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Autore: persikka    12/05/2005    2 recensioni
"Mutevole, litigiosa, allegra, goffa, piena di grazia, quella grazia acerba della sua sub-adolescenza da puledra, desiderabile in modo tormentoso dalla testa ai piedi." - Lolita, Vladimir Nabokov
Nuova fic! :'D Si tratta di una storia che sto scrivendo da poco ma che ho in mente da un sacco di tempo. Il protagonista è sempre il caro Rem (*_*), questa volta impegnato con una studentessa... sperando di non scrivere ovvietà nè tantomeno oscenità... =_=
Commentate plz! :'D
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Remus Lupin, Sorpresa
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: Contenuti forti
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Capitolo 1

Capitolo 1. Who’s behind the rain?

 

 

Strilli e grida del genere affollavano la banchina del binario 9 ¾ di King’s Cross di Londra solo il primo di settembre di ogni anno; quando quella massa eterogenea di individui composta dall’incredibile quantità di studenti, genitori e animaletti domestici, si accalcava attorno al treno scarlatto che attendeva sbuffante sui binari il momento di partire. Lo sferragliare dei carrelli ingombri di bauli, le raccomandazioni premurose sciorinate ai ragazzini più piccoli… tutti suoni che contribuivano ad aumentare la già immensa confusione che appestava l’aria circostante.

Appoggiò la fronte coperta dalla gonfia frangetta color rame contro la superficie fredda del finestrino e sospirò; benché si trovasse all’interno del treno, il chiasso la disturbava comunque.

Un inferno, col mal di testa che si ritrovava…

Socchiuse pigramente le palpebre orlate da folte ciglia color cioccolato e si staccò dal vetro, andando ad appoggiare la nuca contro il poggiatesta del sedile. Nella reticella sopra la sua testa, si pesava pericolosamente la sua borsa; benché il treno fosse ancora immobile sulle rotaie lucenti il bagaglio continuava ad ondeggiare aritmicamente su e giù… su e giù.

Levando appena gli occhi color muschio le rivolse uno sguardo intorpidito. Non aveva alcuna voglia di alzarsi e sistemarla meglio.

Lo stridio improvviso della porta dello scompartimento la distolse violentemente, quanto improvvisamente, dai suoi pensieri.

“Bonjour, ma chére!” la vocetta squillante di una ragazza dai lunghi capelli color castagna fu quel che ne seguì.

Dopo averle rivolto quello sfrontato saluto s’era appoggiata allo stipite della porta, incrociando al petto le braccia. I capelli lunghi e lisci, divisi in parti esattamente uguali sulla fronte da una riga perfettamente ordinata, le ricadevano morbidi sulla schiena; solo qualche ciuffo spettinato sfuggiva sulle spalle, andando a nascondere la stoffa verde oliva della leggera maglia smanicata. Aveva le gambe magre e slanciate, fasciate, quel mattino nebbioso, da un paio di jeans lisi sulle ginocchia, lunghi fino a coprire quasi completamente le scarpe da ginnastica bianche. Appoggiata alla spalla portava una borsa a tracolla sul cui davanti era stato applicato un cartellino di stoffa con il suo nome ricamato sopra.

Griet levò un sopracciglio scuro e la guardò senza muoversi dalla sua posizione, le labbra sottili arricciate in una smorfia quasi infastidita, ma Caroline Masters non si spostava, limitandosi a fissare l’interno dello scompartimento con un sorriso furbo dipinto sulle labbra rosse come ciliegie.

La ragazza dai capelli color rame sbuffò massaggiandosi di sfuggita le tempie pallide e Caroline scosse il capo sogghignando; poi, chiudendosi la porta alle spalle, si andò a sedere sul sedile di fronte a lei, traendo una mela verde brillante dalla borsa, che addentò con un morso rumoroso mettendosi a fissare di sottecchi la ragazza di fronte a lei. Aveva di nuovo poggiato la fronte contro il finestrino e stava fissando la gente sulla banchina con aria assorta.

“Per quanto ancora hai intenzione di non dirmi nulla?”

La moretta aveva gettato la borsa nel posto accanto al suo e sedeva scomposta con la mela a mezz’aria. Si ravvivò con un gesto frettoloso i lunghi capelli castani e socchiuse le palpebre sui grandi occhi color nocciola, assumendo un’aria infastidita.

