perché morire e far morire è un’antica usanza
che suole aver la gente.
-Giorgio Gaber, Il dilemma
C’erano
una volta un
uomo e una donna. Vivevano insieme in una bella casa sulla scogliera;
il mare
viveva con loro, colmava i loro silenzi e i loro addii con la sua voce
pastosa
e soporifera.
La donna non
sorrideva che per disgusto, amarezza e soddisfazione. Dondolava
sui suoi piedi come le onde del mare, infrangendosi ogni volta contro
dolorosi
scogli, sanguinando spuma, sputando urli regolari e ritmati come dolci
canzoni.
Nessuno l’aveva mai guardata negli occhi: avrebbero scoperto
che erano vuoti come
pozzi e ci avrebbero scavato per cercare dell’acqua, forse
dell’amabile
petrolio, abbastanza a fondo. L’avrebbero aperta da dentro e
avrebbero trovato
strati di ghiaia e terra millenaria, ma nessun deposito di pietre
preziose.
Sarebbe stato un gran peccato. Tanta fatica sprecata. Per fortuna,
stava ben
attenta a chi l’avrebbe guardata negli occhi.
Era
inciampata su di lui come si inciampa sulle radici dei vecchi alberi,
consapevole e ignara come una sciocca dalla mantellina rossa.
Divertenti, certe
follie delle bambine piccole. Non si era mai chiesta se, una volta
addormentata, lui avrebbe voluto scavarle dentro al petto alla ricerca
di
qualche nascosto tesoro: in qualche modo, credeva che lui
l’avesse sempre
saputo, che in lei non v’era nulla di abbastanza prezioso da
prendere una vanga
e iniziare a lavorare.
L’uomo
veniva da lontano, tutti credevano; il suo spirito giungeva da una
terra
arida e arroventata e perciò lasciava granelli di sabbia al
suo passaggio, era
arrivato volando fra qualche insenatura portando un vento
più caldo del
normale. Eppure dentro non scoppiettava affatto, forse qualche
romantico
avrebbe detto che non lo faceva più, ma che il suo animo
giovanile aveva
bruciato di vivo ardore. Non saliva più nemmeno fumo dalle
sue braci. Aveva
occhi vacui e malinconici come quelli di certi cani tristi, fedeli e
facili da
accontentare. Chi avrebbe immaginato che la sua voce fosse quella di un
poeta e
la sua tenacia quella di un guerriero?
L’aveva
sposata soffocando nelle onde marine e la donna aveva dischiuso le
labbra pallide mentre il vento faceva dei suoi capelli uno strascico
regale
sulla scogliera. L’uomo raccontava poesie e sciorinava lingue
sconosciute,
facendosi bello agli occhi della dama, gonfiando il petto e sembrando
più un
bambino che un fiero cavaliere; eppure lei lo amava come si amano le
promesse e
le mancanze, con feroce devozione e quieta passione. Lui non
capì mai il suo
linguaggio. Lei parlava la lingua delle conchiglie di mare, dei
reflussi di
spuma, dello stridio dei gabbiani; troppo diversa dalle parole di lui,
sabbiose
e bollenti come il sole allo zenit.
Insieme a
loro, in quella casa in braccio al cielo e al mare come a litigiosi
genitori, viveva un dilemma. E sì che i dubbi accompagnano
l’umanità in ogni
giorno e in ogni passo, e sì che di interrogativi
è pieno ogni tramonto ed ogni
età. Eppure non riuscivano in nessun modo a liberarsene.
Avrebbero forse dovuto
rassegnarsi, metterlo comodo e affidargli una camera e un posto a
tavola; ma è
affascinante e stupido quanto difficilmente l’uomo possa
vivere con un singolo
dubbio a rosicchiargli il cervello.
L’uomo
e la donna non sapevano se valesse la pena amarsi. Era un dilemma
così
egoista, a ben pensarci. L’amore non c’entra con la
giustizia, né col benessere
personale. E’ inevitabile, come respirare anche se si
è sott’acqua, come
sanguinare dopo una ferita, come piangere mentre si muore. Non vuole
ragionamenti e spiegazioni, lo ripugnano le accademie e i ripensamenti.
