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Autore: Moonfire2394    25/05/2020    0 recensioni
I genitori di Leona e Gabriel vengono uccisi brutalmente da un trio misterioso di vampiri in cerca delle mitiche "reliquie". Dopo il tragico evento, verranno accolti al campo Betelgeuse, un luogo dove quelli come loro, i protettori, vengono addestrati per diventare cacciatori di creature soprannaturali. In realtà loro non sono dei semplici protettori, in loro alberga l'antico potere dei dominatori degli elementi naturali: imedjai. Un mistero pero' avvolge quell'idilliaco posto e il subdolo sire che lo governa: le strane sparizioni dei giovani protettori. Guidata dalla sete di vendetta per quelli che l'avevano privata dei suoi cari, Leona crescerà con la convinzione che tutti i vampiri siano crudeli e assetati di sangue. Fino a quando l'incontro con uno di loro, il vampiro Edward Cullen, metterà sottosopra tutto quello in cui ha sempre creduto facendo vacillare l'odio che aveva covato da quando era bambina. Questo incontro la porrà di fronte a una scelta. Quale sarà il suo destino?
Una storia di avventura, amicizia e giovani amori che spero catturi la vostra attenzione:)
Genere: Avventura, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Precedente alla saga
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CAPITOLO 28 – Chi ha spento la luce?

 Che sensazione meravigliosa, pensai guardando il fondale cristallino sotto di me. Mentre caracollavo armoniosamente sopra il pelo dell’acqua, la brezza mi sferzava la pelle in un atto di sfida, e si trastullava fra i miei riccioli neri, ammassandoli in un cespuglio informe di ghirigori ingarbugliati. Era davvero indescrivibile la bellezza con cui il lago rispondeva alle carezze disegnate dai miei volteggi, il gorgoglio delle mie pennellate appena accennate sulla sua superficie, piatta, cheta, quasi immota, e l’incresparsi delle onde dietro di me. Come avevo potuto perdermi tutto questo? L’acqua e l’aria erano i miei elementi, come il fuoco e la terra lo erano per Leona.
Dannazione, stavo camminando sull’acqua! Ero così elettrizzato che stentavo a mantenere la concentrazione, cosa che non potevo assolutamente permettermi o sarei inciampato con un imbarazzantissimo flop. Finalmente riuscì a capire perché mia sorella fosse così morbosamente gelosa dei suoi segreti... Mi voltai come punto dal suo sguardo che mi grattava la schiena in cerca di un appiglio. Ah, quella ragazzina così tremendamente previdente, accorta in una maniera asfissiante, maniacalmente prudente!
Cazzo, poteva smetterla di prendere le sembianze di un grumo d’ansia solo per un istante? Anche da quella distanza riuscivo a percepire la sua angoscia, la paura per la mia lontananza…e lei mi tirava verso di sé inconsapevolmente, come se avessi un uncino piantato nella carne e tirasse con forza travolgente nella sua direzione. Non ce l’avrei fatta comunque ad avercela con lei a lungo. Quando avrebbe recepito il messaggio che io non ero più lo sciocco bambino bisognoso di essere protetto dal mondo? E poi ero il fratello maggiore, essendo nato dieci minuti prima di lei. Me l’ero guadagnato quel titolo!
Sospirai arrendendomi alle sue folli precauzioni. Mostrarmi le sue tecniche si aggiunse alla già infinita lista di tentativi di proteggermi da qualsiasi cosa ritenesse una minaccia. Cosa avrebbe mai potuto minacciare me in quei fondali inesplorati? Ridicolo! Come poteva solo pensare che esistesse qualcosa in grado di spaventarmi? A volte credevo dimenticasse cosa volesse dire essere un medjai e il potere che implicava ricoprire quel ruolo.
Piombai al centro del lago con una piroetta aggraziata e salutai i miei amici che attendevano a riva. Iris se ne stava appoggiata con aria annoiata sul tronco del salice. Quella specie di volpe pervertita e manipolatrice, poco importava se fosse vagamente carina, mi dava i brividi sul serio. Magari, meditai in un angolino del mio subconscio, se non fosse stata così psicopatica, ci avrei fatto un pensierino. Indugiai meditabondo in ascolto dello sciabordio delle onde che avevo generato. La mia mente stava vagabondando senza freni inibitori fra pensieri decisamente poco coerenti, mescolati fra loro, un miscuglio di facce, di voci, di…
Mi immobilizzai. Senza che gli avessi conferito alcun consenso, il mio cervello proiettò, come una cinepresa, l’immagine di quella donna che avevo incontrato quella notte…i lunghi capelli argentei, la bellezza sconvolgente, la pelle diafana al chiarore della luna, la cantilena dolce della sua voce che m’invitava a fuggire con lei, i suoi occhi magnetici, rosso cremisi, che m’ipotizzavano nelle sue screziature sanguigne…La rabbia riaffiorò incontrollata e con essa il forte istinto innato di uccidere quella creatura dall’anima dannata. E non solo per ciò che rappresentava, non solo perché fosse il mio nemico naturale, ma perché mi aveva privato di tutto quello che amavo di più. Con quale coraggio si era fatta vedere dinanzi a me? Con quale spavalderia si prendeva beffe dell’odio che mi ardeva dentro e si dimenava furioso nel mio petto, come un fuoco divoratore? Un fuoco spietato che bramava travolgerla, intrappolarla fra le sue spire, ed io sarei rimasto lì a osservare compiaciuto quel rogo giustiziere, mentre, lentamente, veniva consumata dalle fiamme trasformandola in insulsa cenere.
