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Autore: _Lightning_    03/05/2020    2 recensioni
[INCOMPIUTA]
«Mi sembrava che ne avessi bisogno,» sussurra Natasha, con voce velata, e Tony sorride appena a quello sfoggio di spavalderia che sanno entrambi essere inutile.
«Decisamente,» non la contraddice, ma aumenta un poco la stretta e sente la sua farsi quasi disperata a sottolineare quanto ne avesse bisogno anche lei.
Come se quell’abbraccio potesse alleggerire il dolore di entrambi, o fonderlo in modo da renderlo più comprensibile, meno oscuro.
Non sa se Natasha lo stia trascinando verso il basso per piantare un ormeggio sicuro, o verso l’alto, a fluttuare incerto a mezz’aria. Ma sfiora la terra con la punta dei piedi e rimane lì, in equilibrio, in bilico con lei.

In un universo in cui lo schiocco ha reciso e distrutto legami, chi è rimasto è costretto a ricostruirli, ritrovarli, o crearne di nuovi, con il costante interrogativo di quanto sia giusto andare avanti quando ci si è lasciati così tanto dietro.
[pre-Endgame // Hurt-comfort // IronWidow + Pepperony // PoV Tony]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Natasha Romanoff/Vedova Nera, Pepper Potts, Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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.18.

Confini


 
“È l’epoca a gonfiare d’angoscia
umana il flutto che s’increspa; e l’aurea
misura dell’epoca ha il respiro
della vipera nascosta fra l’erba.”
Epoca – O. Mandel’štam


 
Maggio 2019

Alla fine, si convince che sia probabilmente il compleanno migliore che abbia mai avuto da anni. Principalmente perché nessuno ha ritenuto opportuno obbligare lui a festeggiarlo. Quella mattina rimedia solo una calorosa pacca sulla schiena da Rhodey e una colazione abbondante che attenterà probabilmente al suo fegato, e considera chiusa quella tediosa pratica quanto mai infelice, quest’anno.

Rimane seduto al tavolo, meditabondo, con un caffè troppo forte in mano e gli occhi che non leggono davvero la rivista digitale proiettata sul vetro. Sospira a mezza voce, sfregandosi il naso e addentando una fetta di bacon che perde di sapore e consistenza con ogni secondo che perde a rimuginare. Non riuscirà mai più a scindere il proprio compleanno dallo schiocco. Tre giorni prima. Solo tre giorni prima. [1]

Tre giorni prima della fine era andato con Peter, Pepper, Happy e Rhodey a Malibu. Gli avevano organizzato quella gita improvvisata come regalo riuscendo di fatto a sorprenderlo, visto che tendeva sempre a perdere la cognizione del tempo all’avvicinarsi del proprio compleanno – un meccanismo di autodifesa, in effetti, collaudato nel corso degli anni. Avevano trascorso lì il fine settimana, godendosi i primi scampoli dell’estate oziando alla villa, crogiolandosi sulla spiaggia immacolata e passeggiando nelle stradine turistiche e ancora semivuote di Santa Monica.

Lì aveva passato un paio d’ore con Pepper bloccato in un negozio di abiti da sposa, visto che a poco più di due mesi dal fatidico giorno erano ancora a corto di un vestito che la soddisfacesse. Rhodey, Happy e Peter avevano invece intrapreso il tour dei negozi di souvenir alla ricerca di quello più kitsch e pacchiano… trovandolo: una bambolina da auto di Iron Man in bermuda, con una ghirlanda di fiori al collo e una tavola da surf in mano. A dispetto del suo solito veto categorico per i regali materiali, glielo avevano comunque rifilato come tale, obbligandolo poi a piazzarlo sul cruscotto di una delle sue macchine di stanza lì. Sorride appena al pensiero, combattendo le linee di tensione agli angoli delle labbra.

Ricorda ancora la meraviglia negli occhi di Peter nell’affacciarsi per la prima volta sul terrazzo a picco sulla scogliera, e il modo in cui aveva allargato quasi inconsciamente le braccia ad abbracciare l’oceano, suscitando da parte sua una battuta scontata su Titanic e una risata del ragazzo finta e allo stesso tempo sincera, a prenderlo in girlo. Era stata la sua prima volta sulla Costa Ovest. La prima e l’ultima, nonostante Tony gli avesse promesso di invitare lì lui e sua zia per un paio di settimane estive, come regalo di maturità. Un premio assicurato e già vinto, gli aveva detto. Promesse al vento, ormai cenere.

Erano stati giorni sereni, durante i quali aveva lasciato da parte fantasmi ancora scomodi e preoccupazioni incombenti, ma adesso sono avvolti da un senso di irrealtà. Una parte di lui si ripete che avrebbe dovuto saperlo, già allora. Che non poteva durare per sempre. Che non ha mai avuto diritto a quel tipo di felicità, perché se la lascia sempre sfuggire dalle dita o la stringe troppo forte, frantumandola. Oppure la lascia evaporare o raffreddare, perché non sa controllare la fiamma con cui la alimenta. Si è scottato, di nuovo.

