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Autore: Edward    10/08/2009    7 recensioni
[Dedicated to Lavi]
[10 Agosto - Happy B-day, baka usagi!]
« A-ah. Auguri, allora. » ripetè il ragazzo dagli occhi blu. L’altro sbuffò, e si passò una mano tra i capelli. La testa gli faceva un male del diavolo.
« A-ah. Grazie. » rispose poi, chiudendo per qualche istante l’occhio buono. Lasciò che la mano sinistra vagasse dalla fronte fino alla nuca –lasciando cozzare i polpastrelli contro le fasciature strette- e un istante dopo le premette, senza un motivo particolare. Sentì un osso muoversi tra la carne e deglutì, involontariamente. Posò nuovamente la mano sulle ginocchia e quello tornò a posto.
Genere: Generale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Rabi/Lavi
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: D

Titolo: D.O.A

Fandom: D.Gray-man

Personaggi: Lavi

Genere: Generale, Sovrannaturale

Rating: Giallo

Avvertimenti: Alternative Universe, One-shot

Note: Questa fic è stata un parto. Non mi piace. Ma amo Lavi, e dovevo pur scrivere qualcosa per lui.

E’ quasi mezzanotte. L’ho scritta in mezza giornata, in pratica.

Ho corretto gli errori che c’erano *spero*

Buona fanfiction.

E ora ne ho la conferma. Io sono la vendetta sghignazzante di Tyki Mikk

 

 

 

~

 

 

I passi non risuonavano come avrebbero dovuto, a ritmo di tacco alto e suola strusciata contro le piastrelle lucide, e si persero nel vociare concitato delle infermiere di turno.

Se lo avessero fatto, sarebbe risuonati secchi e precisi, costanti nell’andatura lenta ma sicura della donna bionda. Il bambino, stretto tra le sue braccia nude, dormiva silenzioso.

Era una mattina pallida e calda di inizio agosto.

 

 

 

 

 

D.O.A

 

 

Ti aspettiamo al solito posto *heart*
(E’ venuto anche Kanda *noheart*)

 

 

 

Si passò una mano sul viso, sfiorandosi l’occhio sinistro, e infilò le dita tra i capelli. Sentì la fasciatura ruvida della benda, e tentò di toccarsi anche l’occhio destro.

Sentì i polpastrelli strusciare contro la linea del naso, il lieve dislivello che portava alla guancia e poi più nulla. Le punte delle dita incontrarono il vuoto sotto la benda e Lavi allontanò la mano di scatto, irrigidendo i muscoli.

Il fruscio che produsse il movimento fu freddo, quasi distorto. Le coperte verde pastello rimasero immobili, a premere con forza contro la stoffa di carta che i medici gli avevano fatto indossare quella mattina.

Lavi sbuffò, e lasciò che il braccio sinistro gli ricadesse sulle gambe, incrociate con tedio sul letto. Quello al centro della stanza, quello che non stava né vicino la porta d’ingresso né affianco al muro, così da permettergli di sbirciare fuori dalla finestra le vite degli altri esseri umani che scorreva tranquillamente.

Roteò gli occhi al cielo, e si lasciò cadere all’indietro -facendo attenzione a non urtare il braccio rotto, quello destro-.

Voltò il viso di lato, lasciando strusciare fascia e capelli contro il cuscino, e si mise a fissare il resto della stanza.

Fu allora che un paio di occhi blu scuro ricambiarono il suo sguardo annoiato, sbattendo le ciglia curiosi.

« YIKES! » gracchiò Lavi, alzandosi di scatto per rimettersi a sedere, poggiando malamente le braccia nel movimento. « Ouch! » aggiunse, strizzando l’occhio sano e scalciando una volta sola per reazione.

Gli occhi blu si fecero vagamente perplessi, e si incrinarono sotto le sopracciglia castano che si erano appena corrucciate.

Lavi si voltò verso l’intruso, tra il dolorante e il vagamente offeso-imbarazzato.

« Ehy. » disse quello, sistemandosi a sedere per terra, contro il lettino affianco al suo. Piegò le gambe contro il petto e incrociò le caviglie, posando i palmi delle mani sul pavimento. « Neanche ti avessi fatto “Buh”, eh. » lo rimproverò, sorridendo appena. Era solo un ragazzo, forse poco più piccolo di lui.

Lavi lo fissò ancora per qualche istante, con il cuore che gli batteva a mille e il braccio rotto che pulsava alla stessa maniera.

Il ragazzo dagli occhi blu affilò il sorriso, e prese a tamburellare con le dita le piastrelle lucide. « Buh. »

In quello stesso istante il cellulare del rosso prese a vibrare, grattando con insistenza contro il suo comodino, e lui sobbalzò, ancora una volta. « Ma porc… »

Il ragazzo ridacchiò, voltando il viso di lato. Lavi si sporse verso il telefono, lo afferrò un po’ a fatica e premette un tasto a caso. Quello smise di far rumore, a contatto con la sua pelle, e il rosso sospirò. Si voltò nuovamente verso l’altro, perplesso e incerto.

« Ehm. » cominciò con il dire. « … ciao? » domandò, non troppo sicuro di aver detto la cosa giusta. « Mi hai fatto prendere un colpo. » continuò, quasi lamentosamente. Sospirò, e aprì distrattamente il messaggio che aveva ricevuto. Il ragazzo riprese a parlare che lui stava ancora leggendo.

 

 

Abbiamo un problema di liquidi, forse faremo un po’ tardi :(

Lenalee dice che dobbiamo farti una sorpresa.

Io non ti ho detto nulla, eh ;)

(Continua ad esserci Kanda…)

 

 

« Scusa, non volevo. » replicò il ragazzo, abbozzando un sorriso di scuse e grattandosi distrattamente la nuca. « La verità è che- » si appiattì contro il lettino, e scivolò appena verso il basso «-mi stanno cercando per fare un’iniezione, ma non è che ne abbia tanta voglia, eh. »

Lavi era ancora intento a rispondere al messaggio, ma ghignò appena a quelle parole, quasi amaramente. Da quando era arrivato lì, quella mattina, non aveva fatto altro che passare dalle mani gommose di un dottore all’altro. Un po’ per il braccio, un po’ per l’occhio, si era ritrovato confinato al reparto di Traumatologia probabilmente per il resto della sua vita.

« Chi è? »

« Huh? » Lavi si voltò verso il ragazzo, e chiuse il cellulare con uno schiocco secco. Aveva appena finito di scrivere. « Oh. » disse poi, capendo in ritardo la domanda dell’altro. Si strinse nelle spalle, ma smise subito perché l’osso rotto prese a scricchiolare. « Un amico. Mi ha avvertito che volevano farmi una festa a sorpresa. » rispose con semplicità, girandosi appena all’indietro per infilare il cellulare sotto il cuscino morbido –almeno quello- del letto.

L’altro annuì, come se avesse capito tutto. « Auguri, allora. »

« Huh? »

« Immagino la festa fosse per il tuo compleanno, no? Beh, è a sorpresa, quindi, pensavo… » spiegò allora, fissandolo come si guarda di solito un bambino un po’ stupido che non capisce una domanda particolarmente semplice.

Lavi annuì, corrucciando appena lo sguardo. Poi abbozzò un sorriso a mezza bocca. « Sì, è il mio compleanno. »

« A-ah. Auguri, allora. » ripetè il ragazzo dagli occhi blu. L’altro sbuffò, e si passò una mano tra i capelli. La testa gli faceva un male del diavolo.

« A-ah. Grazie. » rispose poi, chiudendo per qualche istante l’occhio buono. Lasciò che la mano sinistra vagasse dalla fronte fino alla nuca –lasciando cozzare i polpastrelli contro le fasciature strette- e un istante dopo le premette, senza un motivo particolare. Sentì un osso muoversi tra la carne e deglutì, involontariamente. Posò nuovamente la mano sulle ginocchia e quello tornò a posto.

« In ogni caso, io sono- »

La porta si aprì all’improvviso, rovinando con forza contro il pavimento. Lavi sobbalzò, e si voltò di scatto verso l’ingresso della stanza. Il ragazzo dagli occhi blu, invece, si appiattì verso il basso e tentò a suo modo di rendersi invisibile.

Entrò un’infermiera bassa e magra, quasi scheletrica, stringendo tra le dita una cartelletta grigio chiaro. Si guardò attorno, ignorando il ragazzo dai capelli rossi –l’unico visibile, da quella posizione- e sbuffò contrariata. Era una donna non troppo giovane, e sembrava molto stanca.

« Tu. » disse all’improvviso, voltandosi velocemente verso Lavi. « Hai visto passare un ragazzino? Ha i capelli castani, gli occhi sull’azzurro e a quanto pare una paura fottuta degli aghi. »

Il rosso abbozzò un sorriso forzato e un po’ perplesso. Gli venne in mente che forse, visto l’atteggiamento della donna, non era degli aghi che il ragazzo aveva paura.

Ma questo non lo disse. Si costrinse invece a non guardare verso il “ricercato”, che lo fissava con un’espressione indecifrabile, e si strinse nelle spalle. Deglutì, sperando di sembrare convincente.  « Mh, no. La porta è stata chiusa fino ad ora, non ho visto passare nessuno… »

L’infermiera sospirò, esasperata, e si portò la cartella contro la fronte, chiudendo gli occhi. « Dio santissimo… » sembrò dire, ma Lavi non fu del tutto certo. « Se non lo prendiamo in fretta, rischia di farsi venire un altro attacco prima che finisca il mio turno. » continuò, lamentosamente e preoccupata.

Un lampo di sorpresa e terrore attraversò l’unico occhio del rosso, che si puntò per un breve istante sul ragazzo ancora semi-sdraiato per terra. La donna non lo vide, e quando riabbassò la scheda Lavi era tornato a guardarla, non troppo impassibile. Lei lo squadrò per qualche istante. « Tu sei quello dell’incidente, dico bene? » domandò, cambiando improvvisamente discorso. Lui annuì, e la osservò scrutare attentamente alcuni fogli. « Stanza 64, terzo piano. » borbottò, pensierosa. Poi alzò lo sguardo. « Come ti senti? »

Lavi, per tutta risposta, battè un paio di volte le palpebre. « Sto bene. » mentì.

La donna annuì, come se gli bastasse. « Sei fortunato, con il colpo che hai preso. Uno dei dottori verrà a controllarti la ferita alla testa più tardi, in ogni caso. » disse, e fece per uscire. Si voltò di nuovo, e abbozzò un mezzo sorriso che per un istante sembrò addolcirla. « Ah, auguri. Ho letto che oggi è il tuo compleanno. »

E si richiuse la porta alle spalle.

Lavi rimase ancora qualche istante immobile, con lo sguardo corrucciato e qualcosa che gli ronzava per la testa. Gli sembrava di essersi perso un bel pezzo di conversazione.

Poi un sospiro sollevato, a suo modo infantile, lo riscosse dalla propria perplessità.

« Fiaaah! » sbottò il ragazzo dagli occhi blu, alzandosi in piedi e stiracchiando appena le braccia verso l’alto. « C’è mancato poco! »

Lavi si voltò verso di lui e assunse un’espressione vagamente scandalizzata. « Un altro attacco? » domandò citando le parole della donna, con una nota acuta nella voce. « Ti prego, dimmi che non ho contribuito al tuo tentato suicidio o roba simile. »

Il ragazzo  abbassò le braccia, inclinò il viso in avanti e lo scrutò divertito. Passò un istante, e poi si strinse nelle spalle. « Tranquillo, sono sano come un pesce. » replicò, girandosi per guardare verso la porta ancora chiusa.

L’altro sospirò, non troppo convinto, e si passò una mano tra i capelli. Quelli si alzarono, frusciando silenziosi, e quando tornarono al proprio posto coprirono nuovamente la chiazza di sangue raggrumato dell’occhio destro.

Mugugnò qualcosa di indefinito, e tornò a fissare il ragazzo.

« Io sono John, comunque. » stava dicendo quello, forse riprendendo il discorso di poco prima. Non gli tese la mano, bensì la poggiò sul lettino dietro cui si era nascosto e lo aggirò con un mezzo salto.

Lavi piegò il viso di lato «Io sono Lavi, piacere. » e memorizzò distrattamente il suo nome. La testa gli pulsava troppo per potersi permettere discorsi troppo lunghi e troppo impegnativi.

Respirò piano, e deglutì un paio di volte per scacciare un vago senso di nausea.

« Ve beh, io vado. » disse ancora John, muovendosi per raggiungere l’uscita. « Grazie per avermi coperto, eh. » aggiunse, accompagnando il ringraziamento ad un sorriso.  Posò una mano sulla maniglia di metallo. Il rosso annuì, ancora un po’ incerto. « See ya. »

E la porta sbattè, non troppo forte. Lavi tornò ad essere solo.

 

 

Passò qualche ora.

Il sole prese a calare, lento e sfrigolante contro le vetrate dell’ospedale, e l’aria si fece umida. Fuori dalla stanza numero 64 le voci continuavano a chiocciare, tra gli dori dei medicinali e del sangue fresco. Tra l’odore fastidioso del sudore, quello più lontano della mensa al primo piano e i battibecchi tra pazienti e infermiere, visitatori e dottori.

Lavi infilò una mano sotto il cuscino, e strinse le dita attorno al proprio cellulare. Si rigirò nelle coperte, lo accese nella penombra e controllò se era arrivato il messaggio di risposta di Allen.

Quando vide che non era stato neanche inviato, gemette sconfortato. Strizzò l’occhio sinistro, sbuffò e si tolse la maggior parte delle lenzuola pesanti. Nel caldo torrido di inizio Agosto -soprattutto quello di Dallas, si disse- poteva anche permettersi di stare un po’ con le gambe scoperte.

Controllò le tacche sullo schermo piatto del cellulare e constatò che non c’era campo. Sbuffò ancora, e si rimise a sedere. Scese dal letto, si infilò biancheria e i pantaloni chiari, con un po’ di fatica per via del braccio rotto. Poi passò alla maglietta nera e le scarpe –che infilò senza calzini- e gettò il camice di carta sul materasso.

Storse il naso nel sentire la pelle nuda e contatto con la gomma, ma un attimo dopo uscì dalla stanza con una scrollata di spalle.

La luce del corridoio lo colpì come una martellata in pieno viso, che lo costrinse a chiudere nuovamente l’occhio buono e ad inclinare il viso di lato con una smorfia infastidita.

Le voci profonde degli uomini che discutevano gli fecero dolere la testa, e le risate gracchianti delle infermiere gli procurarono uno di quei brividi che gli fece accapponare la pelle.

Quando si fu abituato a tutto quello, Lavi si guardò attorno e si richiuse la porta alle spalle. Sospirò piano, e prese a camminare, non sapendo neanche lui in quale direzione.

Raggiunse le scale senza che lo notasse nessuno, e mentre premeva l’interruttore per richiamare l’ascensore alzò lo sguardo verso l’alto. Lesse distrattamente la mappa dell’edificio, memorizzando nomi e numeri, reparti e porte. Adocchiò distrattamente il reparto di Oncologia, e constatò che fosse al piano sopra il suo. Poi l’ascensore preannunciò il proprio arrivo con un trillo limpido, forse un po’ troppo meccanico, e Lavi vi entrò dentro. Si poggiò contro una parete, incrociò le caviglie e alzò lo sguardo.

Poco prima che le porte si chiudessero del tutto, gli sembrò di vedere una donna bionda fissarlo con insistenza dall’altra parte del corridoio.

Stringeva tra le braccia un bambino addormentato.

 

 

Rimase ancora qualche istante a fissare le pareti d’acciaio dell’ascensore, e inspirò piano. Si schiarì la gola, si riscosse e infilò la mano sinistra nella tasca dei pantaloni.

Guardò il display del cellulare.

Niente, non c’era ancora campo. Sbuffò, e lo rimise al proprio posto. Aveva mandato all’amico un messaggio un po’ ingrato, cercando di essere il più discreto possibile. “Non potrò venire alla festa, digli che mi dispiace, ho avuto dei problemi”. Una cosa del genere, insomma, non aveva pensato neanche per un istante di confessargli di aver avuto un incidente proprio mentre stava per tornare a casa.

« Stupida macchina. » bofonchiò, mentre la scatola di metallo trillava ancora una volta.

In più, non voleva che Lenalee sapesse che era stato ricoverato in un ospedale. Avrebbe sicuramente tirato fuori discorsi come “Ho sentito dire che ci sono i fantasmi, sta attento!”.

Sì, Lenalee era quel tipo di ragazza. Adorabile, certo, ma forse un po’ troppo credulona.

Lavi sospirò, e uscì dall’ascensore.

La prima cosa che vide –e sentì- fu un’infermiera minuta sbraitare contro un ragazzino, tirandolo per il colletto e intimandogli di tornare nella propria stanza.

Il rosso vide spuntare un ciuffo di capelli castani oltre la donna, e abbozzò un sorriso un po’ perplesso, forse dispiaciuto.

Superò i due, gli lanciò un’occhiata distratta e per poco non inciampò nei propri piedi. Si voltò, corrucciando lo sguardo, e rimase per un istante a fissare i due. La donna era proprio come se la ricordava –ovvero scorbutica, scheletrica e inquietante- ma il ragazzino no, proprio non era lui.

Lavi inarcò un sopracciglio, e arricciò le labbra. Poi capì, e abbozzò un sorriso. « Ne è scappato un altro, eh? » domandò, quasi canzonatorio.

L’infermiera alzò il viso per squadrarlo, sospettosa, e dopo poco lo riconobbe. « Eh? » domandò, fissandolo truce. Il rosso indietreggiò appena, corrucciando a sua volta lo sguardo. Indicò il ragazzino che si dibatteva sotto la sua presa. « Beh, sembra giornata di fuga, visto che anche John… » poi si azzittì. Lui non doveva neanche conoscerlo, in teoria.

Ma l’infermiera non gli prestò attenzione, interrompendolo quasi nello stesso istante. « Chi è John? E che diavolo ci fai in giro? Per l’amor di Dio, hai un fottuto trauma celebrale! »

Il rosso aprì bocca per ribattere, ma la richiuse un attimo dopo. Rimase immobile, con una sensazione strana allo stomaco.

« Torna nella tua stanza, ragazzo, non posso stare appresso anche a te. » continuò la donna, agitando una mano con aria seccata Poi prese a trascinare il ragazzino con i capelli castani –Lavi vide i suoi occhi blu scuro fissarlo imploranti- e lo lasciò solo, in mezzo al corridoio pieno di persone.

Passò qualche istante.

Lento, circondato da un silenzio ovattato, il ragazzo riuscì persino ad ascoltare il battito del proprio cuore. Chiuse l’occhio sano, si passò una mano sulla nuca e deglutì. Si era sentito scendere un brivido gelido lungo la schiena bollente.

Poi il mondo gli si riversò nella testa con così tanta forza da lasciarlo senza fiato, e Lavi riaprì l’occhio con un lieve scatto. Si voltò verso il punto in cui erano spariti i due, e puntò anche lui da quella parte. Mosse qualche passo, e poco dopo –come ricordava dalla cartina- vide il bancone blu scuro che cercava.

Era pieno zeppo di infermieri, sia maschi che femmine, che parlavano tra di loro. Sembravano avere un sacco di tempo libero.

Il rosso lo raggiunse posò le braccia sulla superficie fredda e sorrise ad una ragazza.

« Posso fare qualcosa per te? » domandò all’improvviso una voce più profonda, e tizio grande e grosso gli si presentò davanti. Era di colore, e la sua pelle scura spiccava particolarmente contro il camice verde pallido.

« Ehm. » Lavi si rimise ritto in piedi e si schiarì la gola. « Stavo cercando un amico, ma non so in che reparto si trova. » cominciò con il dire, grattandosi la fasciatura che gli stringeva la testa.

L’altro lo scrutò per un istante, poi annuì. Si girò verso il computer. « Come si chiama? »

« John. »

« Mh. John e poi? »

Il rosso inspirò piano, e si strinse nelle spalle. « Non lo so. Conosco solo il nome. »

E fu a quel punto che l’infermiere si voltò verso di lui. Con lo sguardo corrucciato e le braccia contro il petto. Non sembrava molto contento.

« Davvero, è che l’ho conosciuto qui, e credevo fosse a Oncologia, ma… » Lavi tentò di spiegarsi, cosa che non gli riuscì particolarmente bene. « … senti, non è che potresti dirmi quanti ce ne sono, almeno? »

L’altro sembrò perdere parte della propria durezza, più che altro per lasciar spazio ad una buona dose di perplessità.

« Di cosa? »

« Di “John”. »

L’infermiere praticamente  gli scoppiò a ridere in faccia. « Cosa? » domandò divertito e scandalizzato, mentre qualcuno si voltava a fissarlo. « Hai idea di quanti ce ne siano? In tutto l’ospedale? » il nero sospirò, passandosi una mano sulla testa rasata. Scossa le tasta. « Ascolta un buon consiglio, lascia… »

Ma si interruppe. Lavi se ne era già andato.

 

 

 

Il display del cellulare lampeggiava con noia, bagnandogli il viso di luci azzurre e bianche. La sera si era fatta quasi notte –anche se non era neanche mezzanotte, in realtà- e il buio sfrigolava lento contro i lampioni della strada.

Lavi si passò una mano tra i capelli, sbuffando. Il cellulare trillò appena, e un paio di tacche rosse si tinsero di verde. Non era ancora riuscito ad inviare quel maledetto messaggio, e si sentiva in colpa.

A disagio, forse, anche se non riusciva a capire cosa gli fosse sfuggito.  E gli faceva male la testa, sentiva lo stomaco premere contro la carne e gorgogliare. Aveva la nausea, non riusciva a concentrarsi come avrebbe voluto.

Sospirò.

« Non dovresti sedere così sul bordo, sai. » una voce vagamente famigliare gli sfiorò i sensi, e Lavi alzò lo sguardo. « Potresti cadere e romperti l’osso del collo. »

Lui respirò piano, e rimase seduto sul tetto dell’ospedale. Squadrò attentamente il ragazzo, incerto e sospettoso. « Sto bene qui. » disse in un soffio, che però sembrò più un ringhio. « Ti diverti a raccontare stronzate alla gente? » aggiunse poi, poggiando una mano sul bordo di cemento e corrucciando lo sguardo. Era un po’ arrabbiato, forse risentito.

John si strinse nelle spalle, e mosse qualche passo per andargli vicino. « Ho le mie ragioni. » replicò, con noncuranza.

Lavi sbuffò, e si alzò in piedi. « Scommetto che non ti chiami neanche John, dico bene? Dio, ma che vuoi da me? »

« Oh no, mi chiamo proprio John, su questo non ci sono dubbi. » il ragazzo dagli occhi blu gli si avvicinò ancora. Guardò l’orologio che non teneva al polso e sospirò.

« Grandioso. » sbottò il rosso, corrucciando lo sguardo. Nel frattempo mosse un paio di passi laterali, cauto. Vide qualcosa muoversi, nel buio in lontananza, ma non si azzardò a guardare.  « E hai anche un cognome, o non è dato saperlo? »

L’altro annuì, fermandosi. « Certo. » Abbozzò un sorriso. « Mi chiamo John Doe. » e alzò una mano, muovendo con un piccolo scatto a mo’ di saluto.

Lavi, non seppe perché, raggelò. Inspirò piano, dal naso, e artigliò l’aria con le dita. « Non è divertente. » disse piano, assottigliando lo sguardo.

« No, infatti, non lo è. » rispose John, con una smorfia amara sulla bocca. « Mi avete creato voi, dopotutto. »

Il rosso continuò a fissarlo, ascoltandolo attento. Mosse ancora qualche passo, e si allontanò dal bordo del tetto. Raggiunse la porta che portava ai piani inferiori, ma si bloccò all’istante.

« Merda. » inveii, sgranando l’occhio sinistro. Vide la donna bionda di qualche ora prima bloccargli la strada, e indietreggiò istintivamente.

« Lavi, Jane, Baby. » disse all’improvviso il castano, a mo’ di presentazione. « Baby, Jane, lui è Lavi. » si avvicinò alla donna, e posò una mano sulla testa del bambino, che era poco più di un neonato. Gli posò un bacio leggero sulla fronte e sorrise piano, affettuoso.

Lavi deglutì, e chiuse per un istante l’occhio buono. Il bambino non respirava. « Okay, non è divertente, dico sul serio. » gracchiò poi, indietreggiando ancora.

John tornò a guardarlo, scrutandolo per un attimo serio.

« Sono tutti i John Doe della storia di questo ospedale, ragazzino. Sono gli uomini in coma, quelli morti e senza nome, che siano- » si avvicinò, serio e lapidale «-barboni o avvocati derubati, mafiosi bruciati vivi e ragazzini dalle mascelle rotte e senza dita. »

Lavi indietreggiò ancora, con il cuore che gli batteva così forte da fargli male.

« Mi avete creato voi, e no, credimi, non è divertente. »

« Di certo non ti ho creato io. E comunque non ha senso, non puoi esistere, mi stai prendendo per il culo, cazzo. »

John abbozzò un sorriso amaro. « Niente di personale, ragazzo. Ho solo bisogno della tua anima per uscire da questo inferno. » continuò, fermandosi per un istante. « E’ questo il patto. Le anime che posso avere sono solo quelle che compiono gli anni, prima che scada la mezzanotte. »

Lavi sbattè le caviglie contro il bordo di cemento, e sentì il proprio cellulare graffiarsi. « Patto? » domandò, non sapendo che altro fare. Poi qualcosa gli fece stringere lo stomaco. « Anime? »

Per un istante, il sorriso dell’altro si perse, e i suoi occhi si fecero quasi vuoti, lontani. Ma un attimo dopo scosse la testa e tornò a sorridere, stringendosi nelle spalle.

E all’improvviso sparì. In un fremito, con uno stridio acuto, sparì dalla visuale del rosso. Gli ricomparve davanti all’improvviso, afferrandogli con forza il braccio rotto.

Lavi urlò, suo malgrado, e sentì le ginocchia cedergli sotto la scarica di adrenalina.

« Un patto. » ripetè John, in un sibilo mesto, senza permettergli di cadere a terra. « Mi ha proposto un patto. Posso andarmene da solo se mi prendo un’anima, o possiamo andarcene tutti e tre se gliene porto cento. »

Il ragazzo dai capelli rossi tentò di allontanarlo, premendogli una mano sul petto, e gemette ancora, di dolore. Voleva parlare, porgli delle domande, ma non ne aveva il fiato.

« Lucifero. » continuò secco l’anima di tutti i John Doe, lasciandosi allontanare. « E vuole che siano anime da “compleanno”, come dite voi. » sospirò, e scrutò ancora una volta il proprio orologio immaginario.

Lavi si riprese, respirando con forza, roco, e svicolò dalla presa dell’altro, scostandosi da lui e del bordo del tetto. La donna non sembrava intenzionata a muoversi, ma cercò di non avvicinarsi neanche a lei. Ansimò, e chiuse l’occhio sinistro, tendendo tutti i muscoli. Gli venne in mente la propria festa, e gli amici che l’avevano organizzata. Il messaggio di Allen, le paranoie di Lenalee.

E fu su quelle che si fermò qualche istante, cercando di ricordarsene qualcuna. Continuò a tenere gli occhi chiusi, serrando i pugni.

« Tu non esisti, tu non esisti, tu non esisti, tu non»

« Huh, certo che ha proprio un pessimo senso dell’umorismo, quel Diavolo. » disse amaro John, ancora lontano da lui.

« Tu non esisti, tu non esisti… »

« Crede che voi umani, al giorno della vostra nascita, torniate nuovamente “puri”. Dice che dovete decidere durante quelle ventiquattro ore, cosa fare del resto dell’anno. E’ per questo che posso prendere le vostre anime. » sospirò, e Lavi sentì il suo fiato improvvisamente vicino, a solleticargli il collo.

« Tu non… »

« Dio. » lo interruppe lo spirito. « Come vorrei che fosse vero. »

Lavi aprì l’occhio di scatto, trattenendo il respiro. Si ritrovò a fissare quelli blu notte di John, e per un attimo non sentì nulla.

Le ginocchia gli cedettero, e sbatterono contro il terreno. La schiena cadde all’indietro, le gambe si piegarono e il corpo sbattè con forza per terra, con un rumore sordo e piatto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il cellulare di Allen squillò all’improvviso, e lui sobbalzò.

 

Scusa, non c’era campo :(

Mi hanno dovuto trattenere, ora sono a Dallas.

Ma sto bene, non preoccuparti *heart*

Saluta tutti quanti, ti chiamo domani per farti sapere

 

 

 

 

John chiuse gli occhi, inspirando con forza aria dai polmoni. Alzò le braccia al cielo, stiracchiandosi, e vide Jane raggiungerlo.

Lo scrutava incerta, stringendo il bambino morto tra le braccia, e poi distolse lo sguardo. Lui sorrise, passandosi entrambe le mani tra i capelli ora rosso fuoco, ricambiando lo sguardo con l’occhio verde, e non gli riuscì neanche di sentirsi in colpa.

« E con questa siamo a quarantanove. » disse piano « Avanti il prossimo. »

 

 

 

Ps: A questo punto non credo potrò venire alla festa

*noheart*

 

 

 

 

 

 

 

 

Dead  On Arrival

End

 

 

 

 

 

 

Note:

° Il modo di dire “heart” e “noheart” negli sms di Lavi e Allen sono messi solitamente al posto del “cuore”, appunto, che nei cellulari non c’è.

° Lavi dice spesso “Huh”. E’ l’equivalente del nostro “Eh?” solo che gli americani lo pronunciano più come se fosse un “Ah?” un po’ aspirato.

 

° L'oncologia è la branca della medicina che concerne lo studio e il trattamento dei tumori.

° John Doe è un nome utilizzato solitamente nel gergo giuridico statunitense per indicare un uomo la cui reale identità è, o va mantenuta, sconosciuta o segreta. Il suo equivalente femminile è Jane Doe, mentre nel caso di bambini è frequente l'uso di Baby Doe.

° DOA è il termine con cui di solito ci si riferisce a quei pazienti che arrivano già morti in ospedale.

 

° Questo particolare John Doe è un personaggio di mia creazione, che, ehy ehy, non sarà un granché, ma è mio.

° E’ una fic un po’ confusa, lo capisco, ma l’ho davvero scritta in mezza giornata. Ed è fottutamente lunga, per i miei standard.

 

 

Happy B-day, baka usagi  

   
 
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