Come si
può pretendere di chiedere all’amore di avere
senso? Egoisti, così egoisti.
Consapevoli di ciò, inconsapevoli di loro stessi, con le
teste colme di
precetti e strofe come batuffoli di cotone, l’uomo e la donna
si aggiravano per
casa passandosi fianco a fianco senza guardarsi in faccia, come leoni
in
gabbia.
Non avevano
mai pianto uno nelle braccia dell’altra, perché i
sentimenti altrui
facevano così paura ad entrambi, erano la cosa che
più odiavano al mondo. Le
lacrime le spendevano tutte da soli. Non ci sarebbe stato refrigerio
nei loro
occhi gelidi e innamorati. Di tanto in tanto, la presenza
dell’altro li stupiva
addirittura. Pareva loro, in certe tempestose notti, di essere sposati
più con
quel dubbio che con l’amante. Si guardavano in faccia,
colpiti e instupiditi, e
tornavano ad innamorarsi da capo.
C’era
un che di deprimente in quel girotondo. La frustrazione e
l’indecisione diventavano
rabbia nei loro animi, qualche volta sfociata in passione, qualche
volta in
furibondi litigi che facevano infuriare il mare. La donna gli
rinfacciava i
sogni in frantumi, la banalità della sua poesia, la
manchevolezza del battito
del suo cuore. L’uomo scuoteva la testa per ferirla e dentro
di sé pensava che
fosse sfiorita, che fosse ormai solo un arido stelo senza
più bellezza, senza
più risorse.
Forse
è il caso di dire che quella perpetua condizione di dolore
era stata
voluta e cercata, in un certo senso. Cosa ci sarebbe stato di male ad
alzare
bandiera bianca ed ammettere la sconfitta? Cosa ci sarebbe stato di
male a
lasciare la sala prima che lo spettacolo teatrale finisse? Ma, vedete,
era
amore a tenerli incollati, così come era amore a passare al
mattatoio i loro
sentimenti. Di vivere in quel clima di sofferenza l’avevano
scelto, era stato
fra le loro promesse il giorno delle nozze. Può risultare
incomprensibile, forse.
Sarà semplicemente che le anime si nutrono di risorse
diverse. Le loro
necessitavano quel perenne bruciore delle viscere e del petto,
probabilmente. E
il dilemma danzava in mezzo a loro ad ogni nuova, putrida porta
sbattuta,
trionfante.
Dopotutto,
non bisognerebbe giudicarli male. Avevano una certa attitudine nello
stare male e non è cosa da poco. Lasciarsi sarebbe stato una
sconfitta, restare
insieme una tortura. Sceglievano la sofferenza che si sarebbe protratta
più a
lungo. Avevano un che di eroico.
Non
c’è da scordare che sia necessaria una bellezza
nel soffrire, affinché sia
giustificato. Il dolore è quanto di più sgraziato
esista al mondo. Distorce il
volto in grottesche espressioni, emette versi sguaiati e raspanti,
rompe le
unghie contro all’asfalto, sta seduto scomposto e guarda
fisso nelle braci
rotanti. La sofferenza perde l’equilibrio, inciampa mentre
avanza, ride quando
è fuori luogo, quel suo movimento stridulo ha la cadenza
sregolata dei
manichini. E le sue parole, oh. Quanto sono orrende le sue parole.
Bisogna
educarlo, raffinarlo come vetro. Non si può amare qualcosa
che sia rozzo, che
non sia elegante.
Sono ben
poche al mondo le persone a saper soffrire. Ci vuole
un’intensità di
intenti, una profonda considerazione di se stessi, del proprio riflesso
nel
vuoto specchio. Esistono quelle elette anime che indossano veli di
dolore come
attraenti panneggi di ninfe, che acquisiscono in esso uno splendore e
una
bellezza senza paragoni, un rilucere proprio. Il pallore della donna
diventava
quello della luna piena, facendola apparire regale e misteriosa. Gli
occhi
dell’uomo si scurivano, baluginando fredde fiamme come
un’antica fornace. Il
dolore migliorava i loro volti.
Certo, era
ben un’esistenza misera, la loro. Non era possibile uscire
integri da
un tale esercizio di sofferenza, così spesso autoindotta,
così spesso
coscientemente e maliziosamente ricercata, da quella sguaiata indagine
nelle
parole, da quel puntiglioso e desideroso bisogno di un arcolaio di cui
pungersi.