‘Un giorno, non molto lontano, imparerai ad amarmi’ mi ripetee il ricordo di quella voce seduttrice. Ebbi una fitta lancinante alla bocca dello stomaco: volevo vomitare al pensiero che potessi amare quella cosa che aveva ucciso i miei genitori. Piuttosto mi sarei conficcato Symphony nel cuore, se mai avesse cominciato a palpitare per lei…
Mi piegai sulle ginocchia per scacciare via quella nube di disgusto e disprezzo che mi stava avvelenando e cominciai le mie ricerche. Modulando la rifrazione della luce che si specchiava nel lago, fui capace di potenziare la vista, vigile e pronto a cogliere qualsiasi bagliore o luccichio sospetto. Non sarebbe stato difficile trovare il resto degli amuleti col nasone di quel damerino fatato…Mi sorpresi di quanto fosse profondo il lago in quel punto, scuro, inabissato. Nonostante i miei occhi fossero potenziati, la abnorme voragine offuscata dalle ombre che si estendeva sotto di me non accennava a schiarirsi. Inaspettatamente, con la coda dell’occhio scorsi qualcosa di nero e nebuloso, contornato da turbinii caotici, serpeggiare nelle profondità ignote, ma non riuscì a capire cosa fosse. Scossi il capo. Probabilmente avevo inalato qualche gas allucinogeno in mezzo alla giungla. Eppure c’era qualcosa in quella roccia che non mi convinceva del tutto. Provai la allo-cosa che avevo appena appreso da mia sorella e cominciai a tirare e…diamine! Quelle monete erano incastrate proprio per bene lì sotto. Tirai ancora più forte ma non andò esattamente secondo i piani.
Merda! La frequenza magnetica del peltro slittò su un’altra e un pezzo di ferro arrugginito emerse dalla sabbia e si schiantò contro la roccia d’ossidiana sottostante. Poi accadde tutto molto velocemente. La voce  echeggiante di Fabiano si perse nel fragore del terremoto, il lago si agitò, scosso da un urlo straziante, cavernicolo e assordante che mi lacerò i timpani, e la nebbia, sospinta dai venti, si avviluppò tutta attorno alla radura lagunare gettandola in un mondo privo di colori. In quel caos riuscì ad abbassare lo sguardo e… qualcosa, sta volta ne ero sicurissimo, di molto, molto grosso si stava avvicinando con furia verso la superficie. Infine l’esplosione.
Stavo letteralmente volando. Un attimo prima mi dimenavo fra le nubi, quello dopo piombai su qualcosa di viscido, molle e nauseabondo che non riuscì a definire, scivolando fra file di lance bianchissime e aguzze, addentrandomi in discesa lungo una galleria che si stringeva man mano che precipitavo giù fra il terribile miasma di alghe putrefatte e gas orticanti, ma…chi aveva spento la luce? Davvero, non avevo nessun’altra domanda sensata da porre in quel momento, me ne scuso. Dall’altra parte non mi capitava spesso di finire dentro lo stomaco di un mostro marino. A quanto pare c’era sempre una prima volta.
Guardiamo il lato positivo, pensai. Ero ancora vivo e i succhi gastrici non erano così male dopotutto, escludendo il fatto che mi stessero denudando della mia tenuta di combattimento. Gli scarponcini si erano già trasformati in una pappetta molle e appiccicosa e l’orlo del pantaloni aveva raggiunto le ginocchia. Bolle di gas vomitevole scoppiettavano un po’ da per tutto, ridondando sulle pareti della sacca digestiva del mostro, e l’ossigeno cominciava scarseggiare. Il succo cominciò a sfrigolare sulla pelle, perciò dovetti isolarla per evitare che venisse decomposta insieme agli indumenti. Sfoderai Symphony, spingendola verso l’alto, sopra la testa. Non avevo alcuna intenzione di dare in pasto la mia bambina a quell’orrenda belva.
Ben presto delle scarpe non rimase più nulla. Ero scalzo, il sudore m’imperlava la fronte e la maglietta si era appicciata al torso come un guanto. Là dentro faceva un caldo insopportabile, la via d’uscita più vicina non sembrava facile da raggiungere e l’alternativa, ovvero il passaggio sul retro, non era nemmeno da prendere in considerazione…Dovevo fare qualcosa. Feci qualche passo per raggiungere la parete più vicina e affondai la pianta del piede in quella melma untuosa e scivolosa sfregando accidentalmente contro dei piccoli oggetti freddi di metallo, smussati agli angoli. Affondai un braccio nei succhi e ne raccolsi una manciata, trattenendo i rigurgiti che mi bruciavano in gola.
