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Autore: TheGhostOfYou0    07/05/2020    2 recensioni
Un segreto in grado di distruggere una famiglia.
Un peccato tramandato di madre in figlia.
Anno 1469.
Francesco de’ Pazzi è vittima di un cognome importante ma non abbastanza, eclissato da quello della rivale famiglia de’Medici ed è pronto a tutto pur di ridare alla propria il prestigio che merita.
Fiammetta Canacci sogna una libertà che non le verrà mai concessa, fa parte delle piccola nobiltà fiorentina e lei, con un matrimonio, rappresenta l’unica possibilità per la sua famiglia caduta in disgrazia.
Sullo sfondo della Firenze del Magnifico i destini di un uomo in cerca di gloria ed un ragazza in cerca di se stessa sembrano intrecciarsi, stringersi intorno a quello della più potente famiglia del tempo, travolti in una spirale d’odio così profondo e violento da rendere difficile distinguere il bene dal male, fino ad i tragici eventi del 1478.
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Capitolo Quarto
 
Jacopo Pazzi batté il pugno contro la propria scrivania con forza, scuotendo il capo ripetutamente, con gli occhi puntati sulla figura del nipote, quasi desiderasse colpire lui piuttosto che quel legno. La sua espressione, a metà tra la delusione ed una rabbia feroce, fece dispiacere profondamente Francesco, che composto attendeva la fine dello sfogo dello zio.
“Che vuol dire che abbiamo perso l’appoggio dei Ridolfi?”
Domandò l’uomo, cercando di mantenere nel tono una calma già perduta nelle azioni.
 Si ricompose, aggiustando gli abiti sgualciti, e si voltò verso la grande finestra del proprio studiolo, cercando conforto nel calore di quella splendida giornata che Aprile stava regalando loro.
  Francesco, che fino a quel momento era rimasto chino, ben attento ad evitare lo sguardo dell’altro, alzò la testa lentamente, e con occhi incerti studiò il profilo dello zio, indurito dalla delusione e dal nervosismo che quella complessa situazione gli stava causando.
Tutto quello che aveva temuto si stava lentamente avverando: il carisma, l’abilità e gli intrighi di Lorenzo de’Medici stavano sottraendo importanti clienti al banco de’Pazzi, che senza quegli  investimenti non solo avrebbe perso di credibilità ma si sarebbe avvicinato –forse in meno tempo di quel che immaginavano –al tracollo. Il buon nome della sua famiglia sarebbe stato spezzato via da un uomo come tanti altri che aveva deciso di rendere proprio il mondo, un dittatore sorridente, un serpente ammaliatore da cui Francesco non si sarebbe mai fatto abbindolare.
Eppure pareva essere l’unico a scorgere la verità, persino sua moglie non comprendeva e forse, forse era anche lei, come l’intera Firenze, segretamente attratta dal giovane Medici.
Il pensiero della loro lite attraversò fulmineo la sua mente, ma Francesco lo scacciò.
Novella era una donna e come tale non poteva comprendere, si fermava alla superficie delle cose, non immaginava neppure la portata della partita che la sua famiglia stava conducendo dal momento stesso in cui nome de’Pazzi aveva acquistato il suo prestigio.
Ma Ridolfi, uno dei loro più importanti clienti, era un uomo colto, istruito, perfettamente inserito nei complicati meccanismi della politica e degli affari. Possibile che Lorenzo fosse riuscito ad ingannare persino lui?
No, c’era dell’altro.
Doveva avergli proposto qualcosa di impossibile da rifiutare, doveva averlo incastrato in qualche modo, ma quale? Come scoprirlo?
Francesco si lasciò andare in un sospiro pesante.
La sua capacità di vedere oltre la maschera del de’Medici era sicuramente un vantaggio, forse l’unica cosa che gli avrebbe permesso di non piegarsi all’influenza dell’uomo, eppure non bastava.
Non sarebbe bastato nulla e mentre Francesco sembrava averlo capito dal momento stesso in cui Lorenzo aveva spodestato suo padre, Jacopo ne stava prendendo consapevolezza solo in quel momento, convinto fino alla fine che il loro nome sarebbe bastato a mantenere gli antichi equilibri.
L’idea di essere proprio lui il portatore di tali notizie era un peso non indifferente per Francesco, che avrebbe voluto essere per suo zio null’altro che fonte d’orgoglio e ricchezza.  
Da quando anche suo padre era morto – che Francesco aveva quattordici anni e ancora troppe cose da imparare – Jacopo aveva cresciuto lui ed i suoi fratelli come fossero figli suoi, aveva insegnato loro non solo come essere degli ottimi banchieri, ma anche come essere degli ottimi uomini ed in cambio cosa stava ottenendo?
Uno solo dei tre nipoti lì, a sostenerlo davanti ad un così complicato problema, e per giunta l’unico che non avrebbe voluto con se, forse non all’altezza del suo cognome.
