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Autore: Melanto    25/05/2020    5 recensioni
[Sequel di 'Malerba']
Un figlio morto, uno che lo odia e una moglie che lo sopporta. Questo è ciò che possiede Akio Morisaki, oltre al suo lavoro, e pensa di non meritare nient'altro.
Ma quando la solidità che gli è sempre valsa il nomignolo di 'sequoia' inizia a vacillare, gli toccherà fare anche quello che non avrebbe mai pensato pur di tenere strette le proprie radici alla terra e capire, perduto nel tempo che aveva creduto di controllare, quanto profonde siano quelle della sua famiglia.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Mamoru Izawa/Paul Diamond, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Mori no Kokoro - Il Cuore della Foresta'
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Roots - Capitolo 1

 

 

 

- I: Farsi scappare il tempo da tutte le parti -

 

I disturbi, alla fine, si presentavano sempre allo stesso modo: frequenti stati d’insonnia, fatica a concentrarsi, difficoltà a respirare, fitte allo stomaco che lo svegliavano anche nel cuore della notte e quel distacco della mente dal mondo che aveva attorno, dai problemi aziendali, dalla vita quotidiana, dalle chiacchiere dei suoi collaboratori, amici, parenti.

Quella era la quarta volta in meno di un mese e mezzo che finiva nello studio del medico di famiglia da quando Yumeko gli aveva detto che così non poteva continuare – e non era nemmeno sicuro, alla sua età.

Lui non era mai stato tipo da medici, ci andava solo quando era proprio necessario e per il resto faceva regolarmente gli esami di routine. Da uno di questi, era emerso un innalzamento della pressione, ma i controlli successivi avevano escluso problemi più seri.

«Sei iperteso.»

La diagnosi definitiva.

Aveva così iniziato, per la prima volta nella vita, a dipendere da un farmaco in modo costante e giornaliero. La scoperta stata quasi contemporanea al ritorno di Shuzo, e quindi erano circa nove anni che assumeva la solita pillolina dopo ogni colazione e già gli era sembrato un supplizio. Ora ci si mettevano anche quell’insieme di disturbi che, per quanto piccoli, lo stavano sfiancando poco alla volta.

Diversamente dal solito, però, Akio non stava affrontando il problema con praticità e fermezza.

Il motto ‘alza la testa, reagisci, sii forte, vai avanti’ non valeva solo per il lavoro o le relazioni sociali, era proprio una regola di vita. Ma Akio avvertiva, tra spalle e spirito, una stanchezza che non aveva mai conosciuto e che gli faceva srotolare l’esistenza in passi tanto conosciuti da essere ormai meccanici. Programma compilato nelle sue subroutine sinaptiche e lasciato ad attivarsi in automatico al suono di ogni sveglia.

Akio non si era opposto, e del motto di vita tutto si era ridotto a un trascinato ‘vai avanti’. In tale monotonia non ricordava più dove avesse perso il resto.

Tra loro, in quella stanza – lui e il medico – l’unico ad alzare lo sguardo fu il dottore.

«Gli esami sono tutti negativi, anche quelli più specifici che ti ho fatto fare. Una buona notizia, no?»

Lui annuì, ma sentiva di avere la testa distante già da quando si era seduto in sala d’aspetto. Non sapeva come, ma si perdeva con facilità, anche durante le riunioni di lavoro.

Lui si perdeva e non sapeva dove.

«Senti, Akio.» Il medico tolse gli occhiali dopo aver atteso una qualche reazione da parte sua. «Ci conosciamo fin dal liceo, fammi essere più amico che medico, adesso. Ti spiace?»

«No, basta che non mi chiedi di farti copiare il test di giapponese.»

«Ehi! Era Toshyuki a copiare giapponese. Io ti chiedevo fisica!»

Akio si passo una mano sul mento, le labbra si incresparono in un sorriso. «Vero. Chissà come se la passa. Non lo sento dai tempi dell’università.»

«Se la passa che è un vecchio con la pancia, quindi non c’è da preoccuparsi. Ma stavamo parlando di te, e anche nel tuo caso non c’è di che preoccuparsi. Forse. O forse sarebbe il caso che ne parlassimo con chiarezza.»

«Di cosa? Hai detto che non ho niente.»