Sorrisi. Non potevo crederci, erano le monete di peltro! Ancora una volta avevo portato con me la mia fortuna sfacciata, persino in una situazione disastrosa come quella. Il destino aveva voluto che gli amuleti fossero stati ingeriti da poco, dunque gli acidi non li avevano completamente corrosi, e il nasone di sua maestà per lo meno era ancora in bella vista. Ne arraffai due dozzine, non poteva mai sapersi, e mi riempì le tasche. Non vedevo l’ora di vedere la faccia che avrebbe fatto quella tontolona mia sorella di fronte a quel cospicuo bottino…
Ci fu un altro scossone improvviso e barcollai all’indietro finendo contro un muro di muco dal puzzo stomachevole che filava con uno squittio colloso e inquietante. L’intera sacca vibrò e, nel chiassoso ruggito della bestia, scorsi una nota di malinconia, di tremenda solitudine che mi intristì al punto da volerla confortare. Come avevo fatto a capirla? Stava provando a comunicare con me?
Con le mani ancora incollate alla parete, viscida come catarro, la accarezzai dall’interno, con movimenti lenti e cauti, anche se non avevo la minima idea di cosa stessi facendo. Ero il suo succulento spuntino, ma infondo non mi aveva masticato, cosa che non le sarebbe costato nessuno sforzo, né potevo biasimarla per avermi mangiato. Non era altro che un riflesso incondizionato. Poco prima l’avevo quasi presa a sprangate, avrei sfidato qualunque mostruosità marina a fare altrimenti. Potevo sentire l’effetto che quel contatto aveva su di lei, o lui…non avevamo avuto modo di conoscerci approfonditamente.
Lo stomaco aveva smesso di vibrare, ma il succo gastrico era risalito fin su nelle cosce, ribollendo con un crepitio frizzante. Considerando che non erano trascorsi nemmeno cinque minuti, se l’acido avesse continuato ad aumentare a quella velocità, non mi rimaneva molto tempo. Brandivo ancora la mia spada, stretta nel mio saldo pugno. La debole scintilla metallica che la lama irradiò, illuminò solo per un brevissimo istante l’antro oscuro che presto si sarebbe trasformato nella mia tomba. Con un pizzico di rimorso, presi una sofferta decisione dal momento che non riuscii a trovare alternative migliori: le avrei squarciato il ventre dall’interno.
«Scusa mia bella ragazzona» le dissi sinceramente rammaricato «non posso proprio permettermi di morire così o mia sorella non me lo perdonerebbe per l’eternità». Risaldai l’impugnatura sull’elsa con entrambe le mani, trascinando l’arma parallelamente al mio fianco. Il suo sibilo sottile risuonò fin troppo freddo e incolore quella volta. Symphony si era rifiutata di cantare ma sapevo che era pronta a vibrare un colpo deciso. Ma non io. Sentivo che la mia connaturata spavalderia stava scemando e così anche la mia irreprensibile arroganza si stava affievolendo. La belva emise un boato simile al sonar di un sottomarino e per poco la spada non mi sfuggì di mano.
Ancora quella solitudine. Era dentro me, la stava condividendo, si stava impadronendo delle mie emozioni come se fossero sintonizzate coi suoi pensieri. Ma c’era qualcos’altro in quelle frequenze sonore…una sviscerata nostalgia, nostalgia di casa, mi parlava di una separazione, una…cosa diamine mi stava succedendo? Leona era la rincitrullita che comunicava con le bestie, non io. No, no, no, nella maniera più assoluta. Ripresi il controllo della spada. Ignorai il formicolio alle dite, intorpidite per la morsa avvinghiante appena sopra la guardia, e ci riprovai. Espirai fuori quel miscuglio di gas malsani dai miei polmoni, madido di sudore che mi colava lungo le tempie, e chiusi gli occhi.  
«Cazzo non ce la faccio!» proruppi in quell’imprecazione esasperata. La testa mi ciondolò sul petto come se il collo non avesse più la forza di sostenerla.
«È assurdo! Non puoi chiedere pietà a uno che hai appena tentato di uccidere!» le strillai dall’interno del suo organo digestivo come se potesse sentirmi. Trovai ancora appoggio alla parete e mi ricoprì di muco, sentivo quel liquido denso insinuarsi  fra i capelli e colarmi sulle spalle, simile, per certi aspetti, alla bava di Edna.
«Perché?» mi domandai avvertendo la stanchezza piombarmi addosso, assopendo la rigida posa dei muscoli. Portai Symphony al petto e strinsi fra le braccia la sua lama affilata lasciando che mi sfregiasse la pelle. Quante volte non mi ero sentito degno di lei.
