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Autore: Parmandil    08/05/2020    1 recensioni
Abolita la Prima Direttiva per ragioni umanitarie, l’Unione Galattica è sprofondata nel caos. Le civiltà precurvatura abusano delle tecnologie loro donate e un terzo dei sistemi federali è pronto alla secessione, concretando il rischio di una guerra civile.
Dopo un violento attacco alieno, la Keter si reca nel Quadrante Delta, ripercorrendo la rotta della Voyager in cerca di riposte. Qui troverà vecchie conoscenze, come i Krenim e i Vidiiani, che si apprestano a colpire un nemico comune, incautamente risvegliato dalla Voyager secoli prima. I nostri eroi dovranno scegliere con chi schierarsi, in una battaglia che deciderà le sorti del Quadrante. Ma la sfida più ardua tocca a Ladya Mol, già tentata di lasciare la Flotta per riunirsi al suo popolo. Dopo una tragica rivelazione, la dottoressa dovrà lottare contro un morbo spaventoso; la sua dedizione potrebbe richiederle l’estremo sacrificio.
Nel frattempo i Voth, un’antica specie di sauri tecnologicamente evoluti, sono giunti sulla Terra per stabilire una volta per tutte se questo sia il loro mondo d’origine. Sperando d’ingraziarseli, le autorità federali li accolgono in amicizia, senza riflettere sulle conseguenze del ritorno dei “primi, veri terrestri” sul pianeta Terra.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Borg, Dottore, Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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-Capitolo 1: Veniamo in pace

Data stellare 2590.35

Luogo: pianeta Akaali

 

   Lasciata l’orbita geostazionaria, l’USS Kutkh sorvolò oceani e continenti, fino a raggiungere la posizione voluta. Qui si arrestò, ruotando di 90º per fronteggiare una grande massa continentale. La Kutkh era uno slanciato vascello federale di classe Horus, dalle linee aggressive che ricordavano gli sparvieri klingon e romulani. Da quando le tre potenze si erano raccolte in una più vasta Unione Galattica, la commistione di tecnologie aveva portato a questi design ibridi. La classe Horus, ormai in servizio da vent’anni, era diventata la spina dorsale della nuova Flotta unificata, anche se c’erano in cantiere astronavi ancora più potenti.

   Il Capitano Mevos contemplò il paesaggio sullo schermo: pianure e colline verdeggianti, venate di fiumi e costellate di centri urbani. Il pianeta Akaali era da poco entrato nella Rivoluzione Industriale, ragion per cui le città erano piene di ciminiere che riversavano fumo nell’atmosfera. Ma il danno ecologico non era ancora grave; il pianeta conservava la sua bellezza. «Quella è Luvia?» chiese il Capitano, accennando a una grande città che sorgeva sulla costa. Era la capitale di una delle nazioni più potenti del pianeta.

   «Affermativo» rispose l’addetto ai sensori.

   Il Capitano la scrutò per qualche secondo, poi ruotò la poltroncina, per rivolgersi all’Ufficiale Tattico. «Tenente, alzi gli scudi».

   «Già fatto, signore».

   «Bene, allora agganci la città» disse Mevos, intrecciando le dita. «È tempo di risolvere il conflitto. Apra il fuoco».

   «Agli ordini» disse l’Ufficiale Tattico. Senza la minima esitazione digitò la sequenza di lancio. Un siluro quantico fu sparato contro il pianeta. Il bagliore azzurro sfrecciò nell’atmosfera, sempre più basso. Gli ufficiali di plancia lo seguirono trepidanti, finché giunse a bersaglio. Ci fu un lampo accecante e un’esplosione fungiforme si allargò dal centro cittadino. Le case, le fabbriche e i palazzi furono rasi al suolo. I loro tetti scoperchiati volarono via. Il legno arse, i mattoni si spaccarono e persino la pietra si sbriciolò. Il fungo incandescente s’innalzò nell’atmosfera, mentre l’onda d’urto si allargava, spazzando via le rade nuvole.

   «Oh, è bellissimo» commentò il Capitano, rapito da quella vista. L’esplosione era perfettamente simmetrica, e a lui piaceva la simmetria. «Rapporto».

   «Luvia non esiste più» confermò l’addetto ai sensori. «Tutto ciò che si trovava nel raggio di cinquanta chilometri dall’esplosione è stato distrutto».

   «Questo è un gran giorno» dichiarò il Capitano. «Tenente, agganci i capoluoghi di provincia e tutte le città con più di 100.000 abitanti. Fuoco a volontà».

 

   In quel momento un’altra astronave uscì dalla cavitazione e sfrecciò verso il pianeta. Aveva una forma compatta, rastremata a prua. Lo scafo blu-violetto, solcato da costoloni di rinforzo, non presentava finestre. I nuovi arrivati aprirono immediatamente il fuoco con il cannone anteriore. I potenti impulsi phaser martellarono gli scudi della Kutkh, che divennero visibili per la dispersione energetica, ma resistettero. Dopo di che il nuovo vascello si frappose tra la nave federale e il pianeta, nel tentativo di proteggerlo. Molte città però erano già state colpite, trasformandosi in crateri colmi di lava ribollente. Le esplosioni s’innalzavano nella stratosfera, le pianure e i campi bruciavano. Più insidiose di tutto, le radiazioni si diffondevano sul continente e oltre, colpendo la popolazione inerme.

   La Kutkh aprì nuovamente il fuoco, non più contro il pianeta, ma contro il vascello che l’aveva attaccata. Siluri quantici e raggi anti-polaronici balenarono nel buio, colpendo gli scudi. Ma la Keter, la nave a cui spettavano le missioni impossibili, aveva visto di peggio. I suoi ufficiali rimodularono gli scudi, adattandoli al fuoco nemico. Sulla plancia, il Capitano Hod osservò corrucciata la nave avversaria. «A questo siamo giunti» mormorò cupamente, sentendo la plancia che tremava appena. «Zafreen, li chiami su tutte le frequenze».

   «Procedo, ma non credo che ci staranno a sentire» commentò l’Orioniana.

   I fatti però la smentirono, perché la Kutkh smise di attaccare. A un cenno di Hod anche Norrin, l’Ufficiale Tattico della Keter, cessò il fuoco. L’Hirogeno però non abbassò la guardia. Consultò i dati che Zafreen gli mandava dalla postazione sensori, in cerca di un punto debole nelle difese avversarie.

   Sullo schermo apparve un Akaali di mezz’età, un po’ corpulento. Gli Akaali erano una tipica specie umanoide, caratterizzata da due rilievi zigrinati che andavano dalle sopracciglia all’attaccatura dei capelli. Questo era un militare, come indicava l’uniforme piena di medaglie. Aveva gli occhi freddi e due enormi basette che solcavano le guance, unendosi ai baffoni. «Sono il Capitano Mevos, della Sovranità Epasiana» si presentò. «Cessate l’attacco e ritiratevi, o sarete distrutti!» minacciò.

   «Neanche per sogno. Vi siete impadroniti di una nave federale e avete bombardato delle città inermi; non la farete franca» ribatté Hod. L’Elaysiana lasciò la poltrona e si avvicinò allo schermo, studiando l’avversario.