«Di casi come il tuo ne ho visti tanti. Nella mia personale classifica delle frequenze sono al terzo posto, dopo raffreddori e infarti. Praticamente potrei dirti che i dolori allo stomaco sono dovuti a gastrite nervosa, e che l’insonnia, il respiro difficoltoso, i battiti saltati sono tutti sintomi di un forte stato d’ansia. Sei iperteso, Akio. Hai un’età per cui è anche normale, ma tu hai sempre avuto una salute di ferro, fin da ragazzo. La faccenda va guardata da un altro punto di vista.»

«Non mi pare di aver alzato i ritmi lavorativi.»

«Il lavoro è secondario. Al massimo possiamo considerarlo un’aggravante di minima entità.»

Il medico tolse gli occhiali e ripescò uno straccetto nero dalla custodia poggiata accanto al portapenne. Akio faceva molta meno fatica a seguire quei piccoli movimenti, che lo sguardo del suo interlocutore.

«Da quando è morto tuo figlio, non ti sei preso una pausa, non sei mai venuto da me per farti prescrivere una vacanza o anche solo un lungo permesso lavorativo e darti modo di riprenderti e riflettere. La settimana dopo i funerali eri di nuovo operativo, ma non è quello che fanno le persone normali nelle tue condizioni. Le persone normali, dopo il primo impatto, si prendono del tempo, staccano la spina… la tua è sempre rimasta nella presa. La testa ha retto fino a che ha potuto perché sei molto forte, ma non è rilassata. Non lo sei. Stai cedendo alla pressione.»

«Mi stai dicendo che sto diventando pazzo, forse? Andiamo…»

«No, ma la tua condizione di stress è critica. Ti colpisce costantemente e il corpo cerca di farvi fronte, ma non vi riesce al 100%, così ti lancia segnali di allarme: dolori, insonnia.» Il medico intrecciò le dita sulla superficie del tavolo e si sporse in avanti. «Akio, uno specialista saprebbe spiegartelo meglio, ma sei nel mezzo di un esaurimento nervoso.»

Akio sputò la propria ironia in un sorriso deforme. Alzò le mani. «Io non sono esaurito!»

«È quello che dicono tutti coloro che non vogliono rendersene conto. L’accettazione è il primo passo, il secondo è farsi aiutare. Ma se non corri ai ripari, ti ritroverai faccia a faccia con la depressione. Quindi, se vuoi un consiglio da medico e amico, la possiamo risolvere in due modi: affronti il problema e inizi a prenderti cura di te stesso o passiamo ai farmaci.»

Un aut-aut che Akio non si era aspettato.

Si guardò le mani, chiedendosi quando avessero iniziato a perdere la presa sulla sua vita e poi cambiando di colpo la domanda in una più subdola: era mai stato in grado di tenerla insieme? Guardando quanti spiragli ci fossero tra un dito e l’altro, l’idea che se la fosse fatta scivolare adagio senza rendersene conto non gli parve tanto campata in aria.

«Facciamo così.»

Akio alzò gli occhi sul vecchio compagno di scuola, nelle cui mani non avrebbe mai pensato di finire come paziente. Kurogane non era mai stato una cima a scuola, eppure l’impegno aveva dato i suoi frutti, bisognava solo trovare la strada, assecondare la predisposizione e ci si finiva per trovare con la maturità e l’autorevolezza per riuscire a dare un ordine anche lui, quando nessuno era mai stato in grado di dargliene, al di fuori di suo padre.

Nessuno era costretto a rispettare il canone della prima impressione, tutti potevano cambiare. Ma nell’assecondare la vocazione personale, Akio intravide uno scorcio fatto di quelle stesse vocazioni negate sul nascere con tutta la veemenza possibile. Castrate come animali, affinché nascessero e morissero lì, perché non collimavano con le sue, di vocazioni.

Fu un’immagine rapida, apparsa e scomparsa nel guardare gli occhi di quel compagno di scuola troppo diverso dalla persona che era diventata. E in quell’immagine vide prima un bambino troppo timido e poi un uomo troppo aggressivo. Se avesse assecondato quel bambino, forse avrebbe potuto trovare ancora traccia di quella timidezza nell’uomo che sarebbe diventato, forse avrebbe mantenuto più a lungo l’innocenza dell’infanzia, perdendola poco alla volta, senza che facesse male, invece che svegliarsi adulto dalla sera alla mattina.

Perché ci aveva pensato proprio adesso con così tanta forza?, si chiese mentre sentiva gli occhi, pesanti di colpo, pungere agli angoli, bruciare come li avesse tenuti spalancati a guardare la luce diretta del sole.