La spada leggendaria di mio padre che cantava nel bel mezzo delle battaglie infondendo coraggio al suo detentore. Quanti nemici aveva abbattuto, rimanendogli sempre fedele; quante epiche guerre aveva vinto con lui? E io? Ero solo un ragazzino, tremante e impaurito, dentro le fauci di un mostro.
Perché sì, lo dovetti ammettere. Avevo paura.
Non della morte, no, ci avevano addestrati fin da piccoli a non temerla per via del nostro sommo compito di proteggere l’umanità,  ma di ciò che essa avrebbe scatenato in quelli che amavo. A volte pensavo a come sarebbe stato divertente assistere al mio funerale per vedere chi sarebbe venuto a darmi il suo ultimo saluto.
A Morgana sarebbe importato di me? Sospirai confuso dai sentimenti contrastanti che mi rombavano come una tempesta nella testa. Avrei goduto nel vederla disperarsi sulla mia bara mentre rivelava ciò che il suo cuore aveva sempre tenuto nascosto. Ero davvero un sadico senza speranza. E se Leona avesse ragione? Se io la amassi? Sarebbe stato davvero così innaturale come credevo?
Comunque non ci sarebbe stato nessun corpo da vegliare sta volta…qualche ora e mi sarei confuso con il nulla. Il nulla eterno. E se dopo avessi smesso semplicemente di esistere? Non ero credente come mia sorella, rimanevo scettico all’idea di una vita post morte. Allora perché non accettavo le conseguenze della mia presa di posizione? Perché l’oblio mi suscitava così tanto orrore?
Avevo già la risposta. Temevo un mondo senza amore. Un mondo senza Leona. Noi eravamo una cosa sola. Separarmene avrebbe significato distruggere tutto ciò che di buono c’era nella mia anima. Lei era la mia ancora, la metà senza cui esistere avrebbe perso di significato. Ma non per lei. Se Leona fosse sopravvissuta, avrei accettato di buon grado di andarmene così indegnamente, perché un parte di me avrebbe continuato a vivere in lei.
Dio, avevo giurato che se mai mi fossi trovato in punto di morte non avrei ceduto a lagnevoli sentimentalismi. Eppure eccomi qua, a soffocare le lacrime. Un’altra delle promesse a cui non avrei mantenuto fede.
«Sono proprio un disastro amica mia, eh?» le dissi continuando imperterrito in quella discussione a senso unico «ma cos’era quello?». Stavolta il contatto con la creatura non si era limitato a farmi provare ciò che sentiva, c’era di più…delle immagini, sfocate e tremolanti, dai contorni indefiniti. «Fammele vedere ancora!» le chiesi con urgenza senza interrompere il contatto con la parete dentro cui mi teneva prigioniero. Nulla. Forse la paura mi stava facendo diventare pazzo.
Ma poi la sua storia prese a scorrermi davanti agli occhi. Vedevo un grande lago attorniato da fitte foresti di alberi e arbusti, ripide rocce scistose lungo la costa, piante acquatiche ondeggiare sinuose in balia delle correnti, alcuni sciami di trote e ciprinidi nuotarmi oziosamente attorno mantenendo una certa distanza e…
«Per la barba di Mayak» sussultai sottraendomi da quel contatto con uno scatto all’indietro. Per poco non mi venne un infarto. Strizzai la maglietta sudata in un pugno all’altezza del petto, alla ricerca della calma interiore. Poi ripresi, un po’ titubante, la postazione. Come se avessi messo in pausa, le immagini ripresero da dove avevo interrotto, mostrandomi nuovamente ciò che mi aveva turbato.
Una creatura preistorica dalla pelle nera e lucida giocava accanto a me, zigzagando fra i fondali rocciosi. Nonostante l’enorme mole della bestia, si muoveva con una fluidità impressionante, come se slittasse fra le correnti. Potevo sentire il suo collo liscio strofinarsi e intrecciarsi col mio, i suoi morsi affettuosi, i denti appuntiti solleticarmi le squame, l’esatta sensazione che quel contatto breve e fugace mi provocava…Non mi, riflettei rendendomene conto, le provocava. Ed era forte, naturale, innocente, senza sbavature, più di quanto avessi immaginato. Ed era amore.
«Quello era il tuo compagno?» le chiesi tornando a focalizzarmi sui suoi ricordi. Non era così spaventoso, anzi, lo trovai tremendamente buffo. Con quelle due protuberanze sporgenti sulla testa, ognuna terminante in una sorta di bulbo arrotondato, mi ricordava una lumaca più di qualsiasi altra cosa che potesse venirmi in mente.  