Per tutta risposta Griet roteò gli occhi e  spostò lo sguardo su di lei, arricciando le labbra in un sorriso sforzato.

“Fino a quando questa diavolo di emicrania mi sarà passata” annunciò con una nota acida nella voce.

L’altra scosse il capo in una risata sommessa mentre Griet si puntellava con un gomito contro il vetro e appoggiava il mento contro il palmo. Aveva di nuovo le sopracciglia aggrottate.

“La tua voce è peggio della sirena del treno…” mormorò, mordendosi il labbro distrattamente.

Con aria rassegnata, Caroline si lasciò cadere contro lo schienale, un sorriso obliquo le solcava ancora il viso a forma di cuore mentre fissava la ragazza di fronte a lei. Era decisamente più adulta di quando si erano salutate, lo scorso giugno, si poteva dire che l’estate avesse modellato i suoi lineamenti da bambina per trasformarla in una giovane adulta. A partire dal suo viso. Osservò gli zigomi alti e modellati, fin troppo magri per poter essere ancora definiti infantili, spruzzati di lentiggini chiare fin sulla punta del naso sottile, leggermente schiacciato. Anche le labbra si erano come modellate per assecondare la logica di quel visino magro, non erano né carnose né sottili, solo il labbro inferiore era leggermente più pronunciato dell’altro.

Indossava già la divisa grigio scuro listata di giallo e scarlatto, nonostante il treno non fosse ancora partito; anche quella rivelava quanto fosse cresciuta. La gonna plissettata sfuggiva quasi volontariamente sulle gambe fasciate da un paio di leggere calzamaglia grigio chiaro, il maglione, che l’anno passato avvolgeva il suo corpo da ragazzina in maniera piuttosto abbondante, aderiva al suo ventre piatto e ad un petto, nonostante tutto, ancora acerbo. Con un sorriso, Caroline notò che aveva tirato le maniche fino a metà degli avambracci magri, probabilmente perché si erano fatte troppo corte anch’esse.

Fece scorrere ancora una volta lo sguardo lungo tutta la sua figura slanciata; non vi era in lei alcuna traccia di sensualità voluta, nessun’aria provocatoria che ci si sarebbe aspettato di trovare in una giovane ragazza nel fiore degli anni. Scivolava addosso alle sue forme essenzialistiche quella concezione maliziosa, scivolava senza lasciar traccia.

E, nonostante ciò, quella smorfia accigliata, quelle labbra arricciate, senza un velo di lucidalabbra, gli occhi semichiusi, lontani, ad osservare i movimenti degli estranei, persino l’angolo strano ed innaturale formato dalle sue ginocchia ossute… tutto ciò convolava a formare il perfetto quadro che una studentessa diciassettenne avrebbe dovuto mostrar di sé. Non sapeva spiegarselo, eppure vi era in Griet una qualche traccia di adulta consapevolezza del suo fascino quasi androgino.

Affascinante, sì, ma senza riuscire a suscitare quella voglia volgare di una provocante giovane donna racchiusa nel corpo di una bambina.

Bambina… lo era stata, un tempo, ma ora le sue forme erano troppo spigolose, troppo asciutte per poter possedere alcuna grazia infantile.

“Smetterai prima o poi di fissarmi?”

Caroline sussultò. Aveva tenuto il tono basso, quasi come un ringhio strascicato.

Soleva fare così, alle volte. Non se ne rendeva conto né voleva ammetterlo, ma anche quello tradiva le sue origini altolocate.

L’osservò quietamente, quando scopriva a malapena i denti regolari, schiudendo le labbra rosate, le guance si facevano ancora più sfuggenti, s’infossavano appena sotto gli zigomi.

Le avrebbero dato un tono molto carino un paio di fossette, appena accanto delle labbra, ma in quel viso né troppo ovale né troppo squadrato non c’era posto per tratti tali.

Sarebbe stato fuori posto, sarebbe stato semplicemente… sbagliato.

“Perché hai già messo la divisa?” Caroline si era imposta le dita sottili davanti alla bocca per evitarsi di scoppiare a ridere, guardando dirimpetto l’amica.