Francesco pensò che se avesse posseduto un quarto dell’abilità e dell’eloquenza di Lorenzo  non si sarebbero trovati in una situazione del genere, sconfitti in partenza, e si sentì in colpa nei confronti dello zio tanto che le parole, davanti al suo sguardo gelido, si incastrarono sulla lingua ed uscirono più incerte di quanto avrebbe voluto.
“Vuol dire quello che avete capito zio. I marchesi hanno intenzione di affidare la gestione delle loro finanze ad un altro banco.”
 “Quello de’Medici devo supporre.” Affermò Jacopo, tornando a sedersi. Francesco annuì.
“Supponente bene. Sono venuto a conoscenza di diversi incontri tra Lorenzo ed il giovane figlio del marchese, pare siano buoni amici ora.”
Dopo alcuni istanti di silenzio, in cui persino i loro respiri parevano essersi interrotti, l’attitudine di Jacopo cambiò radicalmente.
“Cosa suggerisci di fare, Francesco?” Chiese, accennando un sorriso che non aveva nulla di buono e che il giovane aveva imparato a riconoscere fin troppo bene.
Era il segno di una tempesta pronta a scatenarsi senza fare troppo rumore, era un’idea che vorticava nella sua mente e si rifletteva sul suo volto, idea che, se davvero voleva renderlo fiero di se, Francesco doveva comprendere immediatamente.
E lui voleva renderlo orgoglioso, non c’era altro per cui vivesse se non ricompensarlo di tutto quello che aveva fatto per loro. Voleva esser certo che il progetto dello zio s’avverasse, predisporre le carte in tavola nella perfetta combinazione, far si che il nome dei Pazzi non fosse solo grande ma il più grande. Era un compito che Dio aveva affidato a lui ed i suoi fratelli nel momento stesso in cui suo padre era morto e che era finito per ricadere unicamente sulle sue spalle.
Ma non bastavano.
O almeno di questo era convinto Jacopo e non c’era bisogno glielo dicesse. Francesco sapeva, aveva sempre saputo che gli occhi dell’uomo avevano brillato d’adorazione per una sola persona, il suo pupillo, e che, da quando l’aveva perduto, non era più riuscito a credere in altri.
Francesco non gliene faceva una colpa, sperava solo che un giorno la sua lealtà sarebbe riuscita a scalfire il muro  di scetticismo dietro il quale Jacopo s’era rifugiato.  
La lealtà era l’unica cosa che aveva da offrirgli in più di altri. Francesco, che era il più giovane tra i figli di Antonio de’Pazzi ed il più amato dal padre, era anche il più introverso ed ombroso, un uomo ligio al dovere, capace nelle sue mansioni, veloce nell’impararle, ma assolutamente incapace di comprare con le proprie parole il favore altrui e, più d’ogni altra cosa, ispirava la fiducia e la simpatia di pochi. Era un fallimento annunciato fin dalla tenera età, ma mentre suo padre vedeva nel suo pragmatico modo di esporsi una peculiare caratteristica, un pregio che ben si incastrava nei meccanismi del banco di famiglia, Jacopo aveva subito compreso fosse un limite. Aveva cercato di smussare i duri angoli del suo carattere, ma tutto quello che aveva ottenuto era un uomo tanto valido e deciso, quanto incapace di relazionarsi con il prossimo, che non solo in un lavoro  ma in un mondo come il loro –fatto di intrighi ed alleanze , in cui le giuste relazioni erano la chiave del successo – non avrebbe mai potuto lasciare un segno.
Un uomo che, assieme al suo cognome, sarebbe stato dimenticato dalla storia.
Jacopo lo guardò, in attesa di una risposta che non arrivava, mentre il nipote si limitava a scrutarlo, studiando la sua espressione, e se Jacopo credeva stesse cercando in essa la risposta al suo quesito, Francesco in realtà leggeva i suoi pensieri, il rimpianto che, tra tutti i nipoti, fosse rimasto solo lui.
Sapeva d’essere amato dallo zio come un figlio, ma sapeva anche avrebbe voluto vederlo in piedi, di fronte a lui, proprio nella stesa posizione in cui era, affiancato da Guglielmo e Giovanni.
Il primo, da quando aveva sposato Bianca de’Medici, non solo s’era disinteressato agli affari di famiglia, ma era diventato persino pericoloso. Tanto era accecato dall’amore per quella donna che sarebbe bastato un battito di ciglia di lei perché le rivelasse informazioni che non sarebbero mai e poi mai  dovute arrivare a quella famiglia.
Il secondo, invece, era stato suo zio stesso ad allontanarlo per via non solo del temperamento instabile e precario, ma anche per gli scontri continui tra i due, di cui l’ultimo, avvenuto appena qualche anno prima, aveva segnato una frattura irreparabile .
Francesco non sapeva neppure cosa riguardasse, né Giovanni né Jacopo avevano voluto spiegare le proprie ragioni, sapeva solo che era qualcosa di estremamente grave poiché, da quello scontro, suo zio ne era uscito con un marchio sulla carne, una cicatrice che tagliava in due il sopracciglio e la guancia sinistra e che più d’ogni altra cosa aveva spezzato il suo cuore.
Era sempre stato Giovanni la luce dei suoi occhi, il suo preferito, il suo degno erede.
L’unico che forse, ora, sarebbe stato capace di fronteggiare Lorenzo de’Medici.
 
