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Autore: Lurilala    29/05/2020    0 recensioni
[ In una casa a picco sul mare vivevano un uomo e una donna
e su di loro, la vasta ombra di un dilemma ]

Se c'è davvero un senso profondo, lo troverete voi stessi.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Il loro amore moriva, come una cosa normale e ricorrente
perché morire e far morire è un’antica usanza
che suole aver la gente.
-Giorgio Gaber, Il dilemma

C’erano una volta un uomo e una donna. Vivevano insieme in una bella casa sulla scogliera; il mare viveva con loro, colmava i loro silenzi e i loro addii con la sua voce pastosa e soporifera.
La donna non sorrideva che per disgusto, amarezza e soddisfazione. Dondolava sui suoi piedi come le onde del mare, infrangendosi ogni volta contro dolorosi scogli, sanguinando spuma, sputando urli regolari e ritmati come dolci canzoni. Nessuno l’aveva mai guardata negli occhi: avrebbero scoperto che erano vuoti come pozzi e ci avrebbero scavato per cercare dell’acqua, forse dell’amabile petrolio, abbastanza a fondo. L’avrebbero aperta da dentro e avrebbero trovato strati di ghiaia e terra millenaria, ma nessun deposito di pietre preziose. Sarebbe stato un gran peccato. Tanta fatica sprecata. Per fortuna, stava ben attenta a chi l’avrebbe guardata negli occhi.
Era inciampata su di lui come si inciampa sulle radici dei vecchi alberi, consapevole e ignara come una sciocca dalla mantellina rossa. Divertenti, certe follie delle bambine piccole. Non si era mai chiesta se, una volta addormentata, lui avrebbe voluto scavarle dentro al petto alla ricerca di qualche nascosto tesoro: in qualche modo, credeva che lui l’avesse sempre saputo, che in lei non v’era nulla di abbastanza prezioso da prendere una vanga e iniziare a lavorare.
L’uomo veniva da lontano, tutti credevano; il suo spirito giungeva da una terra arida e arroventata e perciò lasciava granelli di sabbia al suo passaggio, era arrivato volando fra qualche insenatura portando un vento più caldo del normale. Eppure dentro non scoppiettava affatto, forse qualche romantico avrebbe detto che non lo faceva più, ma che il suo animo giovanile aveva bruciato di vivo ardore. Non saliva più nemmeno fumo dalle sue braci. Aveva occhi vacui e malinconici come quelli di certi cani tristi, fedeli e facili da accontentare. Chi avrebbe immaginato che la sua voce fosse quella di un poeta e la sua tenacia quella di un guerriero?
L’aveva sposata soffocando nelle onde marine e la donna aveva dischiuso le labbra pallide mentre il vento faceva dei suoi capelli uno strascico regale sulla scogliera. L’uomo raccontava poesie e sciorinava lingue sconosciute, facendosi bello agli occhi della dama, gonfiando il petto e sembrando più un bambino che un fiero cavaliere; eppure lei lo amava come si amano le promesse e le mancanze, con feroce devozione e quieta passione. Lui non capì mai il suo linguaggio. Lei parlava la lingua delle conchiglie di mare, dei reflussi di spuma, dello stridio dei gabbiani; troppo diversa dalle parole di lui, sabbiose e bollenti come il sole allo zenit.
Insieme a loro, in quella casa in braccio al cielo e al mare come a litigiosi genitori, viveva un dilemma. E sì che i dubbi accompagnano l’umanità in ogni giorno e in ogni passo, e sì che di interrogativi è pieno ogni tramonto ed ogni età. Eppure non riuscivano in nessun modo a liberarsene. Avrebbero forse dovuto rassegnarsi, metterlo comodo e affidargli una camera e un posto a tavola; ma è affascinante e stupido quanto difficilmente l’uomo possa vivere con un singolo dubbio a rosicchiargli il cervello.