Akio li chiuse, strinse la sommità del naso, poggiando le dita negli angoli più interni che si trovò ad asciugare in maniera inaspettata.

«Ti senti bene?»

«Sì, sì.» Agitò l’altra mano nell’aria e poi guardò verso la finestra, sbattendo più volte le palpebre. Nella gola la saliva aveva un improvviso retrogusto salato. «Devo essere allergico a qualcosa nell’aria, ultimamente.»

Perché quei flash di consapevolezza lo avevano colpito in svariate occasioni, nei mesi precedenti, con una precisione chirurgica e nei momenti più disparati. Mentre era a lavoro, mentre parlava con Yumeko, mentre era fermo a un semaforo: la sua mente girava attorno agli oggetti che vedeva e le sinapsi creavano collegamenti fulminei e assassini come folgori che lo lasciavano disarmato.

Sì, disarmato: nessuna armatura per incassare il colpo, nessuna spada per poter colpire a propria volta e nessuno scudo dietro cui nascondersi.

«Certo, l’aria. Ascolta, facciamo che per questo mese ti trovi qualcosa da fare e vediamo come va. Rallenta i ritmi di lavoro, delega di più.»

«Quello non è un problema.»

«Bene. Dedicati a un hobby.»

Akio tirò indietro il mento.

«Hai capito bene.»

«E che hobby dovrei trovare?»

«Devi saperlo tu. Ci sarà pure qualcosa che ti piace fare nel tempo libero, qualche interesse… Che fai quando sei a casa?»

«Controllo il lavoro per il giorno dopo.»

«Oppure?»

«Mi aggiorno sulle novità, leggo le notizie dei concorrenti…»

«Qualcosa che non riguardi il lavoro.»

Akio sorrise spostando lo sguardo sul legno scuro e lucido della scrivania. «Seguivo le partite di mio figlio.»

«E ora che non c’è più?»

Akio realizzò di aver esaurito le risposte: a conti fatti, l’unico svago che aveva avuto era stato seguire la carriera di Yuzo, per il resto non faceva niente che non fosse legato al lavoro. Ci si era chiuso dentro, guadando tutto il mondo da una finestrella; la visuale limitata dove tutto scorreva via e lui immobile, dall’altra parte, a vederla andare.

«Ecco, è di questo che stavo parlando. Devi trovare qualcosa che ti tenga la testa impegnata dagli stessi pensieri, che spezzi la routine cui sei abituato. Hai bisogno di stimoli per distrarti, sentirti attivo.»

«Io mi sento attivo!»

«Allora fai più sesso con tua moglie. Consiglio del medico.»

Akio fece per ribattere, ma quando vide l’amico ridacchiare da sotto ai baffi assottigliò lo sguardo e fece partire un sopracciglio per vette acute. «L’abito non fa il medico, con te.» Si alzò, appoggiò sul collo la sciarpa in lana pettinata ripiegata a doppio e la strinse a cappio, in modo che le due estremità pendessero sul davanti; sarebbero sparite sotto al cappotto.

«Anche quello è uno stimolante.» Kurogane allargò le braccia. «Naturale, per di più! Lo so che siamo nell’età del far cilecca, se vuoi posso sempre prescriverti un aiuto. Funziona.»

E quindi, sì, in definitiva potevi diventare un medico rispettabile e rimanere lo stesso ciarlatano che eri da ragazzo. Di sé stesso, Akio sapeva di essere rimasto pressoché identico allo studente che era stato e aveva diviso più volte la classe con l’altrettanto over-sessanta che stava piazzato dietro la scrivania a lanciare sottintesi e doppi sensi battendo le dita sul legno del tavolo. Quel pensiero, se un attimo prima l’aveva fatto sorridere, l’istante successivo rubò tutta la leggerezza che aveva portato con sé perché gli aveva fatto realizzare di non essersi mai evoluto. Fine a sé stesso, dall’inizio alla fine, sempre uguale come se non fosse cresciuto e la persona che era ora era anche quella che era stata. Era rimasto il ragazzino fermo al banco del liceo cui nessuno si sognava di dare ordini.

La malinconia fu un pugno allo stomaco che gli spezzò il respiro a metà, in una fastidiosa sensazione che diventava più o meno intensa a fasi alterne. Akio sopperì alla mancanza di fiato con un mezzo sbadiglio, dissimulò, e indossò il cappotto.

