Serie TV > Star Trek
Segui la storia  |       
Autore: Parmandil    08/05/2020    1 recensioni
Abolita la Prima Direttiva per ragioni umanitarie, l’Unione Galattica è sprofondata nel caos. Le civiltà precurvatura abusano delle tecnologie loro donate e un terzo dei sistemi federali è pronto alla secessione, concretando il rischio di una guerra civile.
Dopo un violento attacco alieno, la Keter si reca nel Quadrante Delta, ripercorrendo la rotta della Voyager in cerca di riposte. Qui troverà vecchie conoscenze, come i Krenim e i Vidiiani, che si apprestano a colpire un nemico comune, incautamente risvegliato dalla Voyager secoli prima. I nostri eroi dovranno scegliere con chi schierarsi, in una battaglia che deciderà le sorti del Quadrante. Ma la sfida più ardua tocca a Ladya Mol, già tentata di lasciare la Flotta per riunirsi al suo popolo. Dopo una tragica rivelazione, la dottoressa dovrà lottare contro un morbo spaventoso; la sua dedizione potrebbe richiederle l’estremo sacrificio.
Nel frattempo i Voth, un’antica specie di sauri tecnologicamente evoluti, sono giunti sulla Terra per stabilire una volta per tutte se questo sia il loro mondo d’origine. Sperando d’ingraziarseli, le autorità federali li accolgono in amicizia, senza riflettere sulle conseguenze del ritorno dei “primi, veri terrestri” sul pianeta Terra.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Borg, Dottore, Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
-Capitolo 7: Il valore della vita
 
   Un altro giorno di miseria e sofferenze era cominciato a Kinara, la capitale Vaadwaur, da mesi in preda all’epidemia. Il sole si levava nella foschia, trasparendo come una sfera pallida, che diffondeva un barlume fioco e sfumato. Non erano nubi di vapore acqueo a velarlo, ma solo la sabbia trasportata dal vento. Nessuna pioggia avrebbe ristorato la scarsa vegetazione rinsecchita e i pochi rettili che strisciavano fuori dalle buche del terreno. Al contrario, con il passare delle ore la temperatura salì costantemente, finché l’insediamento Vaadwaur fu avvolto da una cappa torrida e asfissiante. Le baracche in lamiera divennero così roventi che nessuno poteva toccarle: per aprire le porte bisognava indossare i guanti. Visti da lontano, gli oggetti tremolavano per la rifrazione delle onde luminose indotta dal calore. Qua e là svettavano le uniche piante adatte a quel clima. Somigliavano alle agavi terrestri: avevano lunghe e spesse foglie grigiastre, spinose sui lati, che uscivano a ciuffi direttamente dal terreno. Alcune erano così grandi che ci si poteva riparare alla loro ombra.
   Con l’aggravarsi dell’epidemia, i Vaadwaur avevano costruito un vasto recinto che abbracciava gran parte dell’ospedale da campo. Conteneva le baracche dei malati, alcuni depositi, la mensa e i bagni. Molti infetti però non trovavano posto nei tuguri, o non ne sopportavano il calore, per cui preferivano star fuori. Qua e là c’erano ampi teloni sorretti da pali, che facevano ombra. Bisognava però ammainarli quando il vento si alzava troppo, per evitare che si strappassero o volassero via.
   Dei malati, molti erano troppo deboli per camminare e quindi stavano distesi al suolo, su giacigli di fortuna, chiedendo acqua o antidolorifici ai medici di passaggio. Altri erano stati colpiti nel sistema nervoso: vagavano qua e là, ripetendo parole sconnesse. Tra i pazienti che riuscivano a camminare, alcuni avevano scatti d’ira o disperazione. Non pochi cercavano di fuggire, per tornare alla città sotterranea dove c’erano acqua e refrigerio. La recinzione serviva a trattenerli, per evitare che spargessero il contagio. Alcuni afferravano il reticolato metallico con le dita scarne e guardavano fuori, aspettando aiuti dalla città. Altri scrutavano il cielo giallastro, come se la salvezza dovesse giungere da lì. Ma le poche navicelle che atterravano erano incursori bisognosi di riparazione. L’unico ingresso del recinto era chiuso da un cancello e bordato da torrette con spalti. Soldati armati lo presidiavano costantemente, per impedire le fughe.
   A un tratto qualcosa scintillò nella foschia, accompagnato da un suono fischiante. Una navicella si preparava ad atterrare. Questa però non era Vaadwaur, ma Norcadiana. Era il trasporto settimanale che riforniva la colonia. Vedendolo calare nell’aria tremolante, molti malati si augurarono che portasse qualcosa di utile anche per loro.
 
   Nell’osservare quel paesaggio desolante, Norrin fu pervaso da un misto d’orrore e di pietà. Non augurava a nessuno, neanche ai peggiori nemici, di andare incontro a quella sorte. Tuttavia era lì per salvare Ladya e non sarebbe tornato indietro senza di lei. Diresse la navicella verso il campo d’atterraggio, secondo le istruzioni della torre di controllo. Fin lì il piano era andato bene. Dopo l’avventura su Norcadia lui e Radek avevano ottenuto la navicella dei contrabbandieri, con il suo carico. Nel computer di bordo avevano trovato le coordinate della capitale Vaadwaur. A quel punto erano tornati alla Keter, rivelando l’informazione all’Alleanza. Dopo aver imbarcato alcuni volontari della Sicurezza, affinché li aiutassero, si erano travestiti da contrabbandieri ed erano partiti alla volta di Kinara. Norrin si aspettava una grande colonia, con capacità industriali, tanto che sulle prime pensò d’essere stato ingannato. Poi capì che l’insediamento vero e proprio era sotterraneo.
   «Rilevo 70.000 segni vitali nel sottosuolo» disse, con un occhio ai sensori e uno alla pista di atterraggio. «I diecimila qui in superficie sono i malati».
   «Un colpo di fortuna» commentò Radek. «Forse riusciamo a beccare Ladya in superficie. Altrimenti dovremo calarci sottoterra e non sarà una passeggiata».
   «È l’ora della verità» disse Norrin, osservando le batterie della contraerea e gli incursori che scintillavano al suolo. «Se Erlik ci ha venduti, i Vaadwaur ci ammazzano adesso. Se dovesse accadere, ti chiedo scusa in anticipo».
   «Gentile da parte tua» disse Radek, che in effetti stava sudando freddo. La promessa fatta in un momento d’ebbrezza rischiava di costargli cara. Ma non ci furono attacchi; la navicella si posò indisturbata sulla pista di permacemento.
   «Siamo ancora vivi» constatò l’Hirogeno. «Lo prendo come un buon segno».
   «Questa era la parte facile; il bello viene ora» disse il Rigeliano, alzandosi.
   I due lasciarono la cabina, recandosi nella sezione posteriore della navicella, dove il resto della squadra li attendeva. I volontari della Sicurezza, seduti a terra o sui contenitori di merci, scattarono in piedi. Per chi non li conoscesse era difficile immaginare che sotto quegli stracci da contrabbandieri si celavano dei professionisti della Flotta Stellare. «Bene, ragazzi» disse Radek «ora dovete scaricare le merci più lentamente che potete, per darci il tempo di trovare la dottoressa. Se vedete che tardiamo, inventatevi delle scuse. Pretendete un compenso maggiore del pattuito. Rovesciate parte del carico e rifiutatevi di raccoglierlo. Chiedete di andare a sballarvi nella città sotterranea, se necessario. Insomma, dateci del tempo!».
   «Sì, signore» rispose il caposquadra.
   «Ma non fate arrabbiare troppo i Vaadwaur» aggiunse Norrin. «Se ci sequestrano la nave, siamo finiti». Ciò detto, l’Hirogeno aprì il portello posteriore. Luce abbagliante, caldo torrido e una brezza polverosa entrarono man mano che il portello si sollevava. Contro l’intensa luce dell’esterno si stagliavano le sagome dei soldati Vaadwaur.
   «Siete in ritardo» esordì seccamente un sergente.
   «Scusate, sono gli incerti del mestiere» disse Radek, avventurandosi all’esterno. Norrin e un paio d’altri lo seguirono.
   «Non siete i soliti corrieri» notò il Vaadwaur. «Che è successo agli altri?».
   «Il capo ha dubitato della loro lealtà» rispose il Comandante. «Non so di preciso che gli ha fatto, ma non mi va di scoprirlo».
   «Beh, sbrigatevi a scaricare» ordinò il sergente. «Spero per voi che sia tutto a posto. L’ultima volta ci avete rifilato una cassa di filtri atmosferici non adeguatamente imballati. Avevano sbatacchiato così tanto durante il trasporto che alcuni si erano rotti. Il Generale Suddayath non tollererà altri incidenti del genere».
   «Che vuoi che ti dica, amico? Noi siamo solo i corrieri» ribatté Radek, facendo spallucce. «Trasportiamo le casse, le scarichiamo dove volete... ma quel che c’è dentro non dipende da noi».
   «Sì, ma tu dillo al tuo capo di non fare scherzi!» insisté il Vaadwaur, puntandogli il disgregatore nadionico al petto. «Altrimenti faremo affari con qualcun altro. Non è il nostro unico fornitore, chiaro?».
   «Cristallino» annuì il Comandante.
   «Adesso controlleremo il vostro carico» disse il sergente, mentre i soldati iniziavano a scoperchiare le casse. «Se c’è qualcosa di mancante o di rotto, ve ne pentirete».
   I federali si tirarono indietro, mentre i Vaadwaur facevano la loro ispezione. Furono minuti di estrema tensione. Il minimo difetto del carico li avrebbe rovinati. Fortunatamente i soldati non trovarono nulla di cui lamentarsi.
   «Bene, cominciate a capire che con noi non si scherza» disse il sergente, richiudendo l’ultima cassa. «Ora datevi una mossa. Tutta questa roba va portata al montacarichi».
   Radek e Norrin si scambiarono un’occhiata d’intesa. Caricarono alcune casse sul carrello elevatore di cui era munita la navicella e salirono nella cabina di guida, che aveva i vetri opacizzati. Attivato il motore levitante, scesero sulla pista di atterraggio.
   «Là» disse Norrin, riconoscendo il montacarichi, localizzato sotto una tettoia. Lo raggiunsero assieme a uno dei loro agenti, che li seguì portando a braccio una cassa. A quel punto il Comandante e l’Ufficiale Tattico lasciarono i comandi dell’elevatore. Scesero cauti, usando il veicolo come schermo tra loro e i Vaadwaur. L’agente li sostituì prontamente alla guida. Intanto altri colleghi stavano sopraggiungendo, portando delle casse a braccio. La speranza era che i Vaadwaur non si accorgessero che i piloti del carrello erano stati sostituiti, anche grazie ai vetri opacizzati che non permettevano di vedere l’interno.
   Nascondendosi per quanto possibile fra le baracche, l’Hirogeno e il Rigeliano si allontanarono dalla pista. Fortunatamente il timore del contagio faceva sì che solo il personale essenziale fosse in superficie. Era possibile aggirarsi tra i prefabbricati senza quasi incontrare anima viva. I pochi passanti erano frettolosi e si tenevano a debita distanza, il che, sommato alla diffusa foschia, li rendeva poco più che sagome scure. Confidando in questo, i federali si diressero là dove era più probabile trovare la dottoressa: al recinto dei malati.
 
   Era ormai mezzogiorno, l’ora peggiore per i poveretti che boccheggiavano dentro e fuori le baracche. Per il momento Norrin e Radek non cercarono di entrare nel recinto, vedendo com’era sorvegliato l’ingresso. Si accontentarono di costeggiarlo, esaminando l’interno con i tricorder, in cerca di segni vitali vidiiani. Al tempo stesso spiarono attraverso il reticolato metallico. Per quanto fossero veterani, avvezzi ai peggiori spettacoli, fu la scena più dolorosa e sconvolgente che si fosse mai offerta ai loro occhi.
   Con il progredire della Phagia, molti malati erano così sfigurati da risultare irriconoscibili. Le chiazze e le ulcere si erano estese, finché quasi tutta la loro pelle era diventata una distesa di tessuto morto, che si staccava a brani. Alcuni, ancora lucidi, soffrivano in modo atroce nei loro giacigli. Non osavano nemmeno chiedere uno specchio, temendo di vedere com’erano ridotti; ma lo immaginavano guardandosi l’un l’altro. Altri vagavano istupiditi, chiamando i parenti che avevano perduto o persino ferendosi da soli. C’era chi chiedeva acqua, chi si litigava il poco cibo e chi implorava una pillola – o anche un disgregatore – per farla finita. Il morbo non risparmiava nessuna età, anche se nei bambini progrediva più lentamente. Davanti a quelle scene, Norrin distolse lo sguardo; gli sembrava di violare la dignità dei malati con la sua sola presenza.
   «Forse ci siamo» disse a un tratto Radek. «Rilevo segni vitali vidiiani, cento metri avanti a noi, ma sono deboli».
   Con il cuore che batteva forte, Norrin indossò un Visore multifunzione. Attivata la modalità binocolo, provò varie lunghezze d’onda, per filtrare polvere e sabbia. Finalmente la vide: una figura intabarrata, che passava tra i malati e ogni tanto si chinava su di loro per visitarli. Sebbene fosse avvolta in un’ampia veste scura con cappuccio, l’Hirogeno riconobbe dai pantaloni l’uniforme della Flotta Stellare. «È lei» mormorò con un groppo in gola. «Ora la chiamo».
   L’Ufficiale Tattico cavò di tasca un altro gioiellino tecnologico: un minuscolo drone volante, poco più grande di un comunicatore. Lo istruì sul bersaglio e lo osservò trepidante mentre quello si librava in volo sopra la recinzione. Passato all’interno del recinto, il drone si abbassò e volò silenziosamente verso la figura infagottata. Questa, che si era appena rialzata dopo aver visitato un paziente, lo vide e lo afferrò al volo. Si allontanò di qualche passo e se lo portò alla bocca, tenendolo nascosto fra le mani.
   «C’è qualcuno in ascolto?» chiese una voce tremante, che Norrin ricevette dal proprio comunicatore. La voce di Ladya!
   «Sono Norrin, amore. Sono qui con Radek, per salvarti» disse l’Hirogeno.
   «Norrin!» la voce di Ladya era rotta dal pianto. «Non saresti dovuto venire. Mi dispiace tanto, per tutto...».
   «Non c’è tempo di parlare. Vieni verso di noi, presto» la esortò l’Ufficiale Tattico. «Procedi in avanti e un po’ a destra. Così, gira di trenta gradi. Brava... ora tira dritto. Non fermarti».
   Con queste semplici istruzioni, la dottoressa si diresse verso il punto della recinzione in cui i soccorritori l’aspettavano. Presto li scorse nella foschia e accelerò il passo. Norrin la vide un po’ vacillante, ma lì per lì non ci fece caso. Si tolse il Visore, preparandosi a liberarla.
   Finalmente la dottoressa raggiunse la recinzione. Nel fermarsi, quasi cadde in avanti. Dovette aggrapparsi al reticolato metallico per restare in piedi. Poiché indossava un cappuccio, il suo volto rimase in ombra; solo gli occhi baluginavano nell’oscurità. «Ah, Norrin... che ci fai qui?!» singhiozzò.
   «E me lo chiedi? Ti porto via all’istante» rispose l’Ufficiale Tattico, impugnando un taglierino laser per aprire un varco nella recinzione. «Non temere, andrà tutto... bene...». La sua voce morì. Aveva notato che Ladya non indossava i guanti: le sue mani, ancora avvinghiate al reticolato, erano scure ed escoriate. Il volto restava in ombra, sotto al cappuccio, ma Norrin avvertì un respiro raschiante, innaturale. L’Hirogeno scosse la testa, incapace di parlare; ma il suo sguardo la implorava di smentire ciò che, invece, era evidente.
   «Mi dispiace, Norrin» disse Ladya, in tono agrodolce. «Quello che temi si è verificato. Penso che bastino le mie mani a confermarlo, quindi ti risparmierò lo sfacelo del volto. Preferisco che tu mi ricordi com’ero».
   Norrin si passò la lingua sulle labbra, mentre rifletteva precipitosamente. «Non è troppo tardi» disse. «Quando saremo sulla Keter, ti metteremo in una capsula cronostatica. I dottori troveranno una cura. Chiederemo ai Vidiiani... loro ce l’avranno per forza! Al limite torneremo nell’Unione per farci aiutare. Ma guarirai, te lo prometto».
   «Non fare promesse che non sei certo di mantenere» lo ammonì Ladya. «Dubito che i miei simili abbiano la cura. Hanno modificato la Phagia perché colpisse solo i Vaadwaur; ma il virus è mutato per contagiarci di nuovo. Questo non l’avevano previsto. Ma anche se loro o il dottor Joe trovassero la cura, non potranno somministrarmela. Perché io non posso seguirti» disse tristemente.
   «Come no?! Sta’ a vedere!». Norrin cominciò a ritagliare un varco nel reticolato, ma Radek lo bloccò.
   «Aspetta» disse il Rigeliano. «Dobbiamo capire, prima di far baccano».
   «Capire? Che c’è da capire?!» protestò l’Hirogeno, fuori di sé. Si rivolse di nuovo a Ladya: «I Vaadwaur ti hanno rapita e noi siamo qui per salvarti. Se sei malata, cercheremo la cura. Che altro c’è?!».
   «Ci sono loro» disse la dottoressa, indicando i malati che giacevano a terra e quelli che vagavano senza meta. «Sono i miei pazienti. Penso che tu abbia visto le loro condizioni. Non posso abbandonarli... sono sotto la mia responsabilità».
   «La tua...!». Norrin ammutolì. Gli sembrava d’essere entrato in un orribile labirinto, dove ogni via di fuga era sbarrata da questo o quell’ostacolo. «Ascolta, tu non sei una Vaadwaur. Hanno i loro medici; è compito loro. Tu sei qui perché ti hanno sequestrata! Non hai alcun obbligo nei loro riguardi!» affermò.
   «Ho un obbligo nei confronti di ogni malato, amico o nemico che sia» rispose Ladya, con tristezza ma anche con profonda determinazione. «Guardali... ci sono bambini che hanno perso i genitori e che morranno a loro volta, se non li aiuto».
   Norrin camminò avanti e indietro, come un leone in gabbia, sebbene fosse lui quello fuori dal recinto. «Se ti lascio qui e le tue condizioni si aggravano, potresti morire prima di trovarla! Non è meglio se continui le ricerche sulla Keter, dopo esserti rimessa?» suggerì.
   «Per allora i Vaadwaur potrebbero essere tutti morti» spiegò Ladya. «Sai, ci sono quasi... sono vicinissima a trovare la cura. È questione di pochi giorni. Non posso mollare ora...» disse con voce fioca.
   «E t’immolerai per salvare le vite dei nostri nemici?!» ringhiò l’Hirogeno. Aveva sempre creduto di avere interiorizzato i valori della Flotta Stellare. Ma in quel momento avrebbe voluto fare a pezzi i Vaadwaur e raccoglierne le ossa in una rete, alla maniera dei Cacciatori.
   «Per salvare vite» rispose dolcemente Ladya. «Amiche o nemiche... belle o brutte... giuste e operose oppure sprecate. Chi siamo noi per decidere? Non spetta a me assolverli o condannarli per le loro azioni; posso solo cercare di dargli un’altra possibilità. Questa è la mia strada. La tua qual è?».
   Norrin rimase immobile, come fulminato. Infine parlò lentamente e con sforzo. «I Vaadwaur hanno trasformato i tunnel spaziali in un’arma contro Vidiia. Fra pochi giorni lo Scudo Planetario cederà e il tuo popolo brucerà vivo» disse.
   «Lo so» annuì Ladya. «I Vaadwaur mi hanno promesso di cessare l’attacco, se li curerò».
   «E se mentissero?».
   «Allora... allora sarà la fine» disse la Vidiiana, assalita dalla debolezza. «Ma un genocidio non ne giustifica un altro. Se le cose volgeranno al peggio, spero solo di non vivere tanto da vederle».
   «Il tempo passa» disse Radek, che si guardava nervosamente attorno. «Dobbiamo andare, con o senza di lei».
   «Va’, ti prego!» disse Ladya, sempre rivolta a Norrin. «Mettiti in salvo. E non fare follie, finché sei qui. Tanto non ti seguirei».
   «Se vado, incontrerò di nuovo i Vaadwaur sul campo di battaglia» avvertì Norrin. «La Rete Subspaziale si tingerà di sangue; l’attacco è imminente».
   «Se dovete attaccare, ebbene, fatelo!» si rassegnò Ladya. «Almeno chiuderete i tunnel e salverete Vidiia. Però state attenti: i Vaadwaur sanno che volete distruggere la Rete e cercheranno d’intrappolarvi».
   Radek e Norrin si scambiarono un’occhiata inquieta. Pur nella loro disgrazia, i Vaadwaur erano assai più informati del previsto, e quindi più pericolosi. Dopo averci ragionato un attimo, il Comandante si rivolse a Ladya. «Se trovi la cura, potresti aspettare qualche giorno a somministrargliela» suggerì. «Così combatteranno al di sotto delle loro possibilità e saranno sconfitti».
   «Aspettare?!» s’indignò la dottoressa. «Mostro senza cuore! Non aspetterò un minuto a salvare i miei pazienti! Non li lascerò morire per sfoltire le fila dei vostri nemici!». Nemmeno la malattia poteva domare le sue forze, quando si toccava questo tasto.
   Messo di fronte alla gravità del suo suggerimento, Radek indietreggiò e tacque. Un po’ si vergognava, ma neanche troppo. Ora vedeva i Vaadwaur malati, ma ben presto avrebbe visto le loro astronavi che gli sparavano contro.
   «Ah, Ladya!» esclamò Norrin. Cercò di afferrarle le mani, attraverso la rete metallica, ma lei si ritrasse e gli sfuggì. L’Hirogeno strinse il reticolato con tale forza da piegarlo. «Non andartene... io ti amo» la pregò.
   A queste parole la Vidiiana pianse calde lacrime. «Ti amo anch’io, Norrin. Ti amo tanto. Ti amo da anni, credo. Ma ero troppo cieca per ammetterlo con me stessa, prima ancora che con te. Vorrei avertelo detto prima, così avremmo avuto il nostro tempo» singhiozzò. «Perdonami se sono stata così fissata con Vidiia. E perdonami se ho perso tempo con quel verme di Dallorath. Per tutta la vita ho cercato lontano, quando ciò che volevo era già accanto a me! Eri tu, Norrin. Ma ora è troppo tardi. Addio, salutami gli amici della Keter. Ricordatemi bene, se potete. Ricordami, amore mio!».
   Con queste parole la dottoressa si girò e si allontanò dal recinto, tornando verso i malati che l’attendevano dentro e fuori le baracche, in numero così elevato che non li avrebbe mai visitati tutti. Camminava a fatica, lottando contro il vento sempre più sostenuto, e piangeva copiosamente.
   «No, Ladya! NO!» gridò Norrin, agitandosi come un ossesso. Piegò il reticolato con le mani, ma non tanto da aprirvi un varco. Allora rimise mano al taglierino, ma Radek lo trattenne, sia pure a fatica.
   «Fermo, Norrin. Fermo!» gli disse il Comandante all’orecchio. «Ti ha spiegato perché non può seguirci. È una sua scelta... una scelta dettata dalla pietà. L’ameresti, se non fosse così piena di compassione per chi soffre?».
   «Io... forse no, ma... non posso perderla!» gemette Norrin, cercando di scrollarselo di dosso.
   «Ci sono cose che oltrepassano il nostro controllo» insisté Radek. «Se tieni davvero a lei, allora rispetterai la sua volontà. Vieni, amico! Ladya ha la sua battaglia qui e noi abbiamo la nostra tra le stelle. Dobbiamo andarcene, come lei ci ha chiesto! Avanti!». Con grande fatica, il Rigeliano riuscì a trascinare indietro l’Hirogeno.
   «Ladya...!» gemette Norrin, levando un braccio verso di lei. La vide scomparire nella foschia sempre più densa. Si stava alzando un vento impetuoso, che strappava i teli sistemati per offrire ombra ai malati. Il cielo era sempre più scuro: grandi nubi sabbiose coprivano il sole, gettando ogni cosa nel grigiore.
   «Arriva una tempesta di sabbia» comprese Radek. «Dobbiamo tornare subito alla nave. Vieni, ti dico! E trattieniti finché saremo dentro. Se poi vorrai sfogarti, beh... avrai la battaglia».
   «La battaglia! Non so che farmene» sbottò Norrin. Un po’ trascinato, un po’ sospinto dal Comandante, lo seguì tra i caseggiati, finché tornarono presso la pista d’atterraggio. Il cielo si era fatto ancora più scuro. La sabbia, trascinata dal vento, sferzava le poche persone ancora in giro e rendeva difficile la vista per chiunque non avesse visori protettivi. I federali arrancarono verso la loro navetta. Alcune figure, appena riconoscibili nella tempesta di sabbia, li attendevano davanti al portello aperto.
   «Ah, eccovi!» disse il sergente dei Vaadwaur. «Dove vi eravate cacciati? I vostri compagni ci hanno fatto perdere un sacco di tempo con la loro incapacità. Uno direbbe che non è difficile spostare delle casse! E poi c’è questa storia dell’aumento. Ditelo chiaro al vostro capo: non pagheremo un credito in più del dovuto. Altro che inflazione!».
   I federali compresero che i loro agenti si erano dovuti inventare una scusa per tirarla in lungo coi Vaadwaur. Chiedere un prezzo maggiorato per la merce gli aveva fatto guadagnare tempo, ma aveva anche indispettito i soldati.
   «Abbiamo capito, sergente. Le assicuro che non faremo più storie. Non vogliamo problemi, davvero» disse Radek. Così dicendo sospinse Norrin all’interno della navetta, per evitare che avesse reazioni inconsulte alla vista dei Vaadwaur. L’Hirogeno fissò i soldati con sguardo omicida, che però si perse nella tempesta di sabbia, e salì a bordo. Dentro c’era il resto della squadra ad attenderlo. Tutti allungarono il collo, per vedere se la dottoressa lo seguiva. Quando si accorsero che lui e Radek erano soli, chinarono il capo avviliti. Avrebbero voluto sapere cos’era successo, ma vedendo l’espressione di Norrin nessuno osò interrogarlo. Lasciarono che passasse fra loro, con passo lento e sconfitto, finché sparì in cabina.
   «Bene, è stato un piacere» disse il Comandante, con un piede già nella stiva.
   «Non per noi» rispose il Vaadwaur, arcigno. «Adesso sparite».
   Radek entrò nella navetta, mentre il portello posteriore si abbassava. «Ci si rivede!» salutò.
   I Vaadwaur si allontanarono, fendendo il vento carico di sabbia, con una mano alzata a proteggersi gli occhi.
   «Ci rivedremo prima di quanto pensate» si disse Radek, mentre il portello si sigillava.
 
   La Keter stazionava appena fuori dal raggio dei sensori Vaadwaur, pronta a intervenire se la squadra avesse inviato richiesta di soccorso. Ma non ce ne fu bisogno. La navicella dei contrabbandieri si avvicinò all’astronave, trasmettendo il segnale di riconoscimento.
   «Aprire un canale» ordinò Hod, trepidante. Aveva la massima fiducia nei suoi; sapeva che non avrebbero lasciato nulla d’intentato per salvare la dottoressa.
   Radek e Norrin apparvero sullo schermo. Ladya non c’era. E a giudicare dalle loro facce, non era nemmeno nella sezione posteriore. Per il Capitano fu un bruttissimo colpo. Aveva quasi dato per scontato che l’avrebbero tratta in salvo. Dopo tante missioni completate con successo, ormai se l’aspettava. Quella vista fu un bagno di realtà. Le ricordò che anche i suoi ufficiali migliori e più motivati potevano fallire.
   «Chiediamo il permesso di salire a bordo» disse cupamente Radek, senza salutare e senza nemmeno accennare all’esito della missione. Era la conferma che le cose erano andate male.
   «Permesso accordato» disse Hod. Tutta la tensione accumulata in quei giorni si stava sciogliendo, ma nell’amarezza. Fino ad allora aveva pensato che “in qualche modo” avrebbero salvato Ladya. Ora però doveva accettare il fatto che l’avevano persa. Pensando quant’era entusiasta la dottoressa di vedere il suo mondo, e quanto aveva insistito per rimanervi, il Capitano maledisse la crudele ironia dell’Universo.
 
   Tornato sulla Keter, Norrin si ritirò nel suo alloggio senza parlare con nessuno. Radek invece andò in sala tattica, dove fece rapporto al Capitano e agli ufficiali. «Forse avremmo potuto trascinarla via, ma sarebbe stato contro la sua volontà» concluse. «Non me la sono sentita, dopo averla ascoltata. E voi non meravigliatevi della sua scelta. Se aveste visto in che condizioni sono i Vaadwaur... no, non voglio ripensarci. Spero solo che la dottoressa trovi una cura, perché altrimenti sarà un’ecatombe».
   Un cupo silenzio piombò in sala tattica. «Avete fatto il possibile» disse infine il Capitano. «A questo punto dobbiamo accettare la realtà. Abbiamo perso la nostra collega, la nostra amica. Dottor Joe, le affido la direzione dell’infermeria fino al termine di questa missione».
   Il Medico Olografico annuì tristemente, ma non disse nulla. La dottoressa Mol si aggiungeva alla lunga lista di colleghi e amici che aveva perso nel corso degli anni. Era una situazione vissuta tante volte, ma non per questo meno dolorosa. Si disse che, una volta tornato nell’Unione, avrebbe definitivamente lasciato la Flotta Stellare.
   «Piangeremo Ladya, ma non è questo il momento» disse il Capitano, osservando i suoi ufficiali uno dopo l’altro. «Ci resta ancora un dovere da compiere: eliminare la Rete Subspaziale. Così salveremo Vidiia Primo, il pianeta amato da Ladya, e impediremo ai Vaadwaur di assalirne altri. Consideratelo un omaggio alla nostra amica».
   «Teniamo a mente che i Vaadwaur conoscono le nostre intenzioni» ricordò Radek.
   «Ormai è tardi per stravolgere i piani» sospirò Hod. «Se non possiamo coglierli di sorpresa, dovremo vincere la loro resistenza».
   Il Rigeliano avvertì, dal tono del Capitano, quanto ciò le ripugnasse; ma non c’era alternativa. «Avete parlato con l’Alleanza, mentre ero via? Quanto manca all’attacco?» volle sapere.
   «Dieci giorni» rivelò Hod. «Fra cinque ci riuniremo per discutere i dettagli. Sarà la più grande battaglia a cui abbiamo mai partecipato» avvertì. «Deciderà gli equilibri politici del Quadrante Delta. Qualunque diavoleria abbiano in serbo i Vaadwaur, non dobbiamo fallire».
 
   Di buon mattino, come al solito, la dottoressa Phanin entrò nel laboratorio di Ladya portandole la colazione. La trovò china sul computer, su cui scorreva la simulazione di un intervento sul DNA. Contenitori di campioni, strumenti diagnostici e altre cianfrusaglie erano sparpagliate sul pavimento.
   «Dottoressa, è già al lavoro?» chiese la Vaadwaur, avvicinandosi. Doveva stare attenta a dove metteva i piedi, tanto era disordinata la stanza.
   La Vidiiana si volse lentamente verso di lei. Aveva sempre il viso in ombra, sotto al cappuccio, ma tutta la sua posa tradiva la spossatezza. «Non ho dormito» biascicò.
   «Cioè, è al lavoro da ieri mattina?!» si preoccupò Phanin. «Così non va. Se si strapazza, la malattia progredisce più in fretta. Quante volte glielo devo dire?».
   «Non potevo riposare... non ora» rivelò Ladya con voce fioca. «Ci sono arrivata, sai? Le pinze molecolari erano la chiave. Ho trovato la cura».
   La Vaadwaur lasciò cadere il vassoio della colazione e si precipitò al suo fianco. «Mi faccia vedere!» esclamò bramosa.
   Ladya riavviò la simulazione computerizzata, spiegando le varie fasi del processo. Rispose alle domande della collega sugli ostacoli che avevano affrontato durante la ricerca, chiarendo come li aveva risolti. A fine dimostrazione, Phanin era sbalordita. «Geniale... non ci saremmo arrivati senza di lei» riconobbe.
   «Questa è tutta teoria fatta al computer» ribatté la Vidiiana. «Resta da vedere se funzionerà all’atto pratico. In circostanze normali passerei giorni a fare altre simulazioni, variando i parametri. Poi comincerei con la sperimentazione animale. Infine, tra qualche mese, oserei somministrarlo ai pazienti. Ma siccome non c’è tempo, dovremo passare subito alla fase sperimentale».
   Si allungò su una mensola, prendendo un ipospray. «Ho già sintetizzato un campione di naniti. Non resta che trovare un volontario. Pensavo a uno del Gruppo 5...».
   A queste parole la Vaadwaur le strappò di mano l’ipospray. Così facendo mostrò le chiazze nere sulle proprie mani e braccia. Anche lei si era ammalata, pochi giorni dopo la Vidiiana. Si portò la siringa al collo e se la svuotò senza esitazione. Un brivido la percorse da capo a piedi. La virologa lasciò cadere l’ipospray e si accasciò sulla mensola, mentre i naniti si diffondevano nel flusso sanguigno, evidenziando le vene.
   «Non avresti dovuto farlo» commentò Ladya, anche se la mossa non l’aveva molto sorpresa. «Non conosciamo gli effetti collaterali».
   «Peggio che uccidermi, non potrà fare» ribatté Phanin. Poco alla volta riprese fiato, finché riuscì a rialzarsi. Si guardò le mani. L’effetto dei naniti era rapidissimo: le chiazze nere si stavano già scolorendo. «Sento come un bruciore, dappertutto» disse. «Però il dolore delle piaghe diminuisce».
   «Chiamo il resto della squadra» disse Ladya. «Ti terremo sotto controllo per una giornata. Se il virus sarà eliminato e il processo di guarigione procederà alla velocità che mi aspetto, potremo informare il Generale che la Phagia è sconfitta».
 
   Fu la giornata più lunga e tesa che i medici ricordassero, dacché era iniziata l’epidemia. La dottoressa Phanin fu tenuta sotto costante osservazione e sottoposta a una miriade di analisi, da parte dei vari specialisti. Nel frattempo Ladya, stremata dalla notte insonne, si concesse qualche ora di riposo. Al risveglio tornò subito al laboratorio, per verificare la situazione.
   La Vaadwaur era in piedi e allegra. Le chiazze erano completamente scomparse dalla sua pelle: sembrava che non fosse mai stata malata.
   «Incredibile. Semplicemente incredibile» disse uno dei dottori. Mostrò alla Vidiiana i test che avevano fatto nelle ultime ore. «Non c’è la minima traccia di virus, nemmeno nel midollo. Il sistema linfatico e quello ghiandolare sono come nuovi. Muscoli, tessuto connettivo, organi... è tutto risanato».
   «Possiamo somministrare la cura agli altri!» gioì Phanin. «Stiamo già replicando i naniti».
   «Uhm, sì» disse Ladya, senza allegria. «Ricordate che la dottoressa Phanin era ancora al primo stadio dell’infezione. I pazienti al secondo stadio dovrebbero rimettersi come lei, ma quelli al terzo e al quarto avranno delle menomazioni permanenti. E quelli al quinto stadio... beh... per loro è tardi. Anche rimuovendo il virus, subiranno un collasso sistemico».
   I medici chinarono il capo, sconsolati; ma si riebbero in fretta. «Fino a ieri rischiavamo l’estinzione» disse Phanin. «Ora invece il nostro futuro è assicurato. Tutto per merito suo, dottoressa».
   «Cominciamo, allora» sospirò Ladya. «E fatemi la cortesia d’informare il Generale Suddayath. Mi ha fatto una promessa ed è tempo che la rispetti».
 
   Il giorno dopo Ladya fu convocata sul Ravager, la nave ammiraglia di Suddayath, che era tornata alla capitale per procurarsi la cura. I malati più gravi furono sbarcati, mentre altro personale – vaccinato o guarito grazie ai naniti – ne prendeva il posto. C’era un gran viavai per i corridoi. I Vaadwaur erano militareschi come sempre, ma nel complesso si respirava un’aria migliore di quella che Ladya aveva trovato la prima volta che era stata a bordo.
   Scortata da due guardie, la dottoressa fu condotta nella sala d’osservazione. Il Generale era lì; stava leggendo i rapporti che scorrevano sullo schermo. C’erano grafici e diagrammi che mostravano gli effetti della cura sulla popolazione. «Ah, dottoressa Mol!» l’accolse il Vaadwaur, visibilmente soddisfatto. «Vede che ho fatto bene a reclutarla? Prima del suo arrivo eravamo sull’orlo dell’abisso. Ma ora... i risultati sono eccezionali. I malati stanno riprendendo servizio, a poche ore dalla somministrazione della cura!».
   «Sarebbe meglio che restassero in osservazione più a lungo. Almeno per qualche giorno» disse Ladya, misurata.
   «Purtroppo non c’è tempo» spiegò Suddayath. «L’Alleanza sta radunando le forze. È questione di giorni prima che ci attacchi. Dobbiamo avere gli equipaggi al completo, se vogliamo respingerla».
   «Non c’è spazio per le trattative?» chiese Ladya, pur prevedendo la risposta.
   «Trattare con l’Alleanza? Sarebbe fiato sprecato» la bollò il Generale. «Prima c’imporrebbero condizioni capestro e poi, dopo averci indeboliti, attaccherebbero ugualmente. In questo momento pensano che siamo ancora in balia del virus; scopriranno a caro prezzo il loro errore» aggiunse, digrignando i denti.
   «Se non posso convincerla a fermare quest’assurda guerra, le ricordo almeno il nostro patto» disse Ladya, fissandolo duramente. «Aveva giurato di fermare l’attacco a Vidiia». La dottoressa restò col fiato sospeso. Quella speranza l’aveva sorretta nei giorni di lavoro disperato e nelle notti insonni. Le aveva dato la forza di sopportare l’angoscia e il dolore, di sopravvivere fino a quel momento.
   «Sì, dottoressa Mol... io l’ho giurato» convenne Suddayath, fissandola con l’occhio da serpente. «E lei ci ha creduto. Il che dimostra che non è sveglia come pensa».
   Ladya si sentì mancare. Assalita dalla debolezza, vacillò e dovette sorreggersi a una parete. La sala sembrava vorticarle attorno. «Generale... lei aveva dato la sua parola d’onore! Aveva maledetto se stesso e il suo popolo, in caso di tradimento!» gemette.
   «Parole... sono solo parole» ridacchiò Suddayath, avvicinandosi. «Chi dovrebbe punirci? Qualche divinità vendicatrice? Noi Vaadwaur ci siamo lasciati alle spalle queste ridicole superstizioni. Pertanto facciamo tutto il necessario per garantirci la sopravvivenza e la supremazia sugli avversari».
   Così dicendo il Vaadwaur si chinò su Ladya e le pose una mano sulla spalla, come per consolarla. «Lei d’altro canto è stata sincera e caritatevole. Ci ha salvati da morte certa, anche se eravamo suoi nemici. E così facendo ha condannato a morte il suo popolo. In parole povere, dottoressa... noi siamo sani di mente, mentre lei è pazza».
   «Miserabile!» gridò Ladya, rialzando di scatto la schiena. Gli sputò nell’occhio, in segno di disprezzo. Il Generale indietreggiò, sfregandosi l’occhio offeso, mentre i soldati afferravano rudemente la dottoressa e la trascinavano indietro.
   «Beh, cerca di contagiarmi?!» chiese Suddayath, sprezzante. «Fatica inutile. Mi sono già vaccinato coi suoi portentosi naniti. La Phagia non può farmi niente. Ma divorerà lei fino alle ossa, questo è certo!».
   «Pazzo criminale... ora che la Phagia è sconfitta, non ha più motivo di accanirsi sul mio popolo!» gridò Ladya, sempre trattenuta dalle guardie.
   «Come no?! Ho ancora tutti i motivi!» ringhiò il Vaadwaur. «I Vidiiani hanno cercato di sterminarci. Nessuno può fare una cosa del genere e sopravvivere. Dopo di loro toccherà agli altri membri dell’Alleanza. Bruceremo i loro pianeti fino al midollo, come monito per chiunque osi sfidarci! La Supremazia Vaadwaur tornerà temuta e rispettata come un tempo! Nessuno oserà più muoverci guerra!» tuonò. La sua figura giganteggiò contro la finestra a forma di occhio, come se ne fosse la pupilla verticale.
   «Si sbaglia... tutti lo faranno, per sottrarvi l’arma-tunnel prima che la usiate ancora» obiettò la Vidiiana. «Io ho strappato il vostro popolo alla morte... gli ho dato una nuova vita. E lei che ne fa? La spreca! Manda in guerra i giovani che io ho salvato! Lei è un verme... e morirà come tale, rintanato nei suoi wormhole».
   «Oh, adesso è diventata anche una veggente!» rise Suddayath. «Lei mi diverte sempre più. Bene, vedremo chi di noi ha ragione. La terrò qui, in questa sala d’osservazione. Così assisterà alla distruzione dell’Alleanza. Poi, se la Phagia non l’avrà ancora divorata, potrà ammirare il suo pianeta che brucia a fuoco lento. Così maledirà se stessa, sapendo che aiutandoci lo ha reso possibile!».
   A un cenno del Generale, i soldati buttarono in avanti Ladya, che indebolita com’era cadde a terra. Suddayath sfoderò il disgregatore nadionico, ma invece di colpire la dottoressa sparò allo schermo e all’interfaccia, mettendoli fuori uso. Non voleva che la prigioniera accedesse alle informazioni sulla nave e magari attivasse dei comandi. Bastava la finestra panoramica per mostrarle ciò che accadeva. Dopo di che il Generale lasciò la sala, privo di dubbi e di rimorsi. I soldati lo seguirono senza voltarsi, con passo militare cadenzato.
   «Che tu sia dannato! E dannati quelli che ti seguono!» gridò Ladya, ancora in ginocchio. La porta si chiuse con un sibilo, lasciandola sola. La dottoressa si rimise faticosamente in piedi e la raggiunse, trovandola sigillata. Vi batté i pugni, gridando come un’ossessa. Infine sentì le forze abbandonarla e si lasciò scivolare a terra, dove singhiozzò a lungo.
   Poco alla volta il pianto cessò e le lacrime si asciugarono, lasciandola sfinita. La dottoressa alzò gli occhi stanchi alla finestra. Per adesso il Ravager era ancora in orbita attorno a Kinara, ma presto sarebbe tornato nella Rete con tutta la flotta, per affrontare l’Alleanza. Allora, forse, Ladya avrebbe rivisto la Keter. Ma i suoi colleghi non sapevano che lei era a bordo. Nel migliore dei casi avrebbero distrutto il Ravager con lei dentro. La dottoressa se lo augurò, perché non voleva assistere alla distruzione di Vidiia, né arrivare all’ultimo stadio della Phagia.
 
   La sala tattica del Ravager era costruita nel tipico stile Vaadwaur: pareti color bronzo, soffitto basso con incastonati pannelli luminosi gialli. Sulla parete di fondo era disegnato il simbolo della Supremazia: un ovale dorato che conteneva un vortice rossastro. Anche il tavolo delle riunioni aveva forma ovale e recava impresso lo stesso emblema. Gli invitati sedettero ognuno al suo posto, scambiandosi brevi cenni di saluto. Erano soprattutto militari, anche se c’erano alcuni funzionari civili di Kinara, facenti capo alla governatrice Keld. Completavano il quadro un paio di medici, tra cui la dottoressa Phanin, chiamati come consulenti. I leader civili erano lì solo in ossequio alle formalità, ma non avevano alcun potere decisionale. La Supremazia Vaadwaur era infatti governata dalla giunta militare, presieduta da un primus inter pares che ormai da diversi anni era Suddayath.
   Il Generale entrò per ultimo. Al suo apparire tutti i presenti si alzarono in segno di rispetto. «Comodi» disse il Vaadwaur, accomodandosi al suo seggio. «Siamo qui per fare il punto della situazione e stabilire la prossima strategia. Come sapete, la cura della Phagia sta dando risultati eccellenti. Vuole illustrarceli, dottoressa Phanin?».
   «Sì, eccellenza» disse la virologa, attivando alcuni ologrammi che mostravano grafici e cifre. «I pazienti al primo stadio sono già stati dimessi. Quelli al secondo e terzo stadio lo saranno tra poche ore. Solo quelli al quarto avranno bisogno di qualche giorno. E quelli al quinto, beh... pochi se la caveranno. Tra i dimessi, comunque, non riscontriamo effetti collaterali. Stiamo già svuotando l’ospedale da campo. Abbiamo trasmesso la cura alle altre colonie e al resto della flotta; anche lì i risultati sono ottimi». La virologa proseguì per alcuni minuti, fornendo i dettagli.
   «Grazie, dottoressa» disse Suddayath al termine dell’esposizione. «Come vedete, l’emergenza è finita appena in tempo. Possiamo schierare la flotta per difendere la nostra Rete».
   Tra i presenti serpeggiò la tensione. Era evidente che molti di loro avevano delle riserve, ma nessuno si azzardava a prendere la parola. Sapevano che Suddayath mal sopportava il dissenso.
   «Se qualcuno vuole intervenire, è libero di farlo» disse il Generale, ben consapevole del disagio che aleggiava tra i suoi.
   I Vaadwaur si scambiarono rapide occhiate, invitandosi reciprocamente a parlare. Infine fu la governatrice Keld ad alzarsi. «Generale, molti di noi sono preoccupati dal suo piano» esordì. «L’epidemia ha mietuto molte vittime anche fra le truppe. Dovrete schierare in battaglia le riserve per equipaggiare le astronavi».
   «Si capisce» annuì Suddayath.
   «Molti sono ragazzi senza esperienza. Questo diminuirà l’efficienza della flotta» proseguì la governatrice, andando per gradi.
   «Dobbiamo lavorare con quello che abbiamo. Inutile dolerci per ciò che manca» commentò Suddayath.
   «Generale, dobbiamo chiederci se la difesa a oltranza della Rete sia una strategia praticabile» disse Keld, manifestando finalmente il suo timore. Per alcuni secondi cadde il silenzio.
   «Prego, continui» la invitò Suddayath in tono calmo. «Che alternativa propone?».
   «Credo... credo che a questo punto dovremmo abbandonare i tunnel spaziali» disse la governatrice, pallida in viso. «Guardiamo in faccia la realtà: sono indifendibili. Pensiamo piuttosto a proteggere ciò che resta della popolazione!».
   «Questo vorrebbe dire dividere la flotta. Sparpagliarla in mezza Galassia» puntualizzò il Generale. «E quando l’Alleanza s’impossesserà della nostra Rete senza colpo ferire, ogni colonia resterà isolata, con poche navi a difenderla. Sarà la fine della Supremazia... ci frantumeremo in tanti staterelli che non potranno nemmeno comunicare. Ma l’Alleanza, disponendo dei tunnel, potrà stanarci con comodo. Distruggerà una colonia dopo l’altra, approfittando del fatto che ognuna sarà scarsamente difesa. È questa la sua strategia, governatrice?» chiese in tono beffardo. In realtà sapeva che l’Alleanza puntava a distruggere la Rete, ma dipingere questa prospettiva fosca gli era necessario per imporre la sua linea d’azione.
   Il discorso sortì l’effetto voluto: un moto di paura si diffuse per la tavola. Nessuno voleva trovarsi isolato, in inferiorità numerica e accerchiato dai nemici. Keld comprese che il Generale avrebbe prevalso, tuttavia non volle darsi immediatamente per vinta. «Se raduniamo tutte le forze in una sola flotta e veniamo sconfitti, le colonie resteranno completamente indifese» insisté. «Allora sì che sarà la fine».
   «Ha scarsa considerazione delle mie truppe» notò Suddayath. «Forse il suo pessimismo nasce dalla recente sconfitta inflittaci dai federali. Si è trattato di un incidente di percorso, dovuto all’inesperienza del Capitano Relin» disse, fulminando il colpevole con un’occhiata.
   Relin fissò il tavolo, immobile come una statua. Dopo lo scontro con la Keter, la sua astronave richiedeva una completa ristrutturazione, che le avrebbe impedito di partecipare alla difesa della Rete. Per un Capitano era un gravissimo disonore. Per il momento non era stato degradato, ma non poteva passarla liscia. Si aspettava che il Generale prendesse qualche provvedimento punitivo nei suoi confronti, come affidargli una missione particolarmente pericolosa.
   «Non lasciatevi spaventare da questo contrattempo» proseguì Suddayath, rivolto a tutti i presenti. «Abbiamo ingenti forze, che guiderò di persona. Ve lo giuro: non lascerò che il nostro subspazio cada di nuovo in mano al nemico. Del resto, sareste pronti a scontare il prezzo della ritirata? Volete passare altri novecento anni a nascondervi in una grotta? Cosa direte ai vostri figli, che siete fuggiti per paura? Che non avete neanche provato a difendere la Supremazia?!».
   Di fronte a quest’arringa, pronunciata con passione, Keld capì di essere sconfitta e si risedette. Non le restava che rinsaldare le difese di terra, come ultima risorsa se la battaglia fosse finita male.
   «Quali sono gli ordini, Generale?» chiese Relin.
   «Raduniamo le forze in tre flotte. Portiamole nella Rete, a presidiare i tre snodi chiave. All’arrivo dei nemici, sfrutteremo la nostra padronanza dei tunnel per intrappolarli e annientarli» spiegò Suddayath, truce in volto. «Quelli dell’Alleanza sono già impauriti dal nostro cannone stellare. Quando non vedranno tornare la loro flotta, saranno così terrorizzati che non oseranno più muoverci guerra. Sarà la nostra ora di trionfo. Vuol farne parte, Relin?».
   «Certo, signore» disse il Capitano, deciso a lavare l’onta della sconfitta. «Mi dia l’incarico più difficile, il più pericoloso, e io lo porterò a termine».
   «E sia!» concesse il Generale. «Finora la nostra forza è stata nel conquistare le nuove tecnologie. Continueremo su questa strada. C’è una nave dell’Alleanza di cui dobbiamo impadronirci».
   «La Keter?» chiese Relin, intravedendo la possibilità di vendicarsi.
   «No, di quella mi occuperò personalmente col Ravager» spiegò Suddayath. «Parlo dell’Annorax, l’ammiraglia dei Krenim. Il suo disgregatore subatomico è un’arma che ci farebbe comodo. E pare che nelle sue banche dati ci siano informazioni senza prezzo sulla scienza temporale. Formule matematiche per prevedere il futuro... forse persino il segreto del viaggio nel tempo. Pertanto lei guiderà la Seconda Flotta contro quella nave. Non datele tregua; quando gli scudi cederanno, abbordatela. Impadronitevi di quella nave e portatela qui, così potremo studiarla».
   «L’Annorax è la nave dell’Ammiraglio Hortis» notò Relin, un po’ intimorito da quel nome leggendario. «Che devo fare di lui?».
   «Lo prenda vivo, se possibile. Potrebbe servirci per comprendere la tecnologia temporale» ordinò Suddayath. «Ma se il vecchio pazzo farà qualche strana mossa, che metta a rischio l’operazione, lo uccida».
 
   In quello stesso momento, un’analoga riunione si teneva sulla Keter. La sala tattica era gremita, perché oltre al Capitano Hod e agli ufficiali c’erano i rappresentanti dell’Alleanza: l’Ammiraglio Hortis per i Krenim, l’Inquisitore Marroc per i Devore e il Supervisore Ghak per la Gerarchia, tutti con i loro assistenti. Grandi assenti erano i Vidiiani, ancora minacciati dall’arma-tunnel.
   «Dichiaro aperta la riunione» disse Hortis, che sedeva a capotavola. «Sono grato a ciascuno di voi per essere qui e al Capitano Hod per averci offerto la sua nave come luogo d’incontro. Considerata la grande distanza che ci separa, sarebbe stato difficile radunarci in altro modo».
   «Un momento!» intervenne Marroc. «Chiedo che i telepati lascino questa sala. L’Impero Devore non li tollera entro i suoi confini e non è disposto a pianificare una battaglia in loro presenza». I suoi occhi senza sopracciglia scrutarono con diffidenza gli ufficiali della Keter, fermandosi su Vrel.
   «Inquisitore, in questa sala siamo tutti dalla stessa parte» disse Hortis con pazienza. «Non deve temere fughe di notizie».
   «Irrilevante, è una questione di legge» si giustificò il Devore. «Il codice imperiale è molto chiaro al riguardo: nessun rappresentante dello Stato può discutere questioni di sicurezza nazionale in presenza di telepati. Sarei un pessimo Inquisitore se trasgredissi, non vi pare?».
   «E va bene» si arrese il Capitano Hod, non volendo che la riunione si arenasse prima ancora di cominciare. «Tenente Shil, ci aspetti fuori».
   «Ma io sono il timoniere, dovrò pur sapere cosa fare!» protestò Vrel, non avvezzo alle discriminazioni.
   «La informeremo a fine riunione. La prego, esca» insisté Hod, in tono gentile ma deciso.
   Il timoniere scostò rumorosamente la sedia dal tavolo e si alzò, guardando storto l’Inquisitore. «Per sua informazione, solo mia madre è telepatica. Io non riesco neanche a eseguire una Fusione Mentale come si deve» gli disse, passandogli accanto. Tornò in plancia, dove restò a girarsi i pollici fino al termine della riunione.
   «I soliti paranoici» commentò il Supervisore Ghak, guardando Marroc con divertita superiorità.
   «Siamo solo prudenti. Ogni ufficiale Devore è responsabile delle proprie missioni... non come voi, che non sapete soffiarvi il naso senza chiedere il permesso alla Gerarchia!» ribatté l’Inquisitore.
   «Le ricordo che senza di noi l’Alleanza non avrebbe la minima idea di com’è fatta la Rete Subspaziale» rivendicò Ghak. «Noi abbiamo reso possibile l’attacco. Voi invece come avete contribuito, finora? Uhm... col niente».
   «Insolente nanerottolo!» si adirò Marroc, scattando in piedi. «La tua razza sa solo spiare, ma non è capace di combattere. Quando temete che un nemico sia più forte di voi, scappate! Siete il ventre molle dell’Alleanza. Se falliremo, sarà per colpa vostra!».
   «Basta così!» esclamò il Capitano Hod. «Finché sarete sulla mia nave, vi tratterete con rispetto. Siamo qui per prendere decisioni tattiche, non per bisticciare come bambini. Se noi litighiamo, i Vaadwaur vincono!».
   «Ben detto» approvò Hortis. «Orbene, i federali ci hanno informati che i Vaadwaur conoscono le nostre intenzioni. E dalle intercettazioni sappiamo che hanno trovato la cura per la Phagia. Ciò significa che opporranno una strenua resistenza».
   «Vorrei sapere in che modo hanno trovato la cura» disse Ghak, scrutando i federali con sospetto. «Mi è giunta voce che i Vaadwaur hanno sequestrato il vostro Medico Capo, la dottoressa Mol. Non sarà stata lei a curarli? Perché è assurdo che da un lato vogliate aiutarci e dall’altro una di voi collabori col nemico!».
   «Non sappiamo se sia stata la dottoressa Mol» rispose il Capitano. «Può darsi, visto che è un medico brillante. La nostra etica c’impone di fare tutto il possibile per curare le epidemie, anche se colpiscono un nemico. Ciò non toglie che siamo qui con voi, per eliminare la minaccia dell’arma-tunnel».
   «Che mentalità contorta» borbottò il Supervisore.
   «Io credo che sia molto giusta» disse Hortis quietamente. «Signori, non siamo qui per stabilire chi ha fatto meno, o chi ha sbagliato, bensì per finalizzare il piano d’attacco. Questo è ciò che io e il Capitano Hod abbiamo elaborato, basandoci sulla mappa della Rete Subspaziale e su una stima delle forze nemiche».
   L’Ammiraglio azionò i comandi del tavolo tattico, proiettando l’ologramma tridimensionale della Rete, secondo i dati più aggiornati delle sonde-spia. I wormhole formavano una vasta ragnatela che copriva gran parte della Galassia, addensandosi nel Quadrante Delta. Hortis ne ingrandì una piccola sezione. Ora si poteva vedere, più nel dettaglio, il complesso intreccio dei tunnel spaziali. Qua e là c’erano giunzioni di tre o quattro condotti. Vi era poi un grande slargo, in cui ne confluivano addirittura una ventina. Vista così, la Rete sembrava un formicaio fitto di camere e gallerie.
   «Questa bolla subspaziale è lo Snodo 1, vicino al pianeta natale dei Vaadwaur, nonché all’odierna capitale Kinara» spiegò Hortis. «Probabilmente sarà il più presidiato dei tre snodi. Chiediamo a voi Devore di occuparvene, dato che le vostre astronavi resistono bene alle armi nemiche» disse a Marroc.
   «Possiamo schierare 90 navi da guerra» dichiarò l’Inquisitore, lieto di poter vantare la potenza del suo Impero. «Quanta resistenza dobbiamo aspettarci?».
   «Riteniamo che l’intera forza militare nemica si componga di cinquanta navi strappate ad altre specie – soprattutto Turei – e altrettanti vascelli propriamente Vaadwaur» rispose l’Ammiraglio. «Dunque un centinaio in tutto. Poi ci sono i piccoli incursori, che saranno almeno duecento. Nel vostro snodo potete aspettarvi di trovare una quarantina di navi da guerra e il doppio degli incursori».
   «Una forza notevole» ammise Marroc, sgonfiandosi.
   «Come, è preoccupato? Ma non eravate grandi soldati?» lo provocò Ghak.
   «Supervisore, la prego» lo zittì Hortis. «Dunque, Inquisitore, pensa che la sua flotta possa occuparsi di questo obiettivo?».
   Il Devore si prese qualche secondo per riflettere. «Sì» disse infine. «È tempo di finirla coi Vaadwaur. Tutte le nostre navi possono lanciare l’impulso gravitonico che occorre a far collassare lo snodo. Quindi anche se subissimo gravi perdite porteremo a termine l’incarico».
   «Eccellente. Sapevo di poter contare su di voi» disse Hortis, sollevato. Trafficò con i comandi del tavolo, mostrando un’altra sezione della Rete Subspaziale, molto più lontana dal nucleo galattico. «Questo è lo Snodo 2. Si trova vicino al nostro spazio, quindi saremo noi Krenim a occuparcene. Anche noi possiamo schierare 90 astronavi» disse, per mettere in chiaro che non erano da meno dei Devore. «Guiderò la flotta di persona, con l’Annorax» promise.
   «Quindi a noi tocca lo Snodo 3» concluse Ghak.
   «Quello purtroppo si trova lontano, oltre lo spazio Borg» spiegò l’Ammiraglio, facendo scorrere l’ologramma fino a inquadrarlo. «È nella periferia galattica, vicino a Vidiia Primo. Per questo ho cercato fino all’ultimo di portare i Vidiiani dalla nostra. Speravo che potessero occuparsene. Ma i Vidiiani hanno i loro guai, perciò devo affidare a voi questo delicato compito. Data la distanza dello Snodo, dovrete attraversare gran parte della Rete per raggiungerlo».
   «Non c’è problema; siamo quelli che la conoscono meglio» garantì il Supervisore.
   «Che forza potete schierare?» chiese Marroc.
   «Cinquanta navi da guerra ultimo modello» rispose Ghak con orgoglio.
   «Cinquanta!» si scandalizzò l’Inquisitore. «Potrebbero non bastare. Sono molte meno delle nostre. E poi, diciamo la verità: le vostre carrette non reggono il confronto coi nostri incrociatori».
   «Come si permette! La nostra è una flotta d’assalto di prima categoria!» insorse il Supervisore, scattando in piedi. Data la sua modesta altezza, si notò appena la differenza.
   «Calmi, vi prego» intervenne Hortis, prima che la lite degenerasse. «Ammetto che lo Snodo 3 costituisce un problema, ma ci sono un paio di fattori a nostro favore. In primo luogo, il fatto che probabilmente i Vaadwaur concentreranno la maggior parte delle forze nei due snodi più vicini alla loro capitale. E poi c’è il nostro asso nella manica, la Keter» aggiunse con una certa teatralità. Indietreggiò di qualche passo, lasciando che fosse il Capitano Hod a parlare.
   «Ci recheremo di nuovo oltre lo spazio Borg, presso il terzo snodo, e lo raggiungeremo da lì» spiegò l’Elaysiana. «Distrarremo i Vaadwaur finché la Gerarchia verrà a darci manforte».
   «Avete coraggio» riconobbe l’Inquisitore. «Spero che la Gerarchia vi raggiunga in tempo».
   «Arriveremo prima noi al terzo snodo che voi al primo» sostenne Ghak, guardandolo bieco.
   «Un po’ di sana competizione non guasterà all’Alleanza» disse Hortis, passando lo sguardo dall’uno all’altro. «Servirà una perfetta coordinazione per attaccare simultaneamente da zone così lontane della Galassia. Come s’è detto nelle precedenti riunioni, non entreremo dalle imboccature dei tunnel spaziali, che saranno presidiate. Useremo invece le sonde che sono già all’interno per indebolire i condotti e renderli permeabili, così da entrare in profondità nella Rete. Una volta dentro, ogni flotta dovrà raggiungere prontamente lo snodo assegnato, senza dividersi in più condotti, ma senza nemmeno farsi imbottigliare in un passaggio troppo stretto. Ricordate che il nostro scopo non è demolire l’armata Vaadwaur, ma solo far collassare i tre Snodi. E sarà proprio allora, a collasso iniziato, che correremo i rischi maggiori».
   L’Ammiraglio visualizzò nuovamente l’intera Rete Subspaziale e avviò la simulazione. Uno dopo l’altro i tre snodi, evidenziati da punti rossi, collassarono. L’intricato reticolo si dissolse con un rapidissimo effetto a cascata. «Chi resta indietro sarà spazzato via dall’esistenza» avvertì Hortis. «Questo naturalmente vale anche per i Vaadwaur».
   «State attenti a non uscire dal tunnel sbagliato» aggiunse il Capitano Hod. «Vi trovereste a migliaia di anni luce da casa, senza la possibilità di un rapido ritorno e nemmeno di comunicare con la vostra gente».
   «A questo potreste ovviare dandoci il vostro portentoso propulsore» disse Ghak, fissandola con occhietti cupidi.
   «Anche se vi spiegassimo come costruirlo, sarebbe inutile» disse Hod. «Il propulsore cronografico  richiede un pilota dotato di enormi facoltà cerebrali. In tutta l’Unione ci sono pochissime specie con questo requisito, infatti anche sulla nostra nave i piloti abilitati si contano sulle dita di una mano. La sua specie, come anche i Krenim e i Devore, non ha sufficiente capacità cerebrale. Non se la prenda... non ce l’ho neppure io» aggiunse con franchezza.
   «Beh, potreste darci almeno la cavitazione quantica!» insisté il Supervisore. «Così, se finissimo dispersi, torneremo in pochi mesi, anziché in decenni. Condividere le tecnologie non è forse ciò che fate nell’Unione? Dovreste farlo anche ora che partecipate all’Alleanza!» argomentò.
   «Mi creda, ho considerato seriamente questa possibilità» disse il Capitano. «Ma ci vorrebbero anni per adattare le vostre navi. Nel frattempo i Vaadwaur si saranno ripresi dall’epidemia, avranno potenziato la flotta e ridisegnato la Rete per renderla più difendibile. No, il momento di attaccare è questo. Se non lo facciamo subito, non ne avremo più l’occasione».
   «Concordo» disse Hortis. «Il rischio è grande, ma lo avevamo accettato anche prima che la Keter si unisse a noi. Allora, Supervisore... è sempre dei nostri?» chiese, temendo che negargli la cavitazione lo avesse mal disposto.
   «Uhm... devo consultare la Gerarchia» disse il tozzo alieno. Senza nemmeno girarsi verso il suo assistente, alzò il palmo, come aspettandosi qualcosa da lui. Subito l’assistente cavò uno strumento oblungo da una sacca che si era portato dietro e glielo consegnò con deferenza. Era un dispositivo metallico, lungo mezzo metro, largo una quindicina di centimetri e altrettanto spesso. Per tutta la sua lunghezza correva una griglia luminosa biancastra. Il Supervisore scrisse qualcosa su un minuscolo d-pad che poi agganciò a un lato del congegno. «Ho inoltrato la domanda» spiegò. «Risponderanno a momenti... credo».
   «È come dicevo. Dovete sempre avere l’imbeccata dalla vostra fantomatica Gerarchia» lo derise Marroc. «Mi dica, ha mai preso personalmente una decisione in vita sua?».
   «Inquisitore, la prego» lo richiamò ancora una volta Hortis. «Se dobbiamo aspettare, ne approfitterò per entrare in dettaglio sugli schemi d’attacco».
   L’Ammiraglio aveva da poco iniziato l’esposizione quando il misterioso congegno della Gerarchia, che Ghak aveva sempre tenuto in grembo, si attivò. Si udì un trillo elettronico prolungato e la griglia luminosa mostrò una successione di cifre, azzurre e arancioni, che scorrevano dall’alto verso il basso. Nessuno, salvo quelli della Gerarchia, aveva la minima idea di cosa significasse.
   «Ebbene?» chiese Hortis, con lieve apprensione.
   «La Gerarchia approva» disse Ghak con solennità. «Combatteremo al vostro fianco». Restituì il congegno al suo assistente, che lo ripose con cura esagerata nella sacca protettiva.
   «Abbiamo la benedizione!» ironizzò Marroc. «Ora nulla può andarci storto».
 
   La riunione si protrasse per ore, perché c’erano moltissimi aspetti da analizzare e decisioni tattiche da concordare. Fortunatamente l’Inquisitore e il Supervisore smisero di bisticciare, ora che entrambi avevano dato il pieno assenso all’attacco. Quando Hortis dichiarò concluso l’incontro, il piano era ultimato. Ora si trattava di riportare i rappresentanti dell’Alleanza alle loro flotte. Grazie al propulsore cronografico, la Keter se ne occupò in poche ore.
   L’ultima tappa fu presso i Krenim. Raggiunta la loro flotta, tra cui spiccava l’Annorax, il Capitano Hod pensò di accomiatarsi dall’Ammiraglio. Andò al suo alloggio, dove Hortis si era ritirato dalla fine della riunione. Al suo avvicinarsi la porta si aprì, ma dentro le luci erano basse. Il Capitano indugiò sulla soglia. «Ammiraglio, posso entrare?» chiese, temendo che il vecchio Krenim si fosse addormentato.
   «Prego, venga avanti» l’accolse Hortis, ben lungi dal dormire. Era seduto in poltrona e stava ascoltando una melodia incalzante, diffusa dal computer.
   «Abbiamo raggiunto la sua flotta. Siamo pronti a trasferirla sull’Annorax» spiegò Hod.
   «Sì, mi faccia solo ascoltare la fine del concerto» pregò l’Ammiraglio.
   Davanti all’insolita, ma garbata richiesta, il Capitano non volle insistere. Così si accomodò su un’altra sedia. Per un po’ restarono in silenzio, ascoltando la sinfonia.
   «Lo riconosce?» chiese a un tratto il Krenim.
   «Non mi pare. Temo di non essere esperta di musica» si scusò l’Elaysiana.
   «È un antico componimento terrestre: L’Uccello di Fuoco, di Stravinskij» spiegò Hortis, con gli occhi chiusi per meglio godersi la melodia. «S’ispira a una fiaba ancora più antica. Un principe deve entrare nel castello di un mago malvagio, per liberare le tredici principesse che questi ha rapito, tra cui la sua promessa. La sua unica arma è una penna dell’Uccello di Fuoco, che può evocare la mitica creatura, per ardere le forze del male».
   «Ammiraglio, sta cercando di dirmi qualcosa?» chiese Hod, un po’ interdetta.
   Il Krenim riaprì gli occhi e la fissò intensamente. «Presto andremo in battaglia» disse con gravità. «Ne ho combattute molte nella mia carriera, e in qualche modo me la sono sempre cavata. Stavolta, però, affrontiamo il nemico sul suo terreno. Molte cose possono andare storte. E anche in caso di vittoria, rischiamo di farci travolgere dall’energia da noi stessi scatenata. Credo che sarà la mia ultima battaglia» rivelò.
   «Teme che il piano non funzionerà?» domandò l’Elaysiana a bassa voce.
   «Io spero che funzioni. Confido che funzionerà» disse Hortis, rincuorandosi. «Ma sarà una vittoria costosa. Se dovesse accadermi qualcosa, vorrei che lei avesse questo» disse, porgendole un’unità di memoria. «Contiene un messaggio pubblico per l’Unione e altri, più personali, per l’Ammiraglio Chase e la sua famiglia. Il signor Dib mi ha fatto la cortesia di copiarli su uno dei vostri hardware. Glieli farà avere?».
   «Certo» disse Hod, commossa. Prese l’unità e se la mise in tasca. «Però cerchi di non essere così pessimista. Tutti e due abbiamo affrontato situazioni che parevano senza uscita e ce la siamo sempre cavata. Non può andare così anche stavolta?».
   «Il solito ottimismo della Flotta Stellare... mi mancava» sorrise l’Ammiraglio. «Tutto può essere. In ogni caso, non mi resta molto da vivere. I medici mi hanno diagnosticato una malattia terminale. Il cervello è sano, per fortuna, ma il corpo cederà in meno di un anno. In questi giorni mi sono consultato col suo dottor Joe: nemmeno lui può aiutarmi» rivelò.
   «Ammiraglio, mi... mi dispiace» mormorò il Capitano. Un po’ lo sospettava, data la sua fretta nell’attaccare la Rete e i suoi discorsi sui posteri; ma sentirselo confermare la scosse ugualmente.
   «Le dispiace? Forse non mi conosce abbastanza» disse Hortis con un sorriso amaro. «Ho dei grossi pesi sulla coscienza. Ho fatto cose, in guerra... cose che non mi fanno onore, né come Ammiraglio, né come uomo. Non dubito che molti festeggeranno, quando finalmente uscirò di scena. Posso solo sperare che, con quest’ultima missione, farò anche del bene. Vorrei che fosse questa la mia eredità» sospirò. Le rughe sul suo viso erano profondissime. In quel momento non sembrava il famigerato stratega del Fronte Temporale, ma solo un uomo molto vecchio e stanco.
   «Non voglio giudicarla per ciò che ha fatto in passato» disse il Capitano, posando la mano sulla sua. «Posso solo dirle che, tra tutti gli incontri che ho fatto in questo Quadrante, lei è stato il più provvidenziale. Finché avrò vita, non la dimenticherò».
   Il Krenim sorrise, grato. Restarono in silenzio fino al termine della sinfonia e anche dopo, quando lasciarono l’alloggio. Parlarono solo in sala teletrasporto, per congedarsi. Quando Hortis salì sulla pedana, cercò Hod con lo sguardo. Le rivolse un ultimo cenno d’addio, cui il Capitano rispose allo stesso modo. E svanì nel bagliore azzurro del raggio.
 
   Ai margini del Quadrante Delta, l’arma-tunnel era sempre attiva. Il plasma stellare a milioni di gradi sgorgava inesauribile dal wormhole e lambiva lo Scudo Planetario, indebolendolo sempre più. Nelle centrali a terra, tecnici e scienziati cercavano di spremere ogni goccia d’energia per tenerlo attivo, ma sapevano che era una battaglia persa. Potevano solo guadagnare tempo: qualche ora, forse un giorno in più. Ma alla fine le riserve si sarebbero prosciugate. Caduta la barriera protettiva, il plasma avrebbe distrutto ogni cosa. Chi si nascondeva nel sottosuolo sarebbe sopravvissuto qualche giorno in più, ma alla fine l’intero pianeta sarebbe diventato una palla di lava incandescente, com’era già accaduto alle due lune.
   La flotta Vidiiana lavorava incessantemente per trasferire la popolazione. Alcuni milioni di persone erano state portate sulle colonie, che però rischiavano il collasso. Non c’era cibo, né riparo per tutti. Ogni giorno i trasporti portavano altri sfollati, per salvarli da una morte orribile. Ma erano briciole a paragone dei miliardi che si trovavano ancora su Vidiia, impossibilitati a fuggire.
   A poca distanza dal pianeta, su una nave da guerra, alcune tra le più alte cariche dello Stato sovrintendevano al trasferimento della popolazione. A un tratto in plancia squillarono gli allarmi.
   «Il settore 9 dello Scudo Planetario s’indebolisce» avvertì l’addetto ai sensori.
   «Chiami la centrale. Gli dica di dirottare tutta l’energia necessaria dagli altri impianti» ordinò Rommath, il Ministro della Difesa.
   L’ufficiale riferì il messaggio e ascoltò la risposta dall’auricolare. «Lo stanno già facendo, ma non basta. Il wormhole ha emesso un getto di plasma particolarmente denso. Lo scudo è al 30% e continua a indebolirsi».
   «Se scende sotto al 25% sarà la catastrofe» mormorò il Generale Mazzut, affiancandosi al Ministro. «Dobbiamo fare la prova. Ho appena parlato con gli ingegneri, mi hanno detto che sono pronti».
   «D’accordo, allora... procedete» disse il Ministro, un po’ tremante. Si accomodò sulla poltroncina, mentre l’equipaggio terminava i preparativi. L’astronave uscì dal cono d’ombra di Vidiia, accostandosi all’arma-tunnel. Il suo deflettore di navigazione s’illuminò, mentre i livelli d’energia salivano.
   «Settore 9 al 25%!» avvertì l’addetto ai sensori, che monitorava la situazione.
   Un’ampia sezione quadrata dello Scudo Planetario sfarfallò, man mano che s’indeboliva. Il getto di plasma continuò a colpirla, finché alcune stille la oltrepassarono. Vista da terra, fu una scena apocalittica. Colonne di plasma rovente, spesse molti chilometri, calarono dal cielo, disperdendo le nuvole. Una di esse colpì il grande golfo incuneato fra i due subcontinenti. Miliardi di ettolitri d’acqua bollirono all’istante e si vaporizzarono, creando una nube caldissima in rapida espansione. La seconda colonna di plasma toccò il deserto che si stendeva ai piedi di una catena montuosa, vetrificando all’istante la sabbia. La terza e ultima piombò sull’altro versante delle montagne, dove invece cresceva la foresta pluviale, bagnata dai monsoni. La vegetazione arse all’istante e con essa tutti gli animali. Nemmeno le creature volanti fecero in tempo ad allontanarsi. L’incendio si propagò sempre più, sollevando un’immane nuvola nera, ben visibile dallo spazio.
   «La popolazione?» chiese Rommath, impallidito.
   «In quella zona non ci sono grandi città, per fortuna» disse l’addetto ai sensori. «Ma c’è qualche villaggio sulla costa».
   La tempesta di fuoco continuò ad avanzare. Raggiunse un minuscolo villaggio, sperduto nel verde. Le capanne di legno furono incenerite all’istante e anche gli edifici in muratura si sciolsero e crollarono in pochi secondi. Era impossibile che gli abitanti si fossero salvati. Il fronte dell’incendio continuò a espandersi verso i villaggi sulla costa. Chi aveva una barca si mise subito in mare, ma il grosso della popolazione non aveva scampo.
   «Signor Ministro, siamo pronti a lanciare l’impulso» riferì un tecnico.
   «Fatelo!» gridò Rommath.
   Gli ingegneri completarono la sequenza di attivazione. Il deflettore della nave divenne ancora più luminoso ed emise un potente raggio gravitonico, che colpì l’imboccatura del wormhole. Il vascello tremò per lo sforzo. Tutti gli indicatori d’energia salivano verso i livelli di guardia.
   «Energia costante» disse un ingegnere. «L’orizzonte del tunnel si sta contraendo. Continuiamo così!».
   «Dai, dai...» mormorò Rommath, stringendo i braccioli della poltroncina tanto da sbiancarsi le nocche.
   «Energia in diminuzione!».
   «Dirottare dai generatori d’emergenza, dobbiamo mantenere costante il flusso!».
   «Il flusso si stabilizza, ma gli iniettori di plasma sono sovraccarichi. Rischiamo una fusione!».
   «Scaricare il plasma in eccesso dai collettori. Aumentare l’afflusso di refrigerante ai condotti. Dobbiamo resistere!».
   Le voci degli ingegneri si sovrapposero, sempre più concitate. Gli indicatori schizzavano verso l’alto e tutta l’astronave tremava. Ma il wormhole si riduceva e con esso la fontana di plasma. Divenne sempre più piccolo, finché collassò del tutto. Ci fu un lampo; le onde elettromagnetiche e gravitazionali scossero l’astronave, già provata. Ma quando il bagliore si estinse, dell’arma-tunnel non c’era traccia. Gli ultimi getti di plasma si dissolsero nello spazio. Lo Scudo Planetario tornò a brillare stabilmente e le colonne di plasma che lambivano la superficie svanirono. Dal mare salivano ancora nubi di vapore incandescente e la foresta pluviale ardeva. Il fronte del fuoco si avvicinava ai villaggi sulla costa. Ma adesso la popolazione aveva qualche speranza di salvarsi, se i pompieri riuscivano a domarlo.
   Sull’ammiraglia vidiiana, i tecnici disattivarono il raggio gravitonico appena prima che il deflettore andasse in sovraccarico. Gli indicatori d’energia iniziarono una lunga discesa. Le vibrazioni diminuirono finché il vascello tornò in quiete.
   «È finita? Ce l’abbiamo fatta?» chiese Rommath, guardandosi attorno.
   «Pare di sì» rispose il Generale Mazzut, consultando una consolle fitta di dati. «Non c’è traccia del tunnel spaziale. Abbiamo vinto».
   «Ah, lo sapevo!» esultò il Ministro, scattando in piedi. «Ci siamo salvati da soli, senza bisogno di quell’insulsa Alleanza. Vorrei vedere la faccia di Suddayath! D’ora in poi i Vaadwaur non oseranno più attaccarci. Signori, mi congratulo con voi: oggi abbiamo fatto la Storia» concluse solennemente.
   Gli ufficiali si scambiarono sorrisi e anche qualche pacca sulla spalla. Dopo di che tornarono al lavoro: bisognava fare il check-up dei sistemi, per rilevare i danni.
   «Lo Scudo Planetario sta riprendendo energia» riferì l’addetto ai sensori. «È al 60% e continua a salire».
   «Ormai possiamo disattivarlo» disse Rommath, sicuro di sé. «Risparmiamo energia. Lo rialzeremo solo se i Vaadwaur ci mandassero contro delle astronavi. Ma dubito che lo faranno... ormai sono sconfitti. Avvertiamo la flotta: è tempo di riportare a casa gli sfollati».
   «Forse è prematuro, signor Ministro» disse il Generale. «Prima dovremmo censire i danni e verificare lo stato dei Vaadwaur. L’Alleanza ci ha informati che stanno radunando le forze».
   «I Vaadwaur presto apparterranno alle specie estinte. La Phagia non gli lascerà scampo» disse il Ministro con truce soddisfazione.
   In quella si accese una spia sulla postazione sensori. L’addetto verificò di che si trattava e sbiancò. «Non può essere...» sussurrò.
   «Che succede?» si allarmò il Generale, affiancandosi a lui.
   «C’è una nuova sorgente di onde gravimetriche, diecimila km davanti a noi» rivelò l’addetto. «È identica all’altra!».
   «Mi faccia vedere» ordinò Mazzut.
   L’addetto inquadrò la zona sullo schermo principale. C’era un bagliore arancione, che crebbe rapidamente, precisandosi come l’imboccatura di un tunnel spaziale. Un nuovo fiotto di plasma incandescente schizzò in tutte le direzioni. Anche stavolta parte del plasma fu attirato da Vidiia e colpì lo Scudo Planetario. Ufficiali e tecnici fissarono la scena ammutoliti. I loro sforzi erano stati vani; erano tornati al punto di partenza.
   «Come hanno...» mormorò il Ministro.
   «Allo stesso modo di prima» rispose cupamente un ufficiale scientifico. «Noi abbiamo chiuso il tunnel spaziale, ma nella Rete ce ne sono centinaia. I Vaadwaur ne hanno semplicemente spostato un altro. Temevo che accadesse, ma non pensavo che l’avrebbero fatto così in fretta».
   «Quanto tempo abbiamo guadagnato?» chiese Rommath.
   «Pochi minuti. Almeno adesso l’energia del settore 9 è tornata stabile. Ma lo Scudo nel suo complesso tornerà a indebolirsi, finché cederà del tutto» spiegò lo scienziato. «Possiamo chiudere anche questo wormhole, se la nave regge. Ma a questo punto non servirebbe. È chiaro che i Vaadwaur possono tornare a colpirci tutte le volte che vogliono».
   «Generale?!» chiese il Ministro, quasi implorante, come se questi avesse la soluzione in tasca.
   «È stato un tentativo» rispose Mazzut sconsolato. «Dobbiamo continuare con l’evacuazione. E forse... dico forse... dovremmo riconsiderare la nostra partecipazione all’Alleanza».
   Sentendosi mancare, Rommath si lasciò ricadere sulla poltroncina. Osservò le lingue di plasma che lambivano di nuovo lo Scudo Planetario. Di lì a pochi giorni lo avrebbero oltrepassato, incenerendo la superficie con tutti i suoi abitanti. Il Ministro intrecciò le dita, rimuginando sulla prossima mossa.
 
   Imprigionata nella sala d’osservazione del Ravager, Ladya aveva perso la cognizione del tempo. Mangiava quando le portavano da mangiare e dormiva avvoltolata nel manto scuro, quando la stanchezza superava il dolore delle piaghe. Per il resto passava quasi tutto il tempo a guardare dalla finestra panoramica.
   La flotta Vaadwaur si era radunata per giorni, con le astronavi che uscivano alla spicciolata dal tunnel spaziale. Era un’armata eterogenea: molte navi erano state strappate ad altre specie, soprattutto ai Turei. Parecchie di esse dovevano avere una certa età, anche se erano tenute in efficienza. Tuttavia il grosso della flotta era composto da vascelli propriamente Vaadwaur, costruiti negli ultimi tempi. Erano riconoscibili dagli affusolati scafi bruni, con le gondole di curvatura e il deflettore che brillavano di viola. C’erano gli agili incursori di classe Pythus, le fregate leggere Manasa e gli incrociatori Astika. Infine c’era il Ravager, l’ammiraglia di Suddayath. Pur trovandosi a bordo per la seconda volta, Ladya non l’aveva mai visto da fuori, ma si era fatta l’idea che fosse ancora più massiccio degli incrociatori.
   La dottoressa si chiese cosa avrebbero potuto fare i Vaadwaur, se avessero devoluto meno risorse alla guerra e si fossero concentrati a ricostruire la loro civiltà. Intuì che i suoi rapitori non vedevano differenza tra le due cose, perché una flotta potente consentiva loro di razziare le risorse per la ricostruzione. Ora però stavano per affrontare le conseguenze della loro politica predatoria.
   Da qualche ora non giungevano più astronavi. La flotta si era dispiegata, allontanandosi un po’ dal pianeta e assumendo la formazione. Gli incursori formavano l’avanguardia, le navi strappate al nemico stavano ai lati, mentre le navi da guerra Vaadwaur occupavano il centro dello schieramento. Il Ravager stava in posizione arretrata, così che dalla sala d’osservazione posta a prua la dottoressa poteva vedere quasi tutta la flotta. Contando le navi, Ladya si rese conto che i Vaadwaur avevano ammassato una forza d’urto formidabile, anche se probabilmente l’avrebbero divisa all’interno della Rete.
   D’un tratto le astronavi davanti a lei accesero i motori a impulso. Una lievissima vibrazione indicò che anche il Ravager si era avviato. Era il momento. Le navi entrarono una dopo l’altra nel tunnel spaziale. Sparirono prima gli incursori, poi le fregate e gli incrociatori; infine anche il Ravager si accostò al vortice arancione.
   «Stupidi ciechi... potevate trovare un compromesso, invece avete scelto la guerra. Ne pagherete il prezzo» pensò la Vidiiana con amarezza, mentre l’astronave varcava la soglia della Rete Subspaziale. 
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Star Trek / Vai alla pagina dell'autore: Parmandil