Ma c’era Francesco lì e decise che, se non poteva cambiare il passato o sostituire il fratello, poteva quantomeno provare a costruirsi un suo posto speciale nel banco di famiglia e nel cuore dello zio. 
 “Francesco.” Lo chiamò Jacopo.
Lui lo guardò, accennò un ghigno a sua volta. “Annullare la concorrenza .Se non possiamo competere con i Medici, allora dovremo trovare il modo farli crollare presumo.”
Jacopo annuì, soddisfatto.
“Ma come?” Domandò Francesco.
“Ogni famiglia ha i suoi segreti. Dobbiamo solo capire quali sono i loro.”
 
 
 
Fiammetta guardò il sole svegliarsi lentamente, gli occhi scuri fissi sulla finestra della sua camera, dove dalle tende facevano capolino primi raggi, segno che il giorno era finalmente arrivato. Sperava che la luce l’avrebbe salvata dai suoi pensieri, ma questi sembravano accavallarsi l’uno sull’altro sempre più rapidamente, lasciandola stordita.
Non aveva chiuso occhio, accompagnata costantemente dalla voce di Giuliano che continuava a ripeterle il nome di Bastiano Soderini.
“È un uomo fortunato.” Aveva detto.  Quella frase le era rimasta incisa nella mente, come l’avesse scavata lettera per lettera sulla sua pelle, accompagnata, in un tutta quella confusione, da un sentimento difficile da identificare, o meglio da accettare, ma che le faceva tingere le guance di rosso al solo pensiero degli occhi chiari del giovane Medici.
Avrebbe potuto essere lui quell’uomo.
Fortunato.  Se solo l’avesse voluto quella fortuna sarebbe potuta essere sua, e magari non era neppure troppo tardi, magari, in cuor suo, Giuliano avrebbe voluto fosse così.
Si lasciò pervadere da quella dolce idea per qualche istante appena, prima di ricordarsi che non solo non avrebbe mai potuto sposarlo, non solo avrebbe sposato qualcun altro, ma soprattutto che la gentilezza di lui non poteva in alcun modo corrispondere ad un segno d’amore.
Tutti a Firenze sapevano che il suo cuore apparteneva a Fioretta Gorini, ne erano testimoni le vie dove i due amanti solevano nascondersi per un saluto fugace, le mura tra le quali il loro amore si consumava, le pietre che i loro piedi avevano calpestato correndo nella fretta di raggiungersi ed abbracciarsi. Ne era testimone la città intera, ammutolita dalla potenza dei loro sguardi.
O almeno questo immaginava Fiammetta, lei non aveva mai visto nulla.
Avrebbe voluto.
Avrebbe voluto vedere anche per sbaglio la potenza di quel sentimento che le piaceva immaginare bruciante e che non credeva le sarebbe mai stato concesso.
Ripensò alla sera precedente, alla pessima figura che doveva aver fatto al giovane Medici, all’ incredulità davanti alla notizia del suo stesso matrimonio e quel vuoto improvviso che aveva sentito nel petto, in qualche luogo oscuro che non sapeva cogliere né identificare, ma le aveva provocato un malessere tale da renderla più pallida, emaciata e malata del solito.
E lei era stanca di essere malata, di essere debole, di essere la pedina inconsapevole del gioco di sua madre. Voleva gridare a gran voce contro di lei, voleva rimproverarla nella stessa terribile maniera in cui era stata rimproverata fin da piccola, voleva camminare a testa alta, lasciandosi alle spalle il peso di una donna alla propria deriva.