Finisce il caffè a fatica, forzandolo oltre il groppo che gli si annoda in gola.

È di nuovo il primo ed ennesimo compleanno in cui c’è solo Rhodey, a fargli gli auguri. Mette le mani su quella realizzazione, anch’essa ustionante, e si imprime sui palmi un calore rovente, come quello che gli brucia gli occhi col ricordo di un sole che non è più così caldo.

 
§


Degli altri non c’è traccia. Se ne rende conto dopo aver fatto due passi all’esterno nell’aria tiepida ed aver poi trovato la palestra vuota, mandando in fumo i suoi propositi di un match autodistruttivo con Natasha. Si stupisce anche dell’assenza di Rogers, visto che solitamente vaga su e giù per il Complesso come se fosse l’uomo più indaffarato sulla faccia della Terra. Non è sicuro se ricollegare il tutto al proprio compleanno, in uno sprazzo d’egocentrismo illogico, o alla causa più probabile dell’anniversario alle porte.

In ogni caso si prospetta una giornata oziosa: non si azzarda a toccare le pratiche del RESCUE in sospeso senza Natasha, a scanso di mutilazioni per aver gestito in modo errato qualcosa. Si piazza così nella sala di controllo coi piedi sulla consolle e riprende per la settima volta la lettura di Moby Dick, chiedendosi se riuscirà mai ad arrivare al punto clou, o se è destinato a vagare per sempre tra i flutti del Pacifico in cerca di un mostro evanescente – non sa nemmeno se tifare per Achab o per Moby, a questo punto – intervallando la lettura con qualche armeggio sporadico sull’Iron Legion e sul reboot di FRIDAY.

Sorseggia caffè scoccando di tanto in tanto occhiate agli schermi silenziosi, e la giornata gli scorre addosso più rapida di quanto avrebbe pensato, arrivando in modo quasi indolore alla fine delle ventiquattr’ore preposte ai suoi festeggiamenti.

Tira un sospiro insapore, carico d’apatia, ma quella notte è priva d’incubi.

 
§


Steve e Natasha non si fanno vivi nemmeno il giorno dopo e Tony, dal menefreghismo rasentante il sollievo, passa ad allarmarsi. O meglio, a insospettirsi mantenendo un basso profilo.

Cerca di interrogare alla larga Rhodey in proposito, ma ne sa quanto lui – o almeno finge che sia così. Bruce torna proprio quel pomeriggio, con l’aria provata che lo accompagna dopo le sue lunghe sessioni “faccia a faccia” con Hulk. Nessuno ha ben capito in cosa consistano, né ha la sconsideratezza di chiederglielo; sta di fatto che nemmeno lui ha idea di dove sia finito il dinamico duo di ex-Vendicatori, né sembra poi così interessato a scoprirlo. Ha altro a cui pensare, conclude evasivo. Sembra sia tornato solo per tormentarsi riguardo al partecipare o meno alla cerimonia commemorativa per l’anniversario della Decimazione, ed è un qualcosa di cui dovrebbe preoccuparsi anche lui, anche se non ha scampo: l’ha già promesso a May, dopotutto.

Quell’incombenza pesa come un’incudine sulle spalle di tutti; anche di Rhodey, che sorprende un paio di volte con lo sguardo distante, perso nel vuoto. Non ha intenzione di assentarsi, mette però in chiaro, affermando che, anche se non volesse presenziare, farebbe comunque parte dei suoi doveri militari.

A volte Tony pensa che gli farebbe comodo, avere degli obblighi imprescindibili che non derivino solo dalla sua bussola morale ipersensibile e mal tarata. Ma allo stesso tempo si ripete che, così come non era un soldato dieci anni fa, non lo è nemmeno adesso, e finirebbe per disertare fin troppo spesso da quei doveri sovrimposti.

Preferisce comunque occuparsi la testa col mistero dei due agenti svaniti nel nulla da un istante all’altro, ripetendosi che la faccenda non gli stia affatto interessando più di quando sarebbe logico. È che sente uno di quei suoi brutti presentimenti in fondo allo stomaco. Non ha superpoteri: non ne ha mai avuti, se si esclude una lampadina azzurrina e traballante nel petto, ma quella sorta di sesto senso che gli si innesca di tanto in tanto lo tradisce raramente, e continua a rodergli le viscere. A dirgli che nell’aria c’è qualcosa di sbagliato che esula dalle sue paranoie. Che le sue paranoie, comunque, si rivelano spesso fondate, e che l’averle ignorate all’epoca li ha portati a vivere in un mondo cenere per metà. Non vorrebbe darsi ragione, ma sa di averla.

Per questo il giorno dopo, vigilia dell’anniversario, si piazza sin dal mattino presto in sala controllo, con un maxi-thermos di caffè a portata di mano, un surplus di ansiosa irrequietezza e le dita che volano rapide sulle tastiere olografiche.

