adrenalina degli ultimi attimi l’aveva sfinita. Chiuse gli occhi e si sentì svenire. Sentiva solo le voci lontane dei suoi compagni.

“Tieni duro, Lisbona, ci siamo quasi!”
“Ancora pochi metri!”
“Dai cazzo, che ce la facciamo”
“Forza, mettetela qui.”
“Piano, piano…”

Sentì delle mani stringerla e si sentì poggiare su qualcosa di morbido. Poi il rumore di un motore, ed una sensazione di movimento. E delle esclamazioni, tante esclamazioni, e risate. Con uno sforzo immane aprì gli occhi e capì di trovarsi nel retro di un furgone. Tutto intorno, persone vestite di nero la osservavano.
- Professore – disse una voce familiare. Sembrava quella di Tokyo.
Sentì una mano accarezzarle la testa, cercò di alzare la testa per guardare chi fosse… e, nonostante la nebbia negli occhi, riconobbe il suo volto. Il suo inconfondibile sguardo, con quella barba che ancora non si era fatto da quando avevano iniziato la rapina, come suo solito.
Trovò la forza di sorridere.
- Sei al sicuro adesso, Raquél – le sussurrò.
Lei sorrise di nuovo e con un filo di voce disse:
- Ti amo, Sérgio… -
Ora era al sicuro. Lo era davvero, ed era finita. Chiuse gli occhi e lasciò che l’oscurità la inglobasse, ma con la consapevolezza che quando si sarebbe svegliata, lui sarebbe stato di nuovo al suo fianco. 

---

Bella ciao!


