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Autore: Parmandil    08/05/2020    1 recensioni
Abolita la Prima Direttiva per ragioni umanitarie, l’Unione Galattica è sprofondata nel caos. Le civiltà precurvatura abusano delle tecnologie loro donate e un terzo dei sistemi federali è pronto alla secessione, concretando il rischio di una guerra civile.
Dopo un violento attacco alieno, la Keter si reca nel Quadrante Delta, ripercorrendo la rotta della Voyager in cerca di riposte. Qui troverà vecchie conoscenze, come i Krenim e i Vidiiani, che si apprestano a colpire un nemico comune, incautamente risvegliato dalla Voyager secoli prima. I nostri eroi dovranno scegliere con chi schierarsi, in una battaglia che deciderà le sorti del Quadrante. Ma la sfida più ardua tocca a Ladya Mol, già tentata di lasciare la Flotta per riunirsi al suo popolo. Dopo una tragica rivelazione, la dottoressa dovrà lottare contro un morbo spaventoso; la sua dedizione potrebbe richiederle l’estremo sacrificio.
Nel frattempo i Voth, un’antica specie di sauri tecnologicamente evoluti, sono giunti sulla Terra per stabilire una volta per tutte se questo sia il loro mondo d’origine. Sperando d’ingraziarseli, le autorità federali li accolgono in amicizia, senza riflettere sulle conseguenze del ritorno dei “primi, veri terrestri” sul pianeta Terra.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Borg, Dottore, Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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-Capitolo 5: Bellezza e decadimento

 

   «La dottoressa Mol è desiderata in plancia. Stiamo per raggiungere Vidiia Primo».

   A questo annuncio, Ladya sentì il cuore palpitarle. Diede qualche rapida istruzione ai colleghi, affinché continuassero i lavori in sua assenza, e lasciò l’infermeria. Anziché perdere tempo in corridoi e turboascensori, entrò nella cabina di teletrasporto e si trasferì all’istante in plancia. Finalmente lo vide.

   Il pianeta Vidiia si stagliava nello spazio, abbellito da due grandi satelliti naturali e da un sistema di anelli, forse nati dalla disgregazione di una terza luna. Vi era una sola massa continentale, divisa però in due subcontinenti, collegati da una strozzatura. Questi subcontinenti erano orientati in modo tale da delineare un immenso golfo, nel quale si concentrava la maggior parte delle nubi e persino un ciclone vorticoso. Le terre affacciate sul golfo erano d’un verde screziato di rosso, a causa della particolare vegetazione. Solo nell’entroterra e sul versante arido delle catene montuose c’erano regioni desertiche, mentre non vi era traccia di calotte polari.

   «È ancora più bello di come l’immaginavo!» gioì Ladya, estasiata. Scese dalla pedana di teletrasporto e si accostò allo schermo, per riempirsi gli occhi e il cuore di quella vista. Il sogno della sua vita si era avverato: era la prima dei coloni a rivedere il loro mondo d’origine. E presto vi sarebbe sbarcata.

   «Tre navi in rapido avvicinamento» avvertì Zafreen.

   Aguzzando la vista, Ladya le individuò. Viaggiavano in formazione: un vascello oblungo al centro, due più appiattiti ai lati. La dottoressa comprese che i vascelli ai lati erano navi da guerra, mentre quello centrale poteva essere un trasporto diplomatico. Era naturale che i suoi simili fossero in allarme, con tutti gli attacchi che avevano subito negli ultimi tempi.

   In quella anche Hortis entrò in plancia. L’Ammiraglio aveva viaggiato sulla Keter assieme ad alcuni dei suoi ufficiali e scienziati, mentre l’Annorax era rimasta nello spazio Krenim, affidata al Primo Ufficiale, con il compito di radunare la flotta.

   «La nave al centro ci sta chiamando» disse Zafreen.

   «Apra un canale» ordinò il Capitano.

   Sullo schermo apparve un Vidiiano dall’aria autorevole. All’incirca della stessa età di Ladya, aveva capelli chiari e indossava un abito diplomatico azzurro. «Ammiraglio Hortis, che sorpresa. Non mi aspettavo di trovarla su un vascello alieno» esordì.

   «Mi trovo su una nave alleata, che mi ha permesso raggiungervi con tutta la velocità richiesta dall’urgenza della missione» spiegò il Krenim.

   «Interessante» disse il Vidiiano, sfregandosi il mento. «In tal caso vorrei presentarmi ai suoi alleati. Sono l’ambasciatore Dallorath, del Sodalizio Vidiiano. Vedervi in compagnia dell’Ammiraglio è già una garanzia delle vostre buone intenzioni. Tuttavia devo chiedervi d’identificarvi, perché non ho familiarità con la vostra nave... e nemmeno con le vostre specie» aggiunse, osservando l’eterogeneo equipaggio federale.

   «Questa è la Keter e io sono il Capitano Hod» si presentò l’Elaysiana. «Siamo in forza all’Unione Galattica».

   «Non conosco questo organismo politico» disse Dallorath. «Presumo che veniate da molto lontano».

   «Dall’altro lato della Galassia» confermò Hod. «Siamo qui perché appoggiamo la strategia dell’Ammiraglio Hortis contro la minaccia Vaadwaur. Pertanto ci uniremo all’Alleanza per l’attacco alla Rete Subspaziale. Vi esortiamo a fare altrettanto, nella consapevolezza che il vostro contributo sarà decisivo».

   «Come vede, ambasciatore, la mia Alleanza si espande» sottolineò Hortis.

   «Beh... questa sì che è una notizia» fece Dallorath, colpito. «Non mi aspettavo questi alleati dell’ultimo minuto. Capitano... Hod, dico bene? Posso chiederle quante navi porterete in battaglia?».

   Era il punto critico, ma l’Elaysiana non poteva girarci intorno, perciò lo disse chiaramente. «L’Unione è molto lontana da qui e finora abbiamo subito un solo attacco, perciò il mio governo non interverrà più di tanto. Posso offrirvi solo questa nave che vedete; ma saremo con voi fino all’ultimo» promise.

   L’interesse del Vidiiano si smorzò, ma non svanì del tutto. «Una sola nave non è molto, anche se ammiro il suo coraggio» commentò.

   «Non una nave qualunque» avvertì Hortis, levando l’indice. «La Keter è una leggenda, nelle sue zone. Il suo scafo in neutronio la rende impervia a quasi tutte le armi, facendone il vascello ideale per colpire uno dei tre snodi della Rete».

   Dopo questa sviolinata, Dallorath rifletté per qualche secondo. «Informerò il mio governo di queste novità» promise. «Per adesso vi garantirò il permesso di sbarco. Quando saremo faccia a faccia...». La voce del Vidiiano rallentò fino a fermarsi. Aveva notato Ladya, che attendeva trepidante poco dietro al Capitano. «Mi perdoni» disse l’ambasciatore, «ma lei somiglia in modo straordinario a una Vidiiana. Da che pianeta proviene?».

   A Ladya servì qualche attimo per realizzare che Dallorath si stava rivolgendo proprio a lei. Dapprima restò senza parole per l’emozione. Buffo... aveva sempre sperato di trovare la sua gente, ma non si era mai preparata un discorso. Eppure quello era un evento storico. In quel momento non era solo un medico della Keter, ma anche la portavoce della sua colonia. «Caldos» disse con un filo di voce. «Sono Ladya Mol, Medico Capo di questa nave».

   «Uhm, non conosco quel pianeta. Fa parte dell’Unione?» chiese l’ambasciatore.

   «Beh, sì» rispose Ladya. «Ma vede, io... cioè, noi di Caldos... siamo Vidiiani. Siamo i discendenti di quei coloni che partirono due secoli fa, durante l’Assedio, col trasporto Pel».

   Dallorath la fissò sbalordito. Si morse il labbro, mentre ragionava sul da farsi. «È la verità? Non si tratta di uno stratagemma per compiacerci?» chiese, squadrando severamente l’Ammiraglio.

   «Nessun trucco, Dallorath» garantì Hortis. «Anch’io mi sono meravigliato di trovarla a bordo».

   «I Vidiiani vivono nell’Unione da molte generazioni» rincarò il Capitano Hod. «Possiamo fornirvi informazioni dettagliate sul loro arrivo e sullo sviluppo della colonia. Colgo anzi l’occasione per ringraziarvi. Trentacinque anni fa, in un momento molto buio per l’Unione, i Vidiiani di Caldos ci hanno aiutati a sconfiggere un terribile morbo. E la dottoressa Mol è uno stimato ufficiale di questa nave».

   Incapace di trattenersi, Ladya si accostò allo schermo. «La nostra gente ha sempre sperato che foste sopravvissuti all’Assedio!» disse con voce vibrante. «Non vedo l’ora di sbarcare. E quando tornerò a casa, informerò la mia gente di quanto ho visto. Consegnerò tutti i messaggi che vorrete affidarmi. Con l’aiuto dell’Unione, non è escluso che in futuro si possano tenere collegamenti stabili fra noi. La nostra colonia è piccola, per cui siamo minacciati dal ristagno genetico. Se poteste mandarci altri coloni, ne trarremmo un gran beneficio. E anche fra noi c’è chi tornerebbe volentieri su Vidiia, per condividere conoscenze ed esperienze» aggiunse, sempre più speranzosa.

   A queste parole, Norrin aggrottò la fronte. Si chiese se anche Ladya era tra quelli pronti a trasferirsi. L’idea gli dava un profondo malessere.

   «Tutto ciò è inaspettato quanto gradito» sorrise Dallorath. «Ben poche delle nostre navi coloniali ci hanno fatto pervenire notizie. Nessuna che si fosse spinta così lontano. Sono felicissimo di sapere che ce l’avete fatta. Lei di certo avrà molto da raccontare! Bene, bene... attendo con ansia d’incontrarla».

   «Spero che ci sarà tempo anche per discutere dell’Alleanza» intervenne Hortis. «Le vostre ultime dichiarazioni ci hanno un po’ allarmati. Vi eravate impegnati a offrirci un aiuto consistente, ma ora sembra che vogliate tirarvi indietro. Possiamo rivedere i termini dell’accordo: se non ve la sentite d’impegnare così tante navi, accetteremo un contributo minore. Ma il disimpegno totale è inaccettabile. L’attacco alla Rete Subspaziale è imminente. Se vi tirate indietro ora, il resto dell’Alleanza lo considererà un tradimento» avvertì. Aveva parlato con garbo, ma la minaccia latente nelle sue parole era innegabile.

   Dallorath scrutò l’Ammiraglio, rabbuiandosi. «Discuteremo anche di questo, non ne dubiti. Mi dia solo il tempo di avvertire le autorità». Prima di chiudere la comunicazione rivolse un’ultima occhiata a Ladya. Per un attimo i loro sguardi s’incrociarono. Ciascuno dei due lesse la curiosità, l’interesse, l’aspettativa negli occhi dell’altro. Poi il disco screziato di Vidiia Primo riapparve sullo schermo. Ladya sospirò per l’emozione di quel primo contatto con un suo simile. Non si avvide che alle sue spalle, in fondo alla plancia, Norrin la fissava imbronciato.

 

   La prima impressione che colpì Ladya, quando si teletrasportò a terra, fu il profumo. C’era qualcosa di dolce, di fragrante nell’aria. Si era nella bella stagione: il sole splendeva alto nel cielo senza nubi e una brezza tiepida movimentava le fronde verdi e rosse degli alberi. Questi sorgevano in filari ordinati lungo la grande via pedonale che collegava i palazzi governativi. Fontane monumentali, ricche di statue, abbellivano le piazzette, creando suggestivi giochi d’acqua. Gli edifici più antichi, in pietra, erano adorni di bassorilievi: talvolta figure intere, ma più spesso grandi volti solenni. Più avanti svettavano le nuove architetture, alte e scintillanti: molte ospitavano giardini pensili. Sulle facciate era impresso l’emblema del Sodalizio Vidiiano.