Poi la scena cambiò, ma aveva perso la sua nitidezza e la conseguenzialità di quella che l’aveva preceduta. Il mostro si districava fra le soffocanti mura di una grotta subacquea della giusta grandezza per essere attraversata da una creatura di quelle dimensioni. Ecco come facevano a spostarsi da un luogo a un altro, mi balenò in mente. Lei continuava a percorrerla lasciandosi guidare dall’odore del mare, snodandosi fra i labirintici tunnel di quella rete sottomarina che collegava i corsi d’acqua fra di loro. Era mossa da un unico desiderio: raggiungere la vastità dell’oceano dove il suo compagno aveva promesso di attenderla. Lo avrei trovato molto romantico se non mi fossi già immaginato il finale. Lei adesso era bloccata qui, nel regno delle fate, non avrebbe mai imboccato la via giusta, non sarebbe mai giunta a destinazione. In un altro breve scorcio del suo passato, assistetti al crollo dell’unica via di comunicazione fra il lago Ludha e la terra degli umani e con essa l’ultima speranza per la creatura di ricongiungersi con il suo simile. Rimaneva solo lei e il suo paradiso blu, a trascorrere le giornate condividendo il suo dolore fra la quotidiana angoscia del suo esilio e la disperazione per il suo amore perduto.
«Mi dispiace» riuscì a dire dopo una lungo silenzio «dico davvero». Che inutile frase di circostanza. Come se potesse bastare a lenire il suo dolore. Se solo avessi potuto aiutarla…Un momento. Io ero un medjai, io dovevo aiutarla.
«Forse mi è venuta una idea! Credo di poter risolvere il tuo problema signora Lumacona!» le rivelai. «Ma dovrai farmi uscire di qui o sarò del tutto inutile se tu dovessi trasformarmi in una poltiglia pronta per l’evacuazione…» mi sembrava giusto farglielo notare. La bestia emise una sorta di mugolio strozzato che fece tremare quel pavimento melmoso. Il mondo cominciò a girare velocemente tanto da farmi venire il volta stomaco. In quel violento turbinio di giravolte, mollai la presa su Symphony, lanciai una delle mie famose imprecazioni, e la spada cadde perdendosi nel viscidume di quella brodaglia bollente. Quando finalmente si fermò, mi gettai carponi alla sua ricerca ignorando la melma che mi ricopriva le braccia e il terribile tanfo di pesce andato a male. Symphony sembrava essersi dileguata nel nulla, incastrata chissà dove nel suo stomaco. Avevo già perso le speranze quando una ventata d’ossigeno penetrò nella sacca. Ne respirai un po’, lieto come non mai di poter ancora usare i polmoni come si deve, ma poi venni risucchiato inesorabilmente dalla fessura da cui ero entrato per poi essere vomitato fuori dalla bocca della creatura.
La prima cosa che feci, una volta smesso di girare come una trottola fra i flutti, mi tastai faccia e corpo per assicurarmi che fossi tutto intero. Infilai le mani in tasca per controllare che le monete ci fossero ancora. Erano molte di meno rispetto a quelle che ricordavo di aver raccolto ma ce le saremmo fatte bastare. Mi guardai attorno mentre fluttuavo a pochi centimetri dal fondale.
Il colosso respirava rumorosamente alle mie spalle e mi costrinse a girare su me stesso e a incontrare i suoi grandi occhi neri luccicanti di speranza. La creatura era identica a quella che avevo visto nella visione. Dal vivo però mi sembrava molto più grande e spaventosa.
Quando le diedi un buffetto sul muso squamoso, lei dischiuse le enormi fauci lasciando scoperta una lunga fila di denti acuminati e bianchissimi che prima avevo scambiato per lance. «È un piacere conoscerla, signora Lumacona». Non sembrò gradire granché quel soprannome, ne presi nota per il futuro.
Oh no. Non ci provare.
Feci appena in tempo a sollevare le mani sulle orecchie per proteggerle dal brusio stridente del suo ruggito subacqueo.
Va bene, va bene, rispetterò il patto. Siamo impazienti, eh?
Il mio sguardo vagò in perlustrazione dell’area circostante alla ricerca delle rovine della grotta sottomarina. Era una frana coi fiocchi. Ce l’avevo proprio sotto il naso, era difficile non notare quell’ammasso di rocce enormi incastrate all’imboccatura della spelonca. A dire la verità speravo che si trattasse di un lavoretto un po’ più facile. Misurando ad occhio e croce la grandezza dei massi, non ci sarebbe stato altro modo se non spostarle tramite geocinesi. Decisamente il mio punto debole fra i quattro elementi principali.
Accidenti. Probabilmente il naso mi sarebbe esploso in un fiotto di sangue, ma avrei corso il rischio. Ero troppo orgoglioso per correre sotto la gonnella di mia sorella a supplicarla di aiutarmi. Non era decisamente nel mio stile. Così lasciai che il mana scorresse nelle vene e lo accumulai su braccia, mani e gambe. Una scarica di adrenalina mi folgorò la spina dorsale. Potevo già avvertire il potere crescermi dentro ed espandersi a dismisura. Ero pronto. Mancava soltanto un ultimo ingrediente. Feci l’impensabile. Un attimo prima di sprigionare la forza della terra, puntai lo sguardo al chiarore evanescente delle superficie e pregai Dio, se mai davvero mi stesse ascoltando, che non rimanessi schiacciato dalle rocce.