Si sono resi irrintracciabili, Rogers e Romanov: i loro dispositivi elettronici sono offline od oscurati, i GPS delle loro tute da combattimento disattivati. Sono in missione, questo gli è chiaro… ma perché mai andarci in segreto? E proprio adesso, poi. Proprio adesso, gli si rimesta nelle camere oscure del cervello, in quel preciso punto in cui ora manca un ancoraggio che impedisce ai propri pensieri di andare alla deriva.

Si sfrega spazientito – irritato, sospettoso – il mento, digitando input su input ed elaborando stringhe di codice nel tentativo di localizzarli, ma dopo poco conclude che non stiano utilizzando alcun apparecchio collegato a FRIDAY: accedere tramite le sue backdoor rileva che il tutto è riposto in sicurezza nei magazzini dello stesso Complesso, e l’IA gli conferma che non è un reindirizzamento fasullo.

Rinuncia ai metodi diretti e passa alle scansioni ad ampio raggio: ci vorrà più di qualche ora, ma può sperare che in un istante di disattenzione i due vengano o siano stati individuati da qualche telecamera di sorveglianza. Non è del tutto legale – non lo è per niente, in realtà – ma lui si è ormai troppo intestardito nel volerli trovare e ha troppe poche attività alternative per le mani per dichiararsi sconfitto.

Subito dopo pranzo lo raggiunge Rhodey, seguito inaspettatamente da Bruce – che credeva rintanato in modo perenne nella sua stanza.

«Li stai ancora cercando?» chiede il suo migliore amico, senza preamboli.

Dal tono che usa sembra che stia sperando in un suo successo in merito, come se stesse prendendo pian piano consapevolezza che potrebbero trovarsi di fronte a una situazione sul punto di degenerare.

«Mh-hm,» lancia in risposta, stringendo le braccia al petto e inclinandosi inquieto contro lo schienale, gli occhi che seguono con piccoli scatti il continuo flusso d’informazioni digitale che si riversa davanti a lui.

«E ci sono novità?» tenta Bruce, piazzandosi lì di fianco con aria più corrucciata e incurvata del solito.

«Ho la faccia di uno che ha novità?» scatta Tony, con troppo caffè in circolo e un principio di emicrania che gli stringe le ossa parietali.

Bruce si limita a un mezzo sospiro trattenuto, mentre lui si preme pollice e indice tra le sopracciglia, a sciogliere la tensione.

«Pensi che gli sia capitato qualcosa?» continua Rhodey, premendogli subito una mano sulla spalla a frenare altre risposte nevrotiche a quella gragnuola di domande.

Tony si stropiccia la radice del naso, con gli occhi disabituati agli schermi che bruciano.

«Penso che stiano nascondendo qualcosa. Il che non è una novità, per nessuno dei due,» conclude, con un verso seccato, e svicola dalla sua stretta per inclinarsi meglio verso gli schermi.

Bruce non commenta, ma dall’espressione è chiaro che la pensi allo stesso modo. O forse sono solo gli strascichi dell’ultimo uno-a-uno con Hulk che lo rendono più serioso di quanto già non sia. Ha ancora più grigio, tra i capelli, e gli occhi infossati parlano di molti pasti mancati. Rhodey, invece, sembra trattenere qualche risposta volta a smentirlo: sposta il peso da un piede all’altro, appaiandovi una lieve stretta sulla sua spalla.

«Speriamo che sia così,» commenta, laconico.

Tony comprime rigidamente le labbra, mentre una microscopica parte di lui non può evitare di prendere in considerazione la possibilità implicita espressa da Rhodey. Il mondo è ancora allo sbando, domani è l’anniversario del disastro che loro hanno permesso. Quanto sarebbe improbabile un incidente? Un lunatico qualsiasi in mezzo alla folla che li riconosce, alza una pistola, mira alla testa e preme il grilletto? Ma Natasha se ne accorgerebbe, e Rogers è un soldato addestrato: saprebbero prevenire e reagire. Si coprirebbero le spalle a vicenda. Gli si agita comunque quel sentimento viscido nella bocca dello stomaco e si ritrova con la bocca secca, i denti che affondano nell’interno della guancia con un po’ troppa foga.

Potrebbe accadere a lui, domani, alla commemorazione. Non riesce a rendere spaventoso quel pensiero: ai suoi occhi ha la stessa rilevanza di un qualunque accadimento quotidiano sulla faccia della Terra, e si costringe a prende un respiro profondo per scacciare la mola che gli spacca in due il petto. Non dovrebbe essere un pensiero allettante, non più.

Trae un respiro smorzato dall’ansia. Sta giusto meditando per l’ennesima volta di mandare tutta la ricerca in malora solo per frenarsi all’ultimo secondo, quando un acuto trillo elettronico lo fa scattare sull’attenti, gli occhi calamitati dalla schermata lampeggiante; Bruce e Rhodey lo imitano, altrettanto tesi.