   «Inermi?!» esclamò Mevos, sprezzante. «Lei non conosce i Luviani. Per duecento anni hanno minacciato i nostri confini. Hanno razziato le coste, ci hanno imposto blocchi navali per strangolare la nostra economia. Ora la misura è colma. Noi Epasiani dobbiamo cautelarci da ogni nuovo attacco».

   «Luviani, Epasiani... avete nazionalità diverse e parlate lingue differenti, ma vivete tutti sullo stesso pianeta» obiettò il Capitano Hod. «Siete tutti Akaali. Prima o poi dovrete imparare a coesistere».

   «Anche quelli della Kutkh dicevano così» commentò Mevos, storcendo la bocca. «Quando gli abbiamo chiesto armi per difenderci dagli invasori, ce le hanno negate. Dicevano che presto non avremmo più avuto nazioni, sul nostro pianeta. Che saremmo stati tutti fratelli. Tsk. Solo dei mentecatti possono credere una cosa del genere. O illusi che non hanno la minima idea di come vanno le cose qui».

   «Convengo che l’equipaggio della Kutkh fosse poco informato sul vostro conto» disse Hod, cupa. «Ma questo non vi autorizzava a ucciderli e a impossessarvi dell’astronave».

   «Non li abbiamo uccisi tutti» rivelò il Capitano. «Alcuni si sono arresi; li abbiamo ancora a bordo».

   «Il Capitano Gimmon è tra questi?» chiese subito Hod.

   Mevos rifletté un attimo prima di rispondere. Concluse che era inutile nascondere la verità. «Sì, lo abbiamo in custodia» confermò.

   «Vorrei parlargli» disse l’Elaysiana.

   «Restate in attesa» rispose l’Akaali, e chiuse la comunicazione.

   «Capitano, ho rilevato dei corpi senza vita nello spazio» disse Zafreen a mezza voce. «Devono essere i caduti. Per sbarazzarsene li hanno buttati fuori dalla nave».

   «Voglio vederli» ordinò Hod. «E voglio sapere quanti sono».

   La lugubre inquadratura apparve sullo schermo. I cadaveri dei federali roteavano nello spazio, allontanandosi dalla zona in cui erano stati espulsi. Sui volti congelati erano ancora impresse le smorfie di dolore e terrore degli ultimi momenti. Se non li raccoglievano, molti di loro sarebbero bruciati cadendo nell’atmosfera, mentre altri sarebbero rimasti in orbita per chissà quanto.

   «Sono 135» riferì l’Orioniana. «La Kutkh aveva un equipaggio di 420 elementi, quindi dovrebbero esserci 285 ostaggi a bordo».

   «Non sembrano tutti vittime di armi da fuoco» notò il Comandante Radek, un Rigeliano grande e grosso. In effetti molti corpi non mostravano bruciature da phaser, né ferite da proiettile. In compenso avevano espressioni stravolte e braccia ritorte verso i volti.

   «Li hanno gettati vivi nello spazio!» ringhiò Vrel, il timoniere di bordo.

   «Così sembra» disse Radek, più distaccato. «Ma non dimentichiamo che gli Akaali sono un popolo pre-curvatura. Anche se si sono impadroniti di quell’astronave, non sanno manovrarla».

   «A me sembra che ci riescano quanto basta» borbottò Vrel, osservando la superficie in fiamme del pianeta.

   In quella Mevos riapparve sullo schermo. Era ancora seduto sulla poltrona del Capitano. Accanto a lui, in ginocchio e con gli occhi bendati, c’era il legittimo proprietario di quella poltrona. Era un Denobulano dai capelli grigi e il volto tumefatto. Anziché l’uniforme della Flotta Stellare, indossava quella dell’Ufficio di Primo Contatto, il nuovo dipartimento creato per elargire aiuti umanitari ai popoli pre-curvatura. Un soldato Akaali gli teneva una pistola puntata alla nuca.

   «Capitano Gimmon, mi sente?» chiese Hod.

   «Chi parla?» mormorò il Denobulano, che essendo bendato non poteva vederla.

   «Capitano Hod, della Keter» spiegò l’Elaysiana. «Eravamo in zona e sapevamo della vostra missione di Primo Contatto. Così, quando i sensori hanno captato le esplosioni sul pianeta, abbiamo immaginato che aveste perso il controllo della nave».

   «Esplosioni?!» si disperò Gimmon. «Oh, no... li avevo implorati di non farlo».

   «Un buon soldato non spreca mai le occasioni» disse Mevos. «Questo vascello ci permetterà di vincere la guerra». Così dicendo estrasse un monocolo dal taschino e se lo sistemò all’occhio destro, per osservare meglio gli interlocutori. «Forse pensavate che fossimo dei primitivi, quando ci avete contattati. Credevate che vi avremmo adorati come divinità. Beh, avete fatto male i conti. I nostri filosofi avevano già teorizzato l’esistenza di altri mondi abitati, quindi il vostro arrivo non è stato un grosso shock».

   «Cercavamo di aiutarvi...» cominciò il Denobulano.

   «Certo, dicono tutti così!» sbottò l’Akaali. «“Veniamo in pace!”. Così dissero i Luviani, due secoli fa, prima di cominciare a rapirci e a venderci droghe. “Veniamo in pace!” avete detto voi, quando siete sbarcati. Ma noi non siamo così ingenui... non più».

   Vedendo che parlare con lui era inutile, Gimmon si rivolse a Hod. «Mi dispiace, Capitano» disse con voce rotta. «All’inizio gli Akaali sembravano pacifici. Molti di loro soffrivano di una malattia simile al colera, quindi li abbiamo imbarcati per curarli. Ma appena ricevuta la vaccinazione, ci si sono rivoltati contro. Hanno iniettato la loro malattia nelle gelatine bio-neurali del computer, mettendo fuori uso l’Intelligenza Artificiale. Poi si sono impadroniti della sala macchine e hanno minacciato di far esplodere la nave, se non gliela avessimo consegnata. È successo tutto così in fretta... non siamo riusciti a fermarli» disse mortificato.

   Hod pensò che se quella nave avesse avuto un equipaggio della Flotta Stellare, anziché di burocrati e di volontari inesperti, non sarebbe mai accaduta una cosa simile. Ma tenne per sé queste considerazioni. «Voi superstiti state bene?» chiese invece.

   «Siamo stati torturati» rivelò il Denobulano con voce cupa. «Ci hanno estorto i codici di comando e le istruzioni per governare la nave».

   Quest’affermazione allarmò il Capitano e gli ufficiali della Keter. Se gli Akaali avevano già tutto quel che gli serviva, gli ostaggi erano inutili. Quindi non avrebbero esitato a sbarazzarsene.

   «Bene, Capitano Mevos» disse Hod, respirando a fondo. «Quali sono le sue condizioni?».

   «Reclamiamo la proprietà di questo vascello, da noi conquistato in battaglia» rispose l’Akaali. «Vi ordiniamo altresì di lasciare il sistema, senza interferire nei conflitti del nostro pianeta. Quando ci saremo occupati dei Luviani, vi renderemo gli ostaggi» promise.