Magari il matrimonio sarebbe stata la chiave della sua gabbia, il suo permesso di libera uscita, la sua più grande possibilità.
Cercò di trovare conforto in questo eppure sentiva, anzi sapeva, che la libertà non esisteva per donne come lei e che le sue possibilità sarebbero rimaste immutate. L’unica cosa che poteva fare era imparare ad usarle al meglio, prendere esempio da Madonna Lucrezia e le sue figlie.
Fiammetta doveva trasformasi e per farlo non bastava un matrimonio. Doveva rinascere spontaneamente, lasciare che nel suo petto scoppiasse una forza nuova e sconosciuta che le permettesse di lasciare il passato alle spalle.
Una forza che però, si rese conto dopo, non possedeva.
 Perché Fiammetta voleva, voleva tante cose ma quando sua madre si voltava verso di lei orgogliosa, quando vedeva nei suoi occhi quell’amore così a lungo bramato, quando smetteva di essere una nobildonna in rovina e ritornava ad  essere la fiera Agnese Canacci, allora tutta la volontà di Fiammetta spariva, la voce si spegneva, la rabbia si placava e non rimaneva altro che quell’impellente quanto infantile bisogno di essere stretta dalle sue braccia.
E se a sua madre bastava un matrimonio per amarla, allora lei non aveva bisogno d’esser altro che una moglie.
Era più comodo così, persino più giusto.
 
Neppure sera precedente, una volta rientrati a palazzo, era riuscita ad ottenere alcuna spiegazione da Agnese sul perché le avesse taciuto una notizia tanto importante.
Glielo aveva domandato, con quel solito filo strozzato di voce e le mani strette in due pugni, soffocando le grida disperate e le lacrime che minacciavano di traboccare.
Perché fai finta che io non esista? Perché mi tratti come un giocattolo?
Mi sposerò madre, è il mio dovere, non scapperei mai, non chiedo altro, ma rendetemi partecipe di una vita che non sento mia.
“Perché non me lo avete detto?”
Erano le sole parole fosse riuscita a pronunciare, mentre Agnese sorrideva, ignorandola, persa in chissà quali pensieri.
L’inspiegabile affabilità mostrata durante i preparativi, l’ingiustificato affetto… tutto tornava e nulla dipendeva da lei.  Sua madre le voleva bene solo in funzione delle scelte altrui.
“Madre.” L’aveva chiamata ancora.
“Sarai felice.” Era stata la sua unica risposta. “Saremo felici tutti bambina mia.”
Fiammetta si  era voltata dunque verso suo padre in cerca di un appoggio, ma tutto quello che aveva visto era una figura pesante, rotonda che scoordinata muoveva passi lenti ed instabili, le gambe larghe, il portamento più simile a quello di un cinghiale che d’un uomo del suo rango, accompagnato da un borbottio fitto che sapeva di vino e di rovina.
Aveva provato pena per se stessa.
Non si poteva scegliere in che famiglia nascere, bisognava accettarla e basta.
Era un dono del Signore, la famiglia.
 Onora il padre e la madre. Come farlo se loro, per primi, sono tutto meno che onorevoli?
 