Si svegliò di soprassalto, scossa da un tremito. Spalancò gli occhi, aveva il respiro pesante, i battiti accelerati.
- Raquél, Raquél, tranquilla –
Il Professore al suo fianco la rassicurò, accarezzandole la testa. Non appena Lisbona realizzò cosa era accaduto, cercò il suo abbraccio ed appoggiò la testa sul suo petto, stringendolo con la poca forza che aveva recuperato in quel breve riposo.
- Puoi stare tranquilla ora, siamo al sicuro – disse lui scoccandole un bacio sulla fronte.
Erano sdraiati in un letto, la luce dell’alba filtrava da una piccola finestra rotonda. In lontananza, Lisbona poté scorgere l’orizzonte, che si stendeva su una vasta distesa di acqua. Mare. Erano in mare. Ce l’avevano fatta, dunque. Avevano raggiunto il punto di estrazione e si erano messi in salvo.
Per la prima volta, dopo giorni, sentì i muscoli del suo corpo rilassarsi davvero. Si puntellò goffamente su un gomito e scrutò il volto dell’uomo di cui era follemente innamorata. Lui ricambiò quello sguardo e si baciarono.
Fu uno dei baci più belli di tutta la sua vita.
Caldo, romantico.
Sicuro.
Vero.
Avevano vinto la guerra, dunque, e quel bacio sapeva di vittoria.
Si appoggiò di nuovo sul suo petto, spingendo la fronte nell’incavo del collo di lui e si godette quel momento indimenticabile, finché non cominciarono ad affiorare i dolori.
- Come sto? – gli chiese, senza cambiare posizione.
- Beh… - la sua voce era titubante – hai delle brutte ferite alla schiena, alle braccia e al petto… ti abbiamo ricucita, ma in qualche giorno dovresti stare bene –
Ci fu un momento di silenzio.
- E poi… -
Ma fu interrotto da qualcuno che fece rumorosamente irruzione in quella minuscola stanza.
- Ragazzi, la Professora è sveglia! – la voce di Tokyo risuonò fortissima nelle orecchie di Lisbona – Forza, venite!! –
Qualcuno si buttò sul letto, e poi qualcun altro e ancora e ancora mentre il Professore cercava di protestare dicendo cose come “piano, attenti” e Lisbona cercava di mettersi a sedere. Sérgio la aiutò infilandole un cuscino dietro la schiena, e finalmente li vide. C’erano tutti. Tokyo, Denver, Stoccolma, Rio, Helsinki, Marsiglia, Palermo, Bogotà… Rise insieme a loro, anche se la consapevolezza dell’assenza di Nairobi trafisse tutti nel momento in cui realizzarono che la guerra che avevano appena vinto aveva richiesto un prezzo enorme. Marsiglia, la persona più integra del gruppo, stappò una bottiglia di spumante, distribuì degli squallidi bicchieri di plastica mentre tutti se ne stavano in silenzio a contemplare quel cambio di atmosfera così fottutamente inevitabile. L’omone versò lo spumante, alzò il suo bicchiere e disse:
- Per Nairobi. –
Dopo un momento di silenzio, tutti lo imitarono.
- Per Nairobi – Helsinki fu il primo a ripeterlo, e tutti seguirono in coro.
- E per Mosca – aggiunse Denver.
- E per Oslo – disse Tokyo.
Dopo che tutti ebbero bevuto, il Professore spezzò quell’atmosfera insopportabile esordendo ironico:
- Marsiglia, ti rendi conto che mi stai facendo bere alle 6 del mattino!? – e così, tutti tornarono a ridere.
Anche Lisbona rise e si voltò per dare un bacio al Professore.
- Io, vorrei brindare anche a voi – disse – per avermi tirata fuori da quel sudicio buco dove sarei sicuramente morta… e soprattutto, per avermi tirato fuori dalla vita che stavo conducendo prima di unirmi a voi –
Tutti alzarono i bicchieri e le sorrisero, mentre il Professore le diede un altro bacio. Lo sguardo di Lisbona fu però catturato da un piccolo specchio appeso alla parete, di fianco alla finestra, proprio di fronte a lei. O meglio, fu catturato dal suo riflesso. Vide le cicatrici che Sierra le aveva lasciato in volto e si gelò. Con la mano libera si toccò in corrispondenza di ciò che vedeva riflesso nello specchio, come a controllare che non fosse la sua immaginazione. Ma no, quei tagli c’erano, poteva sentire i punti cuciti sotto i suoi polpastrelli.
Tutti, compreso il professore, osservarono la scena in silenzio, lo sguardo basso, lasciandole il tempo di elaborare quello che poteva a tutti gli effetti considerarsi un lutto. Ma dopo qualche secondo il Professore le prese il volto tra le mani, facendo attenzione a non farle male, e la costrinse a guardarlo negli occhi. Ma prima che potesse dirle qualcosa, Tokyo intervenne.
- Le cicatrici significano che hai sofferto, Lisbona. Ma significano anche che sei sopravvissuta –
Lisbona la guardò ed annuì. Sapeva che aveva ragione.
In quella stanza, ognuno di loro aveva pagato un prezzo imparagonabile per quella guerra, per quella resistenza. Tokyo portava sulle spalle il fardello della morte di Mosca.
Denver aveva perso suo padre.
Stoccolma aveva perso la sua vita precedente.
Rio aveva perso la sua famiglia.
Helsinki aveva perso Oslo.
Palermo aveva perso Berlino.
Il Professore aveva perso Berlino.
E tutti loro, avevano perso Nairobi.
Quelle cicatrici erano il suo prezzo.
Il prezzo di chi ha vissuto l’inferno ed ora è costretto a vivere una vita camminando con la morte a fianco.
E a doverselo ricordare ogni mattina.
A cosa era servita quella guerra? Forse nessuno avrebbe saputo dare una risposta in quel momento. Nessuno era più lo stesso dopo quell’impresa folle. Avevano vinto, perdendo molto.
Ma una cosa era certa. Avevano anche guadagnato qualcosa: una ragione per vivere.
Ed una famiglia.
E questa, è una cosa che non ha prezzo.

 The End. 

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MUSIC CREDITS. 

- THROUGH THE VALLEY,
SHAWN JAMES
- LOST AND DAMNED, KAMELOT
- AMNESIAC, KAMELOT
- THIS IS WAR, THIRTY SECONDS TO MARS
- MY LIFE IS GOING ON,
CECILIA KRULLBURAK YETER

  
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