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Autore: Miss Demy    15/05/2020    6 recensioni
Occorre rompersi per potersi aggiustare. Lasciare la vita intrisa di bugie per rinascere nella verità della propria essenza. Harleen voleva farlo. Con lui, grazie a lui, per lui. Mr. J, il suo Puddin'. Se solo lui glielo avesse permesso.
Dal testo:
"Guance smagrite accentuavano gli zigomi. L’espressione assorta chissà in quale strano pensiero, forse intrappolata ancora in quel triste ricordo.
Disegni e scritte d’inchiostro risalivano la china dai tessuti sottostanti non riuscendo a emergere dalla pelle. Impressi lì per sempre.
Damaged.
Era quello il Paradiso? O era Lucifero?"
- SECONDA CLASSIFICATA al contest "Metalli sconosciuti" indetto da Frenzthedreamer sul forum di EFP.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harley Quinn, Joker
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Luce e Demone
The Monster I am
 
 
 
Cold as ice,
Dark as night
That's the colour of my heart
Empty paintings on the wall
As the streets I walk along
They see something inside me
That won't even let them sleep
Every bad thing you hear about me just believe



«Questi cazzo di giocattoli! La sua voce furiosa mi aveva appena raggiunto. Iniziai a pregare, a sperare con tutto me stesso che il buio di quello stanzino mi proteggesse.
Sentivo che si rialzava dal pavimento sfregando la mano su qualche parte del corpo. La caduta doveva essere stata dolorosa.

Maledetti, urlava, e il tono si faceva sempre più vicino, imprecando contro la fila di macchinine che avevo allineato sulla moquette quel pomeriggio. Piccoli insetti neri su una superficie aliena.
Dove diavolo ti sei nascosto? Capii, allora, che neanche il buio sarebbe stato mio amico. Che sciocco a sperare che mi avrebbe protetto da tanta ira. Non ci si può fidare di niente e di nessuno.
La porta venne aperta, troppa luce entrò nel vano. Avrei voluto rendermi invisibile, scomparire. Lui abbassò lo sguardo, riuscì a trovarmi lì, seduto in un angolo sotto una fila di soprabiti che puzzavano di naftalina.
Ha presente l’odore dei negozi da quattro soldi?

I suoi occhi rotondi sbucarono come palline su una faccia gonfia, dalla barba incolta e da una fronte rugosa, sempre aggrottata. Quelle iridi castane attraversate dalla sclera ingiallita sembravano possedute da un demone.
Ricordo le mie gambe che tremavano, intrappolate tra le mie braccia, i pantaloni che d’un tratto si bagnavano, il calore delle viscere che fuoriusciva e si espandeva sulla carne di un ragazzino di cinque anni. Ricordo l’odore della naftalina che si mischiava a quello di birra e sigaretta. Nauseante. Me lo ricordo come se fosse ieri.»
 

Un tuono squarciò il silenzio; invadenti schegge di luce filtrarono nella stanza buia attraverso le veneziane. Rischiarirono un rettangolo di tappeto, si aggrapparono alla chaise longue per diramarsi e morire su quel profilo delicato.
Guance smagrite accentuavano gli zigomi. L’espressione assorta chissà in quale strano pensiero, forse intrappolata ancora in quel triste ricordo.
Disegni e scritte d’inchiostro risalivano la china dai tessuti sottostanti non riuscendo a emergere dalla pelle.
Impressi lì per sempre.

Damaged.
Era quello il Paradiso? O era Lucifero? Per qualche istante si lasciò cullare dall’immagine ipnotica di fronte a sé, fin quando lui ruotò il volto mostrandole gli occhi. La obbligò a trattenere le proprie emozioni, le impose di continuare a lavorare.

«Quella cicatrice che ha sul volto» sussurrò appena, «è dovuta a ciò che accadde quella sera, Mr. J?»

Una risata rimbombò tra le pareti, meccanica, un robot imballato.
Era lì che albergava il male? Era quello il desiderio di esorcizzare il dolore dell’anima? Quanto aveva sofferto quel bambino? Quanto terrore avevano assorbito quegli occhi grandi, contornati da così tante ciglia?
Lei non aveva mai visto un taglio d’occhi così bello in tutta la propria esistenza. Se avesse avuto dei figli, li avrebbe desiderati proprio con quegli occhi.
Si sentì stupida per quella domanda. Stava forse dimenticando le proprie competenze professionali? Stava perdendo la propria lucidità? Voleva solo non fare brutte figure con Mr. J.

Lui sollevò la schiena dal lettino di pelle nera, sedendosi e incontrando quelle iridi azzurre tanto ingenue quanto analitiche.
«No, no.» Scosse la testa, le labbra si distendevano stropicciando il volto in una smorfia di assurdità. Indicò la pelle incisa; con i polpastrelli, come una asintomatica carezza, la percorse su entrambe le guance fino agli angoli della bocca.
«Questa cicatrice, Dottoressa Quinzel, è perché sono stato insopportabile.»
Rise ancora, una nenia di dolore, ricacciando la testa indietro e rendendo visibile l’acciaio che gli incapsulava i denti.
«Non avrei dovuto piangere mentre uccideva mia madre davanti ai miei occhi. Così, per farmi sorridere, lui mi ha disegnato, con la punta del coltello, questo magnifico sorriso.»

Era ovvio, così assurdo, alquanto folle.
In fondo, però, chi poteva giudicare cosa fosse folle? Chi poteva definire il concetto di assurdità?

Lei intrappolò tra le dita una bionda ciocca ribelle pronta a scivolarle sul viso, ricacciandola dietro l’orecchio. Si rese conto solo dopo di aver fatto di nuovo quel gesto meccanico nel quale si rifugiava quando si sentiva in difficoltà. Sperò che lui non lo avesse notato.

«Sono una brutta persona, Dottoressa» sospirò lui, mentre la nuca trovava di nuovo rifugio sull’imbottitura dello schienale e lo sguardo restava fisso di fronte a sé su una parete asettica.

«Era solo un bambino, Mr. J.» La psichiatra dell’Arkham Asylum tentò di spiegare, «non era lei ad essere sbagliato, era suo padre ad essere violento per l’abuso di alcol.»

Mr. J rise ancora, chissà se per quella ingenua affermazione o perché qualche immagine divertente era apparsa sulla parete che continuava a incatenare i suoi occhi spenti.
Si voltò di scatto, e il cuore di lei mancò un battito alla vista di quella pelle nivea dai lineamenti delicati e da quegli occhi annegati in una pozza di sofferenza e incomprensione.

«Sono una brutta persona, Dottoressa, deve credermi.»

«I traumi infantili incidono e influiscono sulla personalità ma, mi creda, lei non è una brutta persona.» Quanto avrebbe voluto rivelare ciò che il suo cuore non riusciva più a trattenere.
«È soltanto ferito, deluso, non ha mai ricevuto amore.» Si inclinò in avanti verso quel viso. Lui lo aveva guastato con rivestimenti in acciaio, tatuaggi, espressione da duro, eppure Harleen riusciva a vedere solo due iridi azzurro cielo che urlavano una richiesta di amore. Le incatenò alle proprie.
«Io voglio aiutarla» sibilò a riparo da eventuali orecchie indiscrete, «me lo permetta, si fidi di me.»



 
Ohh Ohh

 
Echi assordanti martellavano sulle tempie implorando una fuga. Non riuscivano a evadere, restavano inermi, imprigionati nella sua mente.
Quanto rumore faceva il silenzio?
Realtà ovattata. Mondo interiore che attraversava le viscere e scorreva attraverso pensieri inspiegabili.
Tutti, lì fuori, erano zombie programmati a vivere esistenze prestabilite.
Che sciocchi.
Vita irrefrenabile, persone incatenate a concetti e preconcetti.
Come avrebbe potuto svelare loro il proprio universo invisibile? Lo avevano già giudicato un pazzo criminale. Forse andava bene così, era più semplice non dover spiegare ciò che era in grado di vedere e percepire. Nessuno gli avrebbe creduto, sarebbe stato considerato un folle. Avrebbe, dunque, fatto credere di essere solamente un violento fuori legge. Era il male minore.
Doveva escogitare qualcosa, evadere da quella prigione.


 
Don't get closer to me
You'll end up bleeding
I'll be your worst nightmare
Everything you fear
Whatever I touch breaks into pieces
Good girls end up broken
Don't even try this is my warning


Quelle sedute settimanali con la strizzacervelli erano snervanti. Avrebbe preferito combattere contro Batman piuttosto che trascorrere sessanta minuti raccontando aneddoti del proprio passato che tante volte aveva creduto cestinati dagli archivi della memoria.
Se solo quella guastafeste lo avesse lasciato in pace. Invece no, ogni sette giorni con un amo entrava dentro di lui in attesa che vecchi ricordi abboccassero.
Si credeva una eroina capace di salvare il mondo? Di guarire lui?
Che sciocca.
Nelle ultime settimane aveva addirittura iniziato a usare scarpe col tacco e gonne che lasciavano ammirare le sue gambe attraverso il camice tenuto aperto.
Davvero sexy.
Quell’ingenua credeva che le sue pettinature sempre perfette e i suoi languidi sorrisi avrebbero potuto in qualche modo impressionarlo.
Che pazza.
Lei non capiva che il dolore muta le persone.
Lacera i tessuti, prosciuga le speranze e i sogni, svuota dentro, risucchia persino l’anima, lasciando in un oblio. Quella stupida sentimentale si era messa in testa di aiutarlo, di salvarlo. Come faceva lui a spiegarle tutto ciò? Aveva deciso di vivere in quell’oblio, di crogiolarsi nel vuoto della coscienza piuttosto che perdere persone alle quali aveva aperto il proprio cuore.
Non avrebbe più provato dolore. Non avrebbe più avuto paura di nulla.
Mentre si abbandonava a quelle considerazioni, lei era di fronte a lui nella sua coda laterale senza un capello fuori posto. Sorrideva come una sedicenne innamorata, cercando di suscitare empatia. Sembrava proprio una ragazza per bene, buona. Aveva gli occhi dolci, meritevoli di amore. Gli pose un piccolo peluche a forma di gatto. Era così stupida da provocare in lui tenerezza. Avrebbe voluto sentirsi amata ma lui non poteva, non ne era capace, non gli interessavano quei frivoli sentimenti.
Si era rifugiato in un mondo oscuro popolato da mostri.
Lei era Luce per i suoi Demoni, non c’era posto per lei nel mondo nel quale si era perso. Non ce n’era per nessuno.




 
Stay away or if you dare
Come and fight against the monster I am
Fucking fight against the monster I am
The monster I am


Eppure, la sua infatuazione avrebbe potuto essergli utile per evadere da quell’Inferno e ritornare nel proprio.
«Vorrei che facesse una cosa per me.»
Lei era sempre gentile, si era addirittura esposta rivelandogli che di lei poteva fidarsi.
«Tutto quello che…» si tradì, «sì, mi dica.»
«Ho bisogno di un mitragliatore.»
«Un mitragliatore?» Ripeté quella parola, scandendola, come se ciò avesse potuto aiutarla a prenderne consapevolezza.
Lui aveva avuto veramente il coraggio di proferire quella assurda richiesta? Le palpebre sbarrate rivelavano occhi increduli. Bocca immobile, incapace di emettere alcun suono, di chi promette e poi non sa come mantenere.
«Dottoressa Quinzel, non vorrà mica abbandonarmi?» La sua voce era un eco di sfida. «Aveva detto che mi avrebbe aiutato.» Sembrava il lamento di un bambino al quale era stato promesso un gelato in un torrido primo pomeriggio di agosto.
Harleen trattenne il respiro, lo rilasciò all’aria. Gli occhi cerulei che la guardavano con espressione indifesa sul quel viso smagrito e pallido, di chi nella camicia di forza non può avanzare un minimo movimento, la fecero sollevare dalla sedia. Facendo leva sugli avanbracci posti sul tavolo, si spinse in avanti, diminuendo sempre di più la distanza tra sé e quel viso niveo contornato da ciuffi ribelli della folta capigliatura verde.
«Non l’abbandono, Mr. J, l’aiuterò.» Lo sussurrò piano, come una carezza che partiva dalle sue labbra e sfiorava quelle di lui, così vicine che avrebbe desiderato assaggiarle, nutrirle d’amore.
Lui si ritrasse da quella posizione premendo le spalle allo schienale della sedia.
Da quella posizione lei appariva un’ingenua bambina che cercava di arrampicarsi su un pendio ripido che avrebbe spaventato chiunque. Lei non sembrava per nulla intimorita, anzi, da dietro le lenti, i suoi occhi sembravano più azzurri del solito, scintille di euforia.
“Stai lontano.” Lo suggerì dal silenzio del proprio oblio interiore.
Aveva bisogno di lei per ritornare a vivere fuori da quelle mura. Solo dopo, quando sarebbe tornato libero, avrebbe potuto urlarle addosso di andare via.



 
Like a stab in the back
Every move I make is a lie
Hollow pictures on the wall
As the tunnels where I crawl
I know what they see in me
I am the ghost from their dreams
There are many more like me
I can feel it


Se le avessero chiesto come vedeva il bicchiere, se mezzo pieno o mezzo vuoto, lei avrebbe risposto “pieno fino all’orlo.”
Guardò il calice sul banco da lavoro della cucina, mentre il nettare degli dèi scorreva dal collo della bottiglia. Ascoltò il gorgoglio di quel liquido corposo che scendeva verso il fondo del bicchiere tingendone di rosso il vetro trasparente. Lo arrestò alla sommità. Impugnò il gambo, lasciandosi pervadere le narici dal profumo inebriante prima di bagnarsi le labbra e assaporarne il retrogusto fruttato. Lo sentì attraversarla fino alle viscere, bruciare, incendiarla all’altezza dello stomaco.
La stanza era al buio, rischiarita dai lampioni del viale che abbagliavano attraverso le vetrate della porta finestra. Percorse il corridoio ritrovandosi in salone. Si lasciò risucchiare dal divano, sul tavolino basso di fronte a sé posò la bottiglia rivestita da una etichetta con scritto su Sirah e rilasciò un respiro.
Il calice era ancora mezzo pieno nella sua mano. Accavallò le gambe, facendosi coccolare la schiena dall’imbottitura di velluto. Bevve ancora un paio di sorsi finché la definizione sarebbe stata mezzo vuoto.
Chiuse gli occhi per qualche istante. L’oscurità era sollievo per i suoi occhi, li riparava da luci e movimenti da seguire, le infondeva energie dopo un’intera giornata di lavoro.
Nel buio della sua mente, due montagne innevate che si fondevano con l’azzurro dell’orizzonte fecero capolino. Una risata biascicata, a tratti meccanica, fastidiosa, si insinuò nelle sue orecchie.
Sorrise d’istinto baciando l’orlo del bicchiere, ne svuotò l’interno. Versò altro vino, aveva bisogno di mettere a tacere la razionalità.
Un bambino dagli occhioni spaventati si fece immagine. Piangeva, tremava, il cavallo dei pantaloni contornato da una macchia scura.
Un ragazzino sfregiato nel volto mentre la madre era ancora a terra in una pozza di sangue.
Il cuore le si strinse in una morsa. Cercò di allentarla con un abbondante sorso di Sirah.
«Mr. J…» rilasciò all’aria in un triste sospiro.
La piccola Harleen le ritornò alla memoria. Un’altra infanzia bruciata, un’altra vittima di anaffettività paterna. Quel bastardo l’aveva barattata con sei birre, erano più utili di una mocciosa in cerca di attenzioni, meno problematiche. Ci aveva provato a farsi amare, nei suoi sorrisi e abbracci donati.
Forse aveva sbagliato lì, forse era stato quello il motivo che l’aveva condotta al Convento di Santa Bernadette. Lì le suore pregavano, chissà se Gesù avrebbe approvato i metodi educativi delle vecchie sorelle, chissà se Dio assisteva mentre la mettevano a pancia in giù iniziando a colpirla con la mano aperta o con asticelle di legno. Forse era per quello che si aggiravano per le navate della chiesa con la coroncina del Santo Rosario tra le dita. La Madonna avrebbe pulito quelle cattive condotte dalle loro coscienze sporche? Non lo sapeva ma era certa che almeno, nonostante l’infanzia traumatica, quei pinguini le avevano permesso di laurearsi in medicina e diventare una psichiatra. Il proprio futuro lo aveva pagato con l’amore mancato, il senso di rifiuto e dolorose punizioni.
Era stata forte, aveva resistito agli urti implacabili delle difficoltà. Una vera guerriera addestrata dalla vita, senza paura.
L’amore negato lo aveva cercato ancora, mai stanca, come una meta inesplorata, utopia non trovata in nessuna mappa ma che, come un regno segreto ben nascosto, era certa esistesse.
Quando si cresce senza una carezza, un bacio, un gesto intriso di quel leggendario sentimento, l’amore diventa tutto ciò a cui si desidera aggrapparsi per non annegare nel caos della vita.
Era certa che le stesse sensazioni le provasse pure Mr. J.
Erano latenti, assopite in un angolo del suo cuore, timorose di uscire allo scoperto come quel bambino tra i soprabiti che puzzavano di naftalina.
Lei voleva prenderlo per mano, accompagnarlo dall’altra parte della paura e fargli scorgere un tramonto che avrebbe scaldato il cuore riempiendolo di comprensione, amore e rispetto.
Voleva essere il suo Sole, quella Luce che irradia l’anima e fa dimenticare quell’amico inaffidabile che lui chiamava Buio.
Avevano tanti punti in comune. La sofferenza avvicina, crea empatia. Che ne sanno coloro che non hanno mai conosciuto il dolore?
Lui però il male lo aveva attraversato, la sua anima ne era uscita a brandelli.
Se solo le avesse dato l’opportunità di farsi conoscere, lei gli avrebbe mostrato ciò che aveva sempre tenuto lontano dal mondo esterno, che custodiva gelosamente come un tesoro prezioso all’interno del proprio cuore.
Quel mistero aveva un nome: Dolore. Era il motore di tutto.
Tutto ciò che aveva conquistato negli anni era scaturito da quella sensazione. Tante volte aveva creduto di non farcela a combattere contro il mondo esterno pieno di cattiveria e privo di buoni sentimenti.
Oh, quanto avrebbe desiderato impugnare una pistola e fare fuori chiunque trovandosi sul suo cammino l’avesse in qualche modo intralciata, offesa, fatta sentire fuori posto.
Eppure non poteva, non era legale. Restava quindi nella sua realtà intrisa di apparenza. Una bugia.
Solo la sera, lontano da tutti, poteva immergersi nelle profondità di quella esistenza che sentiva sua, vera. Ripensava agli avvenimenti della giornata creando una lista mentale di persone che le avevano alzato la voce, che l’avevano ferita, derisa, offesa.
Immaginava il rimbombo del colpo sparato, sembrava potesse congratularsi nel dirle: “Brava, Harleen, ti sei sbarazzata di un altro stronzo!”
Voleva dimostrare a Mr. J che lei non lo avrebbe mai ferito, che di lei avrebbe potuto fidarsi. Si sarebbe sottoposta a qualsiasi test, a qualunque prova.
Era coraggiosa, forse anche un po’ pazza.
Avrebbe accolto qualunque richiesta, l’avrebbe esaudita.
Un mitragliatore.
Avrebbe iniziato da lì a dimostrargli la sua fedeltà.
Lui era soltanto spaventato, lei lo avrebbe rassicurato.
Alla fine, lui l’avrebbe amata. Harleen ne era certa.



 
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«Ho fatto tutto ciò che ha detto, l’ho aiutata.» 
«Che cosa vuole fare? Uccidermi, Mr. J?»
«Mi ha convinta, io so resistere.» 


La Lamborghini viola sfrecciava tra le vie di Gotham, i led azzurri creavano una scia luminosa nel buio delle strade. Dalle casse Magnat la voce di Jessica William degli Ankor avvertiva: Non avvicinarti a me, finirai per sanguinare, sarò il tuo Incubo peggiore. Tutto ciò che temi, qualunque cosa tocchi, si spezza. Le brave ragazze finiscono per rompersi.
Libertà finalmente acquisita, ritrovata.
Si era lasciato l’Arkham Asylum alle spalle. Povera dottoressa, aveva veramente creduto che lui le sarebbe stato riconoscente per l’aiuto ricevuto? Con il suo coraggio ad affrontare scariche elettriche alle tempie si era illusa di impressionarlo? Di convincerlo?
Ma perché non capiva che doveva lasciarlo in pace? Che cosa non le era chiaro? I suoi comportamenti erano stati esaustivi. Chiunque avrebbe avuto paura trovandosi legata su un lettino medico. Qualsiasi persona sana di mente sarebbe rimasta terrorizzata subendo un elettroshock. Che altro doveva fare con quella incosciente ossessionata?
Ecco che in quel momento lo inseguiva a tutta velocità in sella a una moto, accelerando, sorpassandolo. Eccola che gli si parava davanti, con aria di sfida.
“Investimi pure, non ho paura” sembrava che volesse provocarlo per comprendere fin dove si sarebbe spinto, se quella volta l’avrebbe uccisa. Frenò bruscamente, sperò di non sfiorare le sue belle gambe.
Harleen sbatté le mani sul cofano anteriore, come se quei gesti avessero potuto scuoterlo, raggiungerlo fin dentro l’abitacolo e fargli comprendere che per lei non era un gioco né un capriccio.
«Non mi stai lasciando. Non mi stai lasciando!» Era più una speranza che portava nell’anima. Gliela urlò con la paura che provava nel cuore e la rabbia che le scorreva nelle vene.
Cos’altro avrebbe dovuto fare? Si era sottoposta a qualsiasi prova, qualunque test. Era chiaro, lei lo amava, voleva lui, solo lui. Lui doveva accettarlo.
«Io non sono qualcuno che può essere amato.» La raggiunse, paventandosi a un passo da lei.
«Io sono un’idea, uno stato mentale.»
Lui ne era consapevole. Ciò che attirava la psichiatra era l’idea del personaggio che aleggiava attorno al Joker, il pericoloso fuorilegge. Lei non era interessata a lui, non poteva esserlo.
«Io realizzerò i miei desideri secondo i miei piani e tu, Dottoressa, non fai parte del mio piano.»
Ecco che impugnava la sua pistola, che senza esitazione sparava al camionista che cercava di passare senza rimanere bloccato dalla Lamborghini lasciata al centro della strada, che se ne lamentava inveendo contro di loro.
Bang. Un colpo ben mirato che metteva a tacere quella voce disturbatrice.
Stava continuando a provargli il suo amore? Voleva dimostrargli che era una tosta?
«Se tu non fossi così pazza, penserei che sei folle.»



 
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Come and fight against the monster I am
Fucking fight against the monster I am 
Stay away or if you dare
Come and fight against the monster I am
Fucking fight against the monster I am


«Lo so che sei stato ferito, io ho capito come sei.» Joker rise. Portò la mano all’altezza della bocca. Il suo sorriso apparve attraverso il disegno d’inchiostro tatuato sul dorso, ridisegnando le sue labbra. Il suono divertito provocato da quella presuntuosa affermazione vibrò nell’aria come un eco mai stanco.
«Tu credi di sapere come sono?» La fissò negli occhi. «Dentro di me c’è un mondo oscuro, nessuno può vederlo.» Le rimase di fronte, così vicino da percepire sul volto il suo respiro caldo.
«E invece posso.» Lei portò entrambe le mani sulle guance di lui, incatenandolo a sé. Quella volta avrebbe dovuto restare a sentirla.
«So che sei stato ferito, che non lasci avvicinare nessuno per paura di soffrire ancora.»
Lui continuava ad ascoltarla, finalmente non si scostava. Poté continuare, forse quella volta sarebbe riuscita a convincerlo.
«Io so come sei perché è lo stesso modo in cui sono io.» Una lacrima la tradì, attraversò la sua guancia per morirle tra le labbra. «Mio padre mi ha data via per sei birre, sono cresciuta in convento con delle stronze che mi picchiavano.»
Quanta energia occorreva con lui? Sarebbe rimasta sprecata ancora una volta? Era esausta.
«Anche io vivo in un mondo oscuro, immagino di uccidere chiunque mi ferisca. Vorrei farlo davvero.»
«Potevi uccidermi, mi avevi puntato una pistola alla fronte, perché non hai premuto il grilletto?» Più che una domanda aveva il tono di chi non prende i discorsi sul serio. Una presa in giro.
«Perché io ti amo. Non potrei mai ferirti. Io ti amo davvero.» Era una melodia sincera, così vera che non poteva passare inaudita. Cazzo, perché lui non lo capiva?
«Tu fai tanto il duro ma io so che dentro sei tenero.» Sorrise, le sue mani lasciarono quelle guance smagrite per accarezzargli la nuca, intrecciando le dita alle verdi ciocche dei suoi capelli. «Sei tenero come un budino. Sei il mio Puddin’.»
Nessuno lo aveva mai definito tenero. Nessuno aveva mai visto del buono sotto il suo aspetto, nonostante i suoi comportamenti. Chi era quella donna? Aveva veramente letto la sua anima? Come ci era riuscita? Come era stata capace di scorgere la Luce nonostante il suo bluff?
«Tu sei così buona…» Si scostò da lei, tra le mani immaginò quel faccino di porcellana simile a un biscotto meringato, la voglia di stringerlo fino a sbriciolarlo fu tanta. Le girò attorno, come a volerla fiutare. Avrebbe avuto anche l’odore di zucchero?
Lei chiuse gli occhi, li strizzò, cercò di trattenere le lacrime, il cuore sembrava un tamburo che suonava paura di non riuscire a convincerlo.
Avvertì le dita di lui sfiorarle il viso, un brivido la percorse facendola sentire viva. Sollevò le palpebre, incontrò le iridi glaciali di lui, sentì il suo calore, il suo profumo. Le sue labbra furono raggiunte da quelle di Mr. J, sfiorate, come se lui avesse voluto assaggiarla. Sorrise in quel bacio, si abbandonò a esso.
«Sai di buono.» Lui le voltò le spalle, scosse la testa. «Non dare il tuo cuore a chi non lo merita, fai tutto solo per il tuo bene.»
«Ma io voglio darlo a te il mio cuore. Morirei per te.» Era seria, era proprio il suo organo vitale a parlare.
«Tu sei l’unica che ha visto del buono in me. Sei l’unica parte buona di me e io la custodirò sempre ma adesso devi andare.»
«No. Non ti lascio, non vado da nessuna parte senza di te, stavolta dovrai uccidermi per liberarti di me.» Se nel Disegno della sua vita non era contemplato l’amore, allora per quel sentimento tanto agognato sarebbe morta.
«Mi sono perso, Harleen, non puoi aggiustarmi.» Con l’indice si sfiorò la fronte, una linea invisibile a sottolineare la scritta d’inchiostro. «Vedi? Danneggiato.»
«E allora mi perderò con te.» Gli cinse il collo con le braccia, incatenò quegli occhi sofferti che conducevano all’oblio. «Sono certa che perdendomi ritroverò me stessa. Mi aggiusterò.»
Lui chiuse gli occhi, braccia lungo i fianchi, arreso a quella stretta calda di lei.
«Aggiustami, Puddin’.»



 
Ooooh
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Come and fight against the monster I am
Ooooh
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Sì, okay, sarebbe morta per lui. Morire però sarebbe stato troppo semplice.
Bang. Un solo colpo alla tempia e tutto sarebbe finito.
Game over.
Ma vivere per lui? Ne sarebbe stata capace? Non si sarebbe trattato soltanto di aggiustare qualcosa di rotto, come un lavandino che gocciola e va riparato.
Harleen avrebbe vissuto per lui? Si sarebbe spogliata della propria pelle per vestirsi di una nuova vita?
Fin quanto lo amava? Che tipo di amore era? Sarebbe stata disposta a diventare un Arlecchino? Ad avere un padrone al quale essere fedele?
«Vivresti per me?»
Lei non esitò. «Sì.»




 
Ooooh
Ooooh
Come and fight against the monster I am


Osservò le vasche al di sotto di lei. A quanti metri di altezza si trovava? Non lo sapeva ma l’odore pungente dell’acido riusciva ad arrivare alle sue narici.
Vivere per lui. Lasciare il mondo della Bugia per rinascere nella verità della propria essenza.
Chiuse gli occhi, si abbandonò all’indietro verso il vuoto, attraversò l’aria, venne avvolta da una nube calda di vapore. Sprofondò nell’acido.



 
Ooooh
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Perché non risaliva?
Joker fremeva, il suo cuore iniziò a tremare. Cos’era quella sensazione? Perché si sentiva così agitato? Nelle sue vene riprovò la paura. Era certo di averla rimossa eppure quella stronza era tornata come uno spettro del passato che non dimentica.
Harleen restava immersa nell’acido.
“Andiamo, risali.” Lui l’avrebbe fatta riemergere spingendola verso l’alto con il solo pensiero, con quella paura che toglieva il respiro pure a lui.
No. Non avrebbe perso di nuovo qualcuno che lo amava. Non da quel momento in poi.
Lei era entrata dentro il suo cuore. Luce che aveva irradiato il Demone oscuro che da troppi anni occupava la propria anima.
Lei quell’anima buia era riuscita a scorgerla, ad amarla. In quel momento fu proprio la sua parte eterna che lo spinse a infrangersi nel vuoto, in picchiata, verso la sua Luce.
La trovò in fondo alla vasca, l’avvolse tra le braccia e la riportò all’aria.
«Ti prego, non mi lasciare» implorò. La voce tremava mentre fissava le palpebre di lei ancora abbassate.
Harleen si riempì i polmoni di aria, rilasciò un respiro sofferto. Aprì gli occhi, lui era lì con lei, per lei. La fissava con lo sguardo impaurito, l’espressione di chi si accorge che lei era ritornata alla vita, sorriso che illumina, risata di chi ce l’ha fatta, di chi per una volta non perde ma finalmente vince. Avevano vinto entrambi.
Era felice, si aggrappò meglio in quell’abbraccio, gli donò le sue labbra in un bacio, il loro primo vero bacio.
«Siamo tu e io, Harley, sei pronta a vivere?»
«Facciamolo!» Lo strinse forte mentre il suono metallico della risata di Puddin’ riecheggiava a festa nella centrale chimica di Gotham City.
Harleen vide il bambino dentro di lui prenderle la mano per essere condotto a vedere un tramonto, un arcobaleno, persino la tempesta se lei sarebbe rimasta con lui.
Doveva prima cambiarsi i vestiti, scegliere quelli più adatti alla sua nuova vita.
L’acido creava scie rosse e blu, corrodendo le loro camicie. I loro colori si intrecciavano nella sostanza chimica, i movimenti dei due corpi stretti in un abbraccio li facevano fondere.
Lei li avrebbe usati insieme da quel momento.
Lei, l’Arlecchino di Mr. J. La sua nuova identità.
Harley Quinn.
Più pazza di lui ma con meno paura. Piccolo mostro appena sorto, portatore di luce capace di squarciare i demoni dell’oscurità.


Fine
 

Note dell'autrice

Sono trascorsi anni dalla mia ultima storia scritta e pubblicata su questo sito. Era da tanto che speravo di tornare e, complice il contest indetto per il quale ho scritto questa Song-fic, eccomi a proporvi la mia interpretazione delle scene tagliate tra Harleen Quinzel e Joker di Suicide Squad, prima che lei diventasse la conosciutissima Harley Quinn, sulla base della canzone scelta tra quelle proposte dall'organizzatore. The Monster I am degli Ankor. Amo questa coppia, specialmente per come viene mostrata nel film e, in particolare, adoro e sono affascinata da Harley Quinn.
Volevo precisare che, essendo il Contest basato sul film Suicide Squad, e considerato che il personaggio di Joker è molto sfaccettato e complesso, soggetto a svariate interpretazioni, e che anche la sua infanzia non viene sempre descritta unanimemente nelle varie trasposizioni, mi sono basata solamente su ciò che appare attraverso il film predetto nel narrare il rapporto tra Joker e Harley, "leggermente" diverso dalla storia dei fumetti-videogames-ecc... Per le infanzie dei due personaggi mi sono basata su quella descritta nel film Il Cavaliere Oscuro/Amore Folle (per Joker) e Birds of Prey, sequel di Suicide Squad ove la stessa Margot Robbie, di nuovo nelle vesti di Harley, fa riferimento alle scene di Suicide Squad (la scena della vasca, con relativo flashback) e spiega la sua infanzia. Nella scena dell'inseguimento, ho voluto rendere un piccolo omaggio all'organizzatore del contest facendo sì che Joker ascoltasse proprio la canzone degli Ankor.
Spero possiate apprezzarla e soprattutto spero mi farete sapere il vostro pensiero.
A presto,

Demy

 

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