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Autore: MaxB    03/05/2020    6 recensioni
Ossessionata dalla saga de La Passe-Miroir, non riesco a pensare ad altro da settimane.
E ho bisogno di approfondire alcune scene dei primi tre (e spoiler del quarto) volumi.
Ci saranno missing moments, scene descrittive relative a Thorn, soprattutto alla sua infanzia, e immersioni nei dialoghi tra Ofelia e Thorn, per come me li immagino io. Ed eventuali scene mancanti che ci starebbero bene.
Per possibili spoiler sul quarto volume verranno dati avvisi in cima alla pagina.
Aggiornamento irregolare.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Chiedo immensamente perdono per il ritardo! Avrei dovuto postare ieri e ho mille scuse pronte, ma dirò quella che mi preme di più: il capitolo è venuto fuori più lungo del previsto. Parecchio. Ops.
E pensare che non ero nemmeno troppo sicura di cosa scrivere. Alla fine ho dovuto troncarlo brutalmente perché sarei andata avanti fino alla fine del libro.
Ringrazio Drastoria47 per avermi dato questo originalissimo spunto, soprattutto perché se non me l'avesse suggerito non lo avrei mai scritto e non mi sarebbe piaciuto così tanto.
Per farla breve: Libro 1, Fidanzati dell'Inverno, capitolo I dadi, pagg. 477-482. Missing moment iniziale di come Thorn ha saputo della morte dei Draghi e riconingiungimento con la scena madre di Ofelia che risponde al telefono e apprende la notizia.
Spero davvero tanto che vi piaccia quanto a me è piaciuto scriverlo. Grazie mille a tutti^^


7. Hallo!

Thorn aveva cominciato a lavorare alle prime luci dell’alba, senza aver chiuso occhio per un solo istante, a dire il vero.
Le parole di Ofelia, il suo rifiuto, lo avevano oltremodo scosso e dormire sarebbe stato impossibile. Per non parlare del fatto che aveva un sacco di scartoffie arretrate, per via dell’assenza causata dallo spettacolo e dal ricevimento, tutte amenità futili ma doverose. Odiava quel genere di intrattenimenti. Ad aggiungersi alla sua angoscia c’era anche la caccia imminente. Probabilmente i suoi consanguinei erano già usciti dalle mura, con il favore del buio, a caccia delle Bestie più mansuete e intontite dal lungo letargo.
Avrebbe voluto chiamare la stanza di Berenilde a Chiardiluna, ma qualcosa glielo impediva, qualcosa di indefinibile che faceva fatica a distinguere. Voleva forse fidarsi di Ofelia e del suo giudizio? Aveva anche chiesto ai guardiani delle mura di avvertirlo subito nel caso in cui avessero avvistato la figura di sua zia uscire per recarsi nel gelido esterno. Non aveva ricevuto chiamate. Mise a tacere ogni pensiero secondario e si concentrò sul lavoro.
Il telefono squillava in continuazione, anche se quasi sempre era il suo segretario, che gli cambiava appuntamenti, portava nuovi fascicoli aggiornati o chiedeva conferme circa riunioni ed esiti di processi.
Mezzogiorno passò in un attimo e Thorn decise che era davvero il caso di chiamare le stanze della zia a Chiardiluna. Berenilde aveva l’abitudine di oziare fino a tardi, essendo principalmente un animale notturno, e la sera prima sicuramente aveva fatto le ore piccole, ma a Thorn poco importava. Doveva sapere se la zia era viva, in camera sua, o se si era gettata a capofitto nella caccia solo per una questione di orgoglio e tradizione, tutte cose ridicole che sfidavano logica e buonsenso. Era incinta, in uno stadio parecchio avanzato della gravidanza, possibile che padre Vladimir non volesse capirlo?
Come Thorn ben ricordava, però, quell’uomo aveva gran poco a che fare con raziocinio e affezione familiare. Era intransigente come pochi, un calcolatore freddo e spietato, di una natura diversa dalla sua, eppure Thorn ci trovava con ribrezzo più somiglianze di quanto avrebbe mai voluto ammettere. In fin dei conti, biologicamente parlando condivideva con lui una buona fetta del proprio patrimonio genetico, per quanto la cosa non facesse fare i salti di gioia a nessuno dei due. Se non si era risparmiato di usare violenza sul bambino che era all’epoca, di cui potava i segni indelebili sulla pelle, era ovvio che non avrebbe mostrato tenerezza nei confronti di una donna incinta che, oltretutto, si rendeva più indipendente di quanto il capostipite potesse tollerare.
Stava ancora indugiando in quei pensieri privi di colore e sentimento quando prese in mano la cornetta e compose il numero del centralino, aspettando di essere deviato verso la linea telefonica della zia. Non rispose nessuno. Thorn non era solito farsi prendere dal panico, o agitarsi per un nonnulla, ma sentì un cattivo presagio serpeggiare dentro di lui. Mezz’ora dopo chiamò ancora, era quasi l’una del pomeriggio, e gli squilli risuonarono a vuoto.
Alle due aveva ormai deciso di chiamare le sentinelle delle mura quando loro stessi lo anticiparono.
- Notizie di mia zia? L’avete vista? – chiese senza un convenevole o una mezza presentazione.
- Signor intendente… - rispose una voce di uomo dall’altra parte della cornetta, decisamente giovane a giudicare dalla mancanza di profondità nel suo timbro vocale. Era stato colto alla sprovvista dalla raffica di domande di Thorn. – Vostra… madama Berenilde? No, non c’è. Non c’era. Non ha preso parte alla caccia.
Thorn si accigliò. Aveva detto che voleva essere chiamato solo nel caso in cui sua zia fosse comparsa insieme al resto della famiglia. Se lei non era uscita, cosa potevano volere i guardiani? – Dunque, a cosa devo la chiamata?
- Mi rincresce, signor intendente, è… santo cielo, è una notizia talmente sconvolgente. Non so neanche come…
- Parlate e basta, non perdetevi in perifrasi, non le tollero.
Dall’altra parte della cornetta si udì solo un sospiro e Thorn poté chiaramente percepire un brusio concitato in sottofondo, voci erratiche e caotiche.
- Sono morti, signor intendente, tutti. Tutto il clan dei Draghi è stato sterminato. È qui presente il guardiacaccia e… non sappiamo i dettagli, ma dice che non ci sono sopravvissuti… è stato un massacro.
Thorn ammutolì. Morti. Sterminati. Massacro. Quelle parole gli rimbalzavano da una parte all’altra delle pareti cerebrali come dadi lanciati con forza in una scatola, che continuano a girare, sbattersi addosso e sbattere contro i confini. Riacquistò subito il controllo, però.
- C’è qualcuno di più… maturo con cui parlare? Che mi possa dare informazioni concrete?
Il tono era aspro, reso tale dalla mancanza di dettagli e dalla balbuzie isterica del ragazzo con cui stava parlando, che con ogni probabilità non doveva essere molto più giovane di lui.
- Il guardiacaccia, signor intendente. Li ha accompagnati lui, è tornato poco fa per riportare i primi corpi e chiedere aiuti. Non ce la faceva a portarli tutti da solo.