*******
Non mi ero mai sentito così fiacco in vita mia. Fu una spossatezza tutta da assaporare,  ripagata lautamente dallo sforzo che c’era dietro e che in fondo mi ero guadagnato. Per una volta avevo abbandonato il mio solito ruolo di combina guai del gruppo e interpretavo fieramente la parte dell’eroe. Ero riuscito a scagionare il mostro dalla sua prigione. Era libera di andare.
La vista si annebbiò dissipando i contorni del paesaggio al punto che mi sembrava ancora di galleggiare in fondo al lago. Miracolosamente saltai giù dalla lingua del mostro senza perdere l’equilibrio, probabilmente perché mi ero appena infossato fino alle tibie con quel balzo sulla sabbia bagnata.
Lanciai un’occhiataccia alla signora Lumacona «scusa, potresti…» esordì avanzando la mia richiesta. Dalla bocca della lumaca nera gigante evase una specie di rutto gutturale. Symphony schizzò fuori, spinta dal rigurgito esplosivo del suo stomaco, e vibrò fra noi a velocità supersonica. La sua lama aveva centrato il tronco di un albero, scorticandogli la corteccia.
«Gab! Sei tutto intero?» mi domandò Fabiano sconvolto più dalla creatura colossale arenata sulla battigia che dal vedermi uscire ancora vivo e vegeto dalla sua bocca. In un attimo mi furono tutti attorno per osservare da vicino quello che aveva apppena rischiato la vita per salvare i loro flaccidi culi. Iris scrutava la bestia del lago con gli occhi sbarrati e il pelo delle nove code arruffato come quello di un gatto impaurito.
«Ho visto giorni migliori amico» gli risposi svuotando l’acqua che si era accumulata nelle orecchie.
«Gabriel…» esalò mia sorella in un inequivocabile verso di sollievo, leggero come un sussurro. Non si curò delle fauci spalcate del mostro alle mie spalle e corse decisa verso di me, finendo col seppellire il suo viso fra le pieghe della mia maglietta umidiccia, la sua testolina incassata sotto il mio mento e i capelli sciolti in volute vorticanti sulle spalle. Nel mio petto risuonarono i suoi singhiozzi sommessi. Con le dita artigliate nella stoffa bagnata e gocciolante, mi urlò stentoreamente un «Ti odio!» seguito da una scarica di pugni piuttosto violenti.
«Ti odio, ti odio, ti odio…ti odio!» reiterò senza riprendere fiato. Ripensando a quello che avevo appena passato, poterla riabbracciare non fu più così scontato, come neanche baciarle la fronte inspirando il dolce profumo di rose che emanavano le sue ciocche d’ossidiana. Mi sentivo completo e rinvigorito dentro il suo abbraccio. Non le avrei mai dato accesso ai miei veri pensieri, ma in quel momento era talmente tenera e indifesa, così, rannicchiata sofficemente fra le mie braccia, che avrei voluto stritolarla ancora più forte. Anche se conscio che quel gesto l’avrebbe irritata fino all’esaurimento, le offrì uno dei miei salaci sorrisi mentre ancora i suoi occhioni blu luccicanti di lacrime mi soppesavano reduci del precedente tormento che si era autoinflitta.
«Ti odio anch’io sorellina» le dissi stringendola a mia volta. «Ma che ne è stato dell’onda anomala?» Ricordai tutto a un tratto «Stava per abbattersi sulla riva, non capisco».
«Leona ci ha salvati tutti, è stata fantastica» disse Fabiano riempiendosi lo sguardo di affetto e orgoglio. La faccia di Leona come sempre si trasformò in un pomodoro.
«Oh amico avresti dovuto vederla!» lo appoggiò Ethan.
«Non avevo mai visto niente del genere!» si unì al coro Fabrizio.
«E quindi come ha fatto a fermarla?» chiesi incuriosito.
«L’onda era quasi arrivata a riva, quel cavallone colossale correva così dannatamente veloce verso di noi» cominciò a raccontare Norman «ma Leona ha sfoderato le sue kopis e ha affondato le sue lame sulla sabbia cristallizzandola in una fitta pavimentazione di ghiaccio che ha attraversato anche il lago e con esso anche lo tsunami, trasformandolo in una scultura ghiacciata!».
«Era davvero molto bella» si lamentò Fabrizio «ma poi Lea l’ha distrutta…» disse dispiaciuto.
«Evviva la nostra eroina» esultò priva di entusiasmo Iris, agitando le braccia in aria. Se lo sguardo di mia sorella avesse potuto ucciderla, Iris giacerebbe a terra in una pozza di sangue.
Ero molto fiero di lei, ma non potevo nascondere di invidiare almeno un po’ la sua bravura come dominatrice degli elementi. «E brava la mia sorellina» mi congratulai accarezzandole la testa.
«Non mi toccare! Puzzi come una discarica» grugnì lei esasperata e mi spinse via con la brutalità di un caimano, facendomi sbattere contro il muso della signora Lumacona.