L’uomo e la donna non sapevano se valesse la pena amarsi. Era un dilemma così egoista, a ben pensarci. L’amore non c’entra con la giustizia, né col benessere personale. E’ inevitabile, come respirare anche se si è sott’acqua, come sanguinare dopo una ferita, come piangere mentre si muore. Non vuole ragionamenti e spiegazioni, lo ripugnano le accademie e i ripensamenti. Come si può pretendere di chiedere all’amore di avere senso? Egoisti, così egoisti. Consapevoli di ciò, inconsapevoli di loro stessi, con le teste colme di precetti e strofe come batuffoli di cotone, l’uomo e la donna si aggiravano per casa passandosi fianco a fianco senza guardarsi in faccia, come leoni in gabbia.
Non avevano mai pianto uno nelle braccia dell’altra, perché i sentimenti altrui facevano così paura ad entrambi, erano la cosa che più odiavano al mondo. Le lacrime le spendevano tutte da soli. Non ci sarebbe stato refrigerio nei loro occhi gelidi e innamorati. Di tanto in tanto, la presenza dell’altro li stupiva addirittura. Pareva loro, in certe tempestose notti, di essere sposati più con quel dubbio che con l’amante. Si guardavano in faccia, colpiti e instupiditi, e tornavano ad innamorarsi da capo.
C’era un che di deprimente in quel girotondo. La frustrazione e l’indecisione diventavano rabbia nei loro animi, qualche volta sfociata in passione, qualche volta in furibondi litigi che facevano infuriare il mare. La donna gli rinfacciava i sogni in frantumi, la banalità della sua poesia, la manchevolezza del battito del suo cuore. L’uomo scuoteva la testa per ferirla e dentro di sé pensava che fosse sfiorita, che fosse ormai solo un arido stelo senza più bellezza, senza più risorse.
Forse è il caso di dire che quella perpetua condizione di dolore era stata voluta e cercata, in un certo senso. Cosa ci sarebbe stato di male ad alzare bandiera bianca ed ammettere la sconfitta? Cosa ci sarebbe stato di male a lasciare la sala prima che lo spettacolo teatrale finisse? Ma, vedete, era amore a tenerli incollati, così come era amore a passare al mattatoio i loro sentimenti. Di vivere in quel clima di sofferenza l’avevano scelto, era stato fra le loro promesse il giorno delle nozze. Può risultare incomprensibile, forse. Sarà semplicemente che le anime si nutrono di risorse diverse. Le loro necessitavano quel perenne bruciore delle viscere e del petto, probabilmente. E il dilemma danzava in mezzo a loro ad ogni nuova, putrida porta sbattuta, trionfante.
Dopotutto, non bisognerebbe giudicarli male. Avevano una certa attitudine nello stare male e non è cosa da poco. Lasciarsi sarebbe stato una sconfitta, restare insieme una tortura. Sceglievano la sofferenza che si sarebbe protratta più a lungo. Avevano un che di eroico.
Non c’è da scordare che sia necessaria una bellezza nel soffrire, affinché sia giustificato. Il dolore è quanto di più sgraziato esista al mondo. Distorce il volto in grottesche espressioni, emette versi sguaiati e raspanti, rompe le unghie contro all’asfalto, sta seduto scomposto e guarda fisso nelle braci rotanti. La sofferenza perde l’equilibrio, inciampa mentre avanza, ride quando è fuori luogo, quel suo movimento stridulo ha la cadenza sregolata dei manichini. E le sue parole, oh. Quanto sono orrende le sue parole. Bisogna educarlo, raffinarlo come vetro. Non si può amare qualcosa che sia rozzo, che non sia elegante.
Sono ben poche al mondo le persone a saper soffrire. Ci vuole un’intensità di intenti, una profonda considerazione di se stessi, del proprio riflesso nel vuoto specchio. Esistono quelle elette anime che indossano veli di dolore come attraenti panneggi di ninfe, che acquisiscono in esso uno splendore e una bellezza senza paragoni, un rilucere proprio. Il pallore della donna diventava quello della luna piena, facendola apparire regale e misteriosa. Gli occhi dell’uomo si scurivano, baluginando fredde fiamme come un’antica fornace. Il dolore migliorava i loro volti.