- Quale guardiacaccia? – chiese Thorn, a cui quel racconto frammentario faceva salire l’intolleranza. In mancanza di una risposta da parte del suo interlocutore, snocciolò tutti i nomi dei guardiacaccia in servizio, sperando che il ragazzo potesse riconoscere quello dell’uomo che interessava a Thorn.
Infatti fu così. – Jan! Sì si chiama Jan, ne sono sicuro. Io pensavo che…
- Si trova lì con voi? Potete passarmelo? – lo interruppe bruscamente, a corto di pazienza.
- No signor intendente, è tornato all’esterno con le altre sentinelle, a radunare gli altri… corpi.
- Avete avvertito le autorità? L’ambasciatore ne è informato?
- Le autorità sì, l’ambasciatore non mi pare, non credo. Mi hanno solo detto di avvisare voi, non mi hanno riferito altro.
- Penserò io a contattarlo, allora. Appena possibile fatemi richiamare dal guardiacaccia, intesi?
Gli giunse all’orecchio solo un respiro affannoso e un mormorio indistinto, e Thorn strinse con forza la cornetta. - Siete in grado di riferire la mia richiesta a chi di dovere? Devo essere richiamato appena il guardiacaccia tornerà da voi.
Gli sembrava di parlare con un ritardato, a scandire con calma e affettazione ogni sillaba, ma almeno il ragazzo sembrava aver capito. – Sì, vi faccio avvisare subito. Jan. D’accordo. Allora, ehm…
La sentinella sembrava in imbarazzo su come chiudere la conversazione, quali forme di cortesia utilizzare in quella situazione, quali condoglianze porgere, o forse doveva ringraziare? Thorn lo tolse ancora una volta dall’impaccio. – Quali corpi vi mancano da identificare?
- Non lo sappiamo, in alcuni casi ci sono pervenute solo… scusatemi la brutalità, ma ci sono pervenute solo parti del corpo. Un arto, una testa e… - farfugliò con voce flebile, prima di mormorare qualcosa di incomprensibile. Thorn aveva il sentore che quel ragazzetto sarebbe svenuto presto. Attese, più per evitare di dargli il colpo di grazia che per pazienza e magnanimità, finché riprese a parlare: - Scusate, è stato un tale shock… in ogni caso, non siamo in grado di identificare tutti i corpi, alcuni sono mutilati, altri sfigurati, alcuni magri, altri con una pancia prominente.
Thorn raggelò. – Pancia prominente?
- Sì, bella tonda. Almeno credo che sia una pancia… perbacco mi sento male. Scusatemi signor intendente, vi faccio richiamare subito appena ho notizie.
La comunicazione si interruppe lasciando Thorn immobile come una statua, al suo posto, con la cornetta ancora premuta contro l’orecchio, le lunghe dita pallide così strette da non far circolare più il sangue, gli occhi fissi, su cui non si chiudevano nemmeno più le palpebre.
Quando tornò padrone di sé con un sussulto, la prima cosa che fece fu prendere l’orologio da taschino. Erano le due e tredici minuti. Compose senza indugio il numero del centralino e della stanza della zia a Chiardiluna, ma ancora non rispose nessuno. Chiamò Archibald, pragmatico come al solito, mentre una parte del suo cervello analizzava i fatti e ordinava le pratiche da gestire, le persone da informare, i certificati da preparare, le notizie da diffondere, le proprietà da amministrare, i fondi da gestire e altro ancora, pensando al funerale, alla caccia malriuscita che avrebbe causato una penuria di generi alimentari per l’inverno, alla cernita da fare per la sussistenza di ogni abitante…
Chiuse il telefono con più forza del necessario, irritato dal suo suonare a vuoto, dalla mancanza di risposte. Stanco del silenzio.
Digitò un altro numero, passando sempre dal centralino che lo snervava con la sua attesa, e chiamò l’impiegato che gestiva la servitù di Chiardiluna, per esser messo in contatto con il valletto della zia. Dopo alcuni istanti di attesa non professionale (come si faceva a non avere sotto controllo ogni singolo dipendente, se si tratta del tuo lavoro, e non sapere nemmeno associare un nome a un volto?) il direttore del personale lo informò che Mime, così si chiamava il valletto, era ricercato per aver attaccato un nobile, ed era disperso dal giorno prima. Lo stavano cercando ovunque, ma di lui nessuna traccia.
Thorn chiuse la comunicazione senza ringraziare. Che Mime non si trovasse non era un gran problema, dal momento che era solo una copertura. Se nessuno lo aveva avvistato era perché con ogni probabilità aveva smesso i panni del valletto per tornare ad indossare quelli di Ofelia. In tal caso doveva essere con la zia, perché nessuno sapeva chi fosse e avevano fatto di tutto per inculcare a quella fidanzata testarda che l’anonimato era la sua più grande protezione.
Ofelia doveva essere per forza con sua zia Berenilde. Però non era riuscito a contattare la zia, di conseguenza nemmeno Ofelia. Poi gli sovvenne che la fidanzata era preoccupata per la zia Roseline. Che l’avesse portata da un dottore? Che fossero andate tutte e tre? Ne dubitava, Berenilde non era certo una signora che accompagnava chicchessia dal medico. Doveva essere talmente stremata dallo spettacolo della sera prima che con ogni probabilità stava ancora dormendo. Sì, doveva essere per forza così, era la soluzione più logica.
L’assistente di Archibald lo richiamò subito, per fortuna, e Thorn fissò un appuntamento per discutere dell’intera faccenda, ma non diede l’orario né rivelò l’accaduto perché dovevano attendere di essere raggiunti da Jan il guardiacaccia: era lui quello con le informazioni cruciali. Senza quell’uomo si sarebbero solamente trovati nello studio di Archibald a perdere tempo, senza niente di concreto di cui disquisire.
Thorn riordinò con metodo le carte e si alzò dalla scrivania. Aprì la porta dell’ufficio e quasi si scontrò con il suo segretario, parecchio più basso di lui, che stava per bussare con un fascio di carte in mano.
- Per voi, intendente. I nuovi dati del raccolto e il censimento delle nascite.
Thorn prese i fascicoli senza nemmeno guardare il segretario o gli stessi fogli. - Cancellate gli appuntamenti del pomeriggio e non passatemi nessuna chiamata, per ora. Vi avvertirò quando sarò nuovamente reperibile.
Chiuse la porta senza aspettarsi una risposta, appoggiò i documenti sulla scrivania, a coprire la macchia di inchiostro che Ofelia vi aveva rovesciato, e si avvicinò al divanetto posto sotto la grande finestra rotonda da cui anche lei, diversi giorni prima, si era affacciata per vedere l’esterno.
Ripetere i suoi stessi gesti non lo aiutò però a calmarsi. Si sedette, teso com’asse di legno, sul divanetto.
Per un attimo le immagini di Ofelia e della zia furono scalzate via dalla sua mente con prepotenza.
Il clan dei Draghi era stato sterminato. Non esisteva più. Al di là di ciò che questo comportava per l’intera popolazione del Polo, che avrebbe sfiorato, se non abbracciato, la crisi alimentare, piccoli frammenti di memoria gli vorticarono nel cervello come tante foglie in autunno. Ricordi. Ricordi brutti degli ultimi sedici anni e ancora prima, ricordi di odio e sofferenza, di cicatrici, sangue e rifiuti, di spalle voltate e ripudi.