Ora gli occhi verdi di Griet la fissavano da sotto le palpebre abbassate pigramente, sembravano assenti e sonnacchiosi, ma la ragazza sapeva che la scintilla dell’attenzione non poteva essere più viva.

Sbuffò piano, staccandosi dal vetro e accavallando le gambe dall’altro lato.

“Non avevo voglia di perder tempo dietro ai vestiti, stamattina, sai…” scosse la mano con aria vaga mentre faceva correre lo sguardo sulla banchina che si stava lentamente svuotando.

Di lì a poco l’Espresso sarebbe partito.

“Avresti potuto venire nuda, no?”

Entrambe si voltarono verso il ragazzo poggiato alla porta che le stava guardando con aria divertita. Griet socchiuse gli occhi fino a farli diventare due fessure e serrò repentinamente le labbra.

“Davvero divertente Joel. Davvero divertente.” sibilò.

Joel sorrise passandosi distrattamente una mano tra i capelli scuri ed ebbe appena il tempo di muovere un passo all’interno dello scompartimento che Caroline gli si precipitò al collo; il ragazzo fu quasi sbilanciato dall’eccessivo slancio che ci aveva messo, ma con spavalda baldanza le passò le braccia attorno alla vita, andando a sfiorarle il collo in un rapido tocco di labbra.

Poco distante, Griet, aveva sollevato i piedi e li aveva poggiati sul sedile, traendo a sé le ginocchia in una posa raccolta. Pareva disinteressata. Joel sospirò divertito, avanzando verso il sedile in fronte a lei; si lasciò cadere pesantemente a sedere, mentre la ragazzetta mora andava ad accoccolarglisi accanto in una lasciva espressione di evidente gioia.

“Temo te l’abbia già chiesto Caroline, ma… come mai quest’aria imbronciata, stamane?” il suo tono suonava divertito.

“No. Non me la già chiesto” e lei aveva risposto seccata, senza scostarsi dal vetro.

Poteva sentire sulle labbra il freddo del vetro.

Joel le si rivolse sarcastico, voleva indurla a staccare gli occhi dagli estranei e concentrarsi sui suoi amici? Non ne aveva motivo, Griet li vedeva benissimo, riflessi pallidamente nel vetro.

“Me lo dirai o mi tedierai con la tua solita filosofia spiccia?”

Di nuovo un sospiro e la mano andava ad urtare con malagrazia il mento magro. Si era portata l’unghia dell’indice alle labbra e ne mordicchiava distrattamente il bordo.

“Ho mal di testa” sbiascicò.

Il suo sguardo a metà tra l’ocra e il verde trapassò le figure dipinte sul vetro del finestrino andandosi a perdere tra la folla che s’accalcava a pochi metri da lei.

A quanto sembrava, il treno era proprio in procinto di partire…

“Oh, avanti, sarebbe come dire che il cielo è azzurro… voglio dire…” si passò le dita tra le ciocche corvine.

“Qualunque cosa tu abbia da dire, non dirla” l’interruppe Caroline sorridendo divertita “c’è il rischio che ti mangi. Lo sai com’è fatta… quando ha la luna storta…”

Joel scrollò le spalle poi s’alzò, gettando un ultimo sguardo a Griet, ancora languidamente poggiata al finestrino, non dava segni di cedimento.

O era molto testarda o…

“Griet, noi andiamo a fare un giro”

Non che non le importasse di loro…

“Torniamo dopo”

Non ottenne altro che una sorta di basso grugnito d’assenso.

“Lunatica”

“Guarda che t’ho sentito…”

Ma la porta scorrevole era già tornata al suo posto lasciandola sola a borbottare col muro.

La banchina ora era occupata solo dai parenti che salutavano freneticamente gli occupanti del treno, affacciati ai finestrini dei vagoni; qualche fratellino più piccolo si fregava il viso, con la manina stretta in quella della madre. Griet aggrottò la fronte, aveva detto a suo padre di non restare ad aspettare la partenza ed era sicura che l’avesse ascoltata.

D’altronde era improbabile che si fosse intrattenuto con i suoi zii…

Sorrise amaramente staccandosi da finestrino vibrante mentre il treno partiva fischiando e sbuffando, poi tornò ad appoggiarvisi e a volgere lo sguardo fuori del suo scompartimento. Con il palmo premuto contro il mento sbuffò svogliatamente; di lì a poco, il fissare insistentemente fuori dal vetro, come stava facendo da quando era arrivata, le sarebbe costato un’emicrania ancora più violenta.