Avevano un
difetto imperdonabile ed era la vanità. Ahimé,
non si sfugge ad essa
in nessun modo. Il piacere di essere distrutti è tale e
quale a quello delle
falene nelle fiamme, delle mosche nelle ragnatele, degli innamorati
negli
addii. L’assuefazione è inevitabile. Per sempre si
avrà bisogno di star male,
per potersi coprire ancora un po’, ancora un po’,
un velo per volta, e che
altro modo ci sarebbe di celare il proprio vero volto, di celarne le
orrende e
misere fattezze, di renderlo amabile, senza usufruire del basso mezzo
della
pietà? Non ci si può aspettare il bel viso
androgino di un angelo dagli occhi
di lavanda. Il viso del dolore è raccapricciante e
rivoltante. Ma coperto,
forse, può apparire come un sogno al tramonto, come uno
sconosciuto nella
notte, come una favola a cui non si è detto addio. Soffrire
è il modo migliore
per ingannare gli altri.
Ed erano
così bravi, oh, così bravi ad ingannarsi. Si
raccontavano di non
essere gelosi, di non smettere mai di amarsi, di amarsi da sempre.
La donna, i
capelli neri come ali di corvo, cuciva i trofei delle rivali nei
drappeggi e nelle lenzuola; e c’erano quei fili
d’oro intrecciati con capelli e
unghie divelte, e c’erano quelle macchie mai sottratte alla
fame smaniosa dei
tappeti, segni di passaggi lontani, di volti seppelliti, di baci amari
come
liquirizia. Odiava tutti i secondi in cui il marito era lontano dalla
sua
vista, mai sicura di dove fosse, mai sicura di potersi fidare, mai
abbandonando
la feroce sensazione di essere tradita.
Quando la
sua gelosia la faceva esplodere, lo faceva con la grazia di una
regina sanguinaria. Non sapeva che fossero proprio quei momenti, in cui
sotto
la luce nera la sua bellezza vibrava come un organo in una cattedrale,
a
ravvivare l’amore del suo uomo. L’apice del suo
odio risvegliava la profondità
dell’amore di lui. Così la accarezzava e la
baciava finché i suoi tratti non si
rilassavano, e le sussurrava poesie e parole d’amore
così come negli ormai
lontani giorni sulla scogliera, e si univano e si addormentavano
insieme. Lei
era altera e crudele, al suo cospetto lui appariva un mesto cavaliere,
o forse
più un misero ciabattino, o forse più un
assoggettato schiavo.
Al loro
risveglio, tuttavia, lei tornava ad amarlo e il suo fascino spariva.
Non c’era più modo di strappare a lui gesti o
parole d’amore. Freddo e labile,
lasciava dietro di sé qualche fumante briciola di terra
bruciata, rendendo il
terreno di giorno in giorno meno fertile. Se ne andava e non diceva
dove stesse
andando, un gelido dio errante che non è vincolato da
nessuna ancella del tempio.
Doveva
arrivare un momento in cui il loro precario equilibrio sarebbe
crollato,
come quello di certe costruzioni che rimangono su anni e anni e poi,
senza
preavviso, vengono giù. Ma non sarebbe stato da loro, non vi
pare? Non gli si
sarebbe addetto un finale così misero, così
scontato. Avrebbe avvilito il loro
amore. Gli addii lo fanno sempre: non c’è
più sorriso nel ricordo quando è
suggellata la separazione. Sciupare volontariamente un fiore nato dal
collassare di universi è un atto scellerato e di loro si
potevano dire molte
cose, ma mai che fossero intrinsecamente malvagi.