Per un istante, però, ci fu qualcosa di più, qualcosa che aveva da tempo sepolto per non farlo più venire a galla e soffrirne nuovamente: il tempo dell’accettazione, della sua infanzia, dei giochi con i fratellastri.
Si infilò le dita tra i capelli, così travolto da pensieri ed emozioni da non fare neanche caso al fatto che si stava spettinando. I suoi dadi erano nel giubbotto che Ofelia aveva portato via quando aveva avuto freddo, qualche notte prima, e in mancanza di quelli prese tra le dita l’orologio della zia, stringendolo forte per ancorarsi a ad esso, al pavimento, all’ineluttabile scorrere del tempo che dava a tutto una percezione più realistica e fatale.
Freya non c’era più. La ragazzina che in passato aveva sorriso con ammirazione di fronte alla sua spiccata intelligenza e alle sue doti mnemoniche. In un’occasione lo aveva persino difeso da sua madre, quando era ancora ingenua e priva di malizia, e non sapeva che in realtà si sarebbe dovuta difendere da lui e dall’onta che rappresentava.
Godefroy non c’era più. Il ragazzo per cui, da piccolo, aveva nutrito un’ammirazione senza precedenti, la persona da cui aveva desiderato di più al mondo essere benvoluto, che gli aveva fatto un dono speciale. Dei dadi intagliati, un piccolo regalo così originale e utile dal punto di vista matematico. L’uomo la cui risata era contagiosa, per cui da piccolo Thorn finiva sempre con lo scoppiare a ridere senza motivo solo perché il fratello lo faceva divertire, ed era bello vederlo così ilare. Lui stesso una volta lo aveva protetto da alcuni ragazzi che lo avevano preso di mira, lui, un bambinetto pelle e ossa costantemente malato, decisamente non in grado di difendersi, nemmeno con gli artigli. Lo aveva portato in braccio in casa e lo aveva medicato senza dire nulla a nessuno, e anche dopo anni Thorn aveva custodito gelosamente quel ricordo. Per una volta in cui le sue gigantesche e brutali mani erano servite per curarlo, per risollevarlo, non per dilaniarlo e ferirlo.
E poi padre Vladimir... suo nonno. Ma di quell’uomo non aveva nulla da rimpiangere. Quando non poteva impedirsi di pensare a lui desiderava poter estirpare dalle sue pareti cerebrali i frammenti di dolore che accompagnavano tutte le sue memorie. Non aveva mai desiderato così tanto dimenticare qualcosa quanto i ricordi di padre Vladimir. Retrogrado, sadico, irragionevole, dispotico, egoista, anaffettivo, brutale, sanguinario, di mente ristretta, eccessivamente patriarcale. Gli aggettivi poco lusinghieri di certo non mancavano a Thorn, ma fu costretto a fermarsi perché sapeva che una volta cominciato avrebbe avuto difficoltà a fermarsi.
Morti tutti e tre. E con loro mogli, mariti e figli. Thorn non riusciva a capire nemmeno cosa provasse, quale sentimento emergesse al di sopra degli altri. Sollievo, all’idea di non dover più incrociare il loro cammino e non essere più molestato, all’idea di non dover più... temerli? O preoccupazione al pensiero di ciò che la loro scomparsa comportava per l’approvvigionamento? Tristezza, di fronte all’evidenza di aver perso tutto il suo clan, anche se non lo era mai effettivamente stato?
Qualunque fosse il filo conduttore di tutte quelle emozioni, così disparate e sfaccettate tra di loro, eppure collegata l’una all’altra, Thorn sentiva che ne mancava una, nel modo più assoluto: gioia.
E quando capì che in lui la gioia era completamente assente, si rese finalmente conto di quale fosse a linea che legava ogni sua tumultuosa emozione: il dolore della perdita.
Dolore. Perché per quanto lo avessero bistrattato, umiliato, devastato, ripudiato e insultato, un tempo erano stati la sua famiglia. Un affetto. Lo avevano reso ciò che lui era in quel momento, e per quanto poco amasse se stesso e qualsiasi versione di sé, lui era ciò che era, ed era l’unica cosa che si sentisse di accettare. Gli mancava il contatto del pavimento sotto i piedi, nonostante li avesse ben ancorati a terra, perché loro stessi erano stati una certezza per lui. La certezza che esistevano, che lo odiavano, o forse no, che comunque si ricordavano di lui, che lo temevano tanto quanto lo disprezzavano.
Non li avrebbe pianti, non aveva abbastanza amore dentro di sé per farlo. Del resto, non li amava, nemmeno lontanamente, quello che provava per loro era una lontana eco di un’infanzia ingenua e spensierata, fasulla eppure rassicurante. Avrebbe però ricordato, per non farli morire quando tutti si fossero dimenticati di loro, effimeri come neve, resistente ma destinata a durare poco, caduca con il primo calore.
Li avrebbe ricordati. Non doveva loro nulla di più. Forse qualcosa di meno, ma Thorn, tra tutte le brutte caratteristiche che sapeva di possedere e delle quali gli importava molto poco, sapeva di non essere un sadico insensibile. Il desiderio stesso di non essere come loro lo spronava a fare più di quanto loro stessi avrebbero mai fatto per lui.
Si alzò, con i pensieri nuovamente in ordine, pronto per intervenire con efficienza, proprio quando il telefono gli squillò sulla scrivania. Aveva elaborato il lutto e lo aveva accantonato, per un momento più propizio. Ora doveva interessarsi dei vivi: sua zia e... Ofelia, anche se quest’ultima non era in pericolo. A conti fatti, comunque, non si sarebbe sorpreso nell’apprendere che in realtà la giovane si era effettivamente cacciata nei guai. Non c’era forse una taglia sulla testa di Mime? La sua capacità di attirare disastri e di ficcarsi nei pasticci lo destabilizzava ogni volta, ma tollerava quelle complicazioni solo perché aveva la certezza che la fidanzata non gli ingarbugliasse la vita volontariamente: era impossibile riuscire ad attirare catastrofi con così tanta solerzia. Era ovvio che non ci sarebbe riuscita se lo avesse coscientemente voluto. Semplicemente non lo faceva apposta, lei era fatta così.
Thorn scosse la testa impercettibilmente, stringendo la mascella: non era proprio il luogo, né il momento, per indugiare in certe quisquilie.
- Pronto.
- Signor intendente, scusi se ho l’ardire di disturbarla - balbettò la voce del suo segretario dall’altra parte della cornetta, - ma ho in linea le sentinelle delle mura che dicono di avere a portata di mano un certo guardiacaccia di nome...
- Passatemi la linea.
La voce che gli rispose apparteneva allo stesso ragazzo che gli aveva parlato qualche minuto prima. Evidentemente i guardiani più anziani stavano svolgendo compiti più gravosi e avevano sbolognato quell’incombenza al più sacrificabile.
- Signor intendente sono...
- Passatemi il guardiacaccia.
Alla sentinella mancò il fiato quando quell’ordine perentorio gli fece vibrare il timpano, e si affrettò a lasciare la linea a Jan. Thorn lo capì dal trambusto che ne seguì.