   La dottoressa si guardò attorno, rapita da tanta bellezza. Ricordava le vecchie olografie di Vidiia, ma lo spettacolo davanti ai suoi occhi era molto più incantevole. Evidentemente la sua gente non era rimasta inoperosa, negli ultimi due secoli. Finito l’incubo della Phagia, la società Vidiiana aveva conosciuto un’esplosione di creatività. I vecchi palazzi erano stati restaurati e molti nuovi edifici erano sorti per accogliere la popolazione, finalmente in crescita. Senza il terrore del contagio, la gente aveva ripreso a circolare liberamente e a riunirsi. Infatti c’erano moltissime persone che giravano per strada. Dato che quello era il quartiere governativo, si trattava perlopiù di funzionari pubblici con il loro staff, o di personale addetto alla manutenzione. C’erano anche gli agenti della Sicurezza, riconoscibili dalle uniformi grigie. Tutte quelle persone erano i primi Vidiiani “indigeni” che Ladya avesse mai incontrato. Si chiese se differivano da lei, per interessi e mentalità.

   «Tutto a posto?» le chiese il Capitano, notando la sua emozione.

   «Sì... non potrebbe andare meglio» assicurò Ladya, asciugandosi una lacrima di commozione. «Sono a casa, finalmente». Non sapeva come descrivere ciò che provava. Sebbene fosse sempre vissuta altrove, aveva la sensazione d’essere tornata nel luogo a cui apparteneva. Era come se il suo spirito fosse sempre stato lì, e solo adesso il corpo vi si ricongiungesse.

   «Arrivano» la richiamò Norrin.

   Un folto gruppo di diplomatici, scortati da guardie, era uscito da uno dei palazzi più vicini. Scesero la scalinata di marmo e vennero incontro ai federali. Ladya riconobbe Dallorath in testa al gruppo.

   «Salute e longevità! Benvenuti a Mireven, signori» li accolse l’ambasciatore, allargando le braccia a indicare la capitale. «Questo è il Ministro Rommath, della Difesa. Il Segretario Lezath, degli Affari Esteri. E il Generale Mazzut» disse, accennando ai suoi accompagnatori.

   «Molto onorata» li salutò Hod. Non si aspettava d’incontrare fin da subito così tanti pezzi grossi, ma era un buon segno: voleva dire che i Vidiiani prendevano seriamente la situazione.

   «L’onore è nostro» rispose il Ministro. «Mai avevamo accolto visitatori provenienti da così lontano, eppure così graditi».

   «I federali concordano con me sul fatto che l’attacco alla Rete Subspaziale sia indifferibile...» cominciò Hortis, ma s’interruppe nel vedere che i Vidiiani gli passavano accanto, senza degnarlo d’attenzione. Il loro interesse era tutto rivolto a Ladya.

   «Dottoressa Mol, benvenuta fra noi» l’accolse Rommath.

   «Salute e longevità, signor Ministro» disse Ladya, emozionata. Anziché stringersi la mano se la portarono al cuore, mantenendo le distanze. Il marchio della Phagia segnava ancora la società Vidiiana.

   «Siamo tutti interessati a sapere della vostra colonia» spiegò il Ministro. «Attraversare la Galassia è stata un’impresa eroica. Nessuno, qui, sospettava che un trasporto fosse giunto così lontano. Spero che vorrà renderci la sua testimonianza, così tutti sapranno cos’ha fatto la vostra comunità».

   «Diventerà famosa» precisò Dallorath, che affiancava il Ministro. «Già ora i notiziari parlano di lei. La sua testimonianza potrebbe invogliare altri a partire, rinsanguando la sua colonia, come auspicava».

   «Sarebbe magnifico!» gioì Ladya. In quella, però, sentì un colpetto sul fianco. Hod le aveva discretamente assestato una gomitata. Incrociando il suo sguardo, la dottoressa si accorse che il Capitano non era per nulla contenta.

   «La dottoressa Mol fa parte del mio equipaggio, vale a dire che è in forza alla Flotta Stellare» spiegò il Capitano, in tono cortese ma fermo. «Di conseguenza ha degli obblighi di riservatezza. Quindi comprenderete se, su certi argomenti, non potrà dire tutto» spiegò, lanciandole un’occhiata tagliente.

   «Molti Vidiiani fanno parte della Flotta?» chiese il Generale Mazzut. Dalla sua espressione era chiaro che la cosa non gli piaceva.

   «Io sono stata la prima» spiegò Ladya. «Negli ultimi anni qualcun altro è entrato in Accademia, ma parliamo di una manciata di persone. Comunque siamo tutti cittadini dell’Unione» chiarì.

   «Uhm, dei Vidiiani con la cittadinanza dell’Unione...» mormorò Lezath, il Segretario agli Affari Esteri. «Se organizzeremo comunicazioni stabili, o persino spostamenti, dovremo regolarizzare la vostra posizione. Si può pensare a una doppia cittadinanza; ma dovremo lavorarci» disse meditabondo.

   «Se vi avanzerà del tempo, potremmo anche parlare dell’attacco alla Rete» disse Hortis, controllandosi a stento. Il vecchio Ammiraglio era un tipo paziente, ma il fatto che la dottoressa avesse monopolizzato l’attenzione dei Vidiiani lo faceva imbestialire. Certo, ritrovare una colonia perduta era commovente; ma il disinteresse che mostravano per l’Alleanza era sempre più strano. Anche i federali lo avevano notato; tutti tranne Ladya, troppo coinvolta per esaminare lucidamente la situazione.

   «Non si preoccupi; troveremo qualche minuto per discuterne» disse il Ministro in tono cordiale. «Ma prima vorrei invitarvi tutti a pranzo. E poi, col vostro permesso, intervisteremo la dottoressa Mol. Ci sono molti giornalisti che vogliono farle domande; la sua testimonianza sarà diffusa in mondovisione. Prego signori, seguitemi». Lui e gli altri Vidiiani si avviarono su per la scalinata. Ai federali non restò che andargli dietro. Dallorath si affiancò a Ladya, iniziando una fitta conversazione. Poco più indietro, Hod si accostò a Hortis.

   «Ma che gli prende a tutti?» bisbigliò il Capitano.

   «Non ne ho idea» rispose l’Ammiraglio, scuro in volto. «Ma non mi piace».

 

   Per Ladya fu l’inizio di un periodo senza eguali. Ricevimenti e cene di gala con alte personalità dello Stato si alternavano a interviste trasmesse in tutto il pianeta e alle colonie vicine. Improvvisamente era diventata una star, una celebrità. All’inizio ne fu confusa, persino imbarazzata: per una persona schiva come lei era straniante trovarsi al centro dell’attenzione. Poco alla volta, però, cominciò ad apprezzare la situazione. Ripeteva a se stessa che non era una questione d’orgoglio: quel che faceva era indispensabile per collegare la sua colonia – e in fondo tutta l’Unione – al Sodalizio Vidiiano. Doveva solo stare attenta a non rivelare segreti militari, ma in fondo non era un rischio frequente: come medico aveva una conoscenza vaga del potenziale bellico della Flotta Stellare. Anche volendo, non avrebbe saputo dire dov’erano le basi, dove transitavano le sonde spia o come funzionavano le varie armi.

   Dunque Ladya raccontava soprattutto la storia della sua colonia, o parlava dell’Unione nei suoi aspetti generici: come vivevano i cittadini, quali erano le istituzioni fondamentali. Solo nel suo campo, la medicina, si azzardava a entrare nel dettaglio. Ben presto si accorse che anche questo interessava i suoi simili. Per quanto la Phagia fosse solo un terribile ricordo, la professione medica era ancora molto rispettata. I dottori Vidiiani erano ricercati dai popoli vicini per la loro impareggiabile preparazione. E poiché volevano conservare il primato, erano sempre a caccia di nuove terapie e medicine. Le conoscenze di Ladya, maturate presso la Flotta Stellare, facevano gola a molti. E lei le avrebbe diffuse volentieri, se ciò significava curare i malati e accrescere l’aspettativa di vita.

   Ma Ladya voleva anche apprendere il più possibile sul suo mondo. Così ogni volta che poteva visitava la capitale o le città vicine, beandosi delle loro attrattive. Visitò parchi e monumenti, musei e gallerie d’arte. Assistette a spettacoli ed eventi culturali. La sera, prima di addormentarsi, ripensava a quanto aveva visto durante la giornata, cercando di farsene un quadro ordinato. Scoprì così che la cultura Vidiiana era antica e raffinata. Per millenni il suo popolo si era dedicato alle arti, alla letteratura, alla musica. Aveva garantito la certezza del diritto quando le specie vicine erano ancora primitive.

   Poi la catastrofe. La Phagia. Un male oscuro che consumava l’organismo, cellula dopo cellula. Un flagello che nessuna medicina poteva sconfiggere. Le migliori terapie ne rallentavano solo la progressione. La società ne era stata devastata, stravolta fino a diventare irriconoscibile: le città svuotate, gli assembramenti vietati, ogni spostamento strettamente regolamentato. Le testimonianze storiche del periodo erano raggelanti. Più di una volta la dottoressa dovette distogliere lo sguardo, o persino uscire frettolosamente da un museo, per non essere sopraffatta dall’angoscia. Il marchio della Phagia era ancora scritto nelle città piene di ospedali, di mausolei, di memoriali.

   Eppure, in mezzo a tanti lutti, la civiltà aveva resistito. Aveva escogitato nuove terapie, si era avventurata nello spazio. E infine aveva trovato la cura. Troppo tardi, per molti. Appena in tempo per salvare la specie. Dopo i tempi bui della malattia, la società era rifiorita. Le città si erano nuovamente riempite di bellezza, di suoni, di vita, anche se il passato non sarebbe mai stato dimenticato. Pensando a tutto questo, Ladya si sentì ancora più rafforzata nel suo proposito di dedicare la vita alla medicina. In certi momenti, però, si chiedeva se avrebbe avuto il coraggio di lavorare ai tempi della Phagia, con il rischio costante di contagiarsi. A questa domanda non poté rispondere. Poteva solo rivolgere un pensiero grato a tutti quei medici e infermieri che avevano lavorato in condizioni disperate, spesso a costo della propria vita. Fu mentre passava davanti a una statua della dottoressa Pel che la Vidiiana lesse il motto che meglio riassumeva tutto questo. Era scritto a caratteri cubitali sul basamento: «Se salvi una vita, sei un eroe. Se ne salvi una moltitudine, sei un medico».

 

   Una settimana dopo il suo arrivo, Ladya passeggiava con Dallorath in un vecchio quartiere della capitale, ricco di palazzi storici. Qualche metro dietro di loro venivano due guardie del corpo, incaricate della loro sicurezza. Non era la prima volta che l’ambasciatore accompagnava la dottoressa nelle sue gite, facendole da cicerone. Quando il lavoro lo tratteneva, Dallorath designava persone di fiducia per scortarla; ma ogni volta che poteva, veniva lui stesso. E i suoi modi erano garbati anche oltre il necessario. La cosa non era sfuggita a Ladya, che in parte ne era lusingata, ma temeva anche dove questo l’avrebbe condotta.

   «Quello laggiù è il palazzo della Terza Dinastia Vaphorana» spiegò Dallorath, indicando una favolosa reggia che svettava in fondo alla strada. Le sue torri erano a pagoda, con molti piani sovrapposti. Ogni piano aveva un tetto spiovente di mattonelle smaltate, il cui colore variava da una pagoda all’altra. «Fu costruito mille anni fa dall’Imperatore Motura, quando si trasferì qui con la sua corte. Avevano abbandonato la vecchia capitale, in preda alla Phagia, cercando una sede più sicura. Pensa che i costi di manodopera e materiali furono tali che il popolo, esasperato, si rivoltò al termine dei lavori! L’Imperatore fu detronizzato e al suo posto nacque il governo democratico che, pur con molte riforme, dura tuttora. Perciò quel palazzo ha davvero fatto la Storia, anche se in modo diverso da come pensava l’Imperatore. Visto che t’interessi a queste cose, non puoi perdertelo. Ti accompagno, così i custodi ci mostreranno anche le zone normalmente chiuse al pubblico».

   «Lei è sempre molto cortese, ambasciatore, ma...».

   «Ti prego, chiamami Dallorath. Sono fuori servizio» sorrise lui.

   «Come vuoi, Dallorath. Dicevo che forse non dovresti perdere tutto questo tempo con me» spiegò Ladya.

   «Perdere? Il tempo che passo con te non è mai perso» rispose il Vidiiano. «Oserei dire che è il migliore che ho».

   «Ti prego...» fece Ladya, distogliendo lo sguardo. Non era mai stata brava ad accettare i complimenti. E forse gli ultimi anni, segnati dalle emergenze, le avevano reso difficile fidarsi degli estranei. Ma in fondo Dallorath e gli altri erano la sua gente. E i modi garbati dell’ambasciatore risvegliavano il suo vecchio desiderio di trovare qualcuno della sua specie con cui...

   «No. Sono qui solo da pochi giorni e presto dovrò ripartire» ragionò la dottoressa. «È meglio evitare di affezionarmi troppo».

   «Qualcosa non va, mia cara?» chiese Dallorath, che aveva notato la sua espressione incupita e il passo più lento.

   «È tutto a posto» mentì Ladya. «Pensavo solo che in questi giorni ho imparato tantissimo sulla nostra Storia, ma c’è una cosa che mi domando ancora» disse, per cambiare argomento.

   «Dimmi; se posso ti risponderò» garantì l’ambasciatore.

   «Come siete scampati all’Assedio?» chiese la dottoressa. «Quando i miei avi se ne andarono, il pianeta era sull’orlo dell’annientamento. Haakoniani e Kazon vi circondavano, lo Scudo Planetario stava per cedere. Come ne siete usciti?».

   A questa domanda, Dallorath si mise a ridere. «E io che mi aspettavo chissà quale mistero! Questo non è un segreto di Stato, è una cosa che sanno tutti. Ci sono molti monumenti... ma sono nei quartieri nuovi, quindi non li hai ancora visti» ragionò. «Okay, te lo dirò in breve. Se poi vorrai approfondire, non hai che da consultare l’enciclopedia storica». L’ambasciatore tacque qualche secondo, per organizzare i pensieri.

   «Come hai detto giustamente, la situazione era drammatica» disse il Vidiiano. «Quando lanciammo nello spazio i trasporti coloniali, temevamo che non restasse altro della nostra civiltà. Fortunatamente le cose stavano per cambiare. I Talaxiani si ribellarono, costringendo gli Haakoniani a ritirare quasi tutte le forze, per placare la rivolta. Restavano i Kazon, ma ben presto quei barbari si misero a litigare fra loro. Sai, la loro società è divisa in fazioni – le chiamano sette – in perenne conflitto. A volte riescono a coalizzarsi per fare un colpo grosso, ma se le cose si trascinano per le lunghe – come nel caso dell’Assedio – le divisioni interne riaffiorano. I Kazon Nistrim, che in quel momento avevano il predominio, erano governati da Culluh, un leader ambizioso e spietato. Ma quando fu assassinato da una setta rivale – credo i Kazon Ogla – l’alleanza si disfece in un baleno. Le loro astronavi si scambiarono colpi e molte se ne andarono.

   A quel punto alcune nostre navi da guerra, tagliate fuori da Vidiia, si raggrupparono e presero alle spalle i nemici rimanenti, schiacciandoli contro lo Scudo Planetario. Approfittando dell’occasione, lanciammo tutte le astronavi che ci restavano, fino all’ultimo caccia da guerra, per dargli manforte. Fu una grande battaglia, che durò tutta la notte. Quando l’alba sorse di nuovo sulla capitale, Haakoniani e Kazon erano in rotta. La loro sconfitta fu così grave che da allora non hanno più osato attaccarci. Con gli Haakoniani i rapporti sono molto migliorati, tanto che un secolo fa abbiamo firmato un trattato di pace, e da allora non ci hanno più dato fastidi».

   «E i Kazon?» domandò Ladya.

   «Mah, loro sono sempre i soliti» disse Dallorath, grattandosi un orecchio. «Però hanno perso gran parte del potere. Vedi, tutte le loro astronavi erano state rubate a un’altra specie, i Trabe. E siccome i Kazon non sanno costruirne di nuove, poco alla volta hanno logorato o distrutto quelle che avevano. Si sono devoluti, per così dire. Ormai è raro incontrarli. Molti di loro vivono su pianeti marginali, senza astronavi a disposizione e con pochissime tecnologie. Direi che mi fanno pena, se non fosse che se la sono cercata».

   La dottoressa non ribatté a quest’affermazione. Non augurava la sofferenza a nessuno, ma doveva ammettere che i Kazon si erano rovinati da soli. «E i Vaadwaur, invece?» chiese. «Loro sono una minaccia crescente, a quanto ho capito».

   L’ambasciatore si rabbuiò. «Uhm, sì» ammise. «Hanno praticamente sostituito i Kazon nel ruolo di razziatori. Sono più scaltri, infatti continuano a costruire nuove navi e a perfezionare le loro tecnologie. Però, se temi per noi, vorrei tranquillizzarti» disse rasserenandosi. «L’esperienza dell’Assedio ci ha insegnato molto. Da allora abbiamo potenziato la flotta e lo Scudo Planetario. I Vaadwaur dovrebbero attaccare con tutte le loro forze per impensierirci. Ma questo sarebbe contrario al loro modus operandi, che è di saccheggiare qua e là. Non hanno motivo per accanirsi in particolare su di noi».

   Ladya valutò queste parole. Potevano anche bastarle, come risposta, ma Hortis le aveva chiesto d’indagare, per cui doveva andare più a fondo. «Spero proprio che tu abbia ragione» disse. «Però non capisco perché il governo stia facendo marcia indietro sull’Alleanza anti-Vaadwaur. Vi permetterebbe di risolvere il problema una volta per tutte, non credi?».

   «Suppongo di sì» ammise Dallorath. «Ma la politica è una faccenda complessa. Vedi, l’attacco ai Vaadwaur sarebbe un vero e proprio atto di guerra. Ora che finalmente godiamo un periodo di prosperità, molti aborrono quest’idea. I cittadini temono che far guerra ai Vaadwaur significhi riprendere le ostilità anche coi nostri vicini. Io personalmente non lo credo, ma capisco che l’opinione pubblica sia spaventata».

   «Quindi vi ritirerete del tutto dall’Alleanza?» indagò Ladya.

   «Può darsi» rispose l’ambasciatore. «Sono giorni d’intense consultazioni e io personalmente non vengo informato di tutto, perciò non me la sento di fare previsioni. Se i tuoi colleghi sono impensieriti, dì loro che il governo non ha ancora deciso».

   «Era solo una curiosità personale» mormorò Ladya, arrossendo lievemente. Fare la spia non le si addiceva. Non voleva indurre Dallorath a pensare che fosse lì solo per raccogliere informazioni, anche se in effetti le era stato chiesto proprio questo.

   «Basta parlare di politica» disse il Vidiiano, prendendola a braccetto. «Guarda, siamo quasi arrivati al palazzo della Terza Dinastia. Faremo una visita completa, che ne dici?».

   «Volentieri» sorrise la dottoressa, senza lasciare il suo braccio.

 

   All’imbrunire Ladya e Dallorath tornarono al quartiere governativo. Qui furono informati che, per il momento, i federali erano rientrati sulla loro nave.

   «Credo di doverli raggiungere» disse la dottoressa, con una certa riluttanza. «A domani... e grazie per la splendida giornata».

   «Grazie a te» sorrise l’ambasciatore. «Il tuo entusiasmo mi fa riscoprire tutto quel che vediamo».

   La dottoressa si sfiorò il comunicatore. «Mol a Keter, una da portare su» disse. Mentre si smaterializzava guardò Dallorath negli occhi, sorridendogli. Il volto del Vidiiano svanì nel bagliore azzurro del raggio e fu sostituito da quello, meno amichevole, di Norrin. Il sorriso di Ladya si spense all’istante.

   «Bentornata» disse seccamente l’Hirogeno. «Stavamo per chiamarti, visto che da dodici ore non dai tue notizie».

   «Così tanto?! Non me n’ero accorta» si scusò Ladya. «Il tempo vola, quando sono laggiù».

   «Qui invece va a rilento» mugugnò Norrin. «Vieni, il Capitano vuol sentire il tuo rapporto». La precedette in sala tattica. Qui Ladya trovò Hod e altri ufficiali che conferivano con Hortis.

   «Ah, eccola» disse il Capitano, alzando gli occhi da un oloschermo. «I Vidiiani continuano a nicchiare. Il loro comportamento è incomprensibile».

   «Ci fanno perdere tempo prezioso!» disse Hortis, incollerito. «Ora che i Vaadwaur sanno delle sonde-spia, sposteranno l’ingresso dei tunnel e si prepareranno a respingere l’attacco. L’intera operazione è a repentaglio! Quindi devo sapere al più presto se la sua gente sarà con noi».

   Impressionata dalla veemenza dell’Ammiraglio, Ladya riassunse le sue scoperte della giornata. Raccontò dello scetticismo dei Vidiiani nei confronti dell’Alleanza, aggiungendo le sue impressioni personali. «Se parteciperanno, penso che sarà con un contingente ridotto» disse. «Ma dobbiamo prepararci all’eventualità del loro disimpegno totale».

   «Malissimo» disse Hortis. «Se solo ci dessero una risposta chiara! Invece continuano a prendere tempo. Sembrano molto più interessati a lei» disse, scoccandole un’occhiataccia.

   «E io che posso farci?» si difese Ladya. «Ho parlato in vostro favore, ma alla fine la decisione è loro».

   «Non posso perdere altro tempo; sono atteso dai Devore» insisté Hortis, camminando avanti e indietro. «Se perdessimo anche loro, sarebbe una catastrofe; l’Alleanza si disferebbe». L’Ammiraglio si arrestò e fissò i federali; aveva preso una decisione drastica. «A questo punto vi chiedo di riportarmi indietro, così potrò parlare ai Devore e tenermi stretti almeno loro. Quando saremo pronti per l’attacco, torneremo qui e sentiremo se i Vidiiani hanno preso una decisione» disse.

   «Se decidessero per il no?» chiese la dottoressa.

   «Attaccheremo ugualmente» rispose Hortis. «Certo, preferirei se ci dessero una mano, anche nel loro interesse».

   «Partiremo subito» promise Hod. «Ci dia solo il tempo di avvertire i Vidiiani».

   «Io vorrei restare» mormorò Ladya.

   Il chiacchiericcio degli ufficiali si spense all’istante. Tutti fissarono la dottoressa come se fosse impazzita. Norrin, in particolare, era fulminato.

   «Scusi, può ripetere?» chiese il Capitano.

   «Ho detto che vorrei restare su Vidiia, fino al vostro ritorno» ribadì Ladya, anche se l’atteggiamento dei colleghi la metteva a disagio.

   «E perché, di grazia?».

   «Per raccogliere altre informazioni e perorare la vostra causa» disse la Vidiiana, fingendo persino con se stessa che fossero quelli i motivi.

   «Non sia ridicola!» disse Radek in tono burbero. «Non siamo su un taxi, che la sbarca dove vuole e poi torna a prenderla».

   Il Capitano levò una mano, invitando il Comandante a calmarsi, e si rivolse nuovamente alla dottoressa. «Anche se ci affrettiamo, passerà del tempo prima che veniamo a riprenderla. Giorni, forse settimane. È certa di cavarsela?» si preoccupò.

   Ladya fece una risata smozzicata. «Certo! Ma che vi prende a tutti? Parlate come se andassi in missione su un pianeta ostile. Questa è la mia casa... il mio popolo. Sono più al sicuro con loro che con chiunque altro».

   «La tua casa è Caldos» obiettò Norrin. «Su Vidiia sai ben poco. Certo, hai fatto il giro turistico... ma hai visto solo ciò che i Vidiiani ti hanno mostrato. Se avessero qualche scheletro nell’armadio? In fondo conosciamo i loro trascorsi».

   «I trascorsi? Ah, è questo il punto!» s’indignò la dottoressa. «Non vi fidate di noi perché secoli fa, durante il periodo più tragico della nostra Storia, abbiamo fatto alcune cose riprovevoli».

   «Rubavate gli organi a tutti quelli che incontravate. Sì, lo definirei riprovevole» commentò Radek.

   «Sta dicendo che le colpe degli avi ricadono sui discendenti?! Perché se è così, siamo tutti colpevoli! Quale civiltà non ha mai fatto del male a nessuno?» esclamò Ladya.

   «Si calmi!» ordinò Hod. «Dico a tutti, silenzio! Questo non è un tribunale storico» disse, passando lo sguardo da un ufficiale all’altro. Dopo di che tornò a concentrarsi su Ladya. «Qui si parla della sua sicurezza. Anche se i Vidiiani sono la sua specie, hanno adottato una posizione ambigua che ci spinge alla prudenza. Preferirei non lasciarla sola su questo pianeta».

   «Ma io non sono sola; sono con la mia gente» insisté la Vidiiana. «E più sto con loro, più posso esortarli a mantenere l’impegno preso con l’Alleanza».

   Il Capitano rimuginò, tamburellando il piede. La situazione non le piaceva, ma con la posta in gioco bisognava correre dei rischi. «E va bene... può restare su Vidiia fino al nostro ritorno» cedette. Aveva un brutto presentimento, ma come ufficiale in comando doveva farsi guidare dai fatti e non dalle sensazioni.

   «Grazie, Capitano!» gioì Ladya. «Vado in infermeria, a dare istruzioni al personale, e poi mi teletrasporto subito».

   «Ti accompagno» disse Norrin.

   «Grazie, ma non occorre» fece la Vidiiana, cercando di svicolare.

   «Insisto» disse l’Hirogeno, seguendola. La dottoressa capì che non poteva evitare di affrontarlo, prima di sbarcare.

 

   Per non discutere davanti ai colleghi, Ladya andò dapprima nel suo alloggio, dove prese un borsone e cominciò a stiparvi alcuni effetti personali. «Avanti, dillo!» si rivolse a Norrin, che l’aveva seguita fin lì in silenzio.

   «Dirti cosa? Che è una mossa avventata? L’hanno già fatto gli altri» notò l’Hirogeno. «Io mi chiedo solo se al nostro ritorno verrai con noi, o accamperai qualche scusa per restare».

   «Restare?» chiese Ladya, interrompendosi. «Non dire sciocchezze. Ho il mio lavoro, qui. Ho un’infermeria da mandare avanti».

   «Su Vidiia avresti un’intera rete ospedaliera. Sono certo che i Vidiiani apprezzerebbero le tue conoscenze mediche» disse Norrin. «Suvvia, non dirmi che non ci hai pensato. Sei così benvoluta da loro... specialmente da un certo ambasciatore» aggiunse, sbuffando dalle narici.

   «Stai diventando invadente» lo rimproverò Ladya. «Preferirei che non parlassi come se tra noi ci fossero... impegni». Nel dir questo la dottoressa distolse lo sguardo e si strinse le braccia, a disagio.

   «Ho ben presente che non ce ne sono» disse Norrin con rammarico. «Ti ho rivelato i miei sentimenti da un pezzo... due anni, mi pare. All’epoca mettesti in chiaro che non ricambiavi. E non mi pare che da allora tu sia mutata d’intento. Mi chiedo solo se il fatto che io sia Hirogeno c’entri qualcosa».

   Ladya si guardò intorno; ogni direzione andava bene, pur di non incrociare il suo sguardo. «Norrin, tu mi sei... molto caro» disse con un certo sforzo. «Più di chiunque altro su questa nave. Ma non credo che tra noi potrebbe funzionare. Io... ho sempre pensato che prima o poi avrei avuto dei figli. Ma le nostre specie sono troppo diverse» disse con amarezza. «Mi sono presa la libertà di fare qualche ricerca e ho scoperto che il divario genetico è incolmabile» rivelò, arrossendo fino alla radice dei capelli.

   Cadde un lungo silenzio, durante il quale l’Hirogeno rimuginò sulle sue parole. «Pensavo che non ti piacesse il mio aspetto, o il mio carattere» disse infine. «Non immaginavo fosse questo il problema... ma in effetti ha senso. Hai sempre cercato la tua gente. Su Caldos il ristagno genetico ti rendeva difficile trovare un partner, ma ora che hai trovato Vidiia, il problema è risolto. Congratulazioni» disse sarcastico.

   «Invece di biasimarmi, dovresti fare lo stesso» consigliò Ladya. «Hai mai pensato di trovarti un’Hirogena?».

   «Per metter su famiglia? Mah, non più di tanto» borbottò Norrin. «Sono sempre vissuto in mezzo agli alieni, quindi anche nelle relazioni ho dovuto adattarmi. Diciamo che avere marmocchi non è mai stato al centro dei miei pensieri. E poi le donne Hirogene non sono come le altre. Per far colpo dovrei offrire loro i miei trofei di caccia, vale a dire pezzi del corpo di esseri viventi. Come puoi immaginare, non ne ho molti» sogghignò. «Quindi: niente trofei, niente moglie. E niente pargoli».

   «Devi sentirti solo» si commosse Ladya. «Ma io non credo di poter riempire questo vuoto. Non sono la persona adatta, mi dispiace. Stammi bene, Norrin». Così dicendo si mise la borsa a tracolla e lasciò frettolosamente l’alloggio.

 

   Giunta in infermeria, la dottoressa istruì i colleghi sulle analisi e gli esperimenti che dovevano condurre in sua assenza. Dopo di che affidò il reparto a Joe, sperando che nessuno lo svalutasse per il fatto che era un ologramma. «Ricordate che il dottor Joe è il medico più esperto della Flotta Stellare. Perciò mi raccomando, seguite a puntino i suoi ordini» ribadì. Infine salutò anche l’MOE. «A presto, dottore. Se vuole scatterò qualche olografia per lei» si offrì, conoscendo il suo hobby.

   «Non occorre» rispose Joe. «Le chiedo solo di tenere gli occhi aperti. Quand’ero in questa zona con la Voyager ero stato appena attivato e quindi c’erano tante cose di cui non ero consapevole. Ora che ci torno a distanza di tempo, mi accorgo che non tutto è come appare».

   «Che intende?».

   «Non posso essere più specifico». Il dottore scosse la testa lucida. «La consideri una diagnosi a distanza: i Vidiiani non ci hanno detto tutto. Quindi... occhi aperti!» raccomandò.

   Turbata da quell’ammonimento, Ladya entrò nella cabina di teletrasporto e da lì si trasferì sul pianeta, augurandosi che i sospetti dei colleghi fossero infondati.

 

   Come immaginava, i Vidiiani – e soprattutto Dallorath – furono felicissimi di sapere che si sarebbe trattenuta. Le diedero un appartamento extra lusso e un permesso di circolazione gratuita su tutto il pianeta. Le assegnarono persino una segretaria personale, che l’aiutasse a tener conto degli impegni. Ora che le interviste diminuivano, Ladya cominciò a tenere lezioni in cui parlava della medicina federale. La ritrosia dei Vidiiani ad assembrarsi faceva sì che, invece di andare in sale conferenze, parlasse da casa. La dottoressa non se ne crucciò, sapendo che le sue lezioni erano trasmesse alle facoltà di medicina e agli ospedali di tutto il pianeta. Lei stessa cominciò a studiare la medicina locale, scoprendo così tante novità stimolanti che non le sarebbero bastate dieci vite per soddisfare la sua curiosità. In quei momenti, però, Ladya diventava consapevole della crescente ambiguità delle sue azioni. Perché studiare la medicina del posto, se di lì a poco sarebbe tornata a casa? Forse che inconsciamente desiderava restare?

   In quei giorni, pur tra i mille impegni, Ladya continuò a vedere Dallorath. Ormai l’ambasciatore la corteggiava apertamente, anche se lei cambiava ogni volta argomento. Ma non poteva glissare per sempre: prima o poi avrebbe dovuto rispondergli chiaramente.

 

   Venne una sera in cui i due passeggiavano nel parco cittadino, un luogo incantevole pieno di piante rare che emanavano deliziosi profumi. I viottoli erano di ghiaia bianca, bordati da aiuole fiorite. C’era anche un fiumicello che alimentava un laghetto, su cui galleggiavano piante simili alle ninfee, ma dai colori infuocati. Qua e là vi erano delle statue, alcune piccole e su piedistallo, altre a grandezza naturale. Com’era tipico dell’arte Vidiiana, raffiguravano uomini e donne dai corpi perfetti, pieni di salute e vitalità, spesso immortalati durante gesti atletici.

   «Mmmhhh... che luogo incantevole» disse Ladya, inspirando l’aria fragrante. «Ma si sta facendo tardi, penso che dovremmo rientrare. Domani ho un’altra giornata fitta d’impegni e la tua non sarà certo meglio».

   «Restiamo ancora un po’» propose Dallorath. «Stasera c’è doppio plenilunio, uno spettacolo da non perdere».

   La dottoressa lottò brevemente con la ritrosia, ma alla fine cedette. «D’accordo, guarderemo le lune».

   «So qual è il posto migliore. Seguimi» la invitò Dallorath, prendendola per mano. La guidò fino al laghetto, che avevano oltrepassato poco prima, e da lì su un ponticello di legno che oltrepassava l’affluente. Il cielo si era già scurito, punteggiandosi di stelle. Le due lune piene, una argentea e l’altra gialla, s’innalzavano sopra la linea degli alberi. Ladya doveva ammettere che era il luogo più romantico in cui fosse mai stata. «È bellissimo» mormorò.

   «Possiamo tornarci tutte le volte che vuoi» garantì Dallorath.

   «Ah, non so...» s’incupì Ladya. «La Keter è partita da dieci giorni. Potrebbe tornare in qualunque momento. A quel punto dovrò andare».

   «E se non andassi?» chiese l’ambasciatore, guardandola negli occhi. «Se rimanessi qui?».

   «Ma che dici? Ho degli impegni su quella nave. Il mio lavoro, gli amici... tutta la mia vita» disse la dottoressa. Comprese che era arrivato il momento di mettere i paletti.

   «Hai degli impegni anche qui, con il tuo popolo» obiettò Dallorath. «Quelle lezioni che hai tenuto sono state un successo. Ci sono centinaia di ospedali e università che ne chiedono altre. Si contendono il privilegio d’intervistarti. Ti rendi conto che, se restassi, saresti uno dei medici più in vista del pianeta?».

   «Io... sarei onorata d’essere utile, ma...».

   «Non parlo di onori; so che sei troppo modesta» sorrise Dallorath. «Parlo proprio di vite salvate. Non solo la nostra gente, ma anche i popoli del circondario beneficerebbero delle tue terapie. Non è più importante che occuparsi di un’unica nave, piena di medici con la tua stessa formazione?».

   «Ehm, forse sì» ammise Ladya, «ma il fatto è che non posso andarmene così di punto in bianco. Significherebbe lasciare la Flotta e forse non rivedere più amici e parenti. Non posso compiere questo passo».

   «Perché no? I tuoi avi ne fecero uno più azzardato, lasciando Vidiia. E chissà che col tempo non si riescano a stabilire collegamenti stabili con l’Unione» suggerì l’ambasciatore.

   «Ma io non posso mollare tutto sulla base di una vaga speranza!» si agitò la dottoressa. Gli voltò le spalle e cercò di scendere dal ponticello. Voleva lasciare quel luogo pericolosamente romantico e rinchiudersi nel suo alloggio, prima di fare un passo falso.

   «Aspetta!». Dallorath la prese per un braccio e la costrinse a fermarsi.

   «Lasciami» ordinò Ladya, squadrandolo freddamente.

   «Scusa, ho esagerato» ammise il Vidiiano, liberandola. «Devo farti una confessione. Il mio interesse per il nostro sistema sanitario non è del tutto genuino. Non è il motivo per cui vorrei che restassi».

   «E qual è, allora?» chiese la dottoressa, sebbene fosse evidente.

   «Ti amo» rispose Dallorath con semplicità. «Sei affascinante, intelligente e cerchi sempre di fare del bene. Una come te non è facile da trovare e se ti perdessi credo che lo rimpiangerei per sempre».

   «Oh, ti prego!» fece Ladya. Si appoggiò alla balaustra e spinse lo sguardo verso gli alberi, ormai avvolti dalle ombre. Una dichiarazione così semplice e diretta non l’aveva mai avuta, nemmeno da Norrin. «Quanto mi conosci, in realtà? E io, poi, non so quasi nulla di te!».

   «Allora lascia che ti racconti» suggerì Dallorath. Parlò dettagliatamente della sua vita: la famiglia, il lavoro, gli interessi. Ladya scoprì così che il suo spasimante era divorziato, senza figli e da tempo in cerca di una nuova compagna. Era stato in missione diplomatica su molti pianeti e qualche volta aveva corso dei rischi, ma non aveva mai chiesto il trasferimento. Era appassionato d’arte, da cui la cultura che aveva dimostrato accompagnandola per la città.

   «Interessante» pensò la Vidiiana, sempre più attratta. In altre circostanze avrebbe ricambiato, ma ogni volta che stava per dire qualcosa ripensava a Norrin. Non riusciva a togliersi di mente la sua espressione delusa, l’ultima volta che si erano visti. Gli aveva detto di no e ora stava respingendo anche Dallorath. Avrebbe fatto meglio a decidersi, e in fretta, perché la Keter poteva tornare in ogni momento.

   «Con questo, credo di averti detto le cose importanti» concluse il Vidiiano. «Ma basta parlare di me! Anch’io vorrei conoscerti meglio. Che fai nella vita, a parte lavorare? Hai qualcuno che ti aspetta a casa?».

   «Io... ho i miei interessi, certo, ma quando smonto dal turno non faccio chissà che» mormorò Ladya. «Leggo, ceno coi colleghi... ogni tanto vado sul ponte ologrammi. Avete le sale olografiche, qui? Credo di no, non ne ho ancora sentito parlare».

   «Sarò felicissimo di scoprire cosa sono, ma noto che hai glissato sull’ultima domanda, e questo mi preoccupa» disse Dallorath, sulle spine.

   La dottoressa fece un sorriso agrodolce. «Non sono impegnata. Beh, non formalmente» rivelò.

   «E informalmente?».

   Ladya avrebbe voluto sottrarsi a quelle domande incalzanti, ma pensò che l’altro avesse diritto a una risposta. «Sono libera, okay?!» esclamò, non volendo menzionare Norrin. «È solo che tutto questo... non so, sta accadendo così in fretta... non ho ancora fatto ordine nei miei pensieri».

   «Non affrontare la cosa come se fosse una malattia che devi diagnosticare!» la esortò Dallorath. «Non c’è una procedura standard. Devi semplicemente fare quello che ti senti. Io, per mio conto, lo farò». Così dicendo le prese il volto tra le mani e la baciò.

   Dapprima la dottoressa ne fu così scioccata che restò di sasso. Poi si tirò indietro e gli rifilò un sonoro ceffone. Infine fu lei ad avvinghiarsi e a baciarlo.

   «Okay, adesso sono io ad essere confuso» ammise l’ambasciatore, quando si separarono. Sentiva ancora il sapore delle sue labbra, come anche il dolore sulla guancia.

   «Scusa... questo non è da me» ansimò Ladya, riprendendosi. «Mi piaci, ma ho bisogno di tempo per pensarci, d’accordo?».

   «D’accordo» convenne Dallorath, vedendola così in tumulto.

   Passò qualche minuto. I due non parlavano più, ma non erano neanche scesi dal ponticello. Ammiravano il cielo stellato e il parco rischiarato dal doppio plenilunio. La dottoressa notò che malgrado l’ora tarda non erano soli. Un’altra coppia camminava a braccetto lungo le rive del lago, venendo verso di loro. A un tratto il vento, fattosi più freddo, dette una folata che la fece rabbrividire. «Dovremmo andare» mormorò.

   «Sì, sta rinfrescando» convenne l’ambasciatore. «Vuoi il mio soprabito?».

   «Non serve...» cominciò Ladya, ma lui glielo stava già mettendo intorno alle spalle. La dottoressa finse ancora ritrosia, ma poi infilò le maniche e lasciò che lui le chiudesse il soprabito sul davanti.

   «Di solito qui il clima è caldo» spiegò Dallorath mentre scendevano dal ponte. «Adesso poi andiamo verso l’estate, per cui lo sarà di più. Potresti assistere alla migrazione dei Lucivaganti, gli insetti luminosi. Sono lo spettacolo più bello che...». Il Vidiiano s’interruppe, perché erano giunti all’estremità del ponticello, ma non potevano proseguire. L’altra coppia di visitatori ostruiva loro il passo. Erano un uomo e una donna Talaxiani, che li fissavano in silenzio, come aspettandosi qualcosa.

   «Potete farci passare, per cortesia?» chiese Dallorath.

   «Temo di no, ambasciatore» rispose il Talaxiano. Si portò una mano in cintura, sotto il soprabito, estraendo un’arma a raggi. Nello stesso momento la Talaxiana levò di tasca un altro apparecchio, forse un sensore.

   «Okay, state calmi» disse Dallorath, alzando le mani. «Siete stranieri, quindi forse non sapete che qui da noi si usa solo moneta elettronica, non denaro contante. Ho un comunicatore ultimo modello, se v’interessa. Prendetelo e sparite» consigliò. Mentre parlava si mise davanti a Ladya, nel tentativo di proteggerla.

   «Non siamo ladri, ambasciatore... e non siamo qui per lei» rispose a sorpresa il Talaxiano. Mosse la sua arma, facendogli segno di scostarsi, per scoprire Ladya.

   «Lei?! Ma...» si stupì Dallorath. «Sentite, chiunque voi siate avete fatto un errore. Lei non è nessuno d’importante» disse, sperando di salvarla.

   «Importa a noi» ringhiò il Talaxiano, accompagnandosi con uno strano sibilo. Nel frattempo la sua compagna esaminava Ladya con il sensore. «Sì, è la dottoressa Mol» confermò, anche lei con voce sibilante.

   Ladya ebbe un tuffo al cuore nel sentirsi chiamare per nome. No, quelli non erano semplici rapinatori. Erano agenti ben informati su di lei, inviati a rapirla.

   «Avrei una gran voglia di ucciderti, Vaphorano... ma ti risparmierò. Così vedrai cos’abbiamo in serbo per tutti voi» sibilò il Talaxiano, fissando con odio l’ambasciatore.

   «Vaphorano?!». Udendo quel termine, Ladya si sentì mancare. C’era una sola specie che chiamava i Vidiiani con il loro antico nome, ed erano i Vaadwaur. Ecco spiegati gli strani sibili dei due Talaxiani: il loro aspetto era un travestimento olografico. E come in precedenza, i Vaadwaur ce l’avevano con lei. «Ma che vi ho fatto?» chiese la dottoressa con voce tremante.

   «Non è ciò che hai fatto, ma ciò che farai per noi» rispose il Vaadwaur travestito. «Spero proprio che tu sia brava come dicono i notiziari».

   «No, aspettate, ci possiamo accordare...» cominciò Dallorath, avvicinandosi, ma l’altro gli sparò a bruciapelo. Il Vidiiano si portò una mano al petto, dov’era stato colpito, e cadde faccia a terra.

   Ladya arretrò, sconvolta. Le parole del Vaadwaur le facevano sperare che Dallorath fosse solo stordito, ma aprivano scenari agghiaccianti su ciò che attendeva lei. «Qualunque cosa vi aspettiate da me, non l’avrete» disse, cercando di non tremare.

   «Allora morirai» sibilò il Vaadwaur, prendendola di mira. «Come tutti i Vaphorani». Premette il grilletto. La dottoressa sentì una scossa che le arrivava fino al midollo e scivolò nelle tenebre.

 

   Man mano che i sensi le tornavano, Ladya cercò di ricordare gli ultimi avvenimenti, che le frullavano confusamente in testa, mescolandosi agli incubi del sonno. Poco alla volta rammentò l’accaduto. Prima ancora di riaprire gli occhi si mosse, accorgendosi di non essere legata. Ma i Vaadwaur l’avevano rapita, quindi doveva trovarsi in cella. La dottoressa cercò di prepararsi psicologicamente, anche se non capiva cosa volessero da lei e questo la spaventava. Infine aprì gli occhi.

   Si trovava effettivamente in una cella, angusta e dalle pareti color bronzo. Anziché essere chiusa da un campo di forza o da una lastra di metallo trasparente, come quelle federali, la cella presentava pareti e porta del tutto opachi, così che la prigioniera non aveva idea di come fosse l’esterno. Non sapeva nemmeno se si trovava a bordo di un’astronave o su un pianeta. Gli unici arredi erano lo scomodo letto a cuccetta su cui era adagiata, un lavandino e i servizi igienici. La luce giallastra veniva da un pannello luminoso sul soffitto.

   La Vidiiana si tirò a sedere e si guardò attorno spaurita. Essere chiusa in quella minuscola cella, senza una finestra, le dava un senso di oppressione. Aveva la sensazione che l’aria non le entrasse più nei polmoni. Riconoscendo i sintomi della claustrofobia, la dottoressa s’impose dei respiri lenti e profondi. Poco alla volta riacquistò il controllo, finché il nodo alla gola si allentò.

   «C’è nessuno?» chiese con voce tremante. Per parecchi minuti stette in silenzio, quasi temendo di udire la risposta. Ma il tempo passava senza che ci fossero repliche. Così Ladya ripeté la domanda, a voce più alta. Ancora nulla. «Perché sono qui? Che volete da me?!» chiese, quasi strillando. Visto che i rapitori non si degnavano di risponderle, smise di sprecar fiato. «Forse è una tattica psicologica per piegarmi» rifletté. Ma i Vaadwaur avevano bisogno di questi trucchetti? Non possedevano gli strumenti tecnologici per costringerla?

   Divorata da queste domande, Ladya non poté fare altro che attendere. Non aveva modo di misurare il tempo, perché le avevano tolto il comunicatore multi-funzione che faceva anche da orologio. Non le restava che basarsi sul suo stesso corpo: il sopraggiungere dell’appetito, il ciclo sonno/veglia. Dopo un’attesa che le parve interminabile – ma dovevano essere poche ore – cominciò ad aver fame. Si chiese se i Vaadwaur l’avrebbero lasciata morire di stenti. No, era assurdo: se l’avevano rapita, significava che la volevano viva. Ma non era da escludere che l’affamassero, come forma di tortura.

   Dopo altre ore di angoscia e di fame, Ladya udì un click metallico. Uno scomparto quadrato si era aperto nella parete e da lì qualcosa cadde su un ripiano. Prima ancora che la dottoressa si rialzasse dalla cuccetta, lo scomparto si era richiuso. «Cibo» disse una voce metallica.

   «Allora c’è qualcuno in ascolto?! Ehi, voglio parlare con qualcuno!» gridò la Vidiiana, ma ancora una volta non ebbe risposta. Intuì che la voce era un messaggio automatico, destinato a tutti i prigionieri. Rinunciando per il momento alle speranze di dialogo, si accostò cautamente all’oggetto caduto e lo raccolse. Era un cubetto scuro, dalla consistenza gommosa. Doveva trattarsi di una razione proteica; probabilmente l’unico alimento che le avrebbero fornito. Ladya valutò la possibilità che contenesse droghe o altra roba pericolosa, ma la scartò. Se i Vaadwaur volevano metterle qualcosa in corpo, gliela avrebbero iniettata mentre era priva di sensi. Così mangiucchiò il cubetto proteico, conservandone però una metà; non sapeva quando le avrebbero dato il prossimo pasto. Bevve l’acqua del rubinetto e poi si distese di nuovo, cercando di sonnecchiare.

   Le ore passarono con lentezza esasperante. Il pensiero d’essere ad anni luce da tutto ciò che conosceva era sempre lì ad avvelenarle la mente. Allora la dottoressa cercò di pensare positivo. Si disse che molti suoi amici della Keter erano stati sequestrati, nel corso degli anni, e in qualche modo ne erano usciti. Ma erano addestrati a combattere, mentre lei era un medico. E comunque anche loro se l’erano cavata quasi sempre grazie a un aiuto esterno, che nel suo caso era assai improbabile. Se i Vaadwaur l’avevano portata nella loro Rete, ormai poteva essere in qualunque punto della Galassia.

   Dopo qualche ora di dormiveglia, Ladya riaprì gli occhi. Era sempre tra quelle pareti opprimenti. Si chiese perché diavolo l’avevano rapita se poi la tenevano lì, senza farle domande. Non le restava che rassegnarsi e attendere. Per tenere occupata la mente ripensò alle mille esperienze che aveva avuto negli ultimi anni, da quando era salita sulla Keter fino all’arrivo su Vidiia. Lei e i colleghi ne avevano passate di tutti i colori. Abbandonandosi ai ricordi, non poté fare a meno di pensare a Norrin. Le si strinse il cuore al pensiero di come l’aveva lasciato. E per cosa, poi? Per trascorrere qualche giorno in più su un pianeta che, per quanto bello, non era casa sua. Per farsi corteggiare dal primo Vidiiano che aveva incontrato, come se solo quelli della sua razza fossero degni di attenzione. Ripensando al suo comportamento, Ladya se ne vergognò.

   Trascorse così l’intera giornata. L’unica nota positiva fu che a un certo punto lo scomparto sulla parete sputò un altro cubetto proteico, segno che i pasti erano regolari. Venne l’ora di dormire ancora. Ormai la Vidiiana si stava abituando a quelle giornate vuote e silenziose. Si disse che prima o poi i rapitori si sarebbero palesati. Fino ad allora doveva sforzarsi di restare sana di mente.

 

   Trascorsero così cinque interminabili giorni. La mattina del sesto giorno, Ladya stava canticchiando un ritornello che aveva imparato da bambina, cercando di ricordare tutte le strofe. D’un tratto la porta si aprì dal basso verso l’alto. Due soldati Vaadwaur entrarono con le armi spianate. «Muoviti, Vaphorana! Il Generale vuole parlarti» berciò uno dei due. Dopo giorni d’isolamento, quell’improvvisa irruzione fece sussultare Ladya. «Ci siamo» si disse. Lasciò la cuccetta e seguì le guardie all’esterno. Erano in un corridoio largo, pieno di celle su ambo i lati. Non essendoci finestrelle, la dottoressa non poteva sapere quante erano occupate.

   La prigioniera e le guardie percorsero l’androne fino alla sua estremità. Qui presero un turboascensore, lasciando il blocco detentivo. Salirono per parecchi piani, anche se Ladya non avrebbe saputo dire quanti. Da lì procedettero per altri corridoi, talora incontrando drappelli di guardie o tecnici affaccendati. La dottoressa notò che tutti mantenevano una notevole distanza personale. Infine giunsero in una vasta sala d’osservazione. Una finestra panoramica a forma di occhio occupava la parete di fondo, mostrando un flusso d’energia arancione: la parete di un wormhole. Erano in un’astronave, all’interno della Rete Subspaziale, come Ladya temeva.

   Scura contro il flusso di particelle, si stagliava un’imponente figura umanoide. Era un Vaadwaur, a giudicare dal cappuccio di pelle che gli circondava il collo. Alto e massiccio, aveva capelli neri striati di grigio, raccolti in una crocchia militare. Doveva essere il generale di cui le avevano accennato. «Benvenuta, dottoressa Mol» la salutò il Vaadwaur, senza voltarsi. «Mi perdoni se l’ho fatta attendere, ma siamo stati molto occupati. Sono giorni drammatici, sa. Si stanno decidendo le sorti d’interi popoli».

   «Non ne dubito» rispose Ladya. «Mi chiedo solo cosa vi aspettate da me, generale...?».

   «Suddayath» rispose il Vaadwaur, voltandosi. Il suo aspetto era inquietante. Il collare da serpente era pieno di cicatrici, persino sforacchiato in qualche punto. Una benda nera gli copriva l’occhio sinistro. L’occhio superstite, giallo e dalla pupilla verticale, si fissò su Ladya. «La sua curiosità è legittima, dottoressa. In questi giorni di attesa avrà senz’altro immaginato mille cose orribili sul nostro conto. Dopotutto è stata su Vidiia... non siamo benvisti, laggiù».

   «Non mi risulta che siate benvisti in alcun luogo» commentò la dottoressa.

   «Lei ha una visione molto offuscata della situazione» obiettò Suddayath, accorciando le distanze. «Crede che siamo dei mostri e che i suoi simili siano le vittime. Se le dicessi che la realtà è l’esatto opposto?».

   «Dovrebbe impegnarsi molto per convincermi» ribatté Ladya, gelida.

   «Non serve; i fatti parlano per me» disse il Generale. Si recò a uno schermo parietale e richiamò l’immagine di un’infermeria. Era piena di pazienti Vaadwaur, che sembravano in pessime condizioni. Molti erano stesi a terra su giacigli di fortuna, dato che non c’erano lettini per tutti. «Questa è l’infermeria del Ravager, la nave su cui ci troviamo» spiegò Suddayath. «Ma vedrà scene simili in tutti i nostri insediamenti e sulla maggior parte delle astronavi».

   «Cos’hanno i pazienti?» chiese Ladya, avvicinandosi per vederli meglio.

   «Come, il suo occhio clinico fa cilecca?» la derise il Vaadwaur. «Li osservi con attenzione. Se vuole posso descriverle i sintomi. Dapprima dolori articolari, perdita del gusto e dell’olfatto. Poi necrosi dei tessuti in tutti gli organi, con notevoli variazioni individuali. I problemi più comuni sono debolezza, perdita di coordinazione motoria, problemi cardiaci e respiratori. Infine morte per collasso sistemico. Somiglia a una certa malattia con cui la sua specie ha familiarità, vero? Qualcosa che vi ha appestati per due millenni» sibilò, fissandola con l’unico occhio.

   «Non è possibile...» mormorò Ladya, ma i sintomi erano chiari. Sui volti e le mani dei pazienti c’erano chiazze ed escoriazioni compatibili con i primi stadi della Phagia. «Quel morbo è stato sconfitto più di duecento anni fa. Colpiva solo noi, quindi non è più in circolazione» disse la Vidiiana, cercando di smentire il Generale.

   «Infatti non è tornato da solo» confermò questi. «Lasci che le racconti una storia, dottoressa. La storia di un popolo – il mio – che fu quasi sterminato in guerra, ma che risorse dopo secoli di sonno criogenico. Disponendo di poche navi obsolete e del nostro ingegno, abbiamo sconfitto avversari molto più potenti, riconquistando ciò che ci apparteneva. Ci siamo presi cura della Rete Subspaziale, ripulendola da asteroidi e relitti, sigillando gli squarci, arrivando a padroneggiarla come nessun altro. Con la nostra lungimiranza ci siamo creati un avvenire.

   Ma in questa storia c’è un altro popolo – il suo – che fu quasi sterminato, stavolta da una malattia. Voi però non vi siete salvati da soli; avete comprato la cura da una congrega di scienziati alieni. Poi, quando siamo entrati in conflitto, vi siete uniti a un’Alleanza che ha lo scopo di annientarci. Sì, dottoressa... conosco le trame dei Krenim, dei Devore e della Gerarchia». L’occhio giallastro del Vaadwaur trafisse Ladya, che fu come pietrificata dall’orrore.

   «Uno direbbe che quattro potenze interstellari coalizzate non avranno difficoltà a sopraffarci» proseguì Suddayath. «Ma i suoi simili non si fidano del piano di Hortis per distruggere la Rete. Temono che la loro flotta resti intrappolata... e hanno ragione. Quindi hanno trovato un’alternativa. Una che gli permetterà di sterminarci senza correre rischi... senza nemmeno muoversi dal loro bel pianeta. Un’arma biologica. E dovendo infettarci con una malattia, quale scelta migliore di quella che vi ha divorati per millenni? Analizzi i nostri malati, dottoressa. Osservi il codice genetico del virus. È quello della Phagia, con due sole modifiche. La prima è che ora colpisce noi anziché voi. La seconda è che il decorso della malattia è molto più rapido. Invece di trascinarsi per anni, ora tutto finisce nell’arco di qualche settimana. Questa è la sorte che il suo popolo “illuminato” ha decretato per noi. Noi, che per quanto abituati a combattere non abbiamo mai usato stratagemmi così vili!» ringhiò il Generale, fissando la dottoressa come se volesse incenerirla.

   Annientata da questa rivelazione, Ladya osservò i malati che tossivano nei lettini, con i volti sfigurati dalla malattia. Non voleva credere alle parole di Suddayath, eppure tutto tornava. Durante la battaglia di Akaali, i Vaadwaur avevano attaccato le navi ospedale e anche sulla Keter avevano puntato subito all’infermeria. Lì per lì non ci aveva fatto caso. Ma adesso capiva che volevano il database medico nella speranza di trovare spunti per una cura. Quando l’avevano vista, i soldati Vaadwaur si erano infuriati perché sapevano che erano stati i Vidiiani a contagiarli. In quel momento non avevano ancora l’ordine di catturarla, anzi nemmeno la conoscevano, per cui avevano cercato di ucciderla. Poi però la Keter aveva raggiunto Vidiia, dove lei si era fatta intervistare, diventando un personaggio pubblico. La sua fama si era diffusa alla velocità delle trasmissioni subspaziali, attirando l’attenzione dei Vaadwaur. Da qui la decisione di rapirla.

   «Il suo popolo sta accampando scuse per non partecipare all’attacco, vero? Cercano di tirarsi fuori dall’Alleanza» proseguì Suddayath, implacabile. «Perché quest’improvviso cambio di rotta? Magari sanno perfettamente che è inutile attaccarci. Basta aspettare qualche mese e saremo sterminati dal virus. A quel punto potranno impadronirsi della Rete senza sparare un colpo. Agli occhi della Galassia saranno innocenti. E così, fine della storia... se noi non prendiamo contromisure».

   Ladya si sentì mancare. Pensò a Dallorath, con le sue parole gentili e le mille premure. Anche lui conosceva la ributtante verità? Forse sì... in fondo era un alto diplomatico. Era sempre stato evasivo sul perché i Vidiiani volevano lasciare l’Alleanza. E aveva quella strana tranquillità... come se sapesse che presto i Vaadwaur non sarebbero più stati una minaccia. «Non posso credere che la mia gente vi abbia inflitto il male che ci ha tormentati per millenni» mormorò la dottoressa, fissando il Generale. «Non possono averlo fatto... qualunque sia l’ostilità fra voi...».

   «Qualche mercantile attaccato, tutto qui. Le stive svuotate, pochissime vittime» disse Suddayath con voce asciutta. «Tanto è bastato perché la sua gente decidesse di sterminarci in questo modo orribile. Le ricordo che la malattia non colpisce solo i soldati: sta uccidendo tutta la nostra popolazione. Potrei farle incontrare gli orfani, o i genitori che hanno perso i figli, ma glielo risparmierò».

   Ladya si costrinse a guardare di nuovo i malati. Uno di loro era in preda a una crisi, i dottori accorrevano per salvarlo. Prima di vedere l’epilogo, Suddayath spense lo schermo. «Presto li incontrerà di persona» disse. «Mi sono raccomandato affinché non le sia torto un capello. Se qualcuno dovesse aggredirla, pagherà con la vita. In questo momento lei è l’ultima speranza per il mio popolo. Trovi la cura per questo morbo. Ci salvi dall’estinzione, salvi almeno i nostri figli» disse il Generale, chinando il capo.

   La dottoressa arretrò, in preda alla confusione e alla vergogna. Tutto il suo mondo era capovolto, ogni certezza sbriciolata. «Io... ci proverò, glielo giuro» disse con voce smozzicata. «Come Vidiiana, le chiedo scusa per quest’atto infame. Mi... mi vergogno di appartenere alla specie che vi ha fatto questo. Credevo che avessimo imparato dai nostri errori. Purtroppo mi sbagliavo».

   «Voglio credere che sia sincera» disse Suddayath. «Avrà a disposizione le nostre attrezzature mediche e il miglior personale di cui disponiamo. Le raccomando di far presto... nel nostro interesse, ma anche nel vostro» aggiunse, facendosi minaccioso.

   «Che intende?» chiese Ladya. Qualcosa, nel tono del Vaadwaur, la fece rabbrividire fino al midollo. Sentì che le sciagure non erano terminate.

   «Non crederà che sequestrarla fosse il nostro unico piano, vero?» chiese Suddayath. Le voltò le spalle e si recò alla finestra, sempre occupata dal flusso energetico del wormhole. Qui levò di tasca un piccolo comunicatore. «Suddayath a plancia, portateci fuori dalla Rete. Uscita 219» ordinò. Il Ravager cambiò subito rotta, infilandosi in un tunnel laterale. Da lì svoltò in un altro condotto e infine uscì nello spazio normale.

   La dottoressa si affiancò al Generale. Dov’erano sbucati? Che cosa voleva mostrarle? Non osando chiederlo, Ladya attese. Poco alla volta un pianeta entrò nel campo visivo. Un mondo screziato di rosso, con due lune e un sistema d’anelli. Vidiia Primo. Ma cos’era quello strano bagliore che veniva dalla direzione opposta al sole? Grazie al movimento dell’astronave, la fonte di luce fu ben presto visibile. Era come un incendio nello spazio, una vivida torcia che gettava lingue di plasma in ogni direzione. Alcune fiammate lambivano Vidiia, facendo balenare lo Scudo Planetario. Era uno spettacolo terrificante, eppure suggestivo, come solo le cose terribili possono essere.

   «Che cosa avete fatto?» sussurrò Ladya con voce incrinata.

   «Noi lo chiamiamo cannone stellare» rispose Suddayath, scoprendo i denti affilati. «È facile da realizzare, una volta che si è appreso a spostare i condotti. Basta aprire un’imboccatura nel cuore di una stella, dove si trova il plasma a milioni di gradi, e quella adiacente presso il bersaglio. L’immane pressione del nucleo fa sì che il plasma s’incanali nel tunnel e sia sparato fuori alla prima uscita. Per ora i suoi simili si proteggono con lo Scudo Planetario, ma come può immaginare stanno consumando molta energia. Fra poche settimane resteranno a secco. Quando lo Scudo cederà, il vostro pianeta avvamperà come una torcia. Un bel rogo funebre per la vostra specie». In quella luce irreale, il volto del Vaadwaur era una chiazza color fuoco.

   Ladya si sentì sprofondare. «Ci sono quattro miliardi di Vidiiani laggiù... non sono tutti colpevoli!» gemette.

   «Siete stati voi i primi a ordire un genocidio. Ora assaggiate la vostra medicina» rispose Suddayath, imperturbabile. «Ma deve sapere che ho dato ai Vidiiani una possibilità di salvezza. Dovevano consegnarci la cura per la Phagia; solo così avremmo richiuso il condotto».

   «E l’hanno fatto?!» chiese Ladya. Pareva di no, visto che il condotto era aperto e Suddayath era ancora interessato a lei. Ma come potevano essersi rifiutati, quando rischiavano l’annientamento?

   «Sì e no» rispose il Generale con una smorfia. «Ci hanno dato la cura, ma non sta funzionando. Non credo che ci abbiamo mentito di proposito, sapendo cosa li aspetta. Quindi non c’è che una possibilità».

   «Il virus è mutato» comprese Ladya. Certo, era naturale. Per duemila anni la Phagia si era evoluta, contrastando tutti i tentativi di sradicarla. Quella malattia aveva un altissimo tasso di mutazione: non c’era da stupirsi se era cambiata un’altra volta. «Generale, sono certa che in questo momento tutti i virologi del pianeta stanno cercando un altro rimedio» disse la dottoressa. «Ma deve dargli più tempo!».

   «Se sospendiamo l’attacco, i Vidiiani ne approfitteranno per evacuare il pianeta» ribatté Suddayath. «A quel punto saremo inermi. No, dottoressa. Fermeremo il cannone stellare solo se avremo una cura efficace. In caso contrario, il vostro mondo brucerà. Così almeno vi estinguerete prima di noi» minacciò.

   «Biasimate il mio popolo per aver orchestrato un genocidio, ma volete fare lo stesso» disse Ladya con durezza. «Se noi vi ripugniamo, allora dovete inorridire anche di voi stessi».

   Per lunghi momenti i due si fronteggiarono, mentre oltre la finestra panoramica si consumava il dramma di un pianeta. Lo Scudo Planetario resisteva, ma le lingue di plasma avevano iniziato a disperdere gli anelli. Infine Suddayath ruppe il silenzio. «È ancora qui, dottoressa?» chiese con voce aspra. «Dovrebbe correre in infermeria. Ogni secondo che spreca è un secondo sottratto alla nostra comune sopravvivenza».

   La Vidiiana deglutì. «Farò ciò che posso, ma potrei non bastare» disse. «Dovete chiedere aiuto ad altri... magari all’Unione! Se spiegate la situazione, sono certa che vi aiuterà».

   «Scherza? L’Unione ha molto più interesse a lasciarci morire» obiettò il Vaadwaur.

   «Non è vero!» protestò Ladya. «La scienza, e in particolare la medicina, travalica le divisioni politiche. Sa che prima dell’Unione, prima ancora della Federazione, c’era lo Scambio Medico Interspecie? Cinquecento anni fa alcuni popoli dei Quadranti Alfa e Beta iniziarono a condividere informazioni mediche e a scambiarsi dottori, per contrastare le epidemie. Gli effetti furono straordinari, interi morbi furono debellati. E le specie che aderivano all’iniziativa cominciarono a fidarsi l’una dell’altra. Senza lo Scambio Medico, la Federazione non sarebbe mai nata».

   «Quindi per salvaguardare il corpo basta vendere l’anima!» la derise Suddayath. «È un sacrificio che non siamo disposti fare. Preferiamo morire da Vaadwaur, piuttosto che diventare i vostri animaletti domestici».

   «Forse sarete soddisfatti» pensò cupamente Ladya. Ma il suo dovere di medico era fare tutto il possibile per salvarli, anche se erano nemici. Tanto più che la sopravvivenza dei Vidiiani era subordinata alla loro. «Farò come vuole» cedette la dottoressa. «Ma deve giurarmi che quando avrà la cura risparmierà il mio popolo. Non ci attaccherete né col cannone stellare, né in altri modi».

   «Ha la mia parola d’onore, dottoressa» disse Suddayath, porgendole la mano. I due se la strinsero con forza. «Che io e la mia gente possiamo essere maledetti in eterno, se tradiamo il patto» disse solennemente il Generale.

 

   Scortata in infermeria, la dottoressa constatò immediatamente la gravità della situazione. Oltre alla malattia in sé, che era devastante, c’era una spaventosa carenza di equipaggiamento e di personale. Molti malati giacevano a terra, in condizioni igieniche precarie. Per prestargli soccorso i dottori dovevano fare uno slalom, stando attenti a non calpestare nessuno. Siccome la cura fornita dai Vidiiani non dava risultati, i pazienti continuavano ad accumularsi. Per loro non c’erano che cure palliative, per attenuare il dolore. Molti malati venivano semplicemente rimandati nei loro alloggi; solo i più gravi erano trattenuti. Quando poi andavano in crisi cardiaca o respiratoria, gli strumenti salvavita scarseggiavano. Ladya si trovò ben presto nella situazione che ogni medico vorrebbe evitare: quella in cui si deve scegliere chi salvare. «Non potete replicare gli attrezzi?!» chiese ai medici Vaadwaur, che da mesi lottavano contro il virus.

   «I replicatori che abbiamo qui sulla nave non sono in grado di produrre tutte le tipologie di strumenti» spiegò uno di loro. «Comunque fra poco torneremo alla capitale. Lì potremo sbarcare i malati e caricare nuove forniture».

   «Stiliamo subito una lista di ciò che occorre» disse Ladya. «A cominciare dalle protezioni! Molti di voi sono senza guanti e mascherine. Con l’affollamento che c’è in queste stanze, vi contagerete in un attimo. Come fate a curare gli altri, se vi ammalate voi stessi?».

   «La maggior parte dei nostri medici è già malata» rispose freddamente il Vaadwaur. «Io ero uno xenobiologo, prima che mi trasferissero in questo reparto».

   La Vidiiana impallidì. Quella non era un’infermeria, era un macello. «Avete controllato che i filtri atmosferici non siano saturi? Bisogna depurare l’aria o ad ogni respiro ci saranno altri infetti. Poi dobbiamo sterilizzare gli strumenti, anzi, tutte le superfici» raccomandò.

   «Con tutto il rispetto, ma noi ci occupiamo di quest’emergenza da molto più tempo di lei!» ribatté il Vaadwaur, seccato. «Sappiamo cosa si può fare e cosa no. Se non le sembriamo al massimo dell’efficienza, è perché molti di noi non dormono come si deve da settimane. Comunque questi non sono suoi problemi. A gestire i malati ci pensiamo noi; lei piuttosto trovi la cura!».

   Aveva ragione, ammise Ladya. I Vaadwaur l’avevano portata lì per farle sviluppare un vaccino o un medicinale, non per somministrare cure palliative ai pazienti. Facendo violenza a se stessa, la Vidiiana lasciò le sale di degenza, per recarsi nel laboratorio di ricerca. Solo una virologa l’accompagnò, dato che il resto del personale era impegnato. Oltre ai guanti e alla mascherina, la Vaadwaur indossava anche degli occhialini protettivi.

   Appena furono sole, Ladya fronteggiò la collega. «Se voglio avere una speranza di trovare la cura, mi servono parecchie informazioni» disse. «Intanto mi serve la mappa genetica del nuovo virus phagico, da confrontare col vecchio. Poi voglio un campione del farmaco che vi hanno dato i Vidiiani, corredato dai test di laboratorio. Voglio anche le cartelle cliniche di pazienti nei vari stadi dell’infezione. Tanto per cominciare».

   «Certo, è tutto qui sul computer» disse la virologa, recandosi a una consolle. «Le mostro come usare l’interfaccia. A proposito, io sono Phanin».

   «Ladya Mol» si presentò la Vidiiana. «Lei è qui da molto?».

   «Un paio di mesi. Perché?» s’insospettì la Vaadwaur.

   «Era solo per rompere il ghiaccio» sospirò Ladya. «Voi Vaadwaur siete sempre così distaccati, anche in questi momenti drammatici».

   «Distaccati?» ripeté Phanin, fissandola con aria indecifrabile. «Sa, noi abbiamo un detto: “Quando piove, tu corri di porta in porta, cercando di restare asciutto e bagnandoti comunque? O accetti semplicemente il fatto che sta piovendo e cammini con dignità?”».

   «Capisco il senso, ma questo non è un contrattempo qualunque... c’è in gioco la sopravvivenza delle nostre specie!» insisté Ladya, cercando di capire quella psicologia aliena.

   «Allora conviene affrettarci» disse Phanin, sempre fredda. «Ecco, questo è il genoma del virus. Con questi comandi può isolare i vari nucleotidi e confrontarli col ceppo originale della Phagia. Le faccio vedere».

   Rassegnata, Ladya si concentrò sui comandi, cercando d’imparare a usarli. Doveva eseguire operazioni complesse – analisi, raffronti, simulazioni – usando delle interfacce aliene con cui non aveva la minima familiarità. Questo rendeva il lavoro molto più difficile. Più volte fu costretta a interrompere la Vaadwaur, che le parlava del virus, per chiedere più spiegazioni sui comandi.

   Nelle ore successive, Phanin illustrò a Ladya i vari tentativi fatti dai Vaadwaur per contrastare o almeno rallentare la malattia. Infine mostrò la cura che i Vidiiani stessi avevano fornito, sotto ricatto, pochi giorni prima. C’era molto materiale da esaminare, ma Ladya sentiva la mancanza dei suoi testi di riferimento. Per quanto avesse ottima memoria, non poteva certo tenersi tutto in testa, come facevano i Medici Olografici d’Emergenza. «Se solo potessi consultare il mio database!» si lasciò sfuggire a un certo punto.

   «Intende il database medico federale? Ce l’abbiamo» rivelò Phanin. «La nostra squadra ne ha scaricato la maggior parte, durante l’incursione ad Akaali. Anche se avete distrutto la nave madre, l’ultimo incursore è riuscito a consegnarcelo».

   «Davvero?!» si animò Ladya. «Bene... vediamo se ci sono malattie simili e come sono state affrontate».

   «Ne abbiamo trovate alcune» confermò la Vaadwaur, richiamando varie schermate fitte di dati. «Però nessuna è tanto simile da darci la cura. Questi sono i casi più interessanti...».

   Con il passare delle ore, Ladya cominciò ad avvertire la stanchezza. Grafici e cifre si confondevano nella sua mente, gli schemi delle molecole le si sdoppiavano davanti agli occhi. Soffocando gli sbadigli, la dottoressa continuò ad ascoltare la collega e a leggere i dati. C’era così tanto da studiare, prima ancora di mettersi al lavoro. Capì che la aspettavano lunghe notti insonni.

 

   Di lì a poco il Ravager uscì dalla Rete Subspaziale, in una lontana regione del Quadrante Delta. Qui si trovava la capitale dei Vaadwaur, ovvero la prima colonia che avevano fondato dopo il risveglio. Si chiamava Kinara: era un mondo inclemente, dalla superficie riarsa, spazzata da tempeste di sabbia. L’insediamento si trovava quasi tutto nel sottosuolo, in un sistema di caverne naturali che erano state ampliate per accogliere la popolazione in rapida crescita. Lì vi erano le uniche riserve d’acqua del pianeta, che rifornivano le colture idroponiche. Attorno a queste zone agricole erano cresciute le industrie, dove si produceva di tutto, dagli oggetti di uso comune fino alle componenti delle astronavi che erano assemblate in orbita. Il rifornimento di metalli era assicurato da profonde miniere, in cui si lavorava giorno e notte. Come fonte energetica, infine, i Vaadwaur sfruttavano il potenziale geotermico del pianeta. Grandi impianti, simili a quello che aveva alimentato le capsule di stasi sul loro mondo natio, scendevano in profondità nella crosta, convertendo il calore del magma sottostante in energia.

   In questo modo la colonia era cresciuta per oltre due secoli, passando dalle poche centinaia di abitanti iniziali alle attuali decine di migliaia. Solo adesso il timore del contagio stava costringendo i Vaadwaur a chiudere sempre più attività. Restavano in funzione i servizi essenziali, con standard di prevenzione sempre più alti, che però non bastavano a fermare l’epidemia. Il fatto che la popolazione si concentrasse nelle caverne, anziché essere distribuita in superficie, rendeva i Vaadwaur ancora più vulnerabili al contagio.

   Come previsto Ladya fu sbarcata nell’ospedale della colonia, assieme ai malati del Ravager. Fu come scendere da un girone infernale a quello sottostante: gli infetti erano molti di più e si trovavano a stadi più avanzati della malattia. Peggio ancora, questi non erano solo soldati e tecnici. C’erano anche civili di tutte le età. Vedere gli effetti del morbo sui bambini, così deboli che non riuscivano nemmeno a piangere, spezzava il cuore. Ovunque Ladya volgesse lo sguardo c’erano solo dolore, disperazione e morte. Era così che doveva apparire Vidiia, ai tempi della Phagia. Al pensiero che ora i suoi simili vivevano nel lusso e nei piaceri, e che tuttavia avevano inflitto ad altri quell’orrore, Ladya si sentì impazzire dalla rabbia. Poi ricordò che anche Vidiia rischiava di essere distrutto, se non trovava la cura. Il grosso degli abitanti era innocente, persino ignaro di quanto fatto contro i Vaadwaur. Non poteva lasciare che perissero per la sciagurata decisione di pochi. Così la dottoressa si tuffò nel lavoro.

   Fu l’inizio di un periodo allucinante. Ladya viveva nell’ospedale, dormendo su una brandina in laboratorio. Al risveglio si metteva subito al lavoro e continuava per tutta la giornata, senza interrompersi neanche per i pasti, visto che mangiucchiava razioni proteiche senza staccare gli occhi dallo schermo o dai suoi esperimenti. La sera crollava esausta sulla branda, sprofondando in un sonno agitato, troppo breve per ritemprarla. A volte trascorreva giorni rinchiusa nel laboratorio. Se usciva era sempre per visitare i pazienti, dentro l’ospedale o anche fuori. I Vaadwaur avevano creato infatti un ospedale da campo – ma era meglio definirlo lazzaretto – in superficie, nel tentativo di allontanare i malati dalla città. La superficie però era spazzata da venti impetuosi e anche da tempeste di sabbia, che duravano interi giorni. Piazzare tende era inutile, dato che venivano strappate dal vento. L’unica opzione era sistemare i malati dentro container o prefabbricati. Ladya visitò parecchi di questi rifugi, per prelevare campioni agli infetti e seguire il decorso della Phagia. Quando usciva, lottando contro il vento sostenuto, si chiedeva se alla prossima visita li avrebbe ritrovati vivi.

   In queste uscite, la Vidiiana era sempre scortata da un paio di guardie. La natura sospettosa dei Vaadwaur esigeva che fosse costantemente sorvegliata, specie quando si avventurava in superficie. Lì infatti c’erano i mezzi per la fuga: navette, caccia stellari, incursori atterrati per effettuare riparazioni. C’era anche una torretta per le trasmissioni subspaziali, che Ladya avrebbe potuto usare per chiamare aiuto. Ma la dottoressa non pensò mai seriamente di provarci. Non solo perché era sempre sorvegliata, ma soprattutto perché andarsene significava condannare sia i Vaadwaur che i Vidiiani. No, doveva restare per finire il lavoro.

   Perciò Ladya continuò la sua routine, anche se i giorni si sfilacciavano e si confondevano. Da quanto era lì? Non lo sapeva. Aveva la sensazione che da quando era iniziato l’incubo non ci fosse più una successione di giorni e notti, ma una sola e interminabile giornata. La dottoressa si sentiva sempre più stanca e temeva che questo influisse sulla qualità del suo lavoro. Gli occhi le bruciavano per le troppe ore passate davanti agli schermi. Il collo e la schiena dolevano quando si chinava sui microscopi. Un crescente malessere s’insinuava in tutto il suo corpo, una debolezza che le rendeva sempre più difficile alzarsi la mattina. Ma non poteva fermarsi, non poteva riposare. Doveva sconfiggere quel mostro.

 

   Una mattina – Ladya non sapeva di che giorno – la sveglia suonò a lungo prima che lei riuscisse a fermarla con un ordine. Aveva la voce impastata e un mal di testa martellante. Pensò che forse aveva raggiunto il limite e doveva prendersi un giorno di riposo, per non crollare. Alzarsi fu faticosissimo: le sembrava che la gravità fosse raddoppiata. Quando fu in piedi, barcollò e dovette reggersi a una mensola per non cadere. La testa le girava e tutte le articolazioni pulsavano di un dolore sordo. Che strano... non aveva mai sofferto di dolori articolari. Le sue condizioni cominciavano a spaventarla: aveva davvero bisogno di riposo. E magari di un bagno e un pasto decente. Barcollante, la dottoressa andò a lavarsi la faccia. Prima di uscire non dovette nemmeno vestirsi, perché si era addormentata con tutti gli abiti addosso.

   Quando fu in bagno, per prima cosa la Vidiiana si lavò le mani. Fu allora che vide. Sulle sue mani c’erano chiazze scure di pelle morta, che si staccava quando il getto d’acqua le colpiva, lasciando piaghe ulcerate. La dottoressa chiuse immediatamente il rubinetto e si fissò le mani tremanti, che gocciolavano acqua mista a sangue. Con estrema lentezza si tirò su una manica e poi l’altra. Come temeva, le chiazze scure si prolungavano lungo le braccia. Probabilmente le aveva in tutto il corpo. Per averne conferma, le bastava alzare gli occhi allo specchio. Ma quel semplice gesto sembrava superiore alle sue forze. Se non guardava, poteva illudersi che il suo volto fosse a posto. Ma se si vedeva riflessa, allora non poteva tornare indietro; il male sarebbe divenuto reale.

   Dopo una lunghissima pausa, in cui radunò ogni briciolo di volontà, Ladya alzò lo sguardo. E vide ciò che temeva, l’incubo di ogni Vidiiano. Il suo viso era butterato di macchie scure, da cui la pelle morta si sfarinava. Gli occhi erano cerchiati e come infossati, le guance incavate, il che dava al suo viso l’aria di un teschio. Era il marchio della Phagia, al primo stadio.

   Ladya pensava che anni di professione medica l’avessero fortificata, ma si sbagliava. Quando vide il suo riflesso, strillò per l’orrore e arretrò, coprendosi il volto con le braccia. Alcune lacrime le solcarono le guance; una le sfiorò le labbra. Ladya la sorbì, senza sentirne il sapore. Aveva perso il senso del gusto, ma siccome mangiava sempre delle insipide razioni proteiche non se n’era accorta, facendosi così sfuggire il primo sintomo.

   Superato l’impatto, la Vidiiana cercò di ragionare. Era chiaramente vittima della Phagia, ma di quale ceppo? Non certo di quello tradizionale. Anche se ne aveva spesso esaminato il genoma al computer, non ne aveva mai maneggiato dei campioni. Doveva essere la versione modificata di cui soffrivano i Vaadwaur. Sia sull’astronave che lì nella colonia sotterranea l’aria era riciclata e i filtri atmosferici non bastavano a depurarla completamente. E poi erano giorni che si aggirava tra i malati, li toccava per visitarli. Certo, aveva sempre indossato le protezioni minime, cioè guanti e mascherina; ma evidentemente non erano bastate. Non si era curata di proteggersi meglio, perché non pensava di correre davvero dei rischi: quella versione della Phagia era studiata per colpire solo i Vaadwaur. Allora perché si era ammalata?

   Ladya tornò di corsa nel laboratorio. Adesso sapeva perché le giunture le facevano così male: era un altro sintomo della Phagia. Si prelevò un campione di sangue e lo analizzò, trovandovi il virus. Subito ne fece l’analisi genetica: il filamento di RNA si srotolò sullo schermo davanti a lei. La dottoressa lo confrontò con quello standard, evidenziando le differenze. Come immaginava, il virus – sempre mutevole – era cambiato un’altra volta, riadattandosi alla fisiologia Vidiiana. Non per questo aveva cessato di attaccare i Vaadwaur: adesso era letale per entrambe le specie. Ladya fece altre analisi, per stabilire quando era stata contagiata e quanto le restava. Capì ben presto che il virus l’aveva infettata già nei primi giorni, forse quand’era sul Ravager. E progrediva rapidamente. Da lì a tre settimane i suoi organi vitali avrebbero ceduto. Senza un trapianto sarebbe morta. E non credeva che i Vaadwaur, già sommersi dai loro contagiati, avessero organi da trapiantarle. Quindi sì, era spacciata.

   «Buongiorno» disse Phanin, entrando in quel momento nel laboratorio. La virologa era scesa con lei dal Ravager e le era rimasta accanto in quei giorni frenetici. «Ho i risultati degli esperimenti con le pinze molecolari. C’è una flessione del 15% nel tasso di...». S’interruppe, notando il volto di Ladya. «Che le succede?» mormorò scioccata.

   «Per dirla con parole sue, succede che piove» rispose la Vidiiana con amaro sarcasmo. «Siccome non ho l’ombrello, accetterò la cosa e andrò avanti con dignità. Finché ho respiro».

   «Ma com’è possibile? Il virus non colpisce più la sua specie!».

   «Si è adattato di nuovo. Adesso ci uccide tutti quanti» spiegò Ladya, indicando lo schermo su cui scorrevano ancora i dati.

   La Vaadwaur corse alla postazione e lesse i risultati delle analisi. «Certo... dovevo immaginarlo» mormorò. Dopo una breve riflessione alzò gli occhi sulla Vidiiana. «Dovrò fare rapporto al generale Suddayath» avvertì. Il suo sguardo diceva già «appestata».

   «Gli dica che sopravvivrò ancora per una ventina di giorni» raccomandò Ladya. «Fino ad allora continuerò a cercare una cura».

   «Una cura per chi?» domandò Phanin, scrutandola da sotto gli occhialini. «Per noi o per lei?».

   «Non ho tempo di cercarla per me» chiarì la Vidiiana. «Quindi proseguiremo le ricerche in corso. Quelle ultime prove con le pinze molecolari sono promettenti, voglio battere quella strada. Avverta gli specialisti che voglio incontrarli al più presto e prepari un’altra serie di esperimenti, su un campione più vasto. Diciamo almeno cento individui».

   «Come vuole» disse la Vaadwaur. «Posso fare altro per aiutarla?» aggiunse dopo una breve esitazione.

   «Ho freddo. Mi porti dei vestiti più pesanti, così almeno non mi tremeranno le mani» disse Ladya.

   «Vedrò cosa riesco a trovare» mormorò Phanin, e si ritirò.

   Rimasta sola, Ladya emise un sospiro, che si trasformò in un attacco di tosse. Si portò la mano alla bocca; quando la ritirò era spruzzata di sangue. La Phagia progrediva in fretta. Rassegnata, la dottoressa sedette di nuovo alla postazione ed esaminò i risultati degli ultimi esperimenti. Fino ad allora si era augurata di trovare la cura prima che lo scudo di Vidiia cedesse. Ora si augurava di trovarla prima che il suo corpo cedesse. Dopo di che, poteva solo sperare che Suddayath mantenesse la parola, risparmiando il suo mondo. Lei non sarebbe vissuta abbastanza da fare altro.

   In tutto questo, la cosa che più l’addolorava era che non avrebbe rivisto Norrin. Che beffa: cinque anni sulla stessa nave, due da quando lui si era dichiarato, e lei non lo aveva mai corrisposto, illudendosi che “prima o poi” avrebbe trovato di meglio. E adesso era tardi. Le sue occasioni erano tutte sfumate e le restava ben poco da vivere. Il suo corpo sarebbe stato gettato nell’inceneritore con tutti gli altri, per eliminare ogni traccia del virus. Non poteva nemmeno dire addio ai suoi cari, anche se forse le sue ultime azioni avrebbero parlato per lei. Con questo in mente, la Vidiiana si concentrò sul suo compito, ignorando la debolezza e il dolore del suo corpo in disfacimento.

 

   
 
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