«Dove…» comincia Rhodey, cercando di individuare la provenienza del feed della telecamera, che mostra a loop i pochi istanti in cui il volto di Natasha viene inquadrato in un anonimo corridoio, forse di un qualche magazzino.

«Rio,» lo anticipa Tony, attendendo impaziente che FRIDAY ricostruisca la traccia digitale in base alle nuove coordinate.

Un minuto dopo si trovano di fronte a un mosaico di avvistamenti affastellato e sparpagliato ai quattro angoli dell’immensa metropoli tropicale, in quella che a giudicare da orari e distanze sembrerebbe una serie di spostamenti erratica e priva di logica. Tony socchiude le palpebre, rimettendo insieme i pezzi con qualche intento battito di ciglia: troppo frammentari e frenetici per essere un’indagine metodica… perfettamente sensati se si trattasse di un pedinamento, soprattutto se il bersaglio stesse attivamente cercando di far perdere le proprie tracce svicolando tra le favelas più nascoste e decrepite.

«Capo, credo che dovrebbe dare un’occhiata alle ultime notizie di Rio de Janeiro,» annuncia in quel mentre FRIDAY, subito proiettando a un suo cenno perplesso la diretta di un notiziario brasiliano.

Il titolo tradotto in simultanea dal portoghese – BRUTALE STRAGE TRA GANG A VIDIGAL [2] – campeggia in sovrimpressione alla ripresa di uno stabile fatiscente. Anche con una qualità video sgranata, e anche da quella distanza, è evidente che le chiazze rossastre, irregolari e asimmetriche sul muro esterno non siano un errore di tinteggiatura con vernice rossa.

«Perché qualcosa mi dice che non è opera di una gang?» mormora Rhodey, con fare rassegnato e un lieve scrollare del capo.

Tony non risponde e deglutisce a secco un bolo di carta vetrata, accedendo con pochi, rapidi comandi al sistema di sorveglianza interno. Quello che si para di fronte ai loro occhi rispecchia appieno il titolo del notiziario: i corpi sono almeno una dozzina, smembrati e sventrati con furia e poi disposti in una fila ordinata che segna la metà della stanza da un capo all’altro, con una macabra linea di divisione sbavata a collegarli. Il pavimento è pregno di sangue e questo sembra essere stato sparso ovunque con intento. Nonostante in vita sua abbia visto cose peggiori, anche se non di molto, Tony ringrazia che il feed delle telecamere sia in bianco e nero, così da non rimettere il pranzo sulla consolle informatica.

«Dio...» esala a mezza voce Bruce, strizzando gli occhi di fronte al massacro in una reazione raccapricciata.

Rhodey si limita a rattrappire con forza le labbra, con lo sguardo un po’ vitreo che lo coglie quando pensa un po’ troppo intensamente al suo Afghanistan [3]. Tony gli posa una mano sull’avambraccio contratto, stropicciandosi di rimando le palpebre per sfaldare quell’immagine vivida prima che prenda colore.

«Fri… ci stai dicendo che sono stati loro?» chiede poi, tirandosi il pizzetto con troppa forza.

In tutta risposta, l’IA fornisce una manciata di esplicativi fotogrammi della sorveglianza risalenti a un paio d’ore prima: due sagome dai volti sfocati, ma perfettamente distinguibili come Natasha e Rogers per via della stazza, che fanno capolino a passi cauti nella stanza già colma dello scempio. Tony rilascia un respiro tirato con le pinze, che non si è reso conto di trattenere. Torna poi a seguire i movimenti di Natasha e Rogers, che esitano sulla soglia e si guardano intorno evidentemente spaesati, aggirando la carneficina a distanza di sicurezza. Natasha si inginocchia ad esaminare un cadavere; Rogers si tiene discosto, di vedetta. Non ha davvero lo scudo con sé, prende nota, con un briciolo di sollievo fuori luogo.

«I filmati sono stati manomessi al momento della strage. A giudicare dall’impronta elettronica, si tratta delle nostre tecnologie,» annuncia laconica FRIDAY.

Tony cerca lo sguardo di Rhodey e lo trova altrettanto incupito, a conferma di stare pensando la stessa cosa.

«Barton?» esterna infine l’amico, sollevando le sopracciglia e dandogli prova di essere chiaroveggente.

Tony si reclina sullo schienale senza rispondere, molleggiando appena mentre chiude le schermate fluttuanti, a calare il sipario su quel macabro palcoscenico. Dà comunque ordine di mantenere attivo il tracciamento di Natasha e Rogers, così da seguire i loro movimenti nel mentre.

«Senza frecce?» osserva Bruce, con occhi dubbiosi dietro le lenti.

«Abbiamo subìto tutti uno “slittamento di carriera”.»

Tony alza le spalle, noncurante, sempre tenendo sotto controllo con la coda dell’occhio gli schermi – un’altra individuazione al Galeão Airport, il che fa presumere che siano sulla strada di casa.