«Allora siamo d’accorso», riprese Kurogane. «Prova a trovare da solo un modo per rilassarti, fai un’alimentazione più sana e meno grassa, concediti un po’ di attività fisica. Tra un po’ torni e vediamo: se sei ancora allo stesso punto, ti mando da uno specialista che conosco e cominciamo una cura farmacologica leggera. Vorrei non arrivare a sentirmi dire che hai avuto un attacco di panico.»

L’orgoglio di casa Morisaki, il motto storico del ‘reagisci, sii forte, vai avanti’ gli fece alzare la testa e tendere la schiena. La sua struttura era ancora imponente, anche a dispetto degli anni che passavano e che lo vedevano ormai oltre i sessanta. Sbuffò un sorriso dal naso e il mezzo respiro che prese gli diede di nuovo la sensazione di incompletezza e di aria mancante.

«Non avrò mai un attacco di panico. Non io.»

 

«E che avrebbe dovuto dire? Niente di più di ciò che già sapevamo: stress e ipertensione.»

– Nient’altro?

«Ho un po’ di gastrite, ma è una conseguenza come le altre.»

Il sospiro di Yumeko fu come se riuscisse a passare il filtro telefonico dello smartphone. Akio ebbe l’impressione che si poggiasse sull’orecchio, caldo e carezzevole. Non si sentì in colpa per averle omesso parte della verità, bastava la sensazione crescente di non essere stato un buon marito a raggruppare anche tutto il resto. Quella era una percezione nata di recente, ma che aveva trovato terreno fertile per svilupparsi e dargli una fitta in più nei suoi mal di stomaco notturni.

Pessimo padre, pessimo marito e pure pessimo figlio, ma era il meno peggio. C’era qualcosa per cui non fosse stato così fallimentare nella sua vita? Dopo aver passato sessant’anni a sentirsi arrivato, di colpo si era posto il resto della domanda: ma arrivato dove? E aveva scoperto di non essere mai andato da nessuna parte. Se non vai non arrivi, semplice.

– Meglio così. Ti ha dato qualcosa da prendere?

«Dei gastroprotettori. Passerò in farmacia prima di andare al lavoro.»

– Avresti potuto evitare di andarci, oggi. Hai dormito quasi per niente stanotte. Il dottore ha detto che dovresti riposare di più?

«Sai che i ricambisti stanno premendo per strappare condizioni migliori nel nuovo contratto. Bisogna star dietro a ogni clausola.»

E io sono anni che ti dico che devi lavorare meno. Hai molti collaboratori, affida a loro qualcosa. Possibile che solo nel week-end io riesca a vederti a casa prima delle nove?

«Abbiamo l’ultima produzione in corso. Ne avrò ancora per un po’, ma si potrebbe…» Akio guardò fuori dal finestrino il fiume di Nankatsu e chissà perché gli venne in mente il mare d’estati lontane nel tempo ma non nelle distanze spaziali, in cui aveva trent’anni in meno e Yumeko era ancora una margherita che apriva al sole i propri petali, nel girare di una gonna a ruota.

Perché non usciamo a cena più spesso?

Yumeko lo anticipò, strappandolo a quei ricordi persi nel tempo e vecchi, anche se avevano l’odore della gioventù. – Magari posso passare al lavoro, – rise, – ti vengo a prendere io così non avrai scuse.

«Mi sembra una buona idea, ci sono dei ristoranti nuovi in cui sono stato con i clienti che non erano male.»

E intanto nelle orecchie continuava a frusciare il mormorio del mare.

 

Da qualche tempo aveva settato la sveglia sul telefono affinché suonasse a orari precisi e con segnali acustici differenti per poterli riconoscere e capire subito in quale momento della giornata si trovasse. Non era stata una sua idea, ma della nuova e giovane segretaria. La metodica e conosciuta Hirazawa, figlia della vecchia scuola come lui, era andata in pensione dopo essere rimasta al suo servizio per venticinque anni. Il tempo era passato anche per lei e aveva ammesso, con un’onestà che le aveva invidiato, di non essere più in grado di tenere quel ritmo.

Alla sua domanda: «Non si annoierà con tutto quel tempo libero?» la donna aveva riso con una familiarità estremamente rara nei suoi confronti.

«Tempo libero? Con cinque nipoti sarà già un miracolo se potrò dedicarmi a un hobby!»

Non avendo nipoti di cui occuparsi – e ricordando che nella sua famiglia erano sempre state bambinaie e maggiordomi a occuparsi dei bambini – Akio realizzò che non avrebbe mai potuto capire quell’entusiasmo a cavallo tra gioia e impegno. Chiudeva un lavoro per occuparsi di un altro a titolo gratuito.