- Buongiorno signor intendente, vorrei dire che è un piacere sentirvi ma in realtà vorrei che fosse per circostanze ben più favorevoli di questa e...
- Dovete raggiungermi all’Intendenza più in fretta possibile. O a Chiardiluna, presso lo studio dell’ambasciatore, se vi è più comodo.
Anche il guardiacaccia ammutolì, come la sentinella poco prima. - Capisco l’urgenza, signor intendente, ma ci vorrà come minimo qualche ora perché possa venire fino al vostro ufficio. E ancora più tempo mi sarà richiesto se dovrò raggiungere Chiardiluna! Mi rincresce davvero, ma...
Thorn strinse la cornetta, il cervello che lavorava a pieno ritmo, in modo chiaro e limpido, per tracciare una linea d’azione. La prima cosa da fare era prelevare il guardiacaccia e farsi raccontare i fatti minuziosamente, preferibilmente in compagnia dell’ambasciatore e della zia Berenilde, in quanto unica erede di tutto il patrimonio del clan dei Draghi, quale unica sopravvissuta. A tal proposito, bisognava assolutamente rintracciarla. Per il guardiacaccia però era quasi impossibile raggiungerlo in breve tempo, e ne avrebbero perso altrettanto a radunare prima lui e poi Berenilde. L’unica via auspicabile era una collaborazione con Archibald e l’utilizzo della rosa dei venti, per ridurre l’attesa del settantotto percento.
- Restate dove siete, vengo a prendervi io e andremo a Chiardiluna.
Ottenne solo il silenzio, mentre in sottofondo sentiva abbaiare ordini e imprecazioni.
- Mi avete capito?
- S-sì, ho capito... vi aspetto qui allora?
- Sì, dovrei essere da voi in un tempo stimato tra i dodici e i quattordici minuti.
Thorn non fece in tempo a chiudere la chiamata che aveva già composto il numero di Archibald.
- Prontooo? Oggi non ho molestato nessuna signora di buona famiglia, se questo è il motivo della vostra chiamata avete sbagliato numero.
- Sono l’intendente, ambasciatore - disse Thorn in tono sferzante. Il solo udire la voce melliflua e cantilenante di Archibald gli aveva dato un colpo che aveva dissipato il torpore causato da quella faccenda intrecciata. C’era così tanto a cui pensare...
- Mio caro Thorn quale lieta sorpresa! In realtà non mi siete caro e sentirvi non è una lieta sorpresa, avrei preferito udire una seducente voce femminile, ma se proprio lo desiderate posso dedicarvi un po’ del mio tempo. Quali amene novelle mi portate?
Thorn dovette attendere due secondi prima di rispondere, per essere sicuro di poter padroneggiare la propria rabbia. - Pare che il clan dei Draghi sia stato sterminato.
Dall’altro capo della cornetta arrivò solo silenzio. Finalmente era stato in grado di tappare la bocca a quel pomposo presuntuoso. Quando riprese la parola, Archibald aveva del tutto perso il timbro gioviale e leggero: - Il clan dei Draghi? Sterminato?
- Sì.
- Nessun superstite?
- Sembrerebbe di no.
- Servono dati certi, intendente - ribatté Archibald, quasi infastidito. Il livore stonava con la sua personalità quanto un sorriso sulle labbra di Thorn. Ma ciò in una certa misura aveva placato la furia di quest’ultimo: almeno si rendeva conto da solo della gravità della situazione. - Sarebbe vostro il compito di fornire i dettagli di ciò che è accaduto e...
- È ciò che mi sto accingendo a fare. Sono appena stato avvisato dell’incidente dalle sentinelle e mi sto avviando per recuperare il guardiacaccia che era testimone del massacro. Saremo nel vostro ufficio tra circa ventuno minuti. Siete in grado di...
- Thorn – lo interruppe Archibald, con una leggera nota di apprensione della voce. - Berenilde ha partecipato alla caccia?
Thorn strinse gli occhi, increspando la fronte, come vittima di una terribile emicrania. - Le avevo consigliato di non prendervi parte. Avevo chiesto al suo valletto di tenerla alla larga dalla battuta. Ma non risponde al telefono. Voi dovete andare presso le sue stanze per condurla nel vostro ufficio. Lei risulta ora essere l’erede dell’intero patrimonio dei Draghi, insieme alla madre, che però è... stata costretta ad allontanarsi. Siete in grado di farlo?
Sonoramente più sollevato all’idea che Berenilde fosse salva, Archibald riprese in parte il tono frivolo e spumeggiante. - Ma che rincuorante notizia, per quanto possa esserci qualcosa di rincuorante in questa nefasta situazione. Certo, mi premurerò di condurre la madama nelle mie stanze. Sarò più svelto di voi, caro intendente.
Thorn chiuse la chiamata senza aggiungere altro e, mentre si rassettava i vestiti e si pettinava i capelli prima di uscire, aggiornò la lista mentale.
Dovevano capire con precisione come si fosse verificato quell'eccidio. Per questo serviva il guardiacaccia.
Dovevano assicurarsi senza ombra di dubbio che Berenilde non avesse preso parte alla caccia. Per questo serviva che la zia si facesse trovare.
Inforcò la porta trovandosi a pensare che, per una volta, sperava davvero che Archibald fosse più veloce di lui.
 
Disponendo della Rosa dei Venti il tragitto verso le mura richiese effettivamente dodici minuti. Thorn ne aveva calcolati due di attesa per trovare il guardiacaccia e ripartire. Arrivò quasi in trance, perso com’era nei suoi pensieri, e rispose a malapena al saluto impacciato di Jan. Scambiò due parole con le sentinelle e fece in tempo a vedere il movimento frenetico degli organizzatori del recupero prima di rituffarsi nella porta da cui era arrivato.
Jan lo seguì in silenzio, stupefatto di fronte alla sua capacità di aprire porte che conducevano in luoghi diversi da quelli cui avrebbero dovuto effettivamente portarli. La quiete, interrotta solo dai loro passi veloci, dava modo alla sua mente di ricreare gli scenari peggiori.
Non era decisamente una delle sue giornate buone.
Se Archibald non avesse trovato sua zia in camera, gli scocciava ammetterlo ma non avrebbe più saputo dove cercarla. La sua assenza poteva significare che avesse preso parte alla caccia, e quindi fosse rimasta uccisa. In tal caso, dov’era Ofelia? Perché non riusciva a rintracciare nessuno? Aveva preso troppo a cuore il compito di impedire alla zia di svignarsela, seguendola e rimanendo uccisa anche lei?
La possibilità che stessero ancora dormendo era poco plausibile. Ormai era pomeriggio e Thorn stesso le aveva chiamate in camera più volte. Chiunque ad un certo punto si sarebbe svegliato. Che la zia avesse subito un attacco nelle sue stesse camere, un attacco in cui sarebbe rimasta coinvolta anche Ofelia? Ne dubitava, le stanze di Archibald, per quanto poco gli piacesse riconoscerlo, erano sicure. Chiardiluna era una fortezza inespugnabile, così come i suoi ambienti. Forse la zia aveva trascorso la notte da Faruk. Possibile, ma essendo appunto passato da molto il mezzogiorno, dubitava che Berenilde fosse ancora con lo spirito. Faruk era solito intrattenersi con le sue favorite per il tempo necessario ad appagare i suoi stimoli, quando era soddisfatto faceva in modo che lo lasciassero solo. Ma allora Ofelia dov’era? Non era più Mime, ormai di questo era certo, ma da chi si sarebbe potuto rifugiare? Da sua zia Roseline, negli appartamenti di Berenilde? Perché non rispondevano al telefono, allora?