«Però non me lo spiego,» lo distoglie Rhodey scuotendo la testa. «Barton non mi sembra tipo da…»

«Qualcuno tra i presenti può dire di conoscere davvero Barton?» lo ferma Tony, inclinando il capo e ruotando sulla sedia per fronteggiarlo e guardare al contempo Bruce.

Il loro silenzio è esattamente ciò che si aspettava. Schiocca sommessamente la lingua a riconferma della propria affermazione, per poi spostare rapidamente lo sguardo tra i due, ponderando le opzioni che hanno davanti. Indica Bruce, cercando di mantenere un tono leggero:

«Con tutto il rispetto, Shrek, ma non credo che un tuo ipotetico approccio a Rogers per interrogarlo avrebbe risvolti positivi; per non parlare di approcciare…»

«Lascio a voi il divertimento,» si schermisce subito lui, cogliendo l’antifona e alzando i palmi a dargli ragione. «Non ho comunque interesse a trovare o saperne di più su Barton, se è davvero lui il responsabile.»

Tony annuisce secco, per poi guardare Rhodey e puntarsi eloquentemente un pollice sullo sterno, dandovi un paio di colpetti per sottolineare vecchie ferite non del tutto rimarginate; a quel semplice gesto Rhodey sospira, annuendo rapido.

«A Steve penso io,» conclude, evidentemente poco entusiasta alla prospettiva, e si acciglia ancor di più in quell’espressione che precede uno dei suoi tanti ammonimenti: «Tu cerca di non farti uccidere da Natasha.»

«È un rischio cosciente che corro ogni giorno,» lo liquida lui, con leggerezza che non sente davvero.

Abbandona poi di gran carriera la sala di controllo per affogarsi in una dose di caffè caldo. Col passare delle ore, quel brutto presentimento si è espanso dallo stomaco al petto, rubandogli l’aria. Gli sembra che tutti gli eventi mancati di un anno intero si stiano concentrando in quei pochi giorni di tensione che aveva sperato di oltrepassare a occhi bendati senza nemmeno riuscire a vederli, e ogni respiro gli comprime il petto schiacciandogli i polmoni dal basso.

Barton, l’anniversario, il suo compleanno, Natasha. Cerca di non rimuginare troppo sul fatto che lei l’abbia tenuto all’oscuro di un’operazione evidentemente pianificata, ma quello si insinua comunque a forza tra cuore e sterno, un altro frammento fuori posto nel vuoto che si muove con un incastro sbagliato.

Scocca un’occhiata all’orologio: domani alle otto di mattina deve essere a Central Park. Il volo Rio-New York dura nove ore. Dovrebbe dormire adesso, per poi intercettare Natasha non appena varcherà la soglia, a notte fonda. Così potrà rubare senza troppi contraccolpi il tempo solitamente preposto al sonno per portare avanti una discussione inconcludente, che lo spingerà probabilmente sull’orlo di un esaurimento nervoso impedendogli di chiudere occhio fino alla sveglia.

Si pianta la base dei palmi nelle palpebre, con la consapevolezza latente che domani, a un’ora imprecisata del mattino, Peter gli si è sfaldato tra le braccia su Titano e Pepper è scomparsa in un soffio di cenere alla Tower. Aumenta la pressione, fino a generare dei puntini luminosi sulle retine, e si prepara un’altra dose di caffè, accantonando il sonno.

Non chiuderebbe comunque occhio, stanotte.

 
§


Si sveglia al suono dello schiocco, con un brivido sussultante che gli gela le ossa e le palpebre che sfarfallano frenetiche in cerca di luce, sbarrata dalle ciglia. Lo accoglie la penombra bluastra della sala comune, accompagnata da un indolenzimento delle spalle e del collo per la posizione scomposta in cui si è abbandonato sul divano, in attesa.

Un rumore sordo gli fa voltare il capo verso l'ingresso, dove scorge due silhouette note stagliate contro la vetrata; ricollega lo schiocco onirico allo scatto materiale e metallico della serratura. Rimane immobile, in parte celato dallo schienale del divano, e distingue con l’orecchio teso un breve scambio mezzo mormorato, mezzo masticato tra i due, che viaggia amplificato nella sala vuota:

«... fartene una ragione, Nat. Non puoi di nuovo rischiare di...»

«È un rischio che ho sempre corso. So controllarmi.»

C’è un tramestio di stoffa, cappotti appesi e borse sollevate da terra.

«Buonanotte, Steve.»

Rogers sospira, in quel modo lento e pesante che sembra carico del suo secolo anagrafico, poi i suoi passi soldateschi si allontanano da lei e lo superano ignari, scemando d’intensità verso le scale. La luce del disimpegno si accende solo adesso, ferendogli gli occhi, e si arrischia ad allungare il collo oltre lo schienale, indeciso se annunciare la propria presenza o meno – sempre che lei non l’abbia già notata, e in tal caso è strano che non l’abbia ancora apostrofato come suo solito.