   «È inammissibile» ribatté Hod. «Non vi lasceremo compiere un genocidio. Voi non avete idea di quanto siano potenti le armi che state usando. I siluri che avete lanciato stanno sollevando una coltre di polveri che oscurerà il sole su tutto il pianeta, per molti anni. In questo modo anche i vostri raccolti andranno persi, la vostra gente morirà di fame, lo capite?! E le radiazioni faranno ancora più danni. Le persone si ammaleranno e moriranno, i bambini nasceranno orribilmente deformati. Questo in tutto il pianeta, non solo tra i vostri nemici».

   «E poi che altro, ci verrà il malocchio?» fece Mevos, sarcastico. «Se anche ciò che dice fosse vero, è un prezzo che siamo disposti a pagare, pur di sconfiggere Luvia una volta per tutte. Se foste dei nostri, lo capireste... ma siete solo degli alieni. Avrete anche tutta la tecnologia dell’Universo, ma vi manca il nostro spirito; ecco perché abbiamo conquistato questa nave».

   «La vostra fortuna è finita» ammonì Hod. «Rendeteci gli ostaggi e cercherò di organizzare una trattativa fra le vostre nazioni. Se le cose andranno per le lunghe, l’Unione invierà un mediatore. È già successo, molte volte, che così si ottenesse la pace tra popoli che erano considerati implacabili rivali».

   «Incredibile...» mormorò il Capitano, fissandola assorto.

   «No, non è incredibile» insisté Hod, sperando di aver fatto breccia. «Ogni conflitto può essere risolto, se da ambo le parti c’è la volontà di...».

   «Volevo dire: incredibile che pensi di darcela a bere!» l’interruppe Mevos seccamente. «Ci prende per minorati mentali? Se avevo un briciolo di rispetto per lei, Capitano Hod, adesso l’ho perso. Se non l’ha ancora capito, noi facciamo sul serio. E per dimostrarglielo...». Fece un cenno al soldato che teneva Gimmon sotto tiro. Si udì uno sparo e il Denobulano cadde faccia in avanti. Il proiettile lo aveva colpito alla nuca; la morte era stata istantanea.

   Hod chiuse gli occhi per un attimo. Aveva tentato la via diplomatica, com’era dovere di ogni Capitano della Flotta Stellare; ed ecco il risultato. Era chiaro che gli interlocutori non erano minimamente interessati a trattare.

   «Ho ancora 284 dei vostri a bordo» disse Mevos con calma. «Li farò uccidere tutti, a cominciare dai più giovani, se non ve ne andate subito. A voi la scelta».

   «Ci sono duecento milioni di persone nel continente che voi state bombardando» rispose l’Elaysiana, glaciale. «Non è una scelta difficile».

   «Perché vi stanno tanto a cuore i Luviani?!» protestò l’Akaali. «Che cosa vi hanno promesso, in cambio del vostro aiuto?».

   «Assolutamente nulla» ribatté Hod. «Ma la vostra follia omicida m’impone di fermarvi».

   «Se aiuta i Luviani, vuol dire che è loro alleata» s’incaponì Mevos. «Il che significa che è nostra nemica. Poteva dirlo subito, Capitano, e ci saremmo risparmiati queste inutili ciance. Sia come vuole, dunque: guerra all’ultimo sangue. Giustiziate gli ostaggi!» ordinò ai suoi. Chiuso il canale, la Kutkh riapparve sullo schermo, mentre apriva selvaggiamente il fuoco contro la Keter.

   «Tempi bui per la diplomazia» mormorò Hod, sentendo tremare la plancia. Ma si riscosse in fretta. «Norrin, gli metta fuori uso gli scudi. Appena cedono, portiamo a bordo gli ostaggi» ordinò.

   «Sì, Capitano» disse l’Ufficiale Tattico, aprendo il fuoco contro la nave avversaria. Trattandosi di un vascello federale, ne conosceva i punti deboli. «Ma sarebbe meglio se non restassimo a fare da bersaglio» aggiunse, dato che stavano ricevendo molti colpi.

   «Gli Akaali cercano di colpire anche il pianeta» avvertì Zafreen.

   «Allora manteniamo la posizione» ordinò il Capitano, risedendosi sulla poltroncina.

   «Estendere al massimo la bolla degli scudi» aggiunse il Comandante Radek, sperando d’intercettare anche i colpi diretti al pianeta. Allargare così tanto gli scudi, però, li avrebbe indeboliti.

   «Fantastico... siamo inchiodati qui e pure con gli scudi estesi» bofonchiò Vrel, che in tal modo non poteva far valere le sue abilità di pilota. «Dobbiamo anche legarci le mani dietro la schiena?».

   «Disciplina, Tenente Shil!» lo richiamò il Comandante, pur essendo frustrato anche lui dalla situazione.

   Lo scontro procedette per circa un minuto, con le due navi che si scambiavano colpi terribili. Pur con tutti gli svantaggi, la Keter era diretta da veterani che sapevano dove colpire. Invece la Kutkh aveva un equipaggio inesperto, che colpiva a caso, senza sfruttare appieno le capacità del vascello. Poco alla volta i suoi scudi s’indebolirono, finché dovette battere in ritirata. Mentre si muoveva, però, continuò a colpire il pianeta, prendendo di mira le nazioni avversarie. La Keter l’inseguì, abbattendo tutti i siluri prima che giungessero a bersaglio; ma non poté bloccare i raggi anti-polaronici. Sulla superficie di Akaali apparvero scie di distruzione.

   «I loro scudi stanno cedendo» avvertì Norrin. «Ma dovremo abbassare anche i nostri per imbarcare gli ostaggi».

   «Vrel, stia pronto a schivare i siluri» ordinò il Capitano. Confidava sulla solidità dello scafo in neutronio per proteggerli dalle altre armi. In quella notò che l’hangar principale della Kutkh si stava aprendo. Il campo di forza protettivo non era stato attivato: l’aria fu risucchiata nello spazio, portandosi dietro duecento persone. Gli ostaggi rimasti. «Teletrasporto!» ordinò Hod, sapendo che avevano pochi secondi di vita.

   Norrin abbassò gli scudi e le sale teletrasporto iniziarono il trasferimento. Nel frattempo la Kutkh assalì nuovamente la Keter, per distruggerla mentre le sue difese erano abbassate. Solo una disperata manovra evasiva di Vrel evitò la salva di siluri. Le armi a raggi però andarono a bersaglio.

   «Trasferimento ancora in corso» avvertì l’addetto al teletrasporto di plancia. Diversamente dalle altre navi della Flotta, la Keter aveva una pedana anche sul ponte di comando. Alcuni ufficiali semicongelati vi si materializzarono.

   «Norrin!» esclamò il Capitano, sapendo che la nave non avrebbe retto a lungo in quelle condizioni.

   «Ci sono» disse l’Hirogeno in tono misurato. Scagliò una salva di siluri cronotonici che colpirono la Kutkh in corrispondenza di un’ala, tranciandola. Il pezzo d’ala con la gondola quantica si allontanò senza esplodere. Il resto della nave sbandò e smise di sparare. «Hanno perso gli scudi» riferì Norrin. «Motori disattivati; sono alla deriva».