 «Hai la minima idea di quello che ho passato? Dico sul serio idiota!» disse tirando su col naso.
Sbuffai e le presi uno dei suoi pugni serrati chiedendole di distendere quel intreccio nervoso di dita affusolate. Palpai le tasche dei miei pantal…, ehm facciamo pantaloncini, sotto il suo sguardo confuso, e raccolsi tutte le monetine che potei. Accartocciò la fronte in un’espressione meditabonda quando il mucchio di peltro dai riflessi argentati le tintinnò nella mano. Lei rimase senza parole.
«Wow Gab! Ma questo è fantastico! Hai recuperato il resto degli amuleti» si congratulò Fabrizio. «Ah! Che vuoi che sia, ordinaria amministrazione per un figo come me» mi elogiai compiaciuto.
 «Si può sapere che diamine è successo?». A mia sorella gli amuleti non le sarebbero mai bastati come giustificazione. La creatura le rispose al mio posto con uno dei suoi boati stridenti.
«Ha fatto cosa…? Ti ha colpito con un pezzo di metallo?» esplose inorridita la mia gemella scoccandomi un’occhiataccia furiosa.
«Certo, adesso fa lei la vittima! Come se l’avessi mangiata io! Mi sarei aspettato gratitudine dopo quello che ho fatto per te». Allora Leona le chiese di raccontarle il resto. La creatura continuò a comunicare con mia sorella con quei strani versi che sono lei riusciva a capire. Leona si limitò a cambiare espressione ed annuire di tanto in tanto in risposta al susseguirsi della storia.
«Davvero?» le diceva lei mostrandole il suo vivo interesse. Quando ebbe finito, incrociò le braccia e mi disse «sembra che tu ti sia guadagnato la sua fiducia».
«Ne dubitavi? Io e Lumacona ce la intendiamo» le risposi a tono con aria di sfida.
«Non si chiama Lumacona, babbeo. Sei sempre il solito offensivo! Ha già un nome, non è vero mia bellissima amica?» disse facendogli i grattini al centro fra le froge. Non finivo mai di stupirmi dell’impressionante capacità di mia sorella di scovare la bellezza dove io non riuscivo a vederla. Non cambierà mai, pensai con un pizzico di affetto. Potevo aspettarmi di meno da lei? A stento si erano rivolte la parola e già erano diventate amiche del cuore. Tipico di Leona. Perché fare amicizia con gli umani quando le mostruosità degli abissi sono molto più socievoli?
«Ragazzi questa è Nessie» la presentò con un evidente punta di orgoglio.
«Nessie…quella Nessie? Vuoi dire il mostro di Loch Ness?» esclamò Ethan a bocca aperta.
«Preferisce essere definita la Signora di Loch Ness se non ti dispiace» tradusse mia sorella il mugolio della bestia.
«E come diamine ci è finita qui? Ah…fammi indovinare, lunga storia?» chiese retoricamente Ethan inarcando un sopracciglio. Lea annuì con un cenno del capo e mezzo sorriso appena abbozzato.
«Molto bene mio prode Gabriel, hai superato al prova» disse la voce tagliente e melodiosa di una donna. Ma non una donna qualsiasi. Lei era La Donna, nonché la mia prima e vera cotta che riuscissi a ricordare. Da come il cuore prese a battermi nel petto supposi che anche lui doveva aver ricordato qualcosa.
Da quanto tempo la Regina delle fate stava origliando la nostra conversazione?
Dire che il suo viso angelico fosse bello, non poteva che essere un insulto, non era un aggettivo adatto per descriverlo. Indossava uno svolazzante mantello trasparente in cui l’intera foresta che la circondava sembrava andare a specchiarsi. Anche la tunica, sotto il mantello, era vaporosa e candida come una nuvola attraversata dai raggi del sole di primo mattino. La sua veste era eterea, morbida sulle sue curve, e trattenuta in vita da un tralcio di fiori, così come anche la corona che le adornava i fili dorati della sua fluente chioma. Accanto alla sua regale figura, vi era una graziosa ragazza dai lunghi capelli azzurri, indefinibile per età, che pareva respirare attraverso delle branchie situate sul collo. Una Nixies.
«Sua maestà fatata!» la adorò Fabrizio prostrandosi faccia a terra. Gli altri lo seguirono titubanti, condendole soltanto un semplice inchino formale. Mia sorella, invece, rimase lì dov’era, con lo sguardo indecifrabile fisso sul rubino rosso che le sfiorava la scollatura. Non si piegò nemmeno di un centimetro.
«Mamma! Io…io» esclamò sconvolta Iris.
«Taci figlia…» la zittì lei con tono stanco. «Ti avevo detto che avremmo trovato una soluzione Basilea» continuò lei, ignorando i capricci della Kiendjar. «Attraverso il potere degli elementi il medjai ha adoperato uno dei suoi miracoli» finì accecandomi col suo sorriso.