Certo, era ben un’esistenza misera, la loro. Non era possibile uscire integri da un tale esercizio di sofferenza, così spesso autoindotta, così spesso coscientemente e maliziosamente ricercata, da quella sguaiata indagine nelle parole, da quel puntiglioso e desideroso bisogno di un arcolaio di cui pungersi.
Avevano un difetto imperdonabile ed era la vanità. Ahimé, non si sfugge ad essa in nessun modo. Il piacere di essere distrutti è tale e quale a quello delle falene nelle fiamme, delle mosche nelle ragnatele, degli innamorati negli addii. L’assuefazione è inevitabile. Per sempre si avrà bisogno di star male, per potersi coprire ancora un po’, ancora un po’, un velo per volta, e che altro modo ci sarebbe di celare il proprio vero volto, di celarne le orrende e misere fattezze, di renderlo amabile, senza usufruire del basso mezzo della pietà? Non ci si può aspettare il bel viso androgino di un angelo dagli occhi di lavanda. Il viso del dolore è raccapricciante e rivoltante. Ma coperto, forse, può apparire come un sogno al tramonto, come uno sconosciuto nella notte, come una favola a cui non si è detto addio. Soffrire è il modo migliore per ingannare gli altri.
Ed erano così bravi, oh, così bravi ad ingannarsi. Si raccontavano di non essere gelosi, di non smettere mai di amarsi, di amarsi da sempre.
La donna, i capelli neri come ali di corvo, cuciva i trofei delle rivali nei drappeggi e nelle lenzuola; e c’erano quei fili d’oro intrecciati con capelli e unghie divelte, e c’erano quelle macchie mai sottratte alla fame smaniosa dei tappeti, segni di passaggi lontani, di volti seppelliti, di baci amari come liquirizia. Odiava tutti i secondi in cui il marito era lontano dalla sua vista, mai sicura di dove fosse, mai sicura di potersi fidare, mai abbandonando la feroce sensazione di essere tradita.
Quando la sua gelosia la faceva esplodere, lo faceva con la grazia di una regina sanguinaria. Non sapeva che fossero proprio quei momenti, in cui sotto la luce nera la sua bellezza vibrava come un organo in una cattedrale, a ravvivare l’amore del suo uomo. L’apice del suo odio risvegliava la profondità dell’amore di lui. Così la accarezzava e la baciava finché i suoi tratti non si rilassavano, e le sussurrava poesie e parole d’amore così come negli ormai lontani giorni sulla scogliera, e si univano e si addormentavano insieme. Lei era altera e crudele, al suo cospetto lui appariva un mesto cavaliere, o forse più un misero ciabattino, o forse più un assoggettato schiavo.
Al loro risveglio, tuttavia, lei tornava ad amarlo e il suo fascino spariva. Non c’era più modo di strappare a lui gesti o parole d’amore. Freddo e labile, lasciava dietro di sé qualche fumante briciola di terra bruciata, rendendo il terreno di giorno in giorno meno fertile. Se ne andava e non diceva dove stesse andando, un gelido dio errante che non è vincolato da nessuna ancella del tempio.
Doveva arrivare un momento in cui il loro precario equilibrio sarebbe crollato, come quello di certe costruzioni che rimangono su anni e anni e poi, senza preavviso, vengono giù. Ma non sarebbe stato da loro, non vi pare? Non gli si sarebbe addetto un finale così misero, così scontato. Avrebbe avvilito il loro amore. Gli addii lo fanno sempre: non c’è più sorriso nel ricordo quando è suggellata la separazione. Sciupare volontariamente un fiore nato dal collassare di universi è un atto scellerato e di loro si potevano dire molte cose, ma mai che fossero intrinsecamente malvagi.