   «Teletrasporto completato» disse l’addetto. «Abbiamo 187 ostaggi ancora in vita, anche se molti sono in gravi condizioni».

   «Su gli scudi» ordinò Hod. «Zafreen, li chiami ancora».

   Sullo schermo riapparvero Mevos e i suoi soldati. Avevano perso lo smalto, ora che la plancia era invasa dal fumo e gran parte dei comandi era fuori uso. Due Akaali giacevano a terra con ferite alla testa, dopo che le loro consolle erano esplose.

   «Arrendetevi» disse Hod in tono categorico. «Non temete... noi trattiamo con dignità i prigionieri, a differenza di voi». In realtà non sarebbe stato facile catturarli: nelle prigioni di bordo non c’era spazio per tutti e il Capitano non osava riportarli a terra, temendo che si dileguassero.

   «Diventare merce da scambiare non si addice ai soldati» rispose Mevos. Levò di tasca un comunicatore, sottratto ai federali, e contattò un sottoposto. «È il momento; fate brillare le cariche» ordinò. Poi si rivolse ai soldati raccolti attorno a lui. «Siate orgogliosi di questo giorno. Abbiamo messo i Luviani in ginocchio e presto le nostre truppe daranno loro il colpo di grazia».

   In quella le cariche esplosive che erano state sistemate in sala macchine detonarono. Il nucleo quantico fu schiantato: materia e antimateria si scontrarono, annichilendo la Kutkh in un lampo bianco.

 

   Scioccata, il Capitano Hod osservò la nube di vapore che si disperdeva. Ora che tutti gli Akaali coinvolti nell’incidente erano morti, sarebbe stato difficile convincere le vittime che erano stati loro ad attaccarli dallo spazio. «Analisi delle radiazioni» ordinò, con la bocca secca. «Quali sono le conseguenze sul pianeta?».

   Distogliendosi a fatica dallo schermo, Zafreen scansionò il pianeta. «Quasi tutto l’emisfero è inondato da radiazioni alfa, beta e gamma» riferì. «I raggi gamma sono dieci volte oltre i livelli di guardia della fisiologia Akaali».

   «Dobbiamo soccorrere la popolazione» mormorò il Capitano, osservando il continente. Le maggiori città luviane non c’erano più; al loro posto vi erano crateri ribollenti. Qua e là, lunghe scie nerastre indicavano le zone colpite dai raggi anti-polaronici. Le ceneri s’innalzavano nell’atmosfera, disperdendosi; presto l’intero pianeta sarebbe piombato nell’inverno nucleare.

   «Capitano, l’infermeria trabocca già di feriti» le ricordò il Comandante. «Ma anche se così non fosse, non possiamo soccorrere duecento milioni di persone. È un’operazione che impegnerebbe tutta la Flotta Stellare per anni».

   «Dobbiamo avvertire il Comando di Flotta» disse Hod, realizzando poco alla volta l’enormità della tragedia. «Chiediamo aiuti, per quanto possibile. La cosa più urgente sono i vaccini anti-radiazioni. Per quanto riguarda la cappa di polveri, esistono metodi per farla precipitare più in fretta».

   «E che facciamo contro gli Epasiani?» chiese Vrel, cupo. «Quei pazzi vogliono ancora invadere il continente».

   «Quando vedranno il cielo oscurato, forse cambieranno idea» ipotizzò Hod, ma nemmeno lei ci sperava. Senza la luce e il calore del sole, la conflittualità sarebbe aumentata in tutto il pianeta, perché ogni nazione si sarebbe trovata a corto di risorse e avrebbe cercato di razziarle dai vicini. C’erano centocinquanta stati pronti a saltarsi alla gola, là sotto.

   «Ci chiamano, Capitano» disse Zafreen. «È una trasmissione subspaziale, ma viene da una città luviana. Una delle poche ancora in piedi. Forse sono stati quelli della Kutkh a dargli il trasmettitore» ipotizzò.

   «Sullo schermo» disse Hod, alzandosi di nuovo. Davanti a lei apparve un gruppetto di Akaali dall’aria stravolta, chiusi in un bunker illuminato con lampade a olio. Uno di loro si fece avanti, pallido come un cencio. «Sono il ministro Nozen, della Sovranità Luviana» disse tutto tremante. «Vi chiamo per offrirvi la nostra resa incondizionata. Faremo tutto ciò che volete, ma v’imploro: smettetela di colpirci!».

   «Non siamo stati noi» disse subito l’Elaysiana. «Sono il Capitano Hod, dell’USS Keter; è la prima volta che visitiamo il vostro mondo».

   «Uhm, sì, è una faccia nuova» riconobbe il ministro, aguzzando la vista. «Ma anche se non ci avete colpito voi personalmente, è stata comunque l’Unione! I telescopi non mentono: è stata una vostra nave ad aprire il fuoco. Perché questo attacco? Non vi abbiamo fatto nulla di male! Anzi, eravamo entusiasti all’idea di aprirci ai contatti con voi! Ed è così che ripagate la nostra fiducia: sterminandoci!» gridò, dando un pugno sul tavolo.

   Hod avrebbe voluto sprofondare sotto terra, piuttosto che subire quell’arringa. Ma in qualche modo riuscì a ribattere. «A colpirvi è stata l’USS Kutkh, che noi abbiamo appena sconfitto. Quella nave era caduta sotto il controllo dei vostri rivali Epasiani. Vi hanno colpiti con armi di cui ignoravano il potenziale, infatti ne subiranno gli effetti anche loro» spiegò.

   Gli Akaali si scambiarono occhiate incerte. Poi Nozen si rivolse di nuovo al Capitano. «Mi riesce difficile accettare una scusa del genere» disse. «La vostra tecnologia è molti secoli avanti alla nostra. Come avete potuto farvi soffiare un’astronave?!».

   «Su questo indagheremo» disse Hod, cupa. «Vede, noi apparteniamo alla Flotta Stellare: un’organizzazione che si occupa d’esplorazione, ricerca scientifica e difesa. Invece la Kutkh era stata ceduta all’Ufficio di Primo Contatto, una branca governativa di recente creazione. Chiaramente c’è stata una grave falla nella sicurezza».

   «Direi proprio!» convenne il ministro, fulminandola con lo sguardo. «Parlerò con le autorità Epasiane, per verificare le vostre accuse. No, anzi... fatemi parlare con quelli che ci hanno bombardati! Avete detto di averli sconfitti, quindi li avrete in custodia».

   «Ecco... non proprio» ammise Hod, muovendosi come se fosse sui carboni ardenti. «Quando si sono visti sconfitti, hanno fatto esplodere il vascello. Non è sopravvissuto nessuno».

   «Quindi non ci sono testimoni da interrogare; molto opportuno» incalzò Nozen.

   «Ci sono gli ostaggi che abbiamo liberato...» cominciò Hod.

   «Ma guarda, che combinazione: gli unici a salvarsi sono stati i vostri!» s’indignò il ministro. «Vi aspettate che li prendiamo in parola? “Veniamo in pace!”. Così dissero, appena sbarcati. Sì... abbiamo visto cosa intendete per pace. Le nostre belle città sono in macerie, il nostro popolo è decimato. L’unica pace che avete da offrirci è quella eterna!» inveì.

