CAPITOLO
18
“Mi canti
di nuovo la canzoncina, mammina?”
La donna
sorrise, dolce, si stese con il piccolo Mashirao sul suo lettino, rimboccandogli
per bene la coperta, “Va bene tesoro. Ma mettiti buono, perché è ora della
nanna.”
Mashirao
si accoccolò subito per bene accanto a lei, la coda passava sul fianco e lui si
strinse il pennacchio al petto con una manina mentre l’altra teneva quella
della donna, che prese a cantare dolcemente, la voce bassa e melodiosa.
Quanto gli
piaceva la voce della sua mamma.
Lo rendeva
felice.
Anche
quella sera si addormentò subito, lei gli diede un bacio sulla fronte e chiuse
piano la porta della stanza, tornando al piano di sotto.
Gli occhi
neri come i suoi che lo osservavano dal nero oltre la porta brillavano nel
buio.
Non
sbattevano le palpebre.
Poi la
porta sbatté.
Mashirao
si tirò a sedere di soprassalto, l’urlo bloccato in gola lo mandò giù a fatica,
nel silenzio della stanza.
Almeno
non aveva fatto alcun rumore.
Asciugò
il sudore freddo con il palmo della mano, poi andò al bagno a farsi una doccia
calda. Probabilmente non sarebbe più riuscito a dormire.
Non
capiva il perché di quel sogno assurdo, in verità.
Era
un incubo che faceva spesso, a dover essere onesto, soprattutto i primi tempi.
E che era tornato dopo il Festival Scolastico.
A
volte durava di più, vedeva...altro, prima di riuscire a svegliarsi, per
sfuggire a tutto quello per tornare nella realtà.
Una
realtà che per quanto complicata, a tratti dolorosi, e confusa in quel momento,
era migliore di quei sogni, di quei ricordi, di quel passato.
Anche
se lui la ricordava comunque con gioia, la sua famiglia.
Fino
a quella notte.
Prima
che giungesse l’inferno.
Sospirò,
poi decide di scendere di sotto. Aveva bisogno di qualcosa di caldo da bere.
E...per qualche motivo, prese il cellulare.
--
Il rumore
al piano di sotto lo svegliò. Non era notte fonda, così decise di andare al
bagno. Sgattaiolò fuori dal letto, i piedini nudi sul pavimento gelido per un
attimo lo fecero tremare, ma non trovava le sue ciabattine e doveva davvero
andare.
Era a metà
corridoio quando sentì qualcosa.
Erano le
voci del suoi genitori, però c’era anche qualcun altro. Lì per lì non gli disse
nulla, quella voce, ma era sicuro di conoscere quella voce. Così, tranquillo,
andò al bagno e poi, invece di tornare nel suo lettino caldo, iniziò a scendere
le scale.
“Sai bene
quali sono le regole nelle Arti Marziali. La mia è una palestra seria,” la voce
di suo padre era furiosa. Con lui non aveva mai parlato così.
Forse lo
stava sgridando.
“Non
prendermi in giro! Sai bene che non è stata colpa mia!”
“Non è la
prima volta che fai a botte al di fuori delle lezioni. Sai come la penso. Non
sei più il benvenuto nella mia palestra!”
“Non puoi
scacciarmi così! Non hai alcun diritto di farlo!”
“Ne ho
eccome! Cercati un'altra palestra e, se sei così interessato a diventare un
campione di Arti Marziali, cerca di darti una calmata! Comportandoti come ti
comporti non sei molto meglio di alcuni Villan.”
“Come
osi!”
“Per
favore, smettetela!”
Mashirao
spiò meglio dal corrimano delle scale, infilandoci quasi la testa in mezzo, cercando
la madre che aveva appena parlato. Aveva una faccia preoccupata, e non gli
piaceva vedere così sua madre. Così, anche se forse non avrebbe dovuto, si
prese la codina fra le mani e scese gli ultimi gradini.
La porta
d’ingresso di casa era ancora aperta, come se quell’uomo non fosse davvero il
benvenuto e volessero farlo andare via il prima possibile.
Ma
quell’uomo, che lui aveva visto tante volte in palestra, era ancora lì.