 

*

 

Non sapeva esattamente dire quanto fosse passato quando avvertì quella strana sensazione di nausea. Fu sicuramente poco dopo che il treno si fu fermato, in un’inspiegabile ed insolita sosta, quando era ancora ben lontano dal castello.

Stava sfogliando senza particolare attenzione un libro babbano che sua madre le aveva infilato in borsa prima di partire (un racconto scialbo e tedioso che aveva ricevuto in omaggio con la copia mattutina del Times – una di quelle iniziative culturali per cui ogni settimana era regalato un testo di narrativa moderna o classica, straniera o inglese), quando lo strattone della frenata non glielo fece scivolare dalle mani fin sul pavimento. Non si curò del libro. Levò gli occhi chiari e li volse vigili alla porta, tendendo le orecchie nella speranza di cogliere qualche particolare indizio che le potesse rivelare il motivo di quel brusco stop.

Ma dal corridoio, oltre la porta, proveniva solo il vociare confuso degli altri ragazzi, agitati e sorpresi almeno quanto lei.

Socchiuse gli occhi e sbuffò, chinandosi a recuperare il libro, scivolato quasi sotto al sedile di fronte.

Un nuovo strattone scosse la vettura e Griet si ritrovò goffamente seduta con le palme poggiate dietro la schiena e le ginocchia piegate davanti al busto.

Qualcuno aveva gettato un grido, oltre il legno della porta scorrevole e il chiassare s’era fatto più insistente. Rialzandosi contrariata gettò malamente il libro sul sedile e s’apprestò alla porta.

Fu allora che lo avvertì.

Si portò una mano alle tempie, pulsanti per quel malore così improvviso, e s’appoggiò fiaccamente al muro. Era come se d’improvviso tutte le sue energie fossero state concentrate e poi assorbite da quel gesto di sfiorarsi il viso con le dita. Indietreggiò con incertezza, tenendo di continuo la mano destra a ridosso della parete, fino a giungere al sedile. Si lasciò scivolare (scivolare, sì) mollemente con gli occhi semichiusi sulla stoffa vellutata e trasse un profondo respiro.

Si sentiva inspiegabilmente inquieta e… era solo una sua sciocca impressione o aveva iniziato a far freddo? Che quella sosta improvvisa fosso dovuta a qualche guasto?

Scosse energicamente il capo come a voler scacciare ogni pensiero che le si affacciasse alla mente e corrugò la fronte, concentrandosi su quel malessere che non accennava a lasciarla.

Sì, s’era fatto più freddo. Un brivido leggero la scosse da capo a piedi e Griet si svolse rapidamente le maniche, coprendosi quei lembi di pelle bianca e nuda sugli avambracci sottili.

Freddo. Freddo.

Seguì un tonfo. Uno spiffero gelido entrò da un’improbabile fessura della porta e di nuovo la ragazza fu scossa dai brividi. Alzò lo sguardo, notando solo in quell’istante che le voci chiassanti s’erano quietate. Ora non si sentiva altro che il suo aritmico respiro. Stette qualche secondo trattenendo anche quell’unica fonte di rumore mentre con cautela raccoglieva le gambe al petto e si rannicchiava nell’angolo vicino al finestrino.

Con un mezzo gemito riprese a respirare normalmente: il vetro era freddo come una lastra di ghiaccio e la sua schiena era completamente inondata di sudore. Con un’espressione deliziosamente stupita in viso si torse fino ad accarezzarsi la schiena madida con il dorso della mano pallida, per poi ritrarla immediatamente quando un secco rumore proveniente dal corridoio attirò la sua attenzione.

Sgranando gli occhi chiari si volse alla porta (la sensazione di freddo e inquietudine si acutizzava attimo dopo attimo) con il cuore che le martellava in petto. Le era parso di scorgere una fuggevole ombra agitarsi sulla superficie semitrasparente del vetro cesellato che occupava la parte superiore della porta.

Stette in attesa. Qualcosa come una mano invisibile e gelata le opprimeva il petto facendo sì che ogni suo respiro a denti serrati le graffiasse la gola come una lama di rasoio.