   «Ministro, la prego... c’è poco tempo» disse il Capitano. «Le radiazioni stanno già colpendo la popolazione. Abbiamo la cura, da iniettare come un vaccino, ma dovete permetterci di somministrarvela».

   «Come osate?! Siamo in lutto, e ancora vi fate beffa di noi!» gridò Nozen. «Ancora pensate di abbindolarci con le vostre false promesse! Chi lo sa cosa volete iniettarci? Forse una malattia che finisca ciò che il bombardamento ha iniziato! Mi guardi negli occhi, Capitano Hod, e mi dica: se i nostri ruoli fossero invertiti, lei si fiderebbe di me?» chiese l’Akaali, rivolgendole un’occhiata penetrante.

   «No» ammise l’Elaysiana in un soffio.

   «E allora non pretenda che lo faccia io» concluse il ministro. «Se ne vada, con la sua astronave. Dica all’Unione Galattica che non vogliamo più avere alcun contatto. Ma serberemo la memoria di quest’infame tradimento».

   «Permettete almeno ai nostri dottori di aiutarvi!» disse Radek, venendo a fianco del Capitano.

   «Se qualcuno dei vostri oserà ancora sbarcare sul nostro territorio, non sono responsabile di ciò che gli accadrà» chiarì Nozen. «Veniamo in pace! Ditelo a qualcun altro, perché noi non ci crediamo più». Ciò detto chiuse la comunicazione.

   Avvilita, il Capitano Hod si portò una mano alla fronte. «Zafreen, informi subito la Flotta Stellare dell’accaduto. Io vado nel mio ufficio, a scrivere il rapporto. Radek, la plancia è sua».

   «Vuole che intraprenda qualche iniziativa?» chiese il Rigeliano.

   «No, per adesso. Ma dica ai medici di stare pronti. E raduni gli esperti di meteorologia e climatologia. Studiate un modo per far precipitare quelle polveri» disse, accennando al pianeta sullo schermo. La cappa grigia si espandeva rapidamente, bloccando la luce del sole. Il Capitano non osava nemmeno immaginare le condizioni di chi viveva là sotto. Senza aggiungere altro lasciò la plancia.

 

   Chiusa nel suo ufficio, il Capitano fissava cupamente la scrivania. Avrebbe dovuto redigere il rapporto dell’incidente, ma non sapeva da dove cominciare, che termini usare. Sapeva solo che ultimamente andava tutto in malora.

   Era proprio per impedire tragedie come quella che la Federazione, e poi l’Unione, avevano osservato la Prima Direttiva di non interferenza. Alla Flotta Stellare, come alle altre organizzazioni federali, era vietato contattare e influenzare in alcun modo le civiltà pre-curvatura. Ma anno dopo anno, tra i cittadini federali era cresciuto il malcontento per quella che sembrava una legge di comodo, finalizzata a non aiutare quei popoli, spesso piagati da guerre, carestie e disastri naturali. Così era nato il Partito Abolizionista, che aveva guadagnato sempre più consensi, fino a ottenere la maggioranza assoluta al Senato. La sua leader, la senatrice Rangda di Zakdorn, si era fatta eleggere Presidente con la promessa di abrogare totalmente la Prima Direttiva.

   Al Capitano Hod non dispiaceva tanto il fatto in sé, quanto il modo in cui Rangda lo aveva fatto. In cinque anni di governo, la Presidente aveva stroncato ogni forma di dissenso nel modo più semplice, cioè accusando d’egoismo tutti gli oppositori, compresa l’ala più moderata del suo stesso partito. La martellante propaganda dei mezzi d’informazione aveva fatto il resto. Così, dopo infuocati dibattiti politici, manifestazioni di folla e spettacolari azioni di disobbedienza civile, la Prima Direttiva era stata abolita. Nel frattempo la Presidente aveva inesorabilmente smantellato la Flotta Stellare, l’unica organizzazione che ancora le si opponesse. L’aveva privata dei finanziamenti, delle risorse e del personale, che erano stati ridistribuiti in altri progetti. Tutto questo accadeva proprio mentre si moltiplicavano le crisi alle frontiere, specialmente coi Breen. Ormai la Flotta non era che una pallida ombra di se stessa; molti erano convinti che presto sarebbe stata sciolta del tutto. Al suo posto, Rangda aveva creato una pletora di enti sotto il suo diretto controllo.

   Ultimo in ordine di tempo era l’Ufficio di Primo Contatto, che si occupava appunto di contattare i popoli pre-curvatura, elargendo aiuti e tecnologie. Organizzato frettolosamente nell’arco di pochi mesi, l’Ufficio disponeva di astronavi requisite alla Flotta Stellare. Alcuni dei suoi membri erano proprio ex ufficiali di Flotta. Molti altri, però, venivano dall’amministrazione civile e non erano affatto pratici delle procedure di Primo Contatto. A complicare le cose, l’Ufficio faceva ampio uso di volontari, animati dalle migliori intenzioni ma non adeguatamente istruiti per l’incarico. I risultati erano sotto gli occhi di tutti. All’opposto della Flotta, nota per la professionalità dei suoi ufficiali, l’Ufficio di Primo Contatto combinava spesso disastri. E toccava alla Flotta rimediare, spesso incassando il biasimo. Ma con l’aumentare dei popoli contattati, anche le crisi si moltiplicavano. Presto sarebbe giunto il punto di rottura. E nessuno sapeva quale sarebbe stata la prossima mossa di Rangda.

 

   L’infermeria della Keter era nel caos. C’erano quasi duecento pazienti da curare, vale a dire tutti i superstiti della Kutkh. Molti di loro avevano subito crudeli torture, quando gli Akaali li avevano interrogati per estorcere i codici di comando. E tutti avevano i segni della decompressione nello spazio. Occhi e orecchie erano gli organi più colpiti. Anche se erano stati teletrasportati in pochi secondi, prima che l’aria attorno a loro si disperdesse del tutto, molti erano in condizioni critiche. Ma non c’era posto per tutti nell’infermeria principale. Perciò, oltre che nelle due infermerie secondarie, i medici li avevano sistemati in sala mensa e in una delle stive, su giacigli di fortuna. Ora si affannavano da un paziente all’altro, soccorrendo per primi quelli che versavano nelle condizioni più gravi.

   Ladya Mol, Medico Capo della Keter, si chinò sull’ennesimo paziente. Era un giovane Retelliano, che si guardava attorno spaurito. «C’è qualcuno? Chi sei?» chiese, cercando di alzarsi.

   «Dottoressa Mol» si presentò la Vidiiana. «No, resta giù. Ti devo curare» spiegò, toccandogli la spalla per indurlo a stare sdraiato.

   «Io... non ci vedo!» gridò il giovane, strofinandosi gli occhi arrossati. «È stata la decompressione... resterò cieco?».

   «Cerca di calmarti» lo esortò Ladya. «Non riesco a visitarti, se ti muovi così. Tieni giù le mani» insisté, allontanandogliele dal viso. Finalmente poté esaminargli gli occhi con un sensore medico.