Akio aveva allora scoperto di non sapersi pensare senza il lavoro. Nella sua natura il concetto di restare con le mani in mano non esisteva. Ma senza lavoro e nipoti che avrebbe fatto?

Poteva chiudersi nella sicurezza che ci sarebbe voluto ancora tempo, ed era sempre la sua scelta finale per dimenticarsi della domanda e della risposta che non sapeva dare. Lui era in grado di tenere insieme le fila di quella filiale e stare dietro al Consiglio d’Amministrazione, viaggiare per il Giappone, viaggiare all’estero.

La signorina Miyoko era arrivata una settimana prima che la Hirazawa andasse via. Aveva fatto affiancamento per prendere confidenza con le sue abitudini e non fargli risentire del cambio che era anche generazionale. Lo aveva realizzato quando si era visto arrivare questa bella ragazza sui venticinque, con i capelli corti in un caschetto perfetto, tailleur impeccabile e scarpe con tacco alto e sottile su cui volteggiava con l’agilità degli equilibristi. Era piena di idee e suggerimenti per ottimizzare e rinfrescare le vecchie abitudini un po’ stantie.

La differenza di energie era stata netta.

Se la signora Hirazawa poteva essere considerata costante come flusso d’acqua da un rubinetto, Miyoko era zampillo.

Un giorno se n’era uscita con quel nuovo metodo di non ricordava quale influente personaggio di internet e aveva smanettato con il suo cellulare.

«Perché deve imparare a regolare il suo tempo, Morisaki-san. Ci si perde troppo; guardi che mica l’aspetta.»

Non si era mai sentito come uno che perdeva tempo. Anzi, era diventato un esperto nell’ottimizzarlo fino all’ultimo minuto. Lui, il tempo, l’aveva chiuso in compartimenti stagni ben definiti e ordinati. Ma ora si era reso conto di averne riservato troppo poco alla famiglia: giusto quegli avanzi tra un lavoro e l’altro. I risultati si erano visti e le convinzioni avevano iniziato a crollare come vecchie mura infiltrate dall’acqua. Ma aveva sveglie precise, adesso, in cui saper ritrovare tutto il tempo di cui aveva bisogno, quindi il pensiero che fosse in pieno esaurimento – addirittura a un passo dalla depressione – lo faceva un po’ ridere. Kurogane da buon medico tendeva a ingigantire per farlo spaventare, visto che di solito le persone lasciavano correre. Con lui, però, la psicologia del terrore non faceva una gran presa, perché non era mai stato tipo da spaventarsi in fretta ed era orgoglioso di come conosceva sé stesso e i propri limiti.

Magari, sì, avrebbe solo rallentato un po’ il lavoro non appena il periodo delle produzioni e ridefinizione dei contratti fosse stato superato. Anzi, adesso avrebbe atteso la sveglia delle 19.30 e avrebbe staccato per far vedere anche a Yumeko che i suoi non sarebbero stati solo altri dei tanti propositi non mantenuti. Aveva anche fame, nonostante alcune fitte allo stomaco che l’avevano costretto a ricorrere a una rilassante camomilla.

E addio al caffè, aveva detto Kurogane, addio al fumo, addio al vino. Insomma, gli avesse detto “di’ addio alla vita” sarebbe stato più facile. Tanto alle sigarette non avrebbe rinunciato e al diavolo tutti i dolori di stomaco del mondo.

Il telefono sulla scrivania – il fisso – suonò mentre finiva di controllare una tabella sui rendimenti mensili.

Afferrò con sicurezza il cordless senza staccare gli occhi dal monitor. E perché Miyoko gliel’aveva passata a quell’ora? Lo sapeva che dopo le 17.00 riceveva solo telefonate familiari.

«Morisaki.» Calò l’inflessione più tagliente del repertorio per far capire che il suo tempo super distribuito non aveva spazi.

– Lo sapevo, – sospirarono dall’altra parte.

Akio tirò indietro il mento e tolse gli occhiali. «Miyoko-chan? Perché mi sta chiamando sul telefono aziendale?»

– Perché me ne sono andata, salutandola per giunta, e lei non se n’è proprio accorto. Immaginavo fosse ancora lì.

«Andata via? Di già? Aveva un impegno? Non lo ricordavo.»

Il nuovo sospiro arrivò più pesante del primo. – Morisaki-san, lo ha fatto ancora. Ha una vaga idea di che ore siano?