Si dà risposta quando la vede ferma sul posto come se avesse sulle spalle un fardello insostenibile, invece di un semplice zainetto. Lo lascia cadere di peso di fianco alla porta, poi si stringe i gomiti nei palmi e sembra… scollegarsi, come l’ha già vista fare altre volte, in un modo che gli è sempre rimasto indecifrabile. Ha il viso inclinato verso il basso: i capelli striati di biondo, solitamente raccolti in una coda severa, ricadono a nasconderle il volto, ma riesce a visualizzare la sua espressione vacua, fissa su immagini inesistenti.

Non ha mai più varcato le soglie che Natasha gli preclude, sebbene la tentazione di avvicinarsi sia sempre presente, e anche lei ha imparato a tenersi a distanza dalle sue barricate. Adesso rimpiange di non aver osato di più agli inizi, quando non avrebbe rischiato di tirare troppo la corda di una fiducia che, allora, nemmeno esisteva. Si prende ancora qualche secondo per osservarla – mentre respira in un modo che gli ricorda fin troppo se stesso mentre si prepara ad arginare un attacco di panico – e proprio per questo si immobilizza, limitandosi ad esaminarla a distanza. Sembra illesa: i vestiti civili mostrano solo qualche strappo non rilevabile a colpo d’occhio, e ha una fasciatura di poco conto sulla mano, che si sfrega infastidita, rompendo un respiro più sonoro e scuotendosi di dosso quella sorta d’impasse malsana. Solo allora Tony si alza dal divano in modo volontariamente rumoroso.

«Non avete alcun rispetto per la quiete altrui, voi giovinastri molesti. Mi ero appena addormentato,» sbadiglia senza neanche bisogno di fingere, e ostenta qualche acciacco di troppo mentre si stiracchia appena.

Lei rialza di scatto la testa, con gli occhi che mandano lampi allarmati inchiodandolo sul posto. Sono nebulosi, ancora non del tutto sintonizzati sul qui e ora; quando mette a fuoco, per un istante, sembra combattuta tra l’imboccare di nuovo la porta e il fronteggiarlo invece a passo di carica. Tronca sul nascere entrambe le reazioni e si limita a farsi calare sul volto la consueta maschera impassibile: e rimane ferma al suo posto, lasciando a lui la mossa successiva. Che, considerando la sua perfetta incapacità in questo tipo di situazioni, si rivelerà probabilmente sbagliata, ma forse è esattamente ciò che si aspetta lei. Così la accontenta, adottando un tono leggero, come se le stesse chiedendo di una vacanza appena conclusa:

«Com’era Rio?»

Non ottiene risposta, solo uno sguardo appuntito, e arriccia un poco il naso nell’avvicinarsi a lei di un paio di falcate falsamente svogliate, le mani che affondano nelle tasche.

«Io la ricordo… caotica.  Ci sono stato una volta nel 2006. O forse 2007.» Lo ricorda benissimo, in realtà: omette la presenza di Pepper, perché quel piccolo viaggio d’affari nella capitale brasiliana è uno dei tanti ricordi caldi, di quelli che deve maneggiare con cura. «Quel Cristo è inquietante, piazzato là sopra a spiare tutti, e non ha fatto alcun miracolo, almeno non per la mia paranoia… però c’era un chioschetto di brigadeiros e cachaça sulla piazza principale che…» [4]

«Stark,» lo ferma infine lei, in un tono secco come un colpo di schioppo. «Non devi imbastire una pantomima solo per estorcermi delle informazioni che non ti darò.»

Tony inarca teatralmente un sopracciglio.

«Chiederti “cosa è successo?” tra le righe equivale ad estorcerti delle informazioni? In effetti è quello, che vorrei fare, vista la situazione… solo che temevo di ritrovarmi con un coltello alla gola, conoscendoti

Calca con intenzione quell’ultima parola, consapevole di padroneggiarla nemmeno per un quarto, e con sua sorpresa Natasha sfugge il suo sguardo. Vede le sue difese ritirarsi brevemente, per poi ricostruirsi dalle fondamenta, come un’onda rapida che si abbatte sulla costa, per poi ritirarsi e tornare ancor più imponente.

«Mi è bastato Steve, a farmi il terzo grado,» risponde poi, scostante e sibillina al contempo. «Non avrei dovuto coinvolgerlo.»

«Giusto, avresti dovuto tenerlo all’oscuro di tutto come hai fatto con noi,» ribatte altrettanto caustico Tony, optando per un plurale generico, anche se quel singolare quasi gli decolla di sua sponte dalle labbra.

«Non vi devo sincerità,» lo liquida, schiodandosi dal proprio posto per dirigersi verso l’uscita e sembrando intenzionata a chiudere lì il discorso.

«Allora hai davvero uno strano concetto di “fiducia”,» le fa notare Tony, bloccandola nei suoi passi con quell’arma che non progettava di usare così alla leggera – né mai, in effetti.