«Il popolo delle Nixies potrà tornare a casa finalmente, spero vivamente che potrai lasciare i nostri precedenti alle spalle e partecipare alla festa di questa sera. Spero ci onorerete con la vostra presenza».
«Mi spiace contraddirla sua maestà, ma il mostro non è ancora andato via. Il medjai avrebbe dovuto ucciderla! Io e le mie sorelle non vogliamo condividere la nostra dimora con quel mostro rivoltante! Il patto era chiaro: o noi o lei!» strillò la ragazza turchina imbronciandosi. Nessie ruggì per l’offesa recatole.
Leona si affrettò a intervenire «Sua eccellenza, posso rassicurarla che la creatura non si tratterà ancora a lungo. Presto si riunirà con i suoi simili. Lasciate che attraversi i canali sotterranei, non è affatto pericolosa come credete».
«Tu parli alla creatura…interessante» meditò la regina.
«Sarà meglio che sia come dici tu ragazza!» la rimproverò la Nixies.
«Le do la mia parola» disse mia sorella con ardore «e, sua maestà, se mi permettesse l’ardire di una richiesta…vorrei scambiare quattro chiacchere con lei. Questioni di fondamentale importanza che vorrei sottoporre alla sua attenzione». Era lampante il suo sforzo di mantenere un tono cordiale.
Gli occhi nocciola della regina si posarono sullo scintillio delle monete. «Avete gli inviti vedo. Sarebbe un piacere avervi con noi e celebrare insieme lo Scao Leadh. Ci sarà sicuramente tempo di discutere di tutte le questioni che vorrete, adesso che avete superato la prova».
«Ma mia bellissima signora il resto dei nostri compagni è tenuto prigioniero dalle driadi» le ricordai timidamente reclinando la testa in avanti. Lei mi sorrise lasciva ancora una volta, lusingata dal mio apprezzamento.
«Parli delle quattro protettrici e del vostro amico muscoloso? Si trovano già a palazzo» ci confidò lei candidamente «I miei servitori li stanno preparando per questa sera, presumo» disse fingendo una sbadataggine deliziosa che mi mandò fuori di testa.
«Che senso ha avuto tutto questo?» si adirò mia sorella indicandole il lago e Nessie. La regina non le rispose.
«Ci hai usati, non è così? Ti servivamo soltanto per risolvere i conflitti interni fra le tribù del tuo popolo».
«Lea, no!» la richiamò Fabrizio sottovoce. Delilah lo fermò con un gesto secco della mano.
«È solo un rito di passaggio mia cara. Volevo accertarmi della vostra essenza. Non nego che mi siete tornati utili ma a chi altri avrei potuto chiedere di affrontare un’impresa così ardua, se non a voi che dominate sugli elementali? Suvvia, io ve ne sono grata, mettiamo da parte i nostri dissapori!».
«La mia amica intendeva dire che forse avreste potuto domandarcelo, non ci saremmo mai rifiutati di fronte a una sua esplicita richiesta» osservò Fabiano venendo in soccorso di Leona.
Delilah lo osservò con aria divertita, come se fosse stata riaccesa dalla sua precisazione.
«Come ti chiami giovanotto?» chiese lei dolcemente.
«Fabiano vostra maestà».
«Fabiano» disse lei piano gustandosi il suono del suo nome « Figlio del sire di Betelgeuse, Sheila mi ha parlato di te. É galante da parte tua erigerti ad avvocato della tua compagna di viaggio. Forse però dovresti essere più prudente. Adesso sei un fuggiasco come loro, tuo padre non potrà più proteggerti…sei sicuro che ne valga la pena?» lasciò lì la frase in sospeso.
«Ad ogni modo, spero mi scuserete ma temo di dovermi congedare. Ci sono dei preparativi da ultimare e ancora così tanto da fare! Iris, conduci i nostri ospiti a palazzo così che possano indossare abiti più comodi per la celebrazione di questa sera. Sarete dei nostri, non è così?».
Delilah attese, carica di tensione, che Leona confermasse il suo invito. Mia sorella dopo aver indugiato a lungo sul ciondolo del sole che la regina portava al collo con tanta eleganza, si aprì in un sorriso enigmatico.
«Certamente sua maestà. Non potremmo mai arrecarle questo torto» si arrese infine accondiscendente. «Ma non dimentichi la promessa fatta» disse Leona accarezzando la bestia alle sue spalle.
«Lo giuro sul ciondolo del sole» proferì solennemente Delilah, sfiorando il taglio a cuore della fredda pietra rossa come il sangue che le baciava la candida pelle. Le due si sorrisero nuovamente a vicenda, celando a tutti noi un gioco misterioso di sguardi velenosi che solo un occhio attento avrebbe potuto cogliere.
Cosa mi stava nascondendo? Il nostro unico scopo era recuperare la pietra della Luna, giusto? Leona tornò a osservare il gioiello della regina incupendo di sfumature plumbee il blu dei suoi occhi. Fu solo un istante ma, in quel breve frangente, capì che mia sorella non ci aveva ancora raccontato tutta la verità.
   
 
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