Gli sembrava di avere una serpe che si mordeva la coda nel cervello, non riusciva a venire a capo di niente.
Per non parlare della strana sensazione che gli stringeva il petto e non voleva saperne di affievolirsi da quando aveva saputo della morte di metà dei suoi consanguinei. Un senso di estraniamento che non aveva mai provato in vita sua, per quanto poco gli interessasse della loro sorte.
Arrivò nello studio di Archibald con due minuti di anticipo, grazie al passo svelto di Jan, che era un buon camminatore nonostante la bassa statura.
L’ambasciatore tardò parecchio, e Thorn rimase ad attenderlo nel suo studio.
Era ormai pomeriggio inoltrato quando Archibald ebbe la decenza di presentarsi. Entrò nel suo ufficio con il sorriso più spento del solito, salutò velocemente Jan, poco interessato agli uomini tanto da non volerci intrattenere nemmeno una conversazione, e si rivolse all’intendente che da parte sua stava cercando di scavargli un buco nel cranio con la forza del suo sguardo.
- Non siate così ombroso, Thorn, i vostri parenti non vi sono mai nemmeno piaciuti – esordì, sedendosi su un divanetto di fronte all’intendente.
Jan aveva rifiutato più volte di sedersi, irrequieto com’era, e continuava a spostare il peso da una gamba all’altra con un movimento oscillante che faceva saltare i nervi di Thorn. Non era la sua migliore giornata, e in assenza di notizie concrete la sua pazienza si era esaurita ormai da ore.
- Avete rintracciato mia zia? Sta arrivando?
- Mi rincresce dirvelo, ma ho tardato proprio per questo motivo. Nessuno apre la porta della camera di Berenilde: è vuota. Ho provato a chiedere una copia della chiave dei suoi appartamenti, ma come ben sapete Chiardiluna è sicura come la miglior cassaforte, e i duplicati delle chiavi sono troppo pericolosi.
- Mi state dicendo che mia zia è dispersa e voi non avete nemmeno una copia della chiave della sua camera?
Il suo tono era sferzante, quasi violento, e il fatto che cercasse di trattenere la sua ira faceva solo apparire ancora più agghiacciante la sua voce cavernosa. Sembrava un rombo di tuoni.
Archibald perse un po’ di brio, ma il sorrisetto di circostanza rimase ad aleggiargli sul viso come se la sua bocca fosse del tutto incapace di assumere una piega più adatta alle circostanze.
- Sto dicendo che per essere i migliori in qualsiasi campo bisogna essere disposti a fare ciò che gli altri nemmeno immaginano. No, non abbiamo nessuna copia di nessuna chiave di nessuna stanza.
- Vi rendete conto che è una norma prevista dalla legge, vero? Alla sezione tre comma cinque del…
- Risparmiatemi la legislazione, ve ne prego, intendente. Ho tardato appunto per questo. Il mio segretario si sta adoperando per duplicare la chiave di nostro interesse, ma ci vorrà qualche ora. Entro sera saremo in grado di aprire quella porta.
- Entro sera sarà troppo tardi.
- È già troppo tardi, se madama Berenilde ha preso parte alla caccia. Non possiamo anticipare i tempi né tornare nel passato. Può essere che in realtà la cara madama sia in camera sua a riposare, che abbia assunto qualche… tranquillante prima di dormire, e che quindi il suo sonno sia innaturalmente profondo. Le strade sono due: attendiamo che ci chiamino le sentinelle per dirci che hanno rinvenuto il suo corpo, o attendiamo la copia della chiave per verificare se Berenilde è in camera. In ogni caso, ci tocca aspettare.
Thorn non voleva dirgli che, anche se sua zia avesse assunto qualche sonnifero, era improbabile che lo avessero fatto anche la sua fidanzata e la sua madrina, che con ogni probabilità erano in camera con lei. Il fatto di essere l’unico a conoscenza di ogni singolo risvolto di quella vicenda lo rendeva scalpitante, bisognoso di azione e di risposte. Sua zia poteva non essere sola in camera, eppure nessuno rispondeva al telefono o al bussare alla porta. Alla fine si decise a lasciarsi sfuggire una mezza verità. Non si aspettava certo che Archibald risolvesse tutti i suoi problemi, in quella stanza era palese chi fosse la persona con la maggior probabilità di successo in fatto investigativo, nondimeno capiva l’urgenza di mettere a disposizione qualsiasi minimo dettaglio per ritrovare la zia. E non solo lei...
- Mia zia non è sola – ammise laconicamente.
Archibald fu preso alla sprovvista, e per un secondo il suo sorrisetto baluginò con fulgore. - E a chi sarebbe accompagnata la madama?
- Ha una dama da compagnia. Dubito che si allontani senza la sua supervisione o che la stessa dama sia stata messa fuori uso da un sonnifero.
Archibald si grattò il mento ricoperto da una trasandata e corta barbetta bionda. Thorn cercò di mascherare il disgusto, ma lui odiava la barba. Era ruvida, odiava sentirla sotto le dita. Era indice di disordine e trascuratezza. Per quanto fosse impegnato, trovava sempre un attimo di tempo per radersi, ovunque fosse. O di tagliarla accuratamente per dargli una forma ricercata, ma mai incolta.
- Una dama di compagnia... - mormorò l’ambasciatore, incuriosito.
Thorn in realtà non era sicuro che la suddetta dama di compagnia fosse proprio nella sua forma più smagliante, a quanto gli aveva riferito Ofelia, ma di sicuro una delle due avrebbe dovuto sentire il telefono!
- Mh... dama di compagnia o vostra fidanzata, intendente?
Thorn non lasciò trasparire nessuna emozione che potesse confermare o negare quell’insinuazione. Rimase neutro, non mosse nemmeno un muscolo del viso, non batté le palpebre. Eppure dal suo sguardo doveva essere trapelato qualcosa, perché nel momento in cui era scattato per posarsi sul volto di Archibald, questi aveva sorriso come se avesse di fronte una sorpresa piacevole invece che una sgradita.
- Furbone, volevate tenerla tutte per voi! Bene, prima troviamo il modo di entrare negli ambienti di Berenilde, prima potrò fare la conoscenza della vostra sfortunata fidanzata.
L’idea che Archibald “facesse la conoscenza della sua sfortunata fidanzata” era rivoltante quanto l’immagine di sua zia dilaniata dalle belve, eppure sperava quasi che potesse accadere: avrebbe significato che stavano tutte bene.
Stavano bene, ma dove? Dove si trovavano?