Avvenne una certa volta in cui, presa dalla paura e dallo sgomento, la donna si addormentò. Suo marito non era con lei a scaldare quel letto gelido e duro di sale. Lo sognò. E fu questo, signori, che fece collassare tutto. Lui non era mai entrato nei suoi sogni, in tutti quegli anni, e lei era stata così felice che quel piccolo spazio privato non fosse mai stato contaminato dalle sue grosse mani impacciate. Si era sempre tenuto fuori, appena di un passo, non distante ma mai profondamente in lei. Non era mai arrivato a toccarla così tanto, quando dormivano le mani di lui stavano sui suoi fianchi e sui suoi seni, sul battito del suo cuore nelle notti più dolci, ma mai nei recessi della sua mente. Nei sogni alberga la superficie dell’anima ed essa non è qualcosa che si possa pensare di amare. L’anima scappa sempre troppo lontano, non è possibile renderla accessibile, comprensibile, schematizzabile. Esprimibile. Oh, come esprimere l’anima? Come esprimere le sue vibrazioni, i suoi ritardi, i suoi inciampi e le sue soste lungo la strada? L’anima è una bambina con le scarpe troppo strette che si ferma lungo la strada e piange e fa i capricci finché qualcuno non finge di lasciarla indietro per convincerla ad avanzare ancora. E’ la paura a muovere l’anima, perché non v’è alcuna certezza di non rimanere laggiù davvero, non v’è alcuna certezza che, rimasta sola, qualcuno verrà a prenderla. Allora si alza, ingoia il dolore e va avanti. Dopo dieci passi, dimentica e fanciulletta, torna persino a sorridere. E come può qualche stolto folle pensare di amare qualcosa di così volubile e volatile?
Così, almeno, credevano loro. La donna fu così turbata che pianse nel sonno. Nel suo sogno l’uomo ballava, bello come un principe, tenendo fra le braccia tante splendide dame vestite di nero, con certi occhi oscuri in cui precipitare – occhi simili ai suoi, ma più profondi ancora, occhi con qualcosa sul fondo, forse. Le dame oscure ballavano, ballavano, ballavano. C’era qualcosa di sfrenato e bestiale in quei movimenti. I volti smunti, in quell’instancabile turbinio, crollavano, appassivano, si disfavano. L’uomo rimaneva bellissimo e integro. In lei, osservatrice non presente nella scena – o forse v’erano i suoi occhi da qualche parte nell’oscurità al di fuori del dorato padiglione, mostruosa creatura non appartenente a quel dorato mondo fatato? -, iniziò a nascere un profondo e denso sentimento di paura. Qualcosa rintoccava nel profondo della notte.
La svegliò un bacio ed ebbe lo stesso traumatico effetto dello schianto di un fulmine. La donna aveva il volto pieno di lacrime e, come prima cosa, incontrò lo sguardo di suo marito. L’uomo era tornato, febbrile anch’egli della stessa paura vibrante di sua moglie, e l’aveva trovata immobile fra le coperte, con il viso terreo e rigato come quello di una statua miracolata. Non l’aveva chiamata amore, si era seduto sul bordo del letto con la mano quietamente posata sulla gamba nuda di lei, un flebile contatto.
La donna si era tirata a sedere, i fluenti capelli neri scompigliati e sudati intorno alla sua fronte, che parevano vestirla come le fronde degli alberi in primavera. Continuava a piangere. “Perché l’hai fatto, perché mi hai fatto questo?”
C’era il mare fuori dalla finestra, e c’era il cielo cupo di cristallo grezzo, e c’era il vento a sposare le due entità… nulla era cambiato da quando avevano messo piede, per la prima volta, in quella bella casa sulla scogliera.
“Me l’hai chiesto tu.”
“Non è così.”
“Me l’hai chiesto in sogno.”
“Non è così!”
Si guardavano rabbiosi come fiere, come dopo certe oscure litigate in quei, forse felici?, anni passati insieme. Lui era malleabile e gelido, stanco di guardarla, e lei vibrava tutta come la corda di un pianoforte, tesa fino al punto di rottura.
Si guardavano e infine vedevano il loro amore, fisico e materiale in mezzo a loro. Era sfiorito e appassito giorno dopo giorno, fino a ridursi ad uno stelo secco e spoglio, raggrinzito dal sole, spazzato dal vento. Non se n’erano mai presi cura. Non è che sia possibile abbandonare l’amore a se stesso, come un infante, il suo pianto sarà assordante per anni e anni finché tacerà, e a quel punto vorrà dire che è morto.