«Non sono ancora le 19.30», disse con orgoglio e un pizzico d’arroganza. Il cellulare iniziò a suonare in quel momento. «Sentito? Eccole. E ho anche quasi finito.» Ma nel prendere il telefono si accorse che mancava del tutto il frizzante suono del sax di Charlie Parker, in favore della lugubre eleganza dei violini.

– Ho sentito eccome. È la colonna sonora di Game of Thrones. Sono le 21.00 non le 19.30. Lo ha fatto ancora. Ci si è perso ancora.

«Ho lavorato, non ho perso tempo.» Akio non misurò la stizza. Lanciò lo smartphone tra le scartoffie con un moto infantile come quando perdeva a carte con Riyuusei, da bambini.

– Ma non è il tempo che si perde. Il tempo è sempre quello. È lei Morisaki-san. È lei che si perde dentro al tempo e se lo fa scappare da tutte le parti. Io ci provo a organizzare i suoi orari al meglio, ma lei non mi aiuta mica. Pensi alla signora Yumeko che le ha preparato la cena e la starà aspettando.

Akio avrebbe voluto arrabbiarsi. Il suo orgoglio borbottava come una pentola e diceva che una simile bambinetta dovesse portargli più rispetto e invece si lasciò cadere contro l’imbottitura della poltrona, gli occhiali sulla scrivania, le dita strette alla sommità del setto.

«Vuole farmi sentire in colpa?»

– Funzionerebbe a farle prestare più attenzione a sé stesso? Non deve affaticarsi alla sua età.

«Ehi! Sono ancora perfettamente in grado di dare le piste ai trentenni.» Ma con la tazza vuota della camomilla che lo guardava dall’angolo della scrivania si sentì poco credibile. E anche la risatina tra le parole di Miyoko ci mise del suo.

– Non ne dubito, ma ora torni a casa. Faccia il bravo. Buona notte.

«A domani.»

Il telefono gli scivolò addosso, mentre restava col viso affondato nella mano. Gli occhi chiusi, il respiro regolare ma pesante con cui cercava di controllare una frustrazione che era solo colpa sua, del suo essere fuori tempo con ciò che lo circondava: non importava quante sveglie mettesse, lui non ci stava dietro, era sempre in ritardo.

Perso nel tempo.

Non si era mai pensato in quel modo, perché aveva sempre avuto tutto sotto controllo da non avvertire mai una sensazione di smarrimento. Lui aveva il controllo di tutto… ma poteva essere a sua volta sotto il controllo di qualcosa senza essersene mai accorto?

Di certo quello di suo padre fino a qualche anno fa, però liberarsene non era bastato?

Di cosa non riusciva a scrollarsi che lo rendeva così distratto e scollegato dal mondo?

Perduto.

Mi sono perduto.

Quando?

…con Yuzo.

L’avevi superato.

Dio, come si fa a superare un figlio morto ammazzato? Come si fa a superare la morte di un figlio?

Si fa tenendosi stretto ciò che resta.

Ma in ciò che restava l’altro figlio lo tollerava a malapena, aveva distrutto le certezze del rapporto con suo padre e credeva che Yumeko lo sopportasse solo per pazienza e abitudine.

Ti stai esaurendo?

Akio spalancò gli occhi a quella vocina nella testa e bloccò il respiro a metà, la bocca aperta. Un battito saltò; aveva di nuovo il fiato ridotto all’osso e le mani aggrappate alle teste dei braccioli. L’ufficio, nella penombra della sola lampada da scrivania, gli fece capire quanto buio fosse fuori, ma non quanto lo fosse dentro. Un buio che divorava il fondo della stanza fino alla porta e sembrava aspettarlo.

Prese un paio di rifiati e si gettò sulle carte e il computer, aggrottando le sopracciglia.

Stava bene, era solo stressato. Era normale con quello che aveva passato, con l’età.

Drizzò la schiena e nella testa le frasi in cui si dava del rammollito e attribuiva la colpa alla soggezione si sommavano a raffica, alternate a mentali risatine. Ridere di sé, delle sciocchezze con cui gli altri gli avevano riempito la testa. Erano solo cose di poco conto, da dimenticare. C’era il lavoro a cui stare dietro, molto più importante, e dopo superati contratti e produzioni si sarebbe rilassato e avrebbe fatto passare quei dolori fastidiosi, quelle ansie di respiri tronchi.

Esaurimento. Panico. Che idiozie.