- Non angosciatevi Thorn – intervenne nuovamente Archibald, perdendo un pizzico di buonumore per soppiantarlo con una serietà così estranea al suo ruolo. - Il fatto stesso che la chiave delle camere non sia stata resa al portinaio e che la porta sia chiusa significa che Berenilde è ancora lì dentro. Lo giurerei sulla vita delle mie sorelle!
Il ghigno furbesco che lo caratterizzava tornò a splendere sul suo volto, probabilmente in risposta ai commenti agitati che stava ricevendo col pensiero da parte delle sorelle in questione.
Thorn trattenne a stento una smorfia. - Credo sia il caso di ascoltare il resoconto da parte del guardiacaccia.
- Ma certo! Jan, permettetemi di porgervi gli ossequi da parte di una delle mie prozie. Vecchio birbante, a sua detta vi conservate splendidamente!
Il volto teso ed esangue del guardiacaccia assunse tonalità rossastre in un baleno a seguito del commento fuori luogo dell’ambasciatore: evidentemente aveva capito a quale zia si riferisse, e a quale circostanza.
- Bando alle ciance, parlate - ordinò Thorn perentoriamente, ponendo fine a qualsivoglia distrazione.
 
Il racconto di Jan era stato frammentario e confuso all’inizio, ma le domande inquisitorie di Thorn lo avevano aiutato a fare chiarezza e ordinare cronologicamente i fatti.
A Thorn sfuggivano diversi particolari, e di nuovo si trovava punto e a capo: Berenilde avrebbe potuto confermargli se l’angelo di cui Jan vaneggiava fosse proprio chi lui pensava. Non c’erano molte altre ipotesi plausibili per un attacco isterico di Bestie appena svegliate dal letargo. I Draghi erano forti, organizzati, lui lo sapeva bene. Se c’era una cosa in cui padre Vladimir eccellesse, quella era la metodica pianificazione di una caccia. Qualcosa di esterno aveva portato a quell’esito macabro, ne era certo.
Per il resto delle domande avrebbe avuto tempo in seguito, così come per stilare la pratica che avrebbe sancito se si trattava di omicidio o di un tragico incidente. Al momento importava solo rintracciare Berenilde.
Era suo malgrado sollevato dal fatto che nessuna sentinella avesse chiamato per informarli della riesumazione del cadavere della zia, però ancora di lei non si avevano notizie.
Era ormai calata la sera quando Thorn finì di scrivere alcuni appunti, non su quanto riferito da Jan, ma sulla bozza del fascicolo del caso, dato che lui non aveva bisogno di prendere appunti, e si rese conto che era ormai ora di cena.
Archibald se n’era rimasto tutto il tempo in un angolo, a parlare con le sorelle e il resto della Rete, raccogliendo più informazioni possibili sulla posizione di un certo giovane nobile biondino e con la faccia da angelo in particolare, mentre Jan era rimasto sotto la loro custodia, ossia in piedi nel salotto a guardare impazientemente la pendola che segnava l’ora.
- Dunque - esordì Archibald, - credo di avere delle novità.
- Un attimo – lo interruppe Thorn, pinzando il fascicolo e prendendo il telefono. - Provo un’altra volta a chiamare mia zia.
L’attesa fu più breve del solito, dato che la rete di Chiardiluna era collegata a quella dello studio e le telefonate non dovevano passare per il centralino, e questo, nonostante l’efficienza, fece innervosire Thorn. Ancora nessuna risposta.
- Prima di mettermi a parte delle novità vado a verificare se è cambiato qualcosa. Magari c’è un guasto al ricevitore nella camera di mia zia e pertanto il telefono non suona. Vado a bussare alla sua porta.
- Allora, se non vi dispiace, io andrei anche a cenare. Sono ore che non tocco cibo e un uomo non può vivere di soli pettegolezzi e donne.
Thorn non colse la frecciatina che aveva il chiaro intento di indisporlo, e per puro meccanicismo compose di nuovo il numero della camera della zia. Ormai era diventato un gesto automatico come il guardare l’ora sull’orologio da taschino.
- Posso dire di aver almeno ottenuto la conferma ad uno dei miei dubbi, intendente. La presenza della vostra fidanzata in quella camera è palese. Non ricordo di aver mai assistito ad un tale accanimento da parte vostra.
Thorn mise giù nuovamente la linea, con un po’ troppa forza del necessario, e scoccò un’occhiata torva ad Archibald e alle sue supposizioni.
- Cenate in fretta e ritroviamoci qui tra un’ora. Mi incaricherò di supervisionare anche il lavoro di duplicazione della chiave. Trovo intollerabile che ci voglia così tanto tempo.
Thorn uscì senza attendere risposta, di umore nero come poche volte era stato. Odiava farsi contagiare dalle emozioni, il suo stato d’animo era costantemente settato sulla neutralità. Né gioia, di cui ne aveva davvero poca, né rabbia dovevano influenzare le sue giornate e il suo lavoro.
 
Un’ora dopo era di nuovo nello studio di Archibald, con le mani vuote e una viscida angoscia che gli attanagliava le membra. Aveva persino fatto un salto alla camera affibbiata al valletto, a Mime, in uno squallido corridoio umido e freddo, con la scusa ufficiosa di doversi accertare che il criminale non fosse tornato e ufficiale che voleva vedere se Ofelia era lì nei paraggi. Nessuno aveva aperto la porta della camera di sua zia. La chiave non era ancora stata duplicata, o meglio, ricreata, dal momento che l’unica esistente e utile per la duplicazione era all’interno della stanza a cui volevano accedere. Thorn si aggrappava a quell’unica speranza: che Archibald avesse ragione e sua zia fosse chiuse dentro, magari svenuta, magari con il telefono staccato, qualsiasi cosa, purché fosse lì dentro.
Con Ofelia.
Ebbe un attimo di debolezza e si ritrovò a pensare a lei, individuando nella sua fidanzata la sua principale fonte di angoscia. Al di là della preoccupazione per la zia e del senso di vuoto misto a sollievo per la scomparsa dei Draghi, la sorte di Ofelia era quella che più gli premeva, e che più cercava di soffocare.
Che indossasse ancora i panni di Mime era da escludersi: non era stata né avvistata né catturata, il che significava che era ancora latitante. Il fatto che nessuno avesse visto il valletto era una prova del fatto che lei aveva smesso i suoi panni per tornare se stessa; un’Animista a piede libero per Chiardiluna, però, non era certo un fatto che passava inosservato. Ovunque Ofelia fosse, doveva essere con sua zia. E con il numero di sentinelle che sciamavano all’esterno del Polo, dubitava fortemente che le due fossero fuori dalle mura a vagabondare in seguito allo smarrimento della strada del ritorno: a quell’ora le avrebbero già trovate, vive o ibernate che fossero.
Per una volta Thorn sentì che la cattiva sorte della fidanzata non c’entrava nulla in tutta quella storia.
Dovette accantonare il suo pensiero su di lei appena Archibald rientrò, in ritardo come al solito. Quell’uomo aveva una mancanza di rispetto tale da rasentare l’indifferenza verso chiunque. Se non altro, per quanto il suo atteggiamento potesse passare per maleducato, Thorn arrivava sempre puntuale e teneva in conto gli appuntamenti altrui: politica, finanza, lavori domestici, fluivano tutti in un unico calderone che formava la società in cui vivevano. Dovevano funzionare tutti correttamente perché l’amministrazione reggesse, e il primo passo per avere una burocrazia ottimale era quello di rispettare gli impegni.