Natasha sembra meditare per qualche istante su quello che sta per dire, invece di spacciarlo per un silenzio definitivo che prelude a una risposta inaspettata. Infine si volta di tre quarti verso di lui, senza degnarlo di un confronto completo.

«Vero. È il motivo per cui di solito la gente tende a starmi alla larga, e io tengo alla larga la gente.»

Tony non trattiene un sospiro esasperato, che si tramuta in uno sbuffo sarcastico mentre incrocia le braccia al petto.

«Non sei stata molto brava a “tenermi alla larga”, allora. E sai benissimo che a me non piace mischiarmi alla “gente”, quindi credo dovresti rivedere la tua linea di difesa,» la tronca, rispolverando un po’ di arroganza su misura e arrischiando al contempo un paio di passi.

Lei si ritrae, ripristinando la distanza originaria con una naturalezza affilata. Tony serra di più le braccia e si prende il mento in un palmo, smorzando in parte la propria schiettezza e lasciando infine trapelare una tinta fin troppo evidente di tensione che non si cura di celare.

«Natasha…» tenta rassegnato, cercando a fatica di ammorbidire la voce sotto lo strato di risentimento e confusione che la tinge inevitabilmente, nella convinzione infantile che pronunciare il suo nome possa fungere da chiave per aprire quelle porte sbarrate.

«Il punto è che non c’è bisogno,» lo ferma subito lei, con una nota inquieta a danzarle sul volto.

Tony si ferma interdetto dal funzionamento di quella chiave improvvisata. Rimane ancora parzialmente inclinato verso di lei, ma coi piedi ben piantati indietro, come se si stesse avvicinando a un animale pronto a dileguarsi. O ad azzannarlo alla gola. Non parla e la fissa interrogativo, un sopracciglio che si inarca tacca dopo tacca ad esprimere la sua perplessità.

«Di… di cosa? Non parlare in codice, Romanov, la Guerra Fredda è finita e non mi sembra il–»

«Di parlare,» specifica quindi lei. «Non c’è niente di cui parlare.»

Tony si lascia sfuggire un’inclinazione appena più accentuata delle labbra, in un sorrisetto involontario, e scopre le proprie carte senza più veli:

«Quindi, mi stai dicendo che non stavate tentando di rintracciare Barton.» Lo sguardo di Natasha si fa evasivo. «E che non è stato lui a sfogare il proprio “estro artistico” con innovativi murales di sangue a scapito di qualche delinquente del Cartello. Buono a sapersi, altrimenti mi sarei preoccupato.»

Serra la bocca di scatto quando quell'ultimo stralcio di frase gli rotola via dalla lingua, pericoloso. Natasha sospira rapida.

«Non hai prove per…»

«Romanov, non trattarmi da idiota,» scandisce seccamente, indurendo volto e voce con un picco d’irritazione. «C’è una sola persona per la quale ti precipiteresti oltre l’Equatore per vagare alla cieca nelle favelas due giorni di fila, soprattutto considerando che le altre sono cenere,» enuncia, privandosi di ogni edulcorazione e gioco di parole per esprimere quel concetto che gli appesantisce il respiro.

Natasha incrocia a sua volta le braccia, decidendosi a fronteggiarlo del tutto, ma i suoi occhi rimangono mobili e schivi, anche se non lo rifuggono più del tutto. Batte le ciglia, assottigliando le labbra in una linea rigida che le taglia a metà il volto.

«Bene, allora: Clint ha… fatto ciò che ha fatto,» sentenzia poi, sempre con quel tono in bonaccia che non gli permette di cogliere le emozioni, vere o meno, che vorrebbe far trapelare. «Non c’è altro da dire.»

Tony fa scorrere avanti e indietro la mandibola serrata, facendola quasi scricchiolare, per poi decidersi a permettere il passaggio d’aria e suoni tra i denti, anche se le sue parole sono pietre grezze:

«Io direi che non conta ciò che ha fatto ieri, ma ciò che non ha fatto in un anno intero.»

La vede vacillare appena come se, per una volta, fosse lei a trovarsi dalla parte sbagliata di un mirino. Non esplicita il concetto, ma intuisce dai suoi occhi improvvisamente annuvolati che l’ha colto comunque. Che sa di essere stata abbandonata dall’unica persona di cui si fidava davvero. E che non basta un surrogato a colmare quel vuoto, come non basterebbe a lui per colmare i propri.

Gli si avvicina di un passo, un singolo passo, fissandolo in volto con iridi di nuovo cristalline, e a Tony sembra quasi di leggervi una sfocata ombra di rispetto per aver osato centrare quel bersaglio. Inclina il mento verso il basso, inspirando a fondo, per poi tornare a piantare le pupille nelle sue:

«Ho esaminato i corpi e analizzato il modus operandi,» dichiara infine, monocorde. «Non vedevo questo Clint da molto tempo. E ciò renderà più difficile rintracciarlo ancora.»

«Vuoi ancora trovarlo? Dopo quello che gli hai visto fare?»

«Io ho fatto di peggio,» lo gela lei, rialzando gli occhi adesso opachi. «E non è una questione di volere. Ho un debito con lui.»

Tony scuote la testa, e il rimpianto per non aver voluto varcare soglie proibite evapora in uno sbuffo di fumo. Non vuole immaginare di quale sorta di debito stiano parlando, ma quell’affermazione va a tirare corde sensibili dentro di lui: gli soffia una spiacevole ventata gelida nel cuore, di quelle che fomentano le scintille del sospetto già fin troppo radicate in lui, facendole baluginare pericolose. Natasha gli scocca un’occhiata pungente e sembra ammonirlo di non chiedere troppo. Una richiesta di distanza, di confini che si ridefiniscono dopo un terremoto.
 
«A questo punto, spero che tu non abbia debiti anche con me,» commenta soltanto, a metà tra il sarcastico e l’inquieto.

La fissa negli occhi insistente, a scoprire le menzogne velate sotto le sue ciglia scure e mobili.

«No. I nostri conti sono in regola. Da entrambe le parti,» risponde formalmente, quasi stessero siglando una trattativa d’affari, e quella risposta lo lascia solo più confuso. «Ora dovremmo dormire, Stark. Domani sarà una lunga giornata.»

Svicola via senza aggiungere altro e Tony non la trattiene, con le parole precedenti che girano in cerchio al centro del suo cervello. Cosa significa, nel linguaggio criptico di Natasha, non avere debiti? Che sono legati da altro, da quella fiducia traballante? O che non sono legati affatto? Quella domanda s’ingarbuglia ancor di più quando, nel superarlo, gli stringe di sfuggita il braccio, in una comunicazione inaspettata e silenziosa che per lui è ancora oscura. Ma, forse, equivale a una fessura lungo quelle barriere sempre più friabili che Natasha continua ad erigere attorno a se stessa, murandosi viva contro il mondo. Se quello sia un preludio al collasso o a un’apertura vera e propria, Tony non sa ancora dirlo, ma entrambe le possibilità lo ancorano sul posto con radici di paura.

La lascia andare via, anche se l’impulso è di trattenerla. La ascolta andare via a passi leggeri e lascia scorrere una mano esausta tra i capelli. Guarda fuori dalla vetrata, verso il bosco e i prati verdeggianti che preannunciano l’estate, ora immersi nel buio.  L’orologio inesorabile segna ore improbabili della notte.

Il giorno è arrivato, e ad ogni minuto che scorre, Tony sente l’anima farsi un po’ più pesante, come se volesse scivolargli nei talloni per abbandonarlo del tutto.



 

Note: 
 
[1] Da fonti attendibili, la Decimazione avviene a giugno 2018. In questa storia ho posto il ritorno di Tony a giugno, dopo 27 giorni passati nello spazio. Questo vuol dire che lo schiocco deve essere avvenuto al massimo tra il 1° e il 3 giugno, ponendo logicamente il compleanno di Tony pochi giorni prima, in quanto nato canonicamente il 29 maggio nel MCU.
[2] Favela realmente esistente a Rio de Janeiro.
[3] Rhodey è un ufficiale dell’Aeronautica Statunitense: è molto probabile che abbia partecipato a uno o più “tour” in Afghanistan e che proprio per questo accompagni Tony nel suo viaggio d’affari nel 2008.
[4] Tony si riferisce alla famosa Statua del Cristo Redentore, simbolo di Rio de Janeiro. I brigadeiros sono dei dolcetti al cioccolato, mentre la cachaça è un liquore, entrambi tipicamente brasiliani.
NB. Tony ha fatto passi da gigante, negli ultimi capitoli, ma in quest’ultimo subentra tra le righe la “sindrome dell’anniversario”, già accennata in relazione al compleanno di Pepper. Qui ricorrono a poca distanza sia il compleanno di Tony che l’anniversario della Decimazione, e si è psicologicamente più soggetti alla depressione all’avvicinarsi di date associate a traumi. Di qui l’atteggiamento più incostante di Tony in questo e nel prossimo capitolo.


Note dell'Autrice:

Cari Lettori, dopo una pausa più o meno lunga, torno di gran carriera con questo capitolo un po' più movimentato che spero abbiate gradito <3
In teoria avrei voluto aggiornare venerdì, quando sarebbe dovuto uscire il film di Vedova Nera *sigh*, ma ho pagato lo scotto dell'ispirazione carente :')
Grazie a tutti coloro che hanno letto, recensito e/o aggiunto la storia alle loro liste. E un grazie speciale a
leila91 che ha recuperato in un baleno tutti i capitoli, rendendomi felicissima, e ad _Atlas_ e T612, che stanno facendo lo stesso <3
Alla prossima,

-Light-
   
 
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