   «Noi volevamo solo aiutarli... condividere il nostro benessere...» singhiozzò il Retelliano.

   «Lo so, lo so. Sssshhhh... sta’ calmo. Sei al sicuro, ora» cercò di tranquillizzarlo Ladya. La sua fronte bombata si aggrottò, mentre leggeva i dati dell’analizzatore. I danni agli occhi erano piuttosto gravi. «Sei uno dei volontari, vero?» chiese, cercando di distrarlo dal dolore.

   «Sì... prima missione» confermò il ragazzo, deglutendo. «Ci avevano detto che sarebbe stato facile. Dovevamo solo distribuire viveri e medicinali. Invece gli Akaali ci hanno attaccati a tradimento! Com’è possibile? Eravamo lì per aiutarli!» gridò, sentendosi tradito.

   «Una nazione vi ha attaccati» precisò Ladya. «Una su centocinquanta. Cerchiamo di non criminalizzarli tutti. Comunque avreste dovuto essere più cauti» convenne. «Questo pianeta è appena entrato nella Rivoluzione Industriale. I suoi abitanti sono ancora profondamente divisi. Alcune nazioni farebbero di tutto per sopraffare le altre. E nessuno comprende quanto sia distruttiva la nostra tecnologia, se usata male» sospirò. Mentre parlava al paziente, gli stava prestando le prime cure.

   «È tutto buio... mi risponda, dottoressa: resterò cieco?» chiese il giovane, ancora agitato. Si passò le mani davanti agli occhi, senza vederle.

   Ladya detestava fornire diagnosi affrettate, ma pensò che doveva calmarlo. Da quel che vedeva i danni agli occhi erano gravi, ma non catastrofici. «Ti servirà una terapia rigenerativa, ma confido che recupererai la vista» disse.

   «Rigenerativa? Intende... nanosonde?» si allarmò il Retelliano.

   «Beh, sì» ammise Ladya. «Le stiamo iniettando a molti».

   «No, non voglio quella robaccia! Non mi trasformerete in drone!» gridò il giovane. Annaspando alla cieca, nel tentativo di rialzarsi, afferrò Ladya per il bavero. La trascinò a terra, mentre lui si rialzava. «Aiuto! Voglio uscire da qui! Riportatemi a casa!» strillò, inciampando negli altri pazienti che erano stesi a terra.

   Mentre il Retelliano dava in escandescenze, Ladya si rialzò. Preparò un ipospray con un potente sedativo e gli si avvicinò quatta quatta alle spalle. Con mossa fulminea lo afferrò da dietro e gli svuotò l’ipospray nel collo. «Ora basta, devi riposare» gli disse all’orecchio. «Al risveglio starai meglio».

   «Nooo...». Il giovane fece ancora qualche passo, trascinandosi dietro la dottoressa abbarbicata. Ma ben presto le ginocchia gli cedettero. Ladya lo accompagnò dolcemente a terra, per evitare che si ferisse cadendo. Poi si rialzò, un po’ ansimante. Ognuno aveva le sue idiosincrasie, si disse. Se un cittadino federale reagiva così a un certo tipo di cure, che poteva aspettarsi dagli Akaali? L’Unione, la Flotta Stellare, che si aspettavano da lei?

   Sentendo i gemiti degli altri pazienti, la dottoressa si guardò attorno sconsolata. L’infermeria traboccava di feriti, quasi tutti con gravi danni agli occhi e ai timpani. Nelle infermerie secondarie, in sala mensa e nella stiva di carico 3 c’era la stessa situazione. Quanto a ciò che avrebbe trovato su Akaali, non osava nemmeno pensarci.

   Fino ad allora la Vidiiana non si era sentita insoddisfatta della sua vita. Entrare nella Flotta Stellare le aveva permesso di vedere la Galassia, come sognava da bambina, anche se la speranza di raggiungere Vidiia Primo era ormai morta e sepolta. Con tutti i problemi che affliggevano l’Unione, non c’erano navi da destinare a missioni così lontane. Ma la dottoressa si consolava col pensiero che stava comunque impiegando la sua vita in modo produttivo. Ora però sentì un’acuta nostalgia per Caldos, la tranquilla colonia in cui era cresciuta. E per la sua gente. Vivere in mezzo ad alieni pieni di manie era terribilmente sfiancante.

 

   Nelle ore successive giunsero tre navi ospedale della Flotta Stellare. Come ufficiale medico più alto in grado, Ladya si trovò a coordinare tutta la flottiglia. Ora che le risorse c’erano, restava il problema di come somministrare le cure. I dottori che sbarcarono su Akaali furono presi a fucilate dagli abitanti inferociti. Alcune navette, che sorvolavano le zone colpite, divennero bersaglio per i cannoni e dovettero risalire. Intanto le truppe epasiane avevano invaso i territori luviani. Il pianeta stava rapidamente sprofondando in un conflitto internazionale.

   Con gli occhi cerchiati dalla stanchezza, Ladya entrò in sala tattica. Erano ventiquattro ore che non dormiva. Trovò il Capitano e gli ufficiali già tutti al loro posto. Sedette accanto a Norrin, che la guardò preoccupato. La Vidiiana gli rivolse un sorriso fiacco. L’Hirogeno le aveva confessato da tempo il suo amore e anche lei lo aveva preso a cuore, in un certo qual modo. Tuttavia aveva declinato l’offerta, preferendo mantenere il loro rapporto su un livello platonico.

   «Benvenuta, dottoressa» l’accolse il Capitano Hod. «Situazione?».

   Ladya si fece forza. «Quasi tutti i feriti della Kutkh sono stati dimessi o distribuiti sulle navi ospedale» disse. «Il problema è la popolazione a terra. Gli Akaali c’incolpano dell’accaduto e di conseguenza rifiutano le cure. Hanno aperto il fuoco contro le squadre mediche, causandoci altri feriti. In queste condizioni non possiamo operare; perciò stavo valutando altre modalità d’intervento. Possiamo teletrasportare i medicinali direttamente nei pozzi e nei serbatoi d’acqua da cui attingono gli Akaali. Certo, curare i pazienti a loro insaputa – o persino contro la loro volontà – è eticamente discutibile. I miei colleghi delle navi ospedale hanno espresso perplessità. Ma a mio avviso è l’unico modo per evitare una strage. Gli Akaali sono troppo sconvolti e male informati per poter decidere con cognizione di causa».

   Il Capitano Hod rifletté brevemente. «Per intervenire sulla loro salute dovrei chiedere il permesso all’Ufficio di Primo Contatto» mormorò. «Ma sono certa che quei politicanti solleverebbero mille problemi. Zafreen, come vanno le comunicazioni?».

   «Eh?» fece l’Orioniana, stupita di sentirsi chiamare in causa. «Tutto regolare, perché?».

   «Ne è certa?» insisté il Capitano, rifilandole un’occhiata penetrante. «Non c’è qualche guasto che potrebbe impedirci di contattare la Terra?».