“Mamma?”
“Mashirao
torna subito di sopra!” ordinò suo padre.
Perentorio.
“Ma...”
“Niente
ma. Torna di sopra.”
Mashirao
mise il broncio, “Mamma, vieni anche tu con me?”
“Certo,
tesoro.”
L’uomo
della palestra fece un movimento strano di braccia, poi si voltò verso suo
madre, afferrandole il polso “Mi permette, signora Ojiro?”
“Non
permette proprio nulla! Vattene via e sta lontano da me e dalla mia famiglia!”
ululò suo padre. A Mashirao per un attimo salirono le lacrime agli occhi. Suo
padre così arrabbiato era spaventoso.
Fortuna che non ce l’aveva con lui.
“Ma certo,
maestro. Solo, volevo salutare la signora. E dirle che, forse, dovrebbe fare
attenzione. Ha una bellissima famiglia. Sarebbe un peccato se qualcuno volesse uccidere
il bambino. O lei.”
“Fuori!”
Mashirao
lo guardò andarsene, mano nella mano con la madre. Eppure, la stretta che gli
stava dando per una volta non era carezzevole.
Stringeva
davvero. E tanto.
“Non posso
credere che sia venuto qui a litigare e minacciarmi! Coraggio, torna a letto
adesso, Mashirao.”
“Sì,
ma...la mamma sta bene?”
L’uomo
inarcò un sopracciglio. “Perché?” Alzò gli occhi sulla moglie, ma lì per lì non
notò nulla di strano. Sembrava solo stanca.
Sapeva
bene che il potere del suo ex allievo era quello dell’ipnosi, e che per farlo
doveva riuscire a fissarti negli occhi per almeno dieci secondi.
E sì, in
effetti aveva guardato Mitsuna ma...non capiva cosa
intendesse Mashirao.
“Non ti
preoccupare. Vai a letto adesso.”
“Sì. Va
bene papà.”
In camera,
Mashirao si arrampicò di nuovo sul letto, in trepitante
attesa che la madre gli rimboccasse le coperte come faceva sempre.
“Mamma,
mamma, vieni! Visto che ci siamo svegliati mi racconti una storia stavolta? Per
favore!”
Ma lei non
disse niente e non sorrise, stavolta. Le sue belle mani delicate che ogni volta
gli carezzavano i capelli non afferrarono la trapunta ma si avvicinarono al suo
volto, e Mashirao chiuse gli occhi, in attesa di una carezza o di un bacio
sulla fronte.
Invece, le
dita esili si strinsero intorno al suo collo sottile. E strinsero.
Forte.
Gli mancò
il fiato, tanto da non riuscire a chiedere aiuto. Non ce la faceva.
Non
respirava.
Faceva
male.
“Ma...mamma...”
Non voleva
farle male, ma lei ne stava facendo a lui. Per questo, iniziò a scalciare e a
muovere la coda per cercare di allontanarla da lui.
“Mamma...mi
fai...male...”
Probabilmente
riuscì a colpirla, anche se solo una volta, per bene. Per un attimo la presa si
allentò appena quanto sufficiente perché Mashirao le mordesse una mano e
riuscisse poi a sgusciare via.
Scalzo, in
lacrime e spaventato scese dal letto, cadendo malamente sulle ginocchia, ma
riuscì ad aiutarsi con la coda a ritirarsi su in fretta e a correre via.
“Papà!”
urlò, arrivando quasi alle scale. Qualcosa gli calpestò la coda, facendolo
cadere in avanti.
Mashirao
urlò, ma la voce gli si fermò in gola quando lei tornò a stringere. A
soffocarlo.
Perché gli
stava facendo quello?
La sua
mammina.
“Che
succede?” la voce del padre gli arrivò ovattata.
Gli occhi
stavano per chiudersi, ma la figura di suo padre lo sovrastò, spinse via la
donna e lo prese in braccio, stringendolo e massaggiandogli la schiena mentre lui
tossiva e cercava di recuperare fiato.
“Che stai
facendo, Mitsuna?” gli domandò, quasi urlando.
Poi sgranò
gli occhi.