Non si era perso in niente, non lui. E seppure avesse avuto un attimo di sbandamento a ritrovarsi ci avrebbe messo un momento, perché lui non si perdeva mai e non perdeva mai nessuno.

Akio si prese tutto il tempo per sistemare i fogli sparsi e non ritrovarli in disordine il giorno dopo. Spense il computer e si alzò. Recuperò il cappotto nei pressi dell’appendiabiti accanto alla porta e indossò anche quello col dovuto tempo in un susseguirsi di prese di posizione contro tutte le sveglie e gli orologi del mondo: Akio Morisaki non si perdeva, che fosse dentro o fuori dal tempo.

Afferrò la ventiquattrore e spense la lampada. Lasciò che a guidarlo fuori nel corridoio fossero la sua memoria di quel posto e le luci di emergenza, che soffondevano l’ambiente in raggi d’azione grandi quanto il doppio di un pallone da calcio. Tracciavano un percorso che poi l’abitudine completava dei tasselli mancanti.

Una mano nella tasca del cappotto aperto, i lembi della sciarpa che pendevano e la valigetta; Akio era padrone assoluto di quella penombra piena di negazioni. Perché il buio nascondeva per principio ed era facile annidarci dentro anche ciò che non si voleva vedere.

L’azienda era silenziosa, almeno al piano dove si trovava il suo ufficio. Avrebbe potuto pensare non ci fosse nessuno e lui fosse l’ultimo irriducibile, però non era così presuntuoso e sapeva che qualcun altro stava tirando tardi. Gli informatici, quelli del team di Ricerca e Sviluppo, gli addetti stampa. Meteore che al buio brillavano di più e dimostravano quanta effettiva dedizione ci mettessero nel lavoro.

Akio era sempre stato orgoglioso della propria sede. Sentiva, senza presunzione, di avere buona parte del merito del loro successo. Quei dipendenti li aveva motivati lui, faceva loro da esempio e li andava a controllare spesso. Forse aveva dedicato loro tutto il suo tempo, quello che non sprecava mai.

E quanto di quello stesso tempo aveva sottratto alla sua famiglia?

Nell’ascensore dalle pareti opache e neon diffusi in alto, l’aria sparì ancora.

E quanto di quello stesso tempo l’aveva inglobato, trasformandolo da controllore a controllato?

Akio allentò il nodo alla cravatta; l’aria non entrava ma sapeva di averla lì attorno. Il problema era solo nella sua testa, tutto nella sua testa.

E quanto di quello stesso tempo avrebbe potuto passare con Yuzo?

Akio strinse gli occhi, preda di una sensazione di disagio che cresceva, arrivava da lontano e montava come la marea dalle piante dei piedi, pietrificava le gambe, diffondeva un calore improvviso che lo faceva sudare.

E quanto di quello stesso tempo avrebbe potuto dedicare a Shuzo, invece di voltargli le spalle?

Magari sarebbe cresciuto diversamente, magari non sarebbe finito in prigione, sulla strada sbagliata col rischio di morire anche lui.

Akio aveva la bocca spalancata, era stretto con la schiena nell’angolo. Arretrato un passo alla volta, senza fermarsi se non quando era stato il muro a dare consistenza ai confini che aveva attorno.

Il cuore batteva così forte che forse si sarebbe fermato di colpo. Rotto o solo troppo stanco.

E se anche l’altro suo figlio fosse morto, che ne sarebbe stato di Yumeko?

Non avrebbe retto, sarebbe crollata; castello di sabbia.

E tutto per quel tempo che aveva dedicato troppo all’azienda, togliendolo al resto.

Tutto perché lui nel tempo ci si era perso da quando era venuto al mondo e non aveva mai trovato una vera direzione per uscirne.

«Morisaki-san? Morisaki-san, sta bene? Devo chiamare un’ambulanza?»

Akio sollevò la testa che aveva nascosto tra le ginocchia senza rendersene conto, e il viso preoccupato di Onoda, una delle guardie di vigilanza, comparve davanti ai suoi occhi. Era leggermente piegato sulle ginocchia e gli teneva una mano sopra la spalla.

«Non rispondeva, si sente male? Chiamo il soccorso?»

«No. No, sto… Dammi un momento. Mi sono appisolato, devo aver lavorato troppo.»

Il sopracciglio inarcato della guardia gli disse di non esser stato creduto, e non lo biasimò.