   «Ehm, ora che mi ci fa pensare, c’è una strana anomalia nell’apparato di trasmissione» disse Zafreen, intuendo il suo piano. «Le comunicazioni a lungo raggio potrebbero essere disturbate per un’oretta...».

   Il Capitano continuò a fissarla.

   «... o anche due» deglutì l’Orioniana. «Forse di più, non ho ancora diagnosticato il problema». Si allargò il colletto, per respirare meglio.

   «Tenente?» chiese Dib, l’Ingegnere Capo. Come tutti i Penumbrani, aveva l’innata tendenza a dire la verità e stentava ad afferrare gli inganni; ma dopo cinque anni sulla Keter cominciava ad afferrare il concetto. «Oh, capisco» disse. «Stiamo revisionando le bobine di campo subspaziale; può essere questo a creare interferenza. Mi duole informarvi che i lavori si protrarranno per molte ore». Il fluido azzurro che componeva il suo corpo vorticò più rapido nella visiera della tuta termica, come gli accadeva quand’era teso o concentrato. Ciò detto lasciò il tavolo tattico e andò in un angolo, per contattare i suoi ingegneri e ordinare la revisione delle bobine.

   «Bene» disse Hod. «Nell’impossibilità di contattare l’Ufficio per chiedere istruzioni, mi vedo costretta a prendere questa decisione. Dottoressa Mol, proceda pure col suo piano».

   «Grazie, Capitano» sospirò Ladya. La solidarietà dei colleghi la commuoveva, ma nel vedere com’erano costretti a ricorrere ai sotterfugi provava anche tanta rabbia. Se lo scopo degli Abolizionisti era soccorrere i popoli in difficoltà, perché avevano privato la Flotta di quasi tutto il potere decisionale? Inutile girarci intorno: il loro scopo era dare più potere a Rangda.

   «E per la cappa di polveri c’è una soluzione?» chiese il Capitano, rivolgendosi all’esperto di climatologia, convocato per l’occorrenza.

   «Uhm, sì» rispose l’interessato, congiungendo le punte delle dita. Era un Risiano in là con gli anni, il professor Arvid. La sua specie era famosa per aver raggiunto, già da secoli, un eccellente controllo del tempo atmosferico. «La maggior parte degli interventi richiederebbe tempo e l’installazione di centrali per il controllo climatico, ma a noi serve qualcosa di molto più semplice e rapido» premise. «Propongo quindi di ionizzare le particelle elettrostatiche dell’atmosfera con un impulso del deflettore. Questo le trasformerà in plasma ad alta energia. Scendendo di quota e modulando gli scudi, possiamo trasformare la Keter in un parafulmine, per assorbire l’energia prima che si scarichi a terra. Non fate quelle facce... è un’operazione già eseguita con successo in passato» assicurò lo scienziato, notando la perplessità degli ufficiali.

   «Ha considerato il rischio di provocare un’inversione esotermica?» obiettò Dib. «Se la polarità delle nuvole s’inverte, l’energia sarà scaricata a terra. Così bruceremmo la superficie».

   «Conosco i rischi» assicurò il climatologo. «Ma se moduliamo gli scudi a dovere, ciò non accadrà. Ho realizzato delle simulazioni al computer, inserendo i parametri atmosferici del pianeta. Il successo è garantito nel 99% dei casi».

   «Quindi nel restante 1% stermineremmo gli Akaali!» obiettò Ladya. «È ancora una percentuale troppo alta per i miei gusti».

   «Qualcosa bisogna fare» rimuginò il Capitano. «Visionerò i suoi dati nel dettaglio, signor Arvid, e prenderò al più presto una decisione. C’è altro all’ordine del giorno?» si rivolse a Radek.

   «L’Ufficio di Primo Contatto ha inviato il suo bollettino mensile alla Flotta, che lo ha trasmesso a noi... prima che cominciassero le interferenze» ironizzò il Comandante. Si schiarì la voce e lesse dal d-pad. «Dunque: gli abitanti di Nibiru – di cultura protostorica – avevano ricevuto abbondanti aiuti umanitari per elevare la loro qualità di vita. Durante il contatto si erano dimostrati pacifici e socievoli. L’unico momento di tensione si era avuto quando avevano proposto agli operatori dell’UPC di scambiare alcune donne con le loro. Quando gli operatori hanno spiegato che noi non facciamo queste cose, gli indigeni hanno accettato senza problemi. Dopo di che quelli dell’UPC se ne sono andati, promettendo di tornare dopo un mese, con altri generi di conforto». Il Rigeliano si arrestò un attimo, leggendo il rapporto fra sé prima di riferirlo ad alta voce. La sua fronte si aggrottò.

   «Vada avanti» lo esortò Hod.

   «Al ritorno, gli operatori hanno scoperto che quasi tutte le tribù avevano creato un “culto del cargo”, sacrificando giovani vergini per affrettare il ritorno dei visitatori celesti coi loro doni. Si ritiene che decine di ragazze siano state immolate per questo motivo. Al momento gli operatori sono ancora su Nibiru, visto che non si azzardano più a lasciare il pianeta. Stanno cercando di convincere gli indigeni che non devono sacrificare nessuno. Il timore è che loro promettano una cosa e poi, appena rimasti soli, ne facciano un’altra». Il Comandante sospirò sconsolato.

   «Continui» ordinò il Capitano, sempre più accigliata.

   «Su Taurus II i medici dell’UPC avevano vaccinato migliaia di bambini contro una malattia invalidante, simile alla poliomielite» lesse Radek. «I nativi – di cultura paleolitica – non sembravano contenti, dato che non capivano lo scopo delle vaccinazioni. Comunque non avevano avuto reazioni violente, anche se forse era solo la paura a bloccarli. Cinque giorni fa una nave dell’UPC è tornata a controllare la situazione...». Il Rigeliano chiuse gli occhi per un attimo; orrore e pietà gli apparvero in volto. «In alcuni villaggi i nativi hanno tagliato il braccio ai bambini che erano stati vaccinati dai “demoni del cielo”, per salvarli dalla “cattiva medicina”. È saltato fuori che nella loro religione l’inferno si trova in cielo, anziché nel sottosuolo, per cui i federali erano stati scambiati per demoni».

   «Sono tutte così le notizie?» chiese Hod, con gli occhi ridotti a fessure.

   «No, su Drema IV l’intervento dell’UPC è stato fondamentale per salvare la popolazione dalle eruzioni vulcaniche» spiegò Radek, un po’ rasserenato. «E su Veridiano IV i volontari hanno distribuito grano quadri-triticale, molto adattabile ai terreni, per contrastare la carestia. I mediatori federali stanno anche cercando di risolvere il conflitto fra il regno di Mogar e quelli vicini. Per adesso hanno ottenuto un cessate il fuoco».

   Gli ufficiali soppesarono i pro e i contro di tutti questi interventi. Era un sollievo sapere che alcuni erano andati a buon fine, ma ciò non toglieva che molti altri si fossero risolti in disastro, per la difficoltà di prevedere le reazioni degli indigeni.

   «Ma la gente che pensa di tutto questo?» chiese Vrel. «I nostri cittadini, intendo. Quando la Prima Direttiva è stata abolita, quasi tutti festeggiavano. Ora che ne vedono gli effetti, è possibile che nessuno ci ripensi?».