Thorn decise di sorvolare, per quell’unica volta.
- Spero che abbiate delle belle novità, intendente. Io e Jan ci siamo intrattenuti a cena più del dovuto – lo informò Archibald, pimpante come se andasse tutto bene.
L’occhiata imbarazzata del guardiacaccia e il suo mormorio sommesso fecero intendere a Thorn che l’ambasciatore non si era intrattenuto solo a cena. O meglio, non si era intrattenuto solo con la cena.
- Nessuna novità. Avevo considerato l’idea di buttare giù la porta, ma...
- Ah-ah-ah – lo bloccò Archibald muovendo un indice come se stesse parlando con un bambino piccolo e birbante invece che con l’intendente del Polo. Per poco il cappello sbrindellato non gli cadde dalla testa, ma Archibald non se ne curò. - Dovreste ben sapere che ogni porta di ogni stanza di Chiardiluna è a prova di ariete, illusioni o qualsiasi maleficio voi vogliate scagliare contro di essa. Non a caso è considerato il luogo più sicuro per proteggere chi è in difficoltà, come la vostra adorata zia. E la vostra fidanzata. I segreti meglio custoditi sono qui.
Thorn non gli prestò attenzione e chiamò ancora una volta la camera di sua zia. Mancava poco più di un’ora a mezzanotte.
Non rispose nessuno come al solito, così Thorn tirò fuori le carte per buttare giù il testo della conferenza stampa, i telegrammi e il rapporto dell’indagine.
Archibald era divertito. - Ma voi non dormite mai, intendente?
- Non se prima non mi arrivano notizie di mia zia. E nemmeno voi dormirete, ambasciatore. Mi servono le vostre firme.
Il guardiacaccia, così inutile da risultare quasi invisibile, si schiarì la voce timidamente. - Scusate se ho l’ardire di chiedere, ma nemmeno io posso...?
- Accomodatevi sul divano e fate ciò che volete, ma non avete il permesso di allontanarvi fin quando non avremo concluso la faccenda - dichiarò Thorn, senza nemmeno alzare lo sguardo dalle pratiche. Percepì però la tensione del guardiacaccia, così si affrettò a precisare: - Con concluso intendo che il vostro scopo ora è quello di riferire nuovamente la vicenda a madama Berenilde, in quanto portavoce del clan dei Draghi in questo momento. Le vostre dichiarazioni sono già state raccolte e ora provvederò a metterle agli atti. Una volta espletato il vostro incarico sarete libero.
Per nulla rilassato, Jan si accomodò timidamente sul divano, poco avvezzo a tutto quello sfarzo e lusso, ma non ci mise molto ad addormentarsi e russare. Era sveglio dalle prime luci dell’alba, aveva accompagnato fuori i Draghi e aveva assistito alla carneficina. Era quasi mezzanotte e non si era quasi mai seduto. Thorn ammirò la sua resistenza, sebbene la sua fosse di gran lunga superiore. Non si aspettava dagli altri ciò che pretendeva da se stesso, era talmente impossibile ottenerlo da sfiorare il ridicolo.
Archibald per una volta si tolse il sorriso dalla faccia e prese posto all’altro capo della scrivania, ottemperando alle sue funzioni con serietà. Per quanto gli scocciasse ammetterlo, Thorn riconosceva la competenza di quell’uomo immorale e sregolato. Diffidava di lui con ogni briciolo di volontà che aveva in corpo, ma non poteva giurare a cuor leggero che non sapesse fare il suo lavoro. Non bene quanto lui, ma era consapevole del fatto che nessuno sapeva fare il proprio lavoro come lui.
Era quasi mezzanotte quando prese nuovamente in mano l’orologio da taschino e con la mano libera, come per riflesso, sollevò la cornetta e compose il numero della camera della zia. Le sue dita lo digitavano senza nemmeno aver bisogno di ricordarlo, come se fossero a loro volta dotate di una memoria indipendente.
Aveva messo via l’orologio e stava per chiudere nuovamente la chiamata quando sentì lo scatto inconfondibile che indicava che l’interlocutore aveva preso la linea.
Senza nemmeno rendersene conto, teso come una molla, tuonò: - Pronto!
L’esclamazione che risuonò come uno sparo nella stanza silenziosa ebbe l’effetto di far svegliare di soprassalto il guardiacaccia e trasalire Archibald, che scattò in piedi e rimase a scrutarlo, immobile. Nonostante la leggerezza sulla questione e l’apparente serenità, Archibald era davvero in pensiero per la sorte di Berenilde.
- Thorn?
Non poté impedirselo: il battito del suo cuore accelerò. Così come il suo respiro. Sembrava quasi che stesse per andare in iperventilazione, visto dall’esterno, ma Thorn non si curò né dell’espressione allarmata di Archibald né dei borbottii confusi di Jan.
Ofelia aveva risposto al telefono.
Non riuscì a rispondere immediatamente. Quanto stupidi si poteva essere per rispondere in quella maniera? Se non fosse stato lui a chiamare, ma qualcun altro, come avrebbero giustificato la presenza di un’estranea negli appartamenti della zia? E quest’ultima dov’era? Perché non aveva risposto lei al telefono?
Sebbene il turbine di domande quasi soffocasse tutto il resto, Thorn percepì chiaro e limpido il sentimento che gli aveva fatto accelerare il battito cardiaco: sollievo. La voce di Ofelia aveva agito come un calmante, niente aveva più così tanta importanza ora che sapeva che era viva.
- Voi? - si trovò a mormorare, dando forma alla confusione che imperversava nella sua mente. - Bene... molto bene... Mia zia è lì accanto?
La risposta tardò un paio di secondi. Qualcosa gli suggeriva che la fidanzata non fosse proprio al massimo delle sue facoltà mentali al momento. - Sì, alla fine siamo rimaste tutte e tre qui.
Il sollievo aumentò, così come il battito cardiaco. Invece il suo respiro si mozzò, troncato.
Erano rimaste lì.
Erano rimaste lì! Con quanta pacatezza lo aveva detto! Avrebbe quasi preferito sentirsi dire che erano andate a spasso alle terme o per i Giardini Sospesi, piuttosto che scoprire che erano rimaste per tutto il tempo in quella camera a cui non aveva potuto accedere da fuori, nella quale nessuno, oltretutto, si degnava di rispondere alle sue chiamate.
Quello che divampò non era più sollievo, era furore al calor bianco misto a sbigottimento e, sì, ancora sollievo, perché attendeva quella risposta da quasi un giorno intero! Thorn non ci vedeva più.
- Volete parlare con lei? Credo che abbiate parecchie cose da dirvi – continuò Ofelia di fronte al suo silenzio.
Il suo tono freddo e distaccato fu la goccia che fece traboccare il vaso. Se voleva parlare con sua zia? E con quale pretesto si prendeva la libertà di essere tanto algida con lui, che aveva smosso l’intera intendenza e tutta Chiardiluna per scoprire dove fossero?
