Titolo: D.O.A
Fandom: D.Gray-man
Personaggi: Lavi
Genere: Generale, Sovrannaturale
Rating: Giallo
Avvertimenti: Alternative Universe, One-shot
Note: Questa fic è stata un parto.
Non mi piace. Ma amo Lavi, e dovevo pur scrivere qualcosa per lui.
E’
quasi mezzanotte. L’ho scritta in mezza giornata, in pratica.
Ho
corretto gli errori che c’erano *spero*
Buona fanfiction.
E ora ne
ho la conferma. Io sono la vendetta sghignazzante di Tyki Mikk ♥
~
I passi
non risuonavano come avrebbero dovuto, a ritmo di tacco alto e suola strusciata
contro le piastrelle lucide, e si persero nel vociare concitato delle
infermiere di turno.
Se lo
avessero fatto, sarebbe risuonati secchi e precisi, costanti nell’andatura
lenta ma sicura della donna bionda. Il bambino, stretto tra le sue braccia
nude, dormiva silenzioso.
Era una
mattina pallida e calda di inizio agosto.
D.O.A
Ti aspettiamo al
solito posto *heart*
(E’ venuto anche Kanda *noheart*)
Si passò
una mano sul viso, sfiorandosi l’occhio sinistro, e infilò le dita
tra i capelli. Sentì la fasciatura ruvida della benda, e tentò di
toccarsi anche l’occhio destro.
Sentì
i polpastrelli strusciare contro la linea del naso, il lieve dislivello che portava
alla guancia e poi più nulla. Le punte delle dita incontrarono il vuoto
sotto la benda e Lavi allontanò la mano di scatto, irrigidendo i
muscoli.
Il fruscio
che produsse il movimento fu freddo, quasi distorto. Le
coperte verde pastello rimasero immobili, a premere con forza contro la
stoffa di carta che i medici gli avevano fatto indossare quella mattina.
Lavi
sbuffò, e lasciò che il braccio sinistro gli ricadesse sulle
gambe, incrociate con tedio sul letto. Quello al centro della stanza, quello
che non stava né vicino la porta d’ingresso né affianco al
muro, così da permettergli di sbirciare fuori dalla finestra le vite
degli altri esseri umani che scorreva tranquillamente.
Roteò
gli occhi al cielo, e si lasciò cadere all’indietro -facendo
attenzione a non urtare il braccio rotto, quello destro-.
Voltò
il viso di lato, lasciando strusciare fascia e capelli contro il cuscino, e si
mise a fissare il resto della stanza.
Fu allora
che un paio di occhi blu scuro ricambiarono il suo
sguardo annoiato, sbattendo le ciglia curiosi.
«
YIKES! »
gracchiò Lavi, alzandosi di scatto per rimettersi a sedere, poggiando
malamente le braccia nel movimento. « Ouch! » aggiunse, strizzando l’occhio sano e
scalciando una volta sola per reazione.
Gli occhi
blu si fecero vagamente perplessi, e si incrinarono sotto le
sopracciglia castano che si erano appena corrucciate.
Lavi si
voltò verso l’intruso, tra il dolorante e il vagamente
offeso-imbarazzato.
«
Ehy. » disse quello, sistemandosi a sedere per terra, contro il lettino
affianco al suo. Piegò le gambe contro il petto e incrociò le
caviglie, posando i palmi delle mani sul pavimento. « Neanche ti avessi
fatto “Buh”, eh. » lo rimproverò, sorridendo appena.
Era solo un ragazzo, forse poco più piccolo di lui.
Lavi lo
fissò ancora per qualche istante, con il cuore che gli batteva a mille e
il braccio rotto che pulsava alla stessa maniera.
Il ragazzo
dagli occhi blu affilò il sorriso, e prese a tamburellare con le dita le
piastrelle lucide. « Buh.
»
In quello
stesso istante il cellulare del rosso prese a vibrare,
grattando con insistenza contro il suo comodino, e lui sobbalzò, ancora
una volta. « Ma porc… »
Il ragazzo
ridacchiò, voltando il viso di lato. Lavi si sporse verso il telefono,
lo afferrò un po’ a fatica e premette un tasto a caso. Quello
smise di far rumore, a contatto con la sua pelle, e il rosso sospirò. Si
voltò nuovamente verso l’altro, perplesso e incerto.
«
Ehm. » cominciò con il dire. «
… ciao? » domandò, non troppo
sicuro di aver detto la cosa giusta. « Mi hai fatto
prendere un colpo. » continuò, quasi
lamentosamente. Sospirò, e aprì distrattamente il messaggio che
aveva ricevuto. Il ragazzo riprese a parlare che lui stava ancora leggendo.
Abbiamo un problema
di liquidi, forse faremo un po’ tardi :(
Lenalee dice che
dobbiamo farti una sorpresa.
Io non ti ho detto
nulla, eh ;)
(Continua ad esserci
Kanda…)
«
Scusa, non volevo. » replicò il ragazzo,
abbozzando un sorriso di scuse e grattandosi distrattamente la nuca. « La
verità è che- » si appiattì contro il lettino, e
scivolò appena verso il basso «-mi stanno cercando per fare
un’iniezione, ma non è che ne abbia tanta voglia, eh. »
Lavi era
ancora intento a rispondere al messaggio, ma ghignò appena a quelle
parole, quasi amaramente. Da quando era arrivato lì, quella mattina, non
aveva fatto altro che passare dalle mani gommose di un dottore all’altro.
Un po’ per il braccio, un po’ per l’occhio, si era ritrovato confinato
al reparto di Traumatologia probabilmente per il resto della sua vita.
«
Chi è? »
«
Huh? » Lavi si voltò verso il ragazzo, e
chiuse il cellulare con uno schiocco secco. Aveva appena finito di scrivere.
« Oh. » disse poi, capendo in ritardo la domanda dell’altro.
Si strinse nelle spalle, ma smise subito perché l’osso rotto prese
a scricchiolare. « Un amico. Mi ha avvertito che
volevano farmi una festa a sorpresa. » rispose
con semplicità, girandosi appena all’indietro per infilare il
cellulare sotto il cuscino morbido –almeno quello- del letto.
L’altro
annuì, come se avesse capito tutto. «
Auguri, allora. »
«
Huh? »
«
Immagino la festa fosse per il tuo compleanno, no? Beh, è a sorpresa,
quindi, pensavo… » spiegò allora,
fissandolo come si guarda di solito un bambino un po’ stupido che non
capisce una domanda particolarmente semplice.
Lavi
annuì, corrucciando appena lo sguardo. Poi abbozzò un sorriso a
mezza bocca. « Sì, è il mio
compleanno. »
«
A-ah. Auguri, allora. » ripetè il ragazzo
dagli occhi blu. L’altro sbuffò, e si passò una mano tra i
capelli. La testa gli faceva un male del diavolo.
«
A-ah. Grazie. » rispose poi, chiudendo per
qualche istante l’occhio buono. Lasciò che la mano sinistra vagasse
dalla fronte fino alla nuca –lasciando cozzare i polpastrelli contro le
fasciature strette- e un istante dopo le premette, senza un motivo particolare.
Sentì un osso muoversi tra la carne e deglutì, involontariamente.
Posò nuovamente la mano sulle ginocchia e quello tornò a posto.
« In
ogni caso, io sono- »
La porta
si aprì all’improvviso, rovinando con forza contro il pavimento.
Lavi sobbalzò, e si voltò di scatto verso l’ingresso della
stanza. Il ragazzo dagli occhi blu, invece, si appiattì verso il basso e
tentò a suo modo di rendersi invisibile.
Entrò
un’infermiera bassa e magra, quasi scheletrica, stringendo tra le dita una cartelletta grigio chiaro. Si guardò attorno,
ignorando il ragazzo dai capelli rossi –l’unico visibile, da quella
posizione- e sbuffò contrariata. Era una donna non troppo giovane, e
sembrava molto stanca.
«
Tu. »
disse all’improvviso, voltandosi velocemente verso Lavi. « Hai visto passare un ragazzino? Ha i capelli
castani, gli occhi sull’azzurro e a quanto pare una paura fottuta degli
aghi. »
Il rosso
abbozzò un sorriso forzato e un po’ perplesso. Gli venne in mente
che forse, visto l’atteggiamento della donna, non era degli aghi che il ragazzo aveva paura.
Ma questo
non lo disse. Si costrinse invece a non guardare verso il
“ricercato”, che lo fissava con un’espressione indecifrabile,
e si strinse nelle spalle. Deglutì, sperando di sembrare convincente. « Mh, no.
La porta è stata chiusa fino ad ora, non ho visto passare nessuno…
»
L’infermiera
sospirò, esasperata, e si portò la cartella contro la fronte,
chiudendo gli occhi. « Dio santissimo… » sembrò dire,
ma Lavi non fu del tutto certo. « Se non lo
prendiamo in fretta, rischia di farsi venire un altro attacco prima che finisca
il mio turno. » continuò, lamentosamente
e preoccupata.
Un lampo
di sorpresa e terrore attraversò l’unico occhio del rosso, che si
puntò per un breve istante sul ragazzo ancora semi-sdraiato per terra.
La donna non lo vide, e quando riabbassò la scheda Lavi era tornato a
guardarla, non troppo impassibile. Lei lo squadrò per qualche istante. « Tu sei quello dell’incidente, dico bene? » domandò, cambiando improvvisamente discorso.
Lui annuì, e la osservò scrutare attentamente alcuni fogli. « Stanza 64, terzo piano. »
borbottò, pensierosa. Poi alzò lo sguardo. «
Come ti senti? »
Lavi, per
tutta risposta, battè un paio di volte le palpebre. «
Sto bene. » mentì.
La donna
annuì, come se gli bastasse. « Sei fortunato,
con il colpo che hai preso. Uno dei dottori verrà a controllarti la
ferita alla testa più tardi, in ogni caso. »
disse, e fece per uscire. Si voltò di nuovo, e abbozzò un mezzo
sorriso che per un istante sembrò addolcirla. «
Ah, auguri. Ho letto che oggi è il tuo compleanno. »
E si
richiuse la porta alle spalle.
Lavi
rimase ancora qualche istante immobile, con lo sguardo corrucciato e qualcosa
che gli ronzava per la testa. Gli sembrava di essersi perso un bel pezzo di
conversazione.
Poi un sospiro
sollevato, a suo modo infantile, lo riscosse dalla propria perplessità.
« Fiaaah! » sbottò il ragazzo dagli
occhi blu, alzandosi in piedi e stiracchiando appena le braccia verso
l’alto. « C’è mancato poco!
»
Lavi si
voltò verso di lui e assunse un’espressione vagamente
scandalizzata. « Un altro attacco? » domandò citando
le parole della donna, con una nota acuta nella voce. «
Ti prego, dimmi che non ho contribuito al tuo tentato suicidio o roba simile.
»
Il ragazzo abbassò
le braccia, inclinò il viso in avanti e lo scrutò divertito.
Passò un istante, e poi si strinse nelle spalle. «
Tranquillo, sono sano come un pesce. »
replicò, girandosi per guardare verso la porta ancora chiusa.
L’altro
sospirò, non troppo convinto, e si passò una mano tra i capelli.
Quelli si alzarono, frusciando silenziosi, e quando tornarono al proprio posto
coprirono nuovamente la chiazza di sangue raggrumato dell’occhio destro.
Mugugnò
qualcosa di indefinito, e tornò a fissare il ragazzo.
«
Io sono John, comunque. » stava dicendo quello,
forse riprendendo il discorso di poco prima. Non gli tese la mano, bensì
la poggiò sul lettino dietro cui si era
nascosto e lo aggirò con un mezzo salto.
Lavi
piegò il viso di lato «Io sono Lavi,
piacere. » e memorizzò distrattamente
il suo nome. La testa gli pulsava troppo per potersi permettere discorsi troppo
lunghi e troppo impegnativi.
Respirò
piano, e deglutì un paio di volte per scacciare un vago senso di nausea.
«
Ve beh, io vado. » disse ancora John, muovendosi
per raggiungere l’uscita. « Grazie per avermi coperto, eh. »
aggiunse, accompagnando il ringraziamento ad un sorriso. Posò una mano sulla maniglia di
metallo. Il rosso annuì, ancora un po’ incerto. «
See ya. »
E la porta
sbattè, non troppo forte. Lavi tornò ad essere solo.
Passò
qualche ora.
Il sole
prese a calare, lento e sfrigolante contro le vetrate dell’ospedale, e
l’aria si fece umida. Fuori dalla stanza numero 64 le voci continuavano a
chiocciare, tra gli dori dei medicinali e del sangue
fresco. Tra l’odore fastidioso del sudore, quello più lontano
della mensa al primo piano e i battibecchi tra pazienti e infermiere,
visitatori e dottori.
Lavi
infilò una mano sotto il cuscino, e strinse le dita attorno al proprio
cellulare. Si rigirò nelle coperte, lo accese nella penombra e controllò
se era arrivato il messaggio di risposta di Allen.
Quando
vide che non era stato neanche inviato, gemette sconfortato. Strizzò
l’occhio sinistro, sbuffò e si tolse la maggior parte delle
lenzuola pesanti. Nel caldo torrido di inizio Agosto -soprattutto quello di
Dallas, si disse- poteva anche permettersi di stare un po’ con le gambe
scoperte.
Controllò
le tacche sullo schermo piatto del cellulare e constatò che non
c’era campo. Sbuffò ancora, e si rimise a sedere. Scese dal letto,
si infilò biancheria e i pantaloni chiari, con un po’ di fatica
per via del braccio rotto. Poi passò alla maglietta nera e le scarpe
–che infilò senza calzini- e gettò il camice di carta sul
materasso.
Storse il
naso nel sentire la pelle nuda e contatto con la gomma, ma un attimo dopo
uscì dalla stanza con una scrollata di spalle.
La luce
del corridoio lo colpì come una martellata in pieno viso, che lo
costrinse a chiudere nuovamente l’occhio buono e ad inclinare il viso di
lato con una smorfia infastidita.
Le voci
profonde degli uomini che discutevano gli fecero dolere la testa, e le risate
gracchianti delle infermiere gli procurarono uno di quei brividi che gli fece accapponare
la pelle.
Quando si
fu abituato a tutto quello, Lavi si guardò attorno e si richiuse la
porta alle spalle. Sospirò piano, e prese a camminare, non sapendo
neanche lui in quale direzione.
Raggiunse
le scale senza che lo notasse nessuno, e mentre premeva l’interruttore
per richiamare l’ascensore alzò lo sguardo verso l’alto.
Lesse distrattamente la mappa dell’edificio, memorizzando nomi e numeri,
reparti e porte. Adocchiò distrattamente il reparto di Oncologia, e
constatò che fosse al piano sopra il suo. Poi l’ascensore
preannunciò il proprio arrivo con un trillo limpido, forse un po’
troppo meccanico, e Lavi vi entrò dentro. Si poggiò contro una
parete, incrociò le caviglie e alzò lo sguardo.
Poco prima
che le porte si chiudessero del tutto, gli sembrò di vedere una donna
bionda fissarlo con insistenza dall’altra parte del corridoio.
Stringeva
tra le braccia un bambino addormentato.
Rimase
ancora qualche istante a fissare le pareti d’acciaio
dell’ascensore, e inspirò piano. Si schiarì la gola, si
riscosse e infilò la mano sinistra nella tasca dei pantaloni.
Guardò
il display del cellulare.
Niente,
non c’era ancora campo. Sbuffò, e lo rimise al proprio posto.
Aveva mandato all’amico un messaggio un po’ ingrato, cercando di
essere il più discreto possibile. “Non
potrò venire alla festa, digli che mi dispiace, ho avuto dei
problemi”. Una cosa del genere, insomma, non aveva pensato neanche
per un istante di confessargli di aver avuto un incidente proprio mentre stava
per tornare a casa.
«
Stupida macchina. » bofonchiò, mentre la
scatola di metallo trillava ancora una volta.
In
più, non voleva che Lenalee sapesse che era stato ricoverato in un
ospedale. Avrebbe sicuramente tirato fuori discorsi come “Ho sentito dire che ci sono i fantasmi, sta attento!”.
Sì,
Lenalee era quel tipo di ragazza. Adorabile, certo, ma forse un po’
troppo credulona.
Lavi
sospirò, e uscì dall’ascensore.
La prima
cosa che vide –e sentì- fu un’infermiera minuta sbraitare
contro un ragazzino, tirandolo per il colletto e intimandogli di tornare nella
propria stanza.
Il rosso
vide spuntare un ciuffo di capelli castani oltre la donna, e abbozzò un
sorriso un po’ perplesso, forse dispiaciuto.
Superò
i due, gli lanciò un’occhiata distratta e per poco non
inciampò nei propri piedi. Si voltò, corrucciando lo sguardo, e
rimase per un istante a fissare i due. La donna era proprio come se la ricordava
–ovvero scorbutica, scheletrica e inquietante- ma il ragazzino no,
proprio non era lui.
Lavi
inarcò un sopracciglio, e arricciò le labbra. Poi capì, e
abbozzò un sorriso. « Ne è
scappato un altro, eh? » domandò, quasi
canzonatorio.
L’infermiera
alzò il viso per squadrarlo, sospettosa, e dopo poco lo riconobbe. « Eh? » domandò,
fissandolo truce. Il rosso indietreggiò appena, corrucciando a sua volta
lo sguardo. Indicò il ragazzino che si dibatteva sotto la sua presa.
« Beh, sembra giornata di fuga, visto che anche John… » poi
si azzittì. Lui non doveva neanche conoscerlo, in teoria.
Ma
l’infermiera non gli prestò attenzione, interrompendolo quasi
nello stesso istante. « Chi è John? E che
diavolo ci fai in giro? Per l’amor di Dio, hai un fottuto trauma
celebrale! »
Il rosso
aprì bocca per ribattere, ma la richiuse un
attimo dopo. Rimase immobile, con una sensazione strana allo stomaco.
«
Torna nella tua stanza, ragazzo, non posso stare appresso anche a te. »
continuò la donna, agitando una mano con aria seccata
Poi prese a trascinare il ragazzino con i capelli castani –Lavi
vide i suoi occhi blu scuro fissarlo imploranti- e lo lasciò solo, in
mezzo al corridoio pieno di persone.
Passò
qualche istante.
Lento,
circondato da un silenzio ovattato, il ragazzo riuscì persino ad
ascoltare il battito del proprio cuore. Chiuse l’occhio sano, si
passò una mano sulla nuca e deglutì. Si era sentito scendere un
brivido gelido lungo la schiena bollente.
Poi il
mondo gli si riversò nella testa con così tanta forza da
lasciarlo senza fiato, e Lavi riaprì l’occhio con un lieve scatto.
Si voltò verso il punto in cui erano spariti i due, e puntò anche
lui da quella parte. Mosse qualche passo, e poco dopo –come ricordava
dalla cartina- vide il bancone blu scuro che cercava.
Era pieno
zeppo di infermieri, sia maschi che femmine, che parlavano tra di loro. Sembravano
avere un sacco di tempo libero.
Il rosso
lo raggiunse posò le braccia sulla superficie fredda e
sorrise ad una ragazza.
«
Posso fare qualcosa per te? » domandò
all’improvviso una voce più profonda, e tizio grande e grosso gli
si presentò davanti. Era di colore, e la sua pelle scura spiccava
particolarmente contro il camice verde pallido.
«
Ehm. » Lavi si rimise ritto in piedi e si schiarì la gola. « Stavo cercando un amico, ma non so in che reparto si
trova. » cominciò con il dire,
grattandosi la fasciatura che gli stringeva la testa.
L’altro
lo scrutò per un istante, poi annuì. Si girò verso il
computer. « Come si chiama? »
«
John. »
«
Mh. John e poi? »
Il rosso
inspirò piano, e si strinse nelle spalle. «
Non lo so. Conosco solo il nome. »
E fu a
quel punto che l’infermiere si voltò verso di lui. Con lo sguardo
corrucciato e le braccia contro il petto. Non sembrava molto contento.
«
Davvero, è che l’ho conosciuto qui, e credevo fosse a Oncologia, ma… » Lavi tentò di spiegarsi,
cosa che non gli riuscì particolarmente bene. «
… senti, non è che potresti dirmi quanti ce ne sono, almeno?
»
L’altro
sembrò perdere parte della propria durezza, più che altro per
lasciar spazio ad una buona dose di perplessità.
«
Di cosa? »
«
Di “John”. »
L’infermiere
praticamente gli
scoppiò a ridere in faccia. « Cosa? » domandò divertito e scandalizzato, mentre
qualcuno si voltava a fissarlo. « Hai idea di
quanti ce ne siano? In tutto l’ospedale? »
il nero sospirò, passandosi una mano sulla testa rasata. Scossa le
tasta. « Ascolta un buon consiglio, lascia… »
Ma si
interruppe. Lavi se ne era già andato.
Il display
del cellulare lampeggiava con noia, bagnandogli il viso di luci azzurre e
bianche. La sera si era fatta quasi notte –anche se non era neanche
mezzanotte, in realtà- e il buio sfrigolava lento contro i lampioni
della strada.
Lavi si
passò una mano tra i capelli, sbuffando. Il cellulare trillò
appena, e un paio di tacche rosse si tinsero di verde. Non era ancora riuscito
ad inviare quel maledetto messaggio, e si sentiva in colpa.
A disagio,
forse, anche se non riusciva a capire cosa gli fosse sfuggito. E gli faceva male la testa, sentiva lo
stomaco premere contro la carne e gorgogliare. Aveva la nausea, non riusciva a
concentrarsi come avrebbe voluto.
Sospirò.
«
Non dovresti sedere così sul bordo, sai. »
una voce vagamente famigliare gli sfiorò i sensi, e Lavi alzò lo
sguardo. « Potresti cadere e romperti
l’osso del collo. »
Lui respirò
piano, e rimase seduto sul tetto dell’ospedale. Squadrò
attentamente il ragazzo, incerto e sospettoso. «
Sto bene qui. » disse in un soffio, che
però sembrò più un ringhio. «
Ti diverti a raccontare stronzate alla gente? »
aggiunse poi, poggiando una mano sul bordo di cemento e corrucciando lo
sguardo. Era un po’ arrabbiato, forse risentito.
John si
strinse nelle spalle, e mosse qualche passo per andargli vicino. « Ho le mie ragioni. »
replicò, con noncuranza.
Lavi
sbuffò, e si alzò in piedi. «
Scommetto che non ti chiami neanche John, dico bene? Dio, ma che vuoi da me? »
«
Oh no, mi chiamo proprio John, su questo non ci sono dubbi. »
il ragazzo dagli occhi blu gli si avvicinò ancora. Guardò
l’orologio che non teneva al polso e sospirò.
«
Grandioso. » sbottò il rosso,
corrucciando lo sguardo. Nel frattempo mosse un paio di passi laterali, cauto. Vide
qualcosa muoversi, nel buio in lontananza, ma non si azzardò a
guardare. «
E hai anche un cognome, o non è dato saperlo? »
L’altro
annuì, fermandosi. « Certo. » Abbozzò un sorriso. «
Mi chiamo John Doe. » e alzò una mano,
muovendo con un piccolo scatto a mo’ di saluto.
Lavi, non
seppe perché, raggelò. Inspirò piano, dal naso, e
artigliò l’aria con le dita. « Non
è divertente. » disse piano, assottigliando
lo sguardo.
«
No, infatti, non lo è. » rispose John,
con una smorfia amara sulla bocca. « Mi avete
creato voi, dopotutto. »
Il rosso
continuò a fissarlo, ascoltandolo attento. Mosse ancora qualche passo, e
si allontanò dal bordo del tetto. Raggiunse la porta che portava ai
piani inferiori, ma si bloccò all’istante.
«
Merda. » inveii, sgranando l’occhio
sinistro. Vide la donna bionda di qualche ora prima bloccargli la strada, e
indietreggiò istintivamente.
« Lavi, Jane, Baby. » disse
all’improvviso il castano, a mo’ di presentazione. « Baby, Jane, lui è Lavi. »
si avvicinò alla donna, e posò una mano sulla testa del bambino,
che era poco più di un neonato. Gli posò un bacio leggero sulla
fronte e sorrise piano, affettuoso.
Lavi
deglutì, e chiuse per un istante l’occhio buono. Il bambino non
respirava. « Okay, non è divertente, dico
sul serio. » gracchiò poi,
indietreggiando ancora.
John
tornò a guardarlo, scrutandolo per un attimo serio.
«
Sono tutti i John Doe della storia di questo ospedale,
ragazzino. Sono gli uomini in coma, quelli morti e senza nome, che siano-
» si avvicinò, serio e lapidale «-barboni o avvocati derubati,
mafiosi bruciati vivi e ragazzini dalle mascelle rotte e senza dita. »
Lavi
indietreggiò ancora, con il cuore che gli batteva così forte da
fargli male.
«
Mi avete creato voi, e no, credimi, non è divertente. »
«
Di certo non ti ho creato io. E comunque non ha senso, non puoi esistere, mi
stai prendendo per il culo, cazzo. »
John
abbozzò un sorriso amaro. « Niente di
personale, ragazzo. Ho solo bisogno della tua anima per uscire da questo
inferno. » continuò, fermandosi per un
istante. « E’ questo il patto. Le anime
che posso avere sono solo quelle che compiono gli anni, prima che scada la
mezzanotte. »
Lavi
sbattè le caviglie contro il bordo di cemento, e sentì il proprio
cellulare graffiarsi. « Patto? » domandò, non sapendo che altro fare. Poi
qualcosa gli fece stringere lo stomaco. « Anime?
»
Per un
istante, il sorriso dell’altro si perse, e i suoi occhi si fecero quasi vuoti,
lontani. Ma un attimo dopo scosse la testa e tornò a sorridere,
stringendosi nelle spalle.
E
all’improvviso sparì. In un fremito, con uno stridio acuto,
sparì dalla visuale del rosso. Gli ricomparve davanti
all’improvviso, afferrandogli con forza il braccio rotto.
Lavi
urlò, suo malgrado, e sentì le ginocchia
cedergli sotto la scarica di adrenalina.
«
Un patto. » ripetè John, in un sibilo
mesto, senza permettergli di cadere a terra. «
Mi ha proposto un patto. Posso andarmene da solo se mi prendo un’anima, o
possiamo andarcene tutti e tre se gliene porto cento. »
Il ragazzo
dai capelli rossi tentò di allontanarlo, premendogli una mano sul petto,
e gemette ancora, di dolore. Voleva parlare, porgli delle domande, ma non ne
aveva il fiato.
«
Lucifero. » continuò secco l’anima di tutti
i John Doe, lasciandosi allontanare. « E
vuole che siano anime da “compleanno”, come dite voi. » sospirò, e scrutò ancora una volta il
proprio orologio immaginario.
Lavi si
riprese, respirando con forza, roco, e svicolò dalla presa
dell’altro, scostandosi da lui e del bordo del tetto. La donna non
sembrava intenzionata a muoversi, ma cercò di non avvicinarsi neanche a
lei. Ansimò, e chiuse l’occhio sinistro, tendendo tutti i muscoli.
Gli venne in mente la propria festa, e gli amici che l’avevano
organizzata. Il messaggio di Allen, le paranoie di Lenalee.
E fu su
quelle che si fermò qualche istante, cercando di ricordarsene qualcuna.
Continuò a tenere gli occhi chiusi, serrando i pugni.
« Tu
non esisti, tu non esisti, tu non esisti, tu
non… »
«
Huh, certo che ha proprio un pessimo senso dell’umorismo, quel Diavolo. » disse amaro John, ancora lontano da lui.
« Tu non esisti, tu non
esisti… »
«
Crede che voi umani, al giorno della vostra nascita, torniate nuovamente
“puri”. Dice che dovete decidere durante quelle ventiquattro ore,
cosa fare del resto dell’anno. E’ per questo che posso prendere le
vostre anime. » sospirò, e Lavi
sentì il suo fiato improvvisamente vicino, a solleticargli il collo.
« Tu
non… »
«
Dio. » lo interruppe lo spirito. « Come vorrei che fosse vero. »
Lavi
aprì l’occhio di scatto, trattenendo il respiro. Si ritrovò
a fissare quelli blu notte di John, e per un attimo non sentì nulla.
Le
ginocchia gli cedettero, e sbatterono contro il terreno. La schiena cadde
all’indietro, le gambe si piegarono e il corpo sbattè con forza
per terra, con un rumore sordo e piatto.
Il cellulare di Allen squillò
all’improvviso, e lui sobbalzò.
Scusa, non c’era campo :(
Mi hanno dovuto
trattenere, ora sono a Dallas.
Ma sto bene, non
preoccuparti *heart*
Saluta tutti quanti,
ti chiamo domani per farti sapere
John
chiuse gli occhi, inspirando con forza aria dai polmoni. Alzò le braccia
al cielo, stiracchiandosi, e vide Jane raggiungerlo.
Lo
scrutava incerta, stringendo il bambino morto tra le braccia, e poi distolse lo
sguardo. Lui sorrise, passandosi entrambe le mani tra i capelli ora rosso
fuoco, ricambiando lo sguardo con l’occhio verde, e non gli riuscì
neanche di sentirsi in colpa.
«
E con questa siamo a quarantanove. » disse piano « Avanti il prossimo. »
Ps: A questo punto
non credo potrò venire alla festa
*noheart*
Dead On Arrival
End
Note:
° Il
modo di dire “heart” e “noheart” negli sms di Lavi e
Allen sono messi solitamente al posto del “cuore”, appunto, che nei
cellulari non c’è.
° Lavi
dice spesso “Huh”. E’ l’equivalente del nostro
“Eh?” solo che gli americani lo pronunciano più come se
fosse un “Ah?” un po’ aspirato.
° L'oncologia è la branca della
medicina che concerne lo studio e il trattamento dei tumori.
° John Doe è un nome utilizzato solitamente nel gergo
giuridico statunitense per indicare un uomo la cui reale identità
è, o va mantenuta, sconosciuta o segreta. Il suo equivalente femminile
è Jane Doe, mentre nel
caso di bambini è frequente l'uso di Baby Doe.
° DOA
è il termine con cui di solito ci si riferisce a quei pazienti che
arrivano già morti in ospedale.
°
Questo particolare John Doe è un personaggio di mia creazione, che, ehy
ehy, non sarà un granché, ma è mio.
°
E’ una fic un po’ confusa, lo capisco, ma l’ho davvero
scritta in mezza giornata. Ed è fottutamente lunga, per i miei standard.
Happy B-day, baka usagi ♥