Scansò le coperte pesanti e s’alzò di scatto dal proprio letto, poi aprì le tende e lasciò che il sole l’accecasse, riportandola alla realtà.
Doveva uscire.
Non sapeva perché, né dove sarebbe andata, ma sentiva l’impellente bisogno di scappare via dalla sua vita e da quelle mura per tornare a respirare, per cercare delle risposte che nessuno le avrebbe dato mai, per accettare il suo destino senza “se” e senza “ma”, per correre incontro ad una positività che sentiva mancarle ed accogliere la speranza –e la possibilità –di essere felice al fianco di Soderni.
Perché le strade di Firenze, la sua terra, le mura ed i mattoni, fossero testimoni anche della sua storia d’amore con la vita.
E la vita era fuori.
In un impeto di follia si vestì rapidamente, presa da una frenesia che non conosceva si guardò allo specchio, sorridendo davanti al riflesso più disordinato e scomposto avesse mai visto. Silenziosamente, uscì dalla sua camera  con i piedi che parevano più pesanti di macigni, che sembravano trattenerla lì dov’era, implorarla di non scappar via.
“Solo un’ora. Solo un’ora di libertà” Ripeté a se stessa.
 Camminò verso il portone d’ingresso con le gambe che tremavano e minacciavano di lasciarla crollare da un momento all’altro . Lo aprì con le mani inferme, terrorizzata dall’idea che qualcuno potesse fermarla ad un passo da quella tanto agognata meta, ma non c’era nessuno e così in un secondo e senza nessuna apparente conseguenza fu fuori da Palazzo Canacci.
Quella mattina il cielo, il sole e la sua città le parvero più belli che mai.
 
  
Francesco camminava con il passo veloce, guardandosi attorno senza prestare davvero attenzione ai volti che scorrevano davanti ai suoi occhi, il pensiero fermo sulle frasi di suo zio: sconfiggere i Medici tramite i loro segreti.
Era qualcosa di necessario, lo sapeva, come pure sapeva che i metodi usati dalla famiglia per raggiungere e consolidare la propria posizione non erano certamente onesti, eppure l’idea di comportarsi allo stesso modo dei suoi rivali fece vacillare la sua convinzione. Certo, era parte del loro mestiere, ma per quel poco che lo aveva conosciuto, suo padre gli aveva mostrato che la possibilità di agire diversamente esisteva, che si poteva essere banchieri ed essere onesti.
Questo però, come gli aveva insegnato Jacopo, escludeva la possibilità di essere potenti ed i Pazzi meritavano di esserlo.
 Più dei Medici.
Più di chiunque altro.
 
 Francesco si fermò all’improvviso, lo sguardo catturato da una figura famigliare in lontananza, una macchia rossa che si muoveva svelta e sola tra le vie della città.
I capelli del diavolo, li avrebbe riconosciuti ovunque.
Si chiese cosa ci facesse Fiammetta Canacci lì, senza alcun accompagnatore, poi si disse che non era affar suo, ma continuò ad osservarla mentre veniva proprio nella sua direzione, e più lei era vicina più notava qualcosa di molto strano. 
C’era un uomo, dietro di lei. Sembrava seguirla.
“Non è affar tuo.” Si disse, riprendendo a camminare nella direzione opposta.
 
Si fermò di nuovo e sospirò guardando quella macchia rossa allontanarsi sempre più.
Non voleva un morto sulla coscienza, neppure se si trattava di una Canacci.
Decise di raggiungerla. 
 

 
 
 
   
 
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