Akio cercò di prendere insieme le forze e far passare quel formicolio che aveva alle gambe e alle mani. la testa era vuota e leggera, non aveva un equilibrio stabile neppure da seduto e dalla vista attendeva il diradarsi del biancore che aveva mangiato tutto pochi – o quanti? – istanti prima.

Non si era accorto di venire scosso né di essere scivolato a terra. Negli occhi, nella testa, nel cuore schiacciato sotto una pressa, nel respiro strappato dai polmoni aveva visto nient’altro che la fine di ciò che ancora gli restava ed era minuscolo, una briciola, trattenuto con unghie e denti.

Si fece aiutare da Onoda e si tirò su. Il pavimento oscillò un momento, ma fu ben attento a non vacillare.

«È proprio certo di non volere che le chiami almeno un taxi per farla portare a casa?»

«No, no. È a posto.»

Lisciò il cappotto, sistemò la sciarpa e uscì dall’ascensore. Le suole in cuoio conferirono un suono netto ai suoi passi lungo l’atrio, che attraversò senza guardarsi indietro.

«Buonanotte.»

L’unico saluto che disperse nell’aria e nel gesto di una mano alzata. Poi riempì i polmoni col freddo della sera senza smettere di camminare. Il passo divenne più affrettato appena entrò nel parcheggio. Ultimi metri percorsi a cavallo di un ritmo svelto e una vera e propria corsa.

C’erano mostri invisibili nella notte, si muovevano anche loro e Akio doveva solo essere più veloce e lasciarseli indietro.

Armeggiò con le chiavi incastrate nella tasca del cappotto. Akio imprecò; una maledizione che trascinava un lamento nella coda delle ultime sillabe. Una supplica.

Le chiavi spuntarono in un tintinnare fastidioso e se le rigirò tutte tra le dita fino a trovare quella giusta come se non la si conoscesse da anni.

Scattare di antifurto, chiusure centralizzate, tra luci e suoni che gli fecero balzare il cuore nella gola.

 La maniglia scivolò dalla presa una volta e allora la strinse con entrambe le mani. Entrò, l’auto era fredda come la vita. Lanciò la ventiquattrore sul seggiolino accanto e si chiuse dentro, tirando lo sportello con talmente tanta forza da far vibrare il finestrino nello schianto.

Nel silenzio del parcheggio, rotto solo dal traffico in lontananza, il suo respiro era il rantolo della bestia agonizzante che nella morte vedeva la sola salvezza a una sofferenza troppo lunga. L’ultimo fiato, quello che avrebbe dato sollievo ai polmoni e poi la fine. Akio lo prese spalancando la bocca e poi espirando un soffio lungo. Eppure, non arrivò alcuna fine: era ancora lì, attraversato da brividi tra le spalle e fin nelle reni. Brividi di freddo e una paura che colava dallo stomaco – dove le fitte diedero un morso – lungo le cosce, nemmeno la sua vescica avesse ceduto e se la fosse fatta nei pantaloni.

Abbassò gli occhi; non era più certo che fosse solo una sensazione, ma i pantaloni risultarono asciutti dopo averne tastato il cavallo, e sulle mani fu dove i suoi occhi si fermarono.

Mani che tremavano, che erano ghiacciate e forse troppo vecchie per tenere saldo l’ordine della propria vita. Il controllo era andato perduto assieme a tutte le altre poche convinzioni che ancora si ostinava a trattenere con un orgoglio più vecchio di lui.

Perso nel tempo che scorreva sempre, consapevole di sé stesso, Akio fissò le uniche vere certezze che non aveva voluto vedere: si stava esaurendo e aveva appena avuto un attacco di panico.

 

“Ho perso la mia realtà.

Ho perso tutto ciò che avevo in me.”

 

Religion – Isak Danielson

 

 


 

 

Note finali: …Houston, qualcuno qui ha un problema. :3

Akio, fino adesso, è sempre stato quello che ‘pareva’ aver tenuto botta in maniera impeccabile. In ‘Malerba’, soprattutto. Ma già lì e poi in ‘Jikan’ aveva iniziato a mostrare dei segni di cedimento.

Perché i percorsi di Shuzo e suo padre sono uguali, ma opposti: Shuzo era a pezzi e si è dovuto ricostruire, Akio era integro e ora sta finendo a pezzi. I Morisaki sono tutti uguali, sotto sotto, e prima o poi devono fare i conti con ciò che hanno accantonato.

Stavolta tocca ad Akio ed è già partito malissimo! XD

 

 

   
 
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