“Ma c’era l’amore. C’era, non è cosi? Come in ogni fiaba. Non v’è fiaba che non lo canti e non gli offra un lussureggiante trono d’oro. E’ naturale. Non v’è sentimento che più rassomigli alla purezza e all’abiezione, non v’è incontro umano che più raccolga in sé gli attributi di notte e giorno, di inverno ed estate, di guerra e comprensione. C’era l’amore?”
“Eppure, eppure, non è macchiato anch’esso, non è ogni cosa mortale irrimediabilmente corrotta?”
“… Forse c’era quell’amara stilla di odio in ogni bacio. Una pericolosa vena di egoismo in ogni dolce, desiderosa carezza. Mi dispiace, amore mio.”
“Al fine che importanza ha se amore c’è stato? Ci ha solo fatto male. L’amore è un rapace che vuole divorare chi lo ingabbia, che vuole incidere le ossa fino a berne il succoso cuore. Tutto prosciuga, tutto inaridisce.”
“Forse capisco quello che intendi. Non avremmo mai dovuto compierlo. L’amore compiuto fa schifo. L’amore che vede la luce si sgualcisce come rose.”
“Esatto. Non avrei mai dovuto prenderti la mano. Mi dispiace averti violata così.”
“Mi dispiace averti fatto avvicinare. Quand’è che hai avuto la malaugurata idea di confessarmi un segreto? E’ stato l’inizio della distruzione.”
“E’ stato quando mi hai baciato quella notte posando il tuo seno sul mio petto. Hai aperto lo scrigno dei miei segreti.”
“Ma non quello dei tuoi pensieri.”
“Mai quello dei miei pensieri. Non credo che esista una chiave per quello. Non ti ho pensata, sai. Non ti ho mai desiderata quando non c’eri. Ho aperto lo scrigno della tua anima?”
“Solo questa notte, quando mi hai abbandonata. Mi hai fatto paura.”
“Anche tu. Dal primo giorno.”
Si presero le mani e piansero insieme, condividendo la sofferenza, e non si accorsero che era la prima volta, nella loro lunga storia, che parlavano e si capivano. Non c’era mai stato momento in cui si fossero compresi. Tutto si risolse come un sole che sorge nell’addio.
Ma cosa fare, arrivati sull’orlo del precipizio? V’era un’ampia aurora innanzi a loro, ma i loro passi non avrebbero potuto continuare in quella direzione. L’abisso nero del burrone li aspettava, come la bocca spalancata di un coccodrillo che attende quieto e famelico il passaggio di una malaugurata preda. Era dunque arrivata la fine, il salto nel vuoto? Era così che finivano anni di amore, di carezze, di vicinanza? E cosa li avrebbe aspettati, adesso? Poteva realmente esistere un amore che fosse più di questo, che funzionasse meglio, che fosse più intenso e più reale e più giusto?
Avrebbero dovuto stringersi la mano come combattenti dopo un duello e rassegnarsi alla sconfitta; avrebbero dovuto accontentarsi della sfiducia e tornare al mondo con più disillusione di prima, ingoiando lacrime per un po’ di notti finché il tempo e la volontà non li avessero cancellati come un’impietosa onda punisce la sabbia. Ma come sarebbe stato triste, come sarebbe stato triste.
Si baciarono ancora e ancora quella notte, sapendo di lacrime e rancori, e fecero l’amore sputando fuori tutto l’odio che avevano provato uno per l’altra. All’addio non si seppero adattare.
Quando l’alba iniziò a sorgere, vecchia e fresca, erano tornati puliti. Si erano sparati a vicenda dritto nel petto, nel cuore che loro e solamente loro avevano abitato. Il sole li scoprì abbracciati e amanti nell’oblio della morte. Il loro amore si risolse infine e collassò nell’estrema purezza dell’atto finale.
Avevano vinto.

  
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