Avvenne una
certa volta in cui, presa dalla paura e dallo sgomento, la donna si
addormentò. Suo marito non era con lei a scaldare quel letto
gelido e duro di
sale. Lo sognò. E fu questo, signori, che fece collassare
tutto. Lui non era mai
entrato nei suoi sogni, in tutti quegli anni, e lei era stata
così felice che
quel piccolo spazio privato non fosse mai stato contaminato dalle sue
grosse
mani impacciate. Si era sempre tenuto fuori, appena di un passo, non
distante
ma mai profondamente in lei. Non era mai arrivato a toccarla
così tanto, quando
dormivano le mani di lui stavano sui suoi fianchi e sui suoi seni, sul
battito
del suo cuore nelle notti più dolci, ma mai nei recessi
della sua mente. Nei
sogni alberga la superficie dell’anima ed essa non
è qualcosa che si possa
pensare di amare. L’anima scappa sempre troppo lontano, non
è possibile
renderla accessibile, comprensibile, schematizzabile. Esprimibile. Oh,
come
esprimere l’anima? Come esprimere le sue vibrazioni, i suoi
ritardi, i suoi
inciampi e le sue soste lungo la strada? L’anima è
una bambina con le scarpe
troppo strette che si ferma lungo la strada e piange e fa i capricci
finché
qualcuno non finge di lasciarla indietro per convincerla ad avanzare
ancora. E’
la paura a muovere l’anima, perché non
v’è alcuna certezza di non rimanere
laggiù davvero, non v’è alcuna certezza
che, rimasta sola, qualcuno verrà a
prenderla. Allora si alza, ingoia il dolore e va avanti. Dopo dieci
passi,
dimentica e fanciulletta, torna persino a sorridere. E come
può qualche stolto
folle pensare di amare qualcosa di così volubile e volatile?
Così,
almeno, credevano loro. La donna fu così turbata che pianse
nel sonno.
Nel suo sogno l’uomo ballava, bello come un principe, tenendo
fra le braccia tante
splendide dame vestite di nero, con certi occhi oscuri in cui
precipitare –
occhi simili ai suoi, ma più profondi ancora, occhi con
qualcosa sul fondo,
forse. Le dame oscure ballavano, ballavano, ballavano. C’era
qualcosa di sfrenato
e bestiale in quei movimenti. I volti smunti, in
quell’instancabile turbinio,
crollavano, appassivano, si disfavano. L’uomo rimaneva
bellissimo e integro. In
lei, osservatrice non presente nella scena – o forse
v’erano i suoi occhi da
qualche parte nell’oscurità al di fuori del dorato
padiglione, mostruosa
creatura non appartenente a quel dorato mondo fatato? -,
iniziò a nascere un
profondo e denso sentimento di paura. Qualcosa rintoccava nel profondo
della
notte.
La
svegliò un bacio ed ebbe lo stesso traumatico effetto dello
schianto di un
fulmine. La donna aveva il volto pieno di lacrime e, come prima cosa,
incontrò
lo sguardo di suo marito. L’uomo era tornato, febbrile
anch’egli della stessa
paura vibrante di sua moglie, e l’aveva trovata immobile fra
le coperte, con il
viso terreo e rigato come quello di una statua miracolata. Non
l’aveva chiamata
amore, si era seduto sul bordo del letto con la mano quietamente posata
sulla
gamba nuda di lei, un flebile contatto.
La donna si
era tirata a sedere, i fluenti capelli neri scompigliati e sudati
intorno alla sua fronte, che parevano vestirla come le fronde degli
alberi in
primavera. Continuava a piangere. “Perché
l’hai fatto, perché mi hai fatto
questo?”
C’era
il mare fuori dalla finestra, e c’era il cielo cupo di
cristallo grezzo,
e c’era il vento a sposare le due
entità… nulla era cambiato da quando avevano
messo piede, per la prima volta, in quella bella casa sulla scogliera.
“Me
l’hai chiesto tu.”
“Non
è così.”
“Me
l’hai chiesto in sogno.”
“Non
è così!”
Si
guardavano rabbiosi come fiere, come dopo certe oscure litigate in
quei, forse
felici?, anni passati insieme. Lui era malleabile e gelido, stanco di
guardarla, e lei vibrava tutta come la corda di un pianoforte, tesa
fino al
punto di rottura.
Si
guardavano e infine vedevano il loro amore, fisico e materiale in mezzo
a
loro. Era sfiorito e appassito giorno dopo giorno, fino a ridursi ad
uno stelo
secco e spoglio, raggrinzito dal sole, spazzato dal vento. Non se
n’erano mai
presi cura. Non è che sia possibile abbandonare
l’amore a se stesso, come un
infante, il suo pianto sarà assordante per anni e anni
finché tacerà, e a quel
punto vorrà dire che è morto.
