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Autore: MaxB    17/06/2020    4 recensioni
Questa è una storia che ho iniziato a scrivere dopo aver finito di leggere il secondo volume, quando ancora doveva uscire il terzo.
La considero una prosecuzione della storia originale come se il terzo libro non esistesse, e narra quindi delle vicende familiari che si sono succedute dopo la fine de Gli scomparsi di Chiardiluna, con leggere modifiche alla trama.
Sostanzialmente, Thorn e Ofelia saranno alle prese con la vita quotidiana da coppia sposata, cercando di capirsi, vivere insieme e prendere confidenza l'uno con l'altra.
E con un inaspettato desiderio di Ofelia...
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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E allora sono stata brava ad aggiornare così puntualmente (circa)? Il capitolo è pure lunghetto, mi sta venendo l'ansia perché sto esaurendo quelli che avevