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Sussurri di
parola
Avrà
il silenzio la voce che ho,
e mani lunghe
abbastanza,
sarà
d’attesa e d’intesa, però
saprò
quello che ancora non so.
[…]
ci sarò e non ci sarò, ti parlerò
con ogni fragile
accento
e
sarò traccia sulla neve, neve sarò,
mi dirai di
sì o mi dirai di no.
(L’apprendista
stregone, Angelo Branduardi)
Sigyn
sentiva su di sé il peso del ciondolo che indossava.
L’agata verde le sfiorava
la pelle infondendole una forza particolare, ma forse era la sua mente
a
illudersi che quel gioiello antico avesse su di lei qualche potere. Era
un dono
che non avrebbe dovuto accettare, come l’abito, anzi, la sua
stoffa;
gliel’aveva offerta Loki personalmente – metri di
raso color smeraldo brillante
per un vestito cucito apposta perché lui la guardasse e a
lei mancasse il
respiro. Si era incantata di fronte alla bellezza di quella tinta che
univa
assieme la vanità e il mistero e, guardandosi allo specchio,
per un momento non
si era riconosciuta: nel contrasto che si era venuto a creare tra la
pelle del
collo, del seno e delle braccia e lo stupendo abito, si era vista
diversa, più donna.
E, di nuovo, quella fitta bassa e dolorosa l’aveva fatta
tremare, rivelandole
un’oscurità che non credeva di possedere,
infestando i suoi sogni e i versi che
componeva di notte, quando tutta la casa dormiva. Rime fosche,
febbrili,
inadatte, che la lasciavano inquieta, ma di cui era schiava.
“Parlatemi
della profetessa che lo indossava,” aveva domandato a Loki
quando lui aveva
osato regalarglielo. Passeggiavano l’uno accanto
all’altra e l’avventuriero
aveva riso buttando la testa all’indietro.
“Dissero
che riuscì a sedurre un ricco conte,”
iniziò, concedendole un sorriso lupesco e
affascinante, che gli scopriva i denti bianchi e ben fatti.
“Uno che per lei
rischiò di dannarsi l’anima o, forse, la perse
davvero.” Lo sguardo acuto di
Loki celava immagini di oceani perduti. Teneva le mani allacciate
dietro la
schiena e camminava come se il sentiero fosse suo e così gli
alberi, il prato,
il cielo. Sigyn pensò che avesse il portamento di un
condottiero e ne ammirò la
figura slanciata e forte. Rigirò
tra le
dita la bella pietra. “E poi?”
“Forse
lui morì pazzo in un monastero o forse lei divenne la sua
concubina e poi se ne
tornò nelle terre del Nord.” I suoi racconti
l’incantavano. Sapeva trasportarla in
luoghi mai visti e c’era, nella sua voce roca e accattivante,
qualcosa in grado
di attrarla. Bugia, erano i suoi ragionamenti acutissimi e il suo modo
cinico e
affascinante di parlare, a stregarla. Ascoltandolo, aveva appreso che
il mondo
era un magnifico incubo e che i suoi versi concitati tendevano verso il
precario equilibrio esistente tra la luce e
l’oscurità: ed era lì, su quel filo
sottilissimo e traballante, che, a volte, Sigyn si perdeva.
“La
storia è incompleta,” ammise lui, “i
frammenti superstiti non dicono altro.” Si
fermò scrutandola con un’occhiata lenta, da
cacciatore. Sigyn sentì quello
sguardo verde percorrere il suo corpo fatto di carne, sangue e palpiti
nascosti.
Era riuscita a percepirlo mentre indagava nella sua anima protesa verso
qualcosa che non poteva avere. Avrebbe voluto essere come la strega
pagana del
racconto; libera di amare un feroce conte guerriero, di offrirgli le
sue labbra,
il suo corpo inviolato, il suo spirito febbricitante. Invece,
sventolò un
ventaglio e scosse i capelli in un gesto leggero e aggraziato che
nascondeva,
però, il dolore per non poter essere diversa, per dover
recitare costantemente
la parte della figlia perfetta, della ragazza graziosa di buona
famiglia. In
bocca le erano rimaste incastrate parole che avrebbero divertito e
forse
stupito il fratello di Lord Odinson: desiderava chiedergli se avesse
visto il
sepolcro della profetessa – s’immaginò
una strega affascinante e potente e
rimase incantata da quell’immagine anche se, probabilmente,
era un peccato. E
poi, ancora, avrebbe dato ogni cosa per poter essere abbastanza
sfacciata da
domandargli quale fosse il ricordo più scuro e spaventoso
che aveva portato con
sé dai suoi viaggi. Loki le aveva regalato un ciondolo
appartenuto a una
veggente vichinga, portando una ventata d’insondabile mistero
nel salotto
troppo rigoroso di suo padre, spazzando via, col suo ghigno ironico e
beffardo,
le teorie razionali che riempivano l’aria assieme al fumo
acre dei sigari
d’importazione. Era l’ultimo degli alchimisti o il
primo degli scienziati, corrotto
dai Tropici e poi tornato a Londra per fissarla con quei suoi occhi
acuti,
indagatori, che troppe volte aveva sorpreso sulla sua pelle.
Un
altro uomo l’avrebbe già chiesta in moglie
dichiarandole il proprio amore. Era
già successo. Loki no. Non aveva
accampato scuse imbarazzanti per giustificare
le sue occhiate attente e sfrontate e si era preso le sue labbra senza
vagheggiare di fidanzamenti. Era irriverente e sconsiderato e non
glielo
nascondeva. Vedeva ciò che lei si sforzava di celare dietro
un comportamento
inappuntabile, riconoscendo la scintilla di curiosità che le
illuminava lo
sguardo, svelando quanto la sua anima bruciasse dalla voglia di
conoscere, di sapere,
di liberarsi dai sorrisi rarefatti e dai discorsi vuoti di zie e cugine.
Lo
cercò nella sala, di nuovo. Sperò che non fosse
già andato via, perché alle
volte era così che faceva: appariva e scompariva come un
fantasma; le parve di
scorgere la sua figura slanciata, di spalle, vicino a Thor. Erano
accanto a una
porta finestra. Pensò che attraversare la sala avrebbe
attirato nuovamente
l’attenzione degli ospiti e scelse di passare per la stanza
accanto e il
giardino: così facendo, nessuno l’avrebbe notata.
Seguì il suo proposito, ma a
un tratto iniziò a mancarle il respiro. Si fermò
un momento e le venne
istintivo il gesto di sfiorarsi il seno stretto nel vestito di raso.
Qualcuno
le domandò se stesse bene e volesse dell’acqua;
rispose di no, ma si ritrovò a
bere un bicchiere, con le orecchie che le ronzavano. Le
sembrò che quel semplice
gesto la facesse sentire meglio e, ostinata, si diresse verso la
finestra che
dava sull’esterno, nella penombra di una notte lucida e
bagnata. L’aria
pungente odorava di pioggia. Fece pochi passi e di nuovo il mondo prese
a
girare. Gli cadde tra le braccia. Loki la sorresse cingendola per la
vita e la
strinse a sé, svelto e rapace. Erano soli, suo fratello
forse era tornato nel
salotto, da dove proveniva l’eco distante del piano. Sigyn si
toccò la gola
sfiorando il gioiello d’agata. Boccheggiava, e un formicolio
le intorpidiva le
braccia e le gambe, uno che si trasformò in un tremito
convulso, in una nausea feroce.
Loki non le chiese nulla, ma la condusse al riparo nel gazebo che
distava solo
pochi passi.
“Devi
ascoltarmi,” le disse, “stai per morire.”
Il
giardino sapeva di pioggia ed erba fradicia, la luna non si era
affacciata nel
cielo: Sigyn lo guardò nel buio e strinse tra le dita un
lembo della sua
elegante giacca scura, in una muta e disperata richiesta
d’aiuto. Se solo lei
avesse potuto guardarlo negli occhi, se solo la tenebra non li avesse
avvolti.
Ti
ho appena uccisa. Ti ho condannata a una morte tremenda, stupenda
ragazza.
Non
sempre il male aveva una spiegazione o una ragione; Sigyn tremava tra
le sue
braccia e Loki era cosciente del fatto che avrebbe dovuto lasciarla
lì, da
sola, a tremare nel gelo di una sera autunnale in attesa che il cuore
le rallentasse
nel petto. Tenerla avvinta a sé e sfiorarle i bei capelli
d’oro significava tradire
intenzioni e progetti in cui era invischiato da mesi. Sigyn era sottile
e
incantevole e spaventata e forse Loki era ancora in tempo per cambiare
l’esito
di quella serata. La prima volta che aveva risposto a un suo sorriso
regalandole
un ghigno sfacciato sapeva già di doverla uccidere. Aveva
dato un volto al nome
pronunciato troppe volte sulla nave che lo aveva riportato dalle Indie
a Londra,
che si era rigirato in bocca apprezzandone la musicalità e
la forza: Sigyn.
Che ora teneva stretta a sé in attesa che il respiro
spaventato si affievolisse
fino a interrompersi, stordito dal profumo dolce della sua pelle che
non
avrebbe dovuto offuscare la sua mente, ma che, invece, lo inebriava.
Era sull’orlo
di un precipizio e, nella sua tasca, l’orologio segnava lo
scorrere del tempo
con implacabile precisione. Sapeva che il coperchio intarsiato toccava qualcos’altro
di freddo e utile.
Perché,
mormorò Sigyn con un filo di voce
strozzata.
Cosa
l’aveva spinto a forzare una recita già pericolosa
dandole quella collana? Come
mai lei aveva scelto di sfoggiarla, esibendola con fierezza, come se
fosse il
dono di un fidanzamento impossibile e inesistente? Non avrebbe dovuto
cercarlo.
Sarebbe stato infinitamente meglio se fosse rimasta nella sala, a
ballare e a
morire tra le braccia di un altro.
Ma
così no, era ingiusto.
Pensò
a quello che avrebbe detto il vecchio Odino, dall’inferno in
cui senz’altro bruciava;
piegò le labbra sottili in una smorfia amara, mentre il
tempo gli scivolava via
tra le dita che s’impregnavano di veleno. Lo
avrebbe chiamato impostore, traditore,
ladro, assassino, pazzo, perché anche lui, nella parte
più vecchia della loro
tenuta nell’Asgardshire, aveva tentato di trasformare il
piombo in oro[1],
ma di violare la morte no, non aveva avuto il coraggio, mai.
C’era stato
un tempo in cui il fu Lord Odinson aveva condiviso col suo figlio
cadetto le
inquietudini di uno spirito volitivo e brillante, l’anelito
verso una
conoscenza che avrebbe spezzato il confine tra la vita e la morte, il
bisogno
di sperimentare e scoprire i meccanismi che governavano il mondo. Era
un
sostituirsi a Dio che, nella maggior parte degli uomini, suscitava
raccapriccio
e terrore, ma non in loro. Per curare un uomo, per capire quella magia
che era
la vita, bisognava paragonarlo a una macchina e vedere come, in quale
modo,
funzionasse: non ci si poteva né doveva fermare di fronte ai
precetti e alla
morale che parlavano d’inviolabilità,
perché la conoscenza non aveva prezzo.
Poi, un giorno, Odino Odinson si era accorto che il confine tra
chimica,
medicina, galvanismo, scienza e stregoneria era una blasfemia e gli
avrebbe
dannato l’anima[2].
Guardando Loki, aveva ritrovato una versione di sé
più giovane e spregiudicata
e incontrollabile. Quando lo aveva chiamato macellaio augurandogli di
marcire
in prigione? Il giorno in cui lo aveva sorpreso a sfruttare il loro
laboratorio
non per ottenere colori vivi, resistenti e brillanti capaci di tingere
le
stoffe delle principesse d’Europa, ma veleni, pozioni,
intrugli ed esperimenti.
Lo aveva cacciato, sperando che tornasse con qualche segreto rubato ai
maghi
che, ancora, vivevano in Asia o in Africa. L’Asgardshire, del
resto, ospitava
da secoli una delle più importanti sedi manufatturiere in
cui venivano filati i
migliori tessuti della Gran Bretagna tutta, tanto sottili e compatti da
venire
paragonati alle stoffe indiane. Non poteva diventare la sede degli
esperimenti
di un duca che si dilettava con veleni e magie e anteponeva la
conoscenza a
qualsiasi cosa, anche alla propria anima. Le ultime parole che si erano
scambiati in questa vita erano state accuse reciproche cariche di
rancore: Loki
ricordava di averlo chiamato ipocrita e bugiardo.
♥
Lord
Laufey era stato un volto conosciuto in mezzo ai fumi
dell’oppio, comparso all’improvviso
nella penombra di un locale, a Hong Kong. All’inizio lo aveva
scambiato per una
curiosa allucinazione, ma l’illusione solo apparente gli si
era avvicinata,
vestita di tutto punto, per chiedergli cos’avesse scoperto,
nel corso dei suoi
passaggi repentini dal sonno alla veglia[3].
Forse era entrato in contatto, come gli sciamani, con qualche
entità superiore
capace di rivelargli i perché della vita? Loki gli aveva
riso in faccia senza
ritegno – non lo possedeva più, del resto. Si era
abbandonato al caos e
scottava, preda della sostanza fumata, riverso a terra, con la camicia
slacciata e il corpo lucido e febbricitante, in cerca di un ordine che,
nel
caos personale della sua esistenza, non riusciva ad afferrare.
Laufey
non gli aveva raccontato subito della ragazza. Si era messo
d’impegno per
rimetterlo in sesto quel tanto che bastava per parlargli ed essere
sicuro che
lui lo ascoltasse. Disse di averlo cercato per mesi, e
confessò come fosse
certo che anche Loki avesse tentato di rintracciarlo. Non aveva del
tutto
torto. Sapeva dei suoi dissidi con Odino, intuiva che aveva mescolato
troppo
spesso l’utile al dilettevole. A Londra dicevano di lui che
avesse rapporti con
la Compagnie delle Indie e fosse alla ricerca delle stoffe
più belle, degli
ingredienti per ottenere i colori più brillanti, ma Laufey
conosceva la vera
natura di suo padre e intuiva la sua. Erano tutti e tre ossessionati
dalla
stessa cosa – scoprire se si poteva sconfiggere la morte o
fare ritorno da essa,
sapere se le anime si disfacevano come neve al sole o erano eterne e
immutabili. Per dare una risposta ai suoi dubbi, l’uomo
davanti a lui non aveva
esitato a rovinarsi la reputazione e la carriera, trasformandosi da
scienziato
in orco. Odino lo aveva fatto espellere da ogni club
e associazione
scientifica, facendogli perdere persino la cattedra
all’università. Loki lo
ricordava, perché era stato per colpa di Lord Laufey se suo
padre aveva
cominciato a dubitare che le loro ricerche fossero legittime, giuste.
Cosa li
separava dagli esperimenti morbosi del professore rinnegato? La
morale,
quella che tu non hai, Loki.
Spariti
gli effetti dell’alcool e dell’oppio, non aveva
potuto fare a meno di
ascoltarlo nonostante sapesse bene perché lo stesse
cercando: una spirale di
vendette accumulate per una vita intera, la possibilità di
avere al proprio
fianco qualcuno che potesse aiutarlo, cui lasciare
un’eredità in caso la morte
non fosse stata sconfitta.
“Cosa
c’è di meglio che far sapere a tuo padre di averlo
tradito, scegliendo come mentore
il nemico che ha avuto per una vita? Di fatto vi ha esiliati entrambi,
Loki, ma
mentre Thor è tornato e prenderà il suo posto, a
te, che sei rimasto accanto a
lui, rimarranno le briciole e il biasimo per aver seguito una strada
che lui
stesso ti ha indicato,” gli aveva suggerito Laufey, maligno.
Lui si
era limitato ad annuire con un cenno del capo, stabilendo che i suoi
piani
sarebbero variati – ma di quanto, il suo nuovo socio non lo
avrebbe saputo mai.
Gli
aveva parlato per la prima volta della ragazza alcuni mesi dopo. Di
nuovo, la
sua reazione era stata quella di ridere in faccia al professore
radiato, perché
quella era una follia impossibile da assecondare persino per lui. Si
erano
imbarcati da qualche giorno sulla nave che li avrebbe riportati a
Londra ed era
una notte stellata, ma fredda. Ascoltandolo, la risata gli si era
smorzata in
gola trasformandosi in un ghigno tirato: aveva compatito il grande
scienziato,
l’alchimista mancato. Si era accorto di avere di fronte un
uomo che, come suo
padre, era debole e temeva la morte. Eppure, doveva necessariamente
esistere un
confine netto che separasse ricerca scientifica e magia. Laufey non
poteva
sperare di avere una donna facendola diventare un’altra. Era
una passione
malsana – prendere la figlia perché, al tempo, non
si era potuta avere la
madre. Come poteva un uomo brillante e spregiudicato come quello,
capace di
opporsi, da solo, contro un’intera comunità
scientifica, invaghirsi di un
sogno?
Con
un misto di pietà e d’interesse, nelle sere
seguenti aveva continuato ad
ascoltare i piani forsennati dell’altro guadagnandosi la sua
fiducia notte dopo
notte, raccogliendo confidenze, idee, strategie e, soprattutto, quello
che più
gli interessava: formule.
Sì,
Loki aveva scelto di aiutarlo nella sua impresa perché era
il solo modo per
avere accesso alle sue ricerche sugli spiriti e sulla morte e su
ciò che rimane
di ogni individuo dopo il trapasso: le avrebbe unite ai bisbigli
confusi che
gli avevano confidato gli sciamani in trance e così,
finalmente, il percorso
fatto dalle anime sarebbe stato rivelato e così i molti
misteri che
circondavano l’uomo e la sua anima forse immortale. Una
simile conoscenza
avrebbe avvicinato chiunque al concetto di divinità.
Laufey
voleva Sigyn perché un tempo aveva amato da lontano sua
madre senza mai averla:
la desiderava, trovando che fosse persino più incantevole
dell’altra, di cui
era il riflesso, l’immagine perfezionata. Una volta tornati a
Londra, aveva
chiesto a Loki di avvicinarla al posto suo e di studiarla, per
alimentare
quell’insana passione con una serie di racconti precisi e
puntuali. Per quanto
la fama che si portava dietro lui stesso era dubbia e
tutt’altro che limpida,
non era additato come un reietto agli occhi della società.
Grazie al buon nome
di Thor Odinson poteva ancora entrare in qualsiasi
salotto: il difficile
era rimanerci, ma quello non era un problema. E che un uomo giovane e
prestante
come il fratello del duca d’Asgardshire corteggiasse, anche
solo per passare il
tempo, una ragazza, era qualcosa di socialmente accettabile, che
rientrava alla
perfezione nel modo di condurre i rapporti tra uomo e donna.
Così, mentre Loki
frequentava la casa di Lord Vanir, Laufey languiva e fremeva, in attesa
di
poter immaginare lei attraverso la voce arrochita del proprio socio.
Solo che
lui avrebbe dovuto spiare, riferire, studiare e descrivergliela al
punto da
rendergliela quasi reale, non corromperla, sedurla o desiderarla.
Era
successo che una sera, ebbro d’assenzio e col bicchiere
ancora in mano, Loki gli
aveva raccontato di lei per l’ennesima volta, ma con
più particolari del solito
e si era ritrovato a volerla lui stesso. Gli aveva descritto la pelle
soda e
compatta, lo sguardo attento e grigio e liquido – ma,
talvolta, ammaliatore, e
il seno che s’alzava e abbassava dopo una corsa e aveva
sentito la gola farsi improvvisamente
secca, il desiderio tormentarlo con una fitta improvvisa e profonda.
All’inizio,
aveva dato la colpa di tutto all’assenzio e alle
proprietà dell’artemisia[4],
ma poi, lentamente, aveva compreso cos’era successo: a forza
di raccontarla,
era rimasto incastrato nella sua stessa rete di parole. Laufey non si
era
accorto di nulla, troppo bramoso di sapere per accorgersi di come la
mascella
affilata di Loki si contraesse e lo sguardo gli bruciasse, quando il
discorso
toccava Sigyn: parlava di lei tra i denti, perché
condividere la sua immagine lo
disturbava ogni sera di più – e, alla fine,
l’aveva baciata.
E ora,
protetti dall’oscurità della notte e dalla
struttura leggera del gazebo, la
stringeva tra le braccia, eppure avrebbe dovuto comunque ucciderla,
lasciando che
Laufey agisse nell’ombra, come contava di fare da anni;
quando l’effetto del
veleno l’avrebbe fatta risvegliare, sarebbe stata inerme e
preda degli
esperimenti e dei sortilegi oscuri dell’altro, capaci di
renderla, per
sempre, sua schiava in nome di una donna morta anni prima.
Sigyn pagava con
la vita un sorriso che non aveva scelto di avere, due occhi grigi che
erano
appartenuti anche a un’altra, ma ora erano solo suoi. Era un prezzo altissimo,
troppo.
Lo
pagherò anche io, il costo di tutto questo. Avrebbe
desiderato dirglielo, svelando quanto
costasse quell’inganno e ricordarle come l’unica
certezza stesse nella formula
che gli era servita per tingere la stoffa di un colore vivo e vibrante.
Tutto
il resto, erano vaghe pratiche apprese nel corso dei viaggi troppo
lunghi che
aveva passato alle estremità del mondo, mentre suo fratello
ereditava la tenuta
e il titolo, com’era nell’ordine delle cose che
fosse. Ma le regole esistono
per essere ribaltate, distrutte, annullate; com’era successo
non troppi anni
prima in Francia e nel Nuovo Mondo, in quella colonia orgogliosa che
aveva
osato ribellarsi alla madrepatria e all’Impero. Ma poteva e
voleva farlo?
Laufey
era un uomo orrendo, corrotto, servo di una serie di passioni
esecrabili e
sbagliate, a metà strada tra lo stregone e il macellaio, ma
tradirlo voleva
dire gettarsi in un abisso privo di ritorno. L’immagine della
tomba gli avvelenò
la mente, di nuovo[5].
Gli doveva la vita e invece lui, irriconoscente, aveva tentato di
portargli via
ciò che l’altro bramava ignorando i patti,
rubandogli i segreti della sua arte.
Condividevano le stesse passioni e non se ne era reso conto –
non lo aveva voluto
ammettere – fino a quella notte, quando aveva visto Sigyn
indossare l’abito
maledetto. Avrebbe preferito che lei fosse come qualsiasi altra donna
con i
capelli chiari raccolti in bande laterali: una fragile fanciulla che si
occupava di cucito e di beneficenza, capace solo di abbassare gli
occhi quando
le parlava. Ma Sigyn sosteneva il suo sguardo quasi avidamente e beveva
ogni
sua parola. Deglutì, chiedendosi non come potesse agire, ma
se desiderasse
ancora che la vendetta si concludesse così come era stato
deciso. Si accorse di
non avere alcuna risposta. Il ciondolo della strega vichinga
catturò un raggio
di luce o forse brillò nella notte perché
conteneva ancora la magia infusa
dalla veggente morta da secoli.
Loki
scosse Sigyn per le spalle, la strinse a sé con
più forza. Il respiro di lei si
era fatto corto e irregolare – non doveva assolutamente
perdere i sensi. Armeggiò
sostenendola con un braccio e infilando la mano in tasca per trovare
ciò che
gli serviva, ma probabilmente era già troppo tardi e non
solo perché Theoric o
Thor sarebbero venuti senz’altro a cercarli. Tolse con un gesto secco il
tappo alla fiala
che teneva in tasca, accanto all’orologio.
“Bevi
o morirai,” le disse. Aveva usato un tono perentorio, deciso,
ma in realtà non sapeva
se e in quale modo la pozione avrebbe potuto salvarla. Forse, se fosse
morta
immediatamente, tra le sue braccia, sarebbe almeno riuscito a evitare
che Laufey
l’avesse.
L’angolo
di Shilyss
Care
Lettrici e Lettori,
Grazie per essere
giunte/i fino a qui. Non vi sto a tediare con tutti i riferimenti
gotici e vittoriani
e storici presenti in questa storia: sapete che mi diverto a sfruttare
dettagli
realistici e non lo sapete, mo’ ce lo sapete. Alcuni dettagli
futuri… nah, non
ve lo dico XD! Vi informo solo che il consumo dell’oppio e
dell’assenzio nel
corso del XIX secolo era fatto su larga scala (bambini, sono tutte cose
che
fanno malissimo). Come guest star in questa storia troviamo Laufey, che
nell’MCU
è il padre naturale di Loki. Qui, come spero avrete capito,
il padre naturale è
Odino e Laufey è un padre nel senso di mentore. No,
aspettate, una cosa molto
importante: la questione della vendetta non è ancora stata
esplicitata del
tutto e avrà un senso e una spiegazione nei prossimi
capitoli, perché le cose
sono appena un po’ più complicate di quanto
stabilito a fine capitolo.
Prossima settimana
arriverà Scintille nel buio mentre
questa storia non dovrebbe avere più
di 4/5 capitoli.
Spero
che le mie storie possano tenervi compagnia in questi giorni difficili ♥, quanta ne fate a me quando
leggo della
vostra presenza perché vi palesate recensendo o listando.
Anche se non
rispondo pubblicamente a tutte le recensioni le leggo appena arrivano e
mi
commuovo ogni volta♥.
Per voi un
clic può non essere nulla, ma per un’Autrice
significa tantissimo – e io lo so
perché (sono) stata lettrice, prima che scrittrice. Voi non
sapete quanto mi
faccia piacere. Ricordo
che il personaggio
di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce
“Sigyn” su Wikipedia, è una mia
personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura.
Per ulteriori info, tante foto
di Loki, di Sigyn e di Tom e un po’ di
divertimento… c’è la mia pagina
facebook
♥ https://www.facebook.com/Shilyss/. Ah,
mi trovate pure su Twitter
e Instagram ;)
[1]
Così cercavano di fare gli alchimisti – senza
successo.
[2]
Il patronimico di Odino è Borson, ma per esigenze di copione
ho deciso che il
cognome della famiglia è Odinson.
[3]
Sono un effetto del fumare oppio – bambini, non fatelo da
casa!
[4]
Uno degli ingredienti dell’assenzio.
[5]
Come nel cap. 1.