- Rimaste lì?! Sono ore che faccio i salti mortali per rintracciarvi e che trovo la vostra porta chiusa! Vi renderete conto che... No, evidentemente l’idea non vi ha neanche sfiorata!
Al pronunciare quel verbo, sfiorare, gli balenò in mente un’immagine del tutto fuori luogo: loro due che si abbracciavano, i loro corpi che si avvicinavano per mettere fine al tormento che aveva dovuto combattere per l’intero giorno. La scacciò con foga, alimentando ancora di più la sua furia.
- Mi state sfondando l’orecchio. Non c’è bisogno di gridare, vi sento benissimo. E per vostra norma non è ancora mezzogiorno, ci siamo appena svegliate.
Il tono effettato di Ofelia strideva con la dolcezza delle sue parole, cortesi nonostante lui le avesse appena urlato in faccia. Non che avesse intenzione di scusarsi, era lei quella nel torto marcio. Tuttavia non poté impedirsi di trasalire, non tanto per l’acredine della sua voce, quanto per il significato delle sue parole.
Possibile che...? - Mezzogiorno? Come diavolo si fa a scambiare la mezzanotte per mezzogiorno?
- Mezzanotte? - fu la risposta, stupita quanto lo era lui, ma per il motivo opposto.
- Mezzanotte? - ripeté in coro qualcuno che era in camera con Ofelia, con ogni probabilità le loro zie. Sentire le loro voci sane e salve però non servì a farlo sentire meglio, anzi. Erano sprovvedute, ecco cos’erano. Sprovvedute, immature e irresponsabili.
Era il momento di ricondurre la conversazione sui binari della ragione. - Quindi non sapete niente? Avete dormito tutto questo tempo?
- Che è successo? - chiese finalmente Ofelia, con un tono lievemente preoccupato e più partecipe. Finalmente ci era arrivata. In passato si era chiesto più volte se fosse lenta di comprendonio, smentendo quelle ipotesi quando ci aveva parlato di persona, e ammirando anzi la spiccata intelligenza che si nascondeva sotto i modi timidi e compassati. Eppure in quel momento Ofelia non brillava certo per la sua arguzia.
Si prese un attimo per organizzare il dopo senza quasi curarsi del prima: prima doveva riferire ciò che era successo, poi recarsi da loro. Ma le priorità per lui erano invertite, aveva bisogno di vederla... di vedere sua zia, ovvio, sua zia, per accertarsi che stesse effettivamente bene. Lanciò un’occhiata ad Archibald, che sogghignava come uno che la sa lunga, mentre Jan stava seduto composto e in silenzio sul divano.
Era finalmente tornato padrone di sé quando rispose: - Sto chiamando dallo studio di Archibald. Fra tre minuti sono lì da voi. Nell’attesa non aprite a nessuno.
Il dopo, e il prima. Avrebbe voluto essere già lì, invece di dover attendere tre minuti per percorrere lo spazio che li separava.
Ma Ofelia voleva il prima. - Ma perché? Che succede?
- Freya, Godefroy, Vladimir e gli altri. Pare che siano morti tutti.
Mise giù la cornetta senza aggiungere altro. La notizia le avrebbe fatto capire che era proprio il caso che, per una singola volta, obbedisse, e aprisse solo a lui. Si augurava davvero che lo ascoltasse, forse per la prima volta da quando l’aveva incontrata. Aveva detto che si fidava di lui, nonostante il suo tono di poco prima sembrasse una smentita: doveva dimostrarla in quel momento, la sua fiducia.
Si alzò di scatto, lieto di constatare che il guardiacaccia era già accanto alla porta. Jan non gli ispirava simpatia o altri sentimenti positivi come il desiderio di approfondire la sua conoscenza, ma era un uomo pratico, lavoratore, che sapeva qual era il suo posto e ci restava. Lo apprezzava.
Archibald era di tutt’altra pasta.
- Affrettiamoci, non vedo l’ora di conoscere la vostra fidanzata! Sono curioso di sapere se ci ho visto giusto!
Thorn lo ignorò e aprì la porta, fiondandosi nel corridoio per poi uscire dai quartieri di Archibald. Sentiva dietro di sé il passo ritmico di Jan e quello... saltellante?, dell’ambasciatore. Possibile che non riuscisse ad essere serio per più di mezz’ora consecutiva?
- Ah, l’amore, alla fine ha colpito il vostro cuore grande e freddo, eh, intendente? Che tenerezza! Se siete così pazzo di questa fanciulla, non posso certo dire che non muoio dalla voglia di metterle le mani add... cioè, di fare la sua casta conoscenza.
Archibald continuò a ridacchiare da solo.
Davanti alla porta della camera della zia era assiepato un corteo di curiosi e giornalisti che speravano di ottenere la dichiarazione dell’unica superstite, lo scoop più succoso della giornata, e probabilmente dell’intera anno. La stampa era ovviamente già al corrente di tutto, anche se lui e Archibald erano riusciti a tenersi lontani dalle dichiarazioni fino a quel momento.
Alto com’era, Thorn non ci mise molto ad individuare sua zia che si stagliava fiera contro la porta, scrutando l’esterno alla ricerca di lui, senza rilasciare commenti.
E infine sentì quella domanda.
- Gira voce che stiate nascondendo una lettrice di Anima. È nel vostro appartamento? Perché non ce la presentate?
Thorn allungò il passo e scalzò via quegli avvoltoi che si spintonavano di fronte alla porta d’entrata che per tutto il pomeriggio aveva provato a varcare. Poche ore prima tutta quella gente non c’era, e nessuno avanzava teorie circa la presunta presenza di un’Animista dietro le sottane di sua zia.
Se la sarebbe vista con Archibald, o più probabilmente con le sue sorelle, una volta che si fossero tolti da quel ginepraio. Anche i segreti meglio custoditi non sono difficili da svelare se sei a fianco ad un membro della rete con una malsana passione per i pettegolezzi.
Fece in tempo a spingere indietro la zia e far entrare Jan e quel traditore di Archibald prima di richiudersi la porta alle spalle.
Vide Ofelia con la coda dell’occhio, spaventata, malconcia e disorientata. Avrebbe voluto recarsi subito da lei per verificare che il tono della sua voce non fosse più brutale come quello che aveva usato al telefono. Che fosse morbido e caloroso come al solito.
Non fece in tempo, perché la zia lo placcò contro la porta, così sconvolta da essersi dimenticata quanto poco il nipote tollerasse quel genere di contatti. O forse, stringendolo così forte proprio perché conosceva la sua avversione. La zia non metteva mai in conto i sentimenti altrui a discapito dei propri.
Thorn sbatté contro la porta alle sue spalle ma non ricambiò l’abbraccio, sperando che questo potesse scoraggiare la zia dal protrarlo troppo a lungo. Incatenò invece il suo sguardo a quello di Ofelia, e non lo spostò da lì nemmeno per un secondo, non batté nemmeno le palpebre.
Solo allora sentì la tensione che aveva accumulato in quelle ore dissiparsi come nebbia mattutina. A nulla era valso lo slancio della zia: la vista di Ofelia aveva ridimensionato tutto.
Lei stava bene.
Poco importava che il resto dei suoi consanguinei fosse morto.
Lei era viva. Nulla contava di più.
  
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