E poi ancora, ancora quell’inspiegabile senso di crescente ansia che si andava trasformando in qualcosa di più oscuro e angosciante. Come non riuscisse a star tranquilla. Cambiò per l’ennesima volta posizione e si mordicchiò il labbro inferiore, torcendosi nervosamente le mani.

Lo scorse. O meglio, quando vide quella macchia scura che s’andava allargando man mano che s’avvicinava alla porta (voleva entrare, Griet lo seppe con certezza non appena lo vide), non era certa di cosa fosse. Se un ragazzo, o una ragazza, spaventato quanto lei o chissà che altro.

Beh, inghiottendo l’aria ghiacciata e appiccicosa, seppe che era qualcos’altro.

Emise un basso gemito, allentandosi il colletto della camiciola e si rannicchiò contro il vetro sempre più mentre la maniglia s’abbassava e con lentezza esasperante la porta andava a scorrere sui cardini mal oliati.

 

Ne aveva sentito parlare, oh sì, ma non aveva nemmeno mai lontanamente immaginato che potesse essere così… annientante.

Era la parola giusta. L’aveva annientata fin nel profondo.

Aveva osservato, madida di paura, quel putrido mantello scuro aleggiare sulla soglia e il cappuccio stracciato ondeggiare, in un vento invisibile e impalpabile, nella sua direzione. L’aveva guardata e aveva emesse una sorta di basso rantolio, che doveva somigliare molto ad un vagito di approvazione per aver avvertito il suo terrore.

Un Dissennatore.

Inutile dire che la domanda *cosa ci fa un Dissennatore sull’Espresso di Hogwarts?* non le passò nemmeno per l’anticamera del cervello. Era chiaro come, al momento, la sua mente fosse completamente occupata da altri pensieri.

Tipo il rimanere lucida nonostante quell’essere putrescente s’avvicinasse inesorabilmente a lei.

Tipo tentare di non cedere allo sconforto e a quella nera sensazione di non poter essere mai più felice.

Tipo il non svenire di paura. Ed il restar viva.

Sbattè con forza le palpebre ormai pesanti e mugugnò qualcosa, agitandosi sul posto. Nella sua testa, voci confuse a rivangare i momenti peggiori dei suoi diciassette anni di vita.

Esanime, ciondolò la testa di lato, su una spalla e si lasciò cadere contro il vetro.

L’angoscia era ormai opprimente, le scorreva nelle vene assieme al sangue…

Chiuse gli occhi.

 

Si sarebbe abbandonata a lui senza lottare. Sospirò ed inalò quell’umido schifoso.

Non era in grado di preoccuparsi per ciò che sarebbe successo se qualcuno non avesse sbattuto con violenza la porta, gridando parole confuse all’essere ammantato.

 

E una luce. Una luce.

 

Sono forse morta?

“Apri gli occhi”

Chi mi parla?

“Sei un angelo?”

Risatina sommessa e una mano calda (innaturalmente calda, le venne da pensare) passata sulla sua fronte gelida di sudore. Avrebbe voluto tendersi ed obbligarla a sostare, per riscaldarla.

Quel contatto quasi vitale stava per interrompersi.

“No. Resta…”

L’aveva pronunciato ad alta voce…

Le dita affusolate e leggermente ruvide che si soffermano a disegnare il contorno caffelatte delle sue sopracciglia, che le asciugano le gocce fitte sulla pelle incredibilmente pallida.

Un senso di calore improvviso…

Sì… sei un angelo.

 

 

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Oh! Commenti di fine capitolo! :’D non ne faccio mai ma una piccola eccezione va fatta (diciamo che voglio il mio spazio per sentirmi importanteXDD)! Prima di tutto una precisazione, il rating e le avvertenze che ho messo le ho messe non tanto perché sarà una sordida storia di sesso (cielo, almeno non credo!XD) ma per gli sviluppi della storia che potrebbero dar fastidio ai lettori. Seconda cosa (ampiamente marginaleXD) i titoli sono tutti tratti da canzoni che adoro particolarmente (ma che, probabilmente, dati i miei gusti, nessuno conosceXD). Quello di questo capitolo è tratto da “Quicksand Jesus” degli Skid Row *___*

 

Baci baci

Momo :’D

  
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