“Ma
c’era l’amore. C’era, non è
cosi? Come in ogni fiaba. Non v’è fiaba che non
lo canti e non gli offra un lussureggiante trono d’oro.
E’ naturale. Non v’è
sentimento che più rassomigli alla purezza e
all’abiezione, non v’è incontro
umano che più raccolga in sé gli attributi di
notte e giorno, di inverno ed
estate, di guerra e comprensione. C’era
l’amore?”
“Eppure,
eppure, non è macchiato anch’esso, non
è ogni cosa mortale
irrimediabilmente corrotta?”
“…
Forse c’era quell’amara stilla di odio in ogni
bacio. Una pericolosa vena di
egoismo in ogni dolce, desiderosa carezza. Mi dispiace, amore
mio.”
“Al
fine che importanza ha se amore c’è stato? Ci ha
solo fatto male. L’amore è
un rapace che vuole divorare chi lo ingabbia, che vuole incidere le
ossa fino a
berne il succoso cuore. Tutto prosciuga, tutto inaridisce.”
“Forse
capisco quello che intendi. Non avremmo mai dovuto compierlo.
L’amore
compiuto fa schifo. L’amore che vede la luce si sgualcisce
come rose.”
“Esatto.
Non avrei mai dovuto prenderti la mano. Mi dispiace averti violata
così.”
“Mi
dispiace averti fatto avvicinare. Quand’è che hai
avuto la malaugurata idea
di confessarmi un segreto? E’ stato l’inizio della
distruzione.”
“E’
stato quando mi hai baciato quella notte posando il tuo seno sul mio
petto.
Hai aperto lo scrigno dei miei segreti.”
“Ma
non quello dei tuoi pensieri.”
“Mai
quello dei miei pensieri. Non credo che esista una chiave per quello.
Non
ti ho pensata, sai. Non ti ho mai desiderata quando non
c’eri. Ho aperto lo
scrigno della tua anima?”
“Solo
questa notte, quando mi hai abbandonata. Mi hai fatto paura.”
“Anche
tu. Dal primo giorno.”
Si presero
le mani e piansero insieme, condividendo la sofferenza, e non si
accorsero che era la prima volta, nella loro lunga storia, che
parlavano e si
capivano. Non c’era mai stato momento in cui si fossero
compresi. Tutto si
risolse come un sole che sorge nell’addio.
Ma cosa
fare, arrivati sull’orlo del precipizio? V’era
un’ampia aurora innanzi
a loro, ma i loro passi non avrebbero potuto continuare in quella
direzione.
L’abisso nero del burrone li aspettava, come la bocca
spalancata di un coccodrillo
che attende quieto e famelico il passaggio di una malaugurata preda.
Era dunque
arrivata la fine, il salto nel vuoto? Era così che finivano
anni di amore, di
carezze, di vicinanza? E cosa li avrebbe aspettati, adesso? Poteva
realmente
esistere un amore che fosse più di questo, che funzionasse
meglio, che fosse
più intenso e più reale e più giusto?
Avrebbero
dovuto stringersi la mano come combattenti dopo un duello e
rassegnarsi alla sconfitta; avrebbero dovuto accontentarsi della
sfiducia e
tornare al mondo con più disillusione di prima, ingoiando
lacrime per un po’ di
notti finché il tempo e la volontà non li
avessero cancellati come un’impietosa
onda punisce la sabbia. Ma come sarebbe stato triste, come sarebbe
stato
triste.
Si baciarono
ancora e ancora quella notte, sapendo di lacrime e rancori, e
fecero l’amore sputando fuori tutto l’odio che
avevano provato uno per l’altra.
All’addio non si seppero adattare.
Quando
l’alba iniziò a sorgere, vecchia e fresca, erano
tornati puliti. Si
erano sparati a vicenda dritto nel petto, nel cuore che loro e
solamente loro
avevano abitato. Il sole li scoprì abbracciati e amanti
nell’oblio della morte.
Il loro amore si risolse infine e collassò
nell’estrema purezza dell’atto
finale.
Avevano
vinto.