   «Uhm, i sondaggi danno Rangda al 75% dei consensi» rispose il Comandante. «È il suo massimo storico. La sua rielezione, quest’anno, è data per scontata».

   «Quindi dovremo sorbircela per altri cinque anni!» sbottò il timoniere.

   «Forse di più» disse il Capitano, tetra. «Tra le sue proposte di legge c’è l’abolizione del tetto massimo di due mandati consecutivi per la carica presidenziale. Se fa passare anche questa riforma, potrà restare al potere per il resto della vita».

   «Qualcuno crede ancora che siamo in democrazia?» chiese Ladya sommessamente. Nella sala tattica piombò il silenzio. Gli ufficiali fissavano la superficie liscia e scura del tavolo, raccolti nei loro pensieri. Più passava il tempo e più avevano l’impressione di lottare contro una marea che alla fine li avrebbe spazzati via. Se i cittadini federali volevano Rangda, e non volevano la Flotta Stellare, chi erano loro per contraddirli? Sempre che i sondaggi fossero attendibili. Sempre che il voto stesso non fosse manipolato. Ormai tutto era possibile.

   In quel momento di sconforto, Norrin guardò di sbieco la sua pupilla, Jaylah Chase. La mezza Andoriana, capo della Squadra Temporale, era rimasta zitta per tutta la riunione. Lo faceva spesso, di quei tempi. Fin dalla sua prima missione Jaylah si era scontrata con i maneggi di Rangda, anche se non era mai riuscita a inchiodarla. Nei primi anni sembrava ancora nutrire qualche speranza al riguardo. Ma dopo la tremenda missione contro i Na’kuhl dell’anno prima, che l’aveva portata a vivere i giorni della Terza Guerra Mondiale, qualcosa era cambiato in lei. Adesso era taciturna, anche con quelli che erano stati i suoi migliori amici. In compenso passava molto tempo in palestra e sul ponte ologrammi, ad allenarsi nel combattimento con vari modelli di tute corazzate. Era come se si stesse preparando per qualcosa che esulava dall’incarico di Agente Temporale. Qualcosa che forse l’avrebbe portata via dalla Keter per sempre.

 

   Quella sera, Norrin passò per il ponte ologrammi 3. Come previsto ci trovò Jaylah che si allenava. La mezza Andoriana indossava una tuta occultante, anche se in quel momento era visibile. Aveva avviato una simulazione di guerra. Norrin si trovò in una caverna gelida: il suolo era una lastra ghiacciata che gli scricchiolava sotto i piedi, mentre dal soffitto pendevano affilate stalattiti, sempre di ghiaccio. Soldati Breen uscivano a frotte da un ingresso, chiusi nelle inquietanti tute termiche. Ignorando il nuovo arrivato, continuarono ad attaccare l’Agente Temporale. Al centro della spelonca, Jaylah lottava come una furia: a volte usava il phaser, ma più spesso cercava di accorciare le distanze, per poi attaccarli con la vibro-lama. A un tratto si rese invisibile. Riapparve dietro un Breen e gli sferrò un rapido attacco, decapitandolo. La testa ancora chiusa nell’elmo rotolò fino ai piedi dell’Ufficiale Tattico.

   «Ti diverti?» chiese questi in tono asciutto.

   «Norrin! Che ci fai qui?» ansimò Jaylah. Fece rientrare il casco nella tuta, scoprendo il volto.

   «Passi molto tempo sul ponte ologrammi» notò l’Hirogeno. «Tutte le tue simulazioni sono così?».

   La mezza Andoriana stava per rispondere, ma si avvide che i Breen le venivano addosso da tutte le parti. «Computer, blocca programma!» ordinò. I nemici si paralizzarono all’istante. «Se anche fosse? Gli olo-programmi sono una cosa privata» disse Jaylah, sgusciando fra loro per venire incontro a Norrin.

   «Scusa se ho interferito nella tua privacy, ma ricordo i tempi in cui ti allenavi con me» disse l’Hirogeno con una punta di rimpianto. Per certi aspetti, Jaylah era la figlia che non aveva mai avuto. Glielo aveva anche lasciato intendere qualche anno prima, donandole l’antico pugnale del suo clan.

   «Mi hai insegnato molto» riconobbe l’Agente. «Ma ormai credo di potermi addestrare per conto mio». Si avvicinò ancora; erano faccia a faccia.

   «Hm-hm» fece Norrin, guardandosi attorno con interesse. «Che bell’ambientino hai scelto. Cos’è, il pianeta dei Breen? Ricordo che la tua prima missione ti portò là. Ne uscisti per il rotto della cuffia».

   «Ho simulazioni per ogni tipo di ambiente» precisò Jaylah. «Certo, il ghiaccio è particolarmente infido. Non sai mai quando ti si potrebbe rompere sotto i piedi. Ma è una situazione che viviamo tutti, di questi tempi». C’era una strana freddezza in lei. L’Agente era sempre stata riservata, ma almeno con Norrin soleva confidarsi. Ora però sembrava volerselo levare di torno.

   «Uhm, sì» convenne l’Hirogeno. «C’è qualcosa che posso fare per te?».

   «No, sto bene» rispose la mezza Andoriana. Non stava bene, era evidente.

   Norrin la osservò inquieto. Sapeva che, in quella prima missione, Jaylah aveva dovuto allearsi col famigerato pirata spaziale detto lo Spettro. Un paio d’anni dopo si erano rincontrati su Orione, finendo di nuovo per collaborare. Norrin aveva il forte sospetto che da allora avessero continuato a vedersi segretamente, durante le licenze dell’Agente. Di certo Jaylah era bene informata sulle attività della malavita, cosa che le aveva permesso di sgominare parecchie bande. Ma guarda caso, mai quella dello Spettro. Dal canto suo, il pirata continuava a eludere le imboscate della Flotta... come se qualcuno lo avvertisse. E adesso la mezza Andoriana si allenava ossessivamente con tute che ricordavano quella dello Spettro. Come responsabile della sicurezza, Norrin avrebbe dovuto ascoltare questi campanelli d’allarme. Ma come amico, non se la sentiva di accusarla.

   «Okay» disse l’Hirogeno. «Ti lascio al tuo allenamento. Se hai voglia di parlare, sai dove trovarmi» disse, e si ritirò. L’incontro gli aveva lasciato un senso di freddo, e non solo per la temperatura sottozero. Intuiva che Jaylah soffrisse più di tutti per come Rangda stava distruggendo la Flotta. Incidenti come quello di Akaali non facevano che esacerbarla. Ormai l’Hirogeno temeva seriamente che da un giorno all’altro Jaylah disertasse, per unirsi alla banda dello Spettro. Avrebbe voluto dissuaderla, ma non si azzardava nemmeno a toccare l’argomento, per timore d’irrigidirla nel suo proposito.

   Appena l’ingresso si fu richiuso dietro Norrin, Jaylah dispiegò nuovamente il casco della tuta. Impugnò la vibro-lama e tornò verso i Breen con passo deciso. «Computer, riprendi programma» ordinò.

 

   
 
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