Era stato
quell’uomo. Quando aveva parlato. Aveva calcato sulla minaccia perché era un
ordine.
Come
faceva a farla tornare in sé?
Come?
Che doveva
fare?
“Mitsuna, ti prego, torna in te! E’ tuo figlio!”
“Papà...papà,
che succede alla mamma?”
Ayashi strinse i denti, costringendolo con una
carezza gentile ma ferma a girare il capo per guardare alle sue spalle. Ma così
Mashirao non riusciva a vedere la sua mamma.
Che stava
male, no?
Altrimenti
perché faceva quelle cose?
“La mamma
sta male?”
L’uomo
scosse il capo, poi lo mise a terra, “Ci riesci ad andare dai vicini,
Mashirao?”
“E la
mamma?”
Ayashi gli si mise davanti, come se sapesse che
sarebbe stato necessario farlo. Quando Mitsuna scatta
verso di lui, infatti, l’uomo riuscì subito a fermarla prima che raggiungesse
Mashirao, che urlò e fece un salto indietro.
“Che ho
fatto, mamma? Perché sei arrabbiata?!”
“Va dai
vicini, Mashirao! Vai e digli di chiamare la polizia!” sbottò l’uomo, “Corri!”
Mashirao
si sfregò gli occhi, asciugandosi anche il naso con la manica del pigiamino.
Avrebbe
chiamato gli eroi, sì. Loro avrebbero salvato la sua mamma.
Gli eroi
salvano sempre tutti.
Era a metà
scalinata quando sentì un botto, poi la voce di suo padre che urlava il nome di
sua madre.
Quando si girò, qualcosa gli passò velocemente
davanti agli occhi.
Non capì
subito cos’era.
Sentì però
la voce disperata di suo padre, ancora in cima alle scale.
E quando
guardò stavolta in basso, c’era sua madre.
Però a
terra. Ferma.
Non si muoveva
più.
“Mamma...?”
Scese le
scale di corsa, inginocchiandosi accanto a lei.
“Papà, la
mamma...”
Ma l’uomo
era ancora in cima alle scale, in ginocchio. Le mani fra i capelli. Gli occhi
persi nel vuoto.
Mashirao strinse
i pugni, “Adesso vado a chiamare gli eroi!”
Erano
quasi le due di notte quando Shinsou scese in sala comune.
E
Ojiro era proprio lì dove gli aveva detto che l’avrebbe aspettato. Gli era
sembrato più che strano ricevere quel messaggio, ma non aveva davvero potuto
ignorarlo.
E
poi, in realtà gli faceva piacere sapere che, in una serata così strana per
lui, Ojiro avesse deciso di chiedere la sua compagnia.
Non
avrebbe avuto diritto di farlo, ma glielo aveva chiesto Ojiro, quindi era
felice.
Anche
se gli dispiaceva vederlo così.
Almeno
quella volta non era colpa sua.
“Ojiro?”
Ojiro
si girò verso di lui, sorridendogli appena, tirato, “Scusa se ti ho mandato un
messaggio a quest’ora.”
“Tranquillo.
Ma...va tutto bene?”
“Sì,
solo...raccontarti di quella notte mi ha fatto tornare in mente tante cose. E
non riuscivo a dormire. Ti ho svegliato?”
“No.
Non dormo molto già di mio. Hai...ricordato qualcosa?”
“In
realtà ricordo tutto. Non i dettagli, tipo com’è iniziato. Ero al piano di
sopra, quindi non ho visto. Ma il resto...lo ricordo. A volte, specie vicino
all’anniversario, gli occhi di mia madre mi perseguitano. Quando mi hai usato
contro il Brainwash lo scorso anno...E’ stato
orribile. Per un sacco di settimane non sono riuscito a dormire bene, la vedevo
in continuazione.”
Shinsou
stirò le labbra, “Non mi scuserò di nuovo. Non lo sapevo e...di certo non
volevo torturarti. Di questo mi dispiace.”
Ojiro
sorrise. Non si aspettava niente di diverso ma in fondo era giusto così.
Aveva
capito da tempo che Shinsou non aveva sbagliato e che forse il suo ritiro era
stata una scelta avventata –di cui, però, non si
pentiva di certo. Ne valeva del tuo orgoglio, e non solo.
L’idea
di aver subito il lavaggio del cervello lo aveva sempre ripugnato. Forse,
proprio per quello che era successo quella notte.
Sua
madre, che era così buona, dolce, si era trasformata completamente a causa di
quel potere. O di qualcosa che gli somigliava molto, comunque.
“Hai
detto...che rivedi continuamente gli occhi di tua madre. Ieri non te l’ho
chiesto, mi sembrava poco...delicato. Ma...”
“Se
ho visto tutto, vuoi chiedermi?”
Shinsou
stirò le labbra, “Beh...”
“Ha
cercato di uccidermi. Sotto l’ipnosi di quell’uomo, sia chiaro. Mio padre l’ha
fermata, questo te l’ho già detto, no? Quello che non ti ho detto è che...beh,
si è rotta l’osso del collo cadendo dalle scale. Voleva venire a prendere me.
Penso che nella furia di fermarla papà l’abbia spinta, o comunque afferrata in
malo modo. E lei ha perso l’equilibrio ed è caduta dalle scale.”
“Cazzo...”
“Parlando
con mio padre, quando ero un po’ più grande, ho capito che forse quell’uomo
voleva che mamma uccidesse me, per fargliela pagare e rovinarlo. Ma fermandola
dopo un po’ siamo riusciti a trovare abbastanza prove e testimoni che
confermassero che quell’uomo ce l’avesse con noi e il suo quirk,
che confutava la possibilità dei fatti, l’ha incastrato.”
“Quanti...anni
avevi, Ojiro?”
“Sei.”
“Eri...un
bambino...”
“Già.
Ma ho vissuto con mio padre fino ai dodici anni.”
“E
poi cos’è successo?”
Ojiro
sospirò, la coda, che ondeggiava un po’ a destra e a sinistra, si arrotolò intorno
alla vita, “Mio padre è stato forte finché non hanno condannato quell’uomo. Era
desideroso di avere giustizia a tutti i costi e non ha ceduto finché non gli
sono stati dati quindici anni al tartaro per omicidio più sei mesi di
domiciliari per l’utilizzo di un quirk pericoloso
contro terzi. Quando ha ottenuto quello che voleva, e io ero abbastanza grande
da badare a me stesso, si è...lasciato andare.”
“Ma
tu eri ancora un ragazzino. Facevi solo le medie...”
“Lo
so. Ma credo fosse depresso. Io...non l’ho capito. Era sempre triste, beveva
molto, penso si sentisse schiacciato dai sensi di colpa. Quelli non lo hanno
mai lasciato.”
Shinsou
abbassò gli occhi sulle ginocchia, prima che la sua attenzione fosse catturata
dai movimenti delle mani di Ojiro, che giocava spasmodicamente con l’orlo della
manica della felpa che indossava.
Doveva
essere difficile parlarne.
Doveva
essere stato un incubo viverlo.
Ed
era solo un bambino. Così piccolo.
Non
poteva che stimarlo ancora di più, adesso che sapeva la verità.
Capiva
perché fosse restio a parlargli, ad avere a che fare con lui. E apprezzava il
fatto che fosse comunque riuscito a superarlo.
Questo...e quello che gli aveva fatto lui, che doveva avergli confermato
inizialmente che quel potere fosse solo il male.
Eppure,
alla fine l’aveva perdonato.
Parlava
con lui, per lo meno. Si stava confidando.
Era
buono, nonostante tutto quello che gli era successo. Così...gentile.
Anche
se non se lo meritava.
“Lo
hai...trovato tu?”
“Sì.”
“Papà,
sono tornato!” urlò, buttando lo zaino in un angolo accanto alla porta
d’ingresso. Con la coda appese la giacca all’appendiabiti e tornò poi a girare
per casa.
Era stanco
morto dopo la giornata a scuola, e non vedeva l’ora di mangiare. Ma non sentiva
il solito odorino in casa, segno che il padre stavolta non aveva preparato
niente.
“Papà, ma
ci sei? Ho una fame da lupo, per caso c’è qualcosa in frigo? Vuoi che prepari
anche per te?”
Ancora
nessuna risposta.
Sbuffando,
Mashirao si diresse verso lo studio del padre. Di solito se ne stava lì, da
solo. Adesso che non avevano più la palestra –venduta
insieme alla casa per trasferirsi in un bilocale in centro- passava molto tempo
lì a lavorare.
O almeno
così gli diceva.
Lavorava a
casa, lo preferiva.
Così gli aveva
sempre detto.
Ma quando
aprì la porta, si accorse in fretta che era una bugia.
Non era
per lavorare in casa che lo faceva.
Adesso che
gli penzolava davanti, appeso al soffitto, capiva che c’era una cosa di cui non
si era accorto mai: che aveva bisogno di aiuto.
E lui, suo
figlio, non era stato in grado di capire e darglielo.
“Papà!”
“Il tuo è un potere tremendo,” mormorò Ojiro
dopo un po’, come pensieroso. Fissava il vuoto davanti a sé invece che Shinsou
e sembrava estremamente malinconico.
“Non
più di altri, Ojiro.”
“Invece
sì. Uccidere, ferire, mutilare, trasformare, è una cosa che tu fai agli altri.
E’ brutto ma accettabile. Ma costringere una persona a farlo a qualcun altro, a
qualcuno che ama...è peggio. E’ molto peggio.”
Shinsou
abbassò di nuovo gli occhi.
Forse
era vero. Dopotutto, era stato lui il primo ad essere sempre messo da parte
proprio per questo motivo.
Proprio
perché la gente poteva accettare un potere che portava il rischio di farti
saltare in aria, ma uno che poteva costringerti a perdere contatto con se
stessi...quello no. Era inaccettabile.
E
per quanto fosse il suo potere, Shinsou lì capiva.
Poteva
controllare gli altri ma era lui stesso il primo che non avrebbe mai voluto che
qualcosa lo muovesse contro la sua volontà.
“Mi
dispiace per quello che ti è successo.”
“Non
importa. Alla fine, i miei zii si sono presi cura di me. In fondo, avrei dovuto
farlo prima.”
“Che
cosa?”
“Parlarti.
Perdonarti per lo scorso anno. Ci saremmo risparmiati un sacco di problemi, non
trovi?”
Shinsou
si limitò ad annuire. Considerare quello che aveva fatto solo un problema, magari
da poco, era decisamente restrittivo.
Ancora
adesso, se ci pensava, non poteva che maledirsi.
E
ringraziava di potergli di nuovo parlare in quel modo.
“A
prescindere da questo io non avrei...-”
“Dovuto.
Sì, lo so. Ma ormai lo hai fatto,” lo interruppe. Poi si alzò, allungandosi per
stirare la schiena e muovendo piano la coda in maniera circolare. “E’ quasi
l’alba ormai. Grazie per avermi fatto compagnia anche se ti ho scritto a tarda
notte.”
“Non
ho fatto niente,” mormorò Shinsou, alzandosi a sua volta, “Fai ancora in tempo
a riposare un po’, prima delle lezioni.”
“Sì.
Anche se...mh...”
“Cosa
c’è?”
“Ecco...”
Ojiro stirò le labbra. Non era il tipo di persona che riusciva a dire e fare
facilmente certe cose. Con Shinsou, poi, ancora di meno. “In realtà non credo
che riuscirei a dormire. Oggi è...strana per me.”
“Immagino.
Ma non hai dormito neanche ieri suppongo, vero?”
“E
come avrei potuto.”
“Allora
dovresti davvero oggi.”
“Sì,
immagino. Non che possa decidere io,” ridacchiò, “Però...ecco, mi piacerebbe
avere compagnia, in realtà. Tu hai sonno?”
Shinsou
sgranò gli occhi, “Non particolarmente...” mormorò.
Non
pensava l’avrebbe mai più invitato nella sua stanza, dopo quello che era
successo l’ultima volta.
E
invece era proprio lì che stavano andando.
Ojiro
doveva stare davvero male, per chiederlo a lui.
“Gli
altri lo sanno?”
“No.
L’ho accennato a Shoji, ma non sa tutti i dettagli.
Ma tu...hai il suo stesso potere, o comunque simile.”
“Già.
E non solo quello...”
“Non
dire sciocchezze. Sei stato uno stronzo, avrei dovuto picchiarti, ma c’è un
oceano di differenze fra te e lui. Te lo posso assicurare.”
E
chissà se era per questo che adesso era lì con lui, in piena notte, nella sua
stanza dopo tutto quello che era successo fra loro lì dentro.
Shinsou
era una brava persona, che aveva sbagliato a suo danno. Ma era il primo che si
stava punendo per quello.
Aveva
odiato Shinsou per un passato in cui non c’entrava nulla, e questo aveva solo
portato problemi e guai. E l’errore iniziale era stato il suo, perché non era
stato in grado di distinguere due persone totalmente diverse accomunate da un quirk che non si erano certo scelte.
E
forse per questo lo aveva perdonato così velocemente.
Ne
aveva bisogno. Era giusto così.
Shinsou
non era come quell’uomo. Era migliore. Nettamente migliore.
E
lo stava capendo pian piano.
“Onestamente
mi chiedo ancora che cosa ti sia saltato in mente quel pomeriggio.”
Shinsou
sgranò gli occhi, poi li abbassò sulle caviglie intrecciate. “Te l’ho...detto,
mi pare.”
“Mi
viene difficile credere di poter...” scosse il capo, Ojiro. No, non doveva
mettersi a pensare a quelle cose, era controproducente.
Ormai
era passato.
Shinsou
aveva ceduto ad istinto e rabbia e forse avrebbe dovuto essere onorato di
scatenare certe pulsioni in qualcuno, lui che era così normale. Anche se
bisognava essere in grado di reprimerle, e Shinsou non lo era stato.
Eppure
non riusciva più ad avercela con lui.
Gli
faceva tenerezza.
“Non
ho molte cose da fare in stanza, in realtà,” ammise dopo un po’, “Potremmo
vedere un film, abbiamo giusto il tempo.”
“Va
benissimo, Ojiro.”
--
Il cielo
era torbido.
Gli
ricordava gli occhi di suo padre, grigi. Di un grigio che negli ultimi anni era
diventato particolarmente scuro e freddo.
Carico di
nubi colme di pioggia che non era stato mai in grado di vedere, e che gli avevano
impedito di salvarlo.
“Mashirao?
Hai compilato la domanda per la scuola superiore, tesoro?”
Ojiro
abbassò appena gli occhi, guardando sua zia. Ora era la sua tutrice.
Si
occupava lei di lui, adesso.
Era tutta
la famiglia che gli era rimasta.
“Andrò
alla Yuuei,” affermò, “Entrerò alla Yuuei e diventerò un eroe.”
Sua zia
per poco non svenne. Ce l’aveva scritto in faccia.
“Ne sei
sicuro, tesoro? E’...è pericoloso...”
“Lo
farò. Farò capire a papà che non avrebbe dovuto arrendersi. Non avrebbe dovuto
arrendersi quando non è riuscito ad entrare alla Yuuei
e non avrebbe dovuto arrendersi alla vita un anno fa. Metterò in pratica tutto
quello che mi ha insegnato sulle arti marziali. Anche con solo la mia coda,
anche se da solo. Ce la farò. Lui è stato...egoista, e mi ha lasciato solo. Si
è arreso, ha smesso di combattere. Io non lo farò mai. Io non mi arrendo.”
Angolino Autrice:
Buondì carissimi! Innanzitutto scusate per l’attesa un po’ più lunga di questo
capitolo, ma ultimamente sto fusissima.
Ad ogni modo, spero che la storia fino a qui sia stata ancora di vostro gusto,
e vi sia piaciuta.
Il prossimo capitolo è l’ultimo, siamo in dirittura d’arrivo.
Ma vi ringrazio già da adesso per avermi seguito fin qui anche in questo e non
preoccupati, ho in servo tanti altri problemi e tante altre storie per il mio
povero Mashirao Ojiro.
Un grazie particolare a Bluebb e MeryHope
e ai loro meravigliosi commenti!
Un bacione grande, fatemi sapere cosa ne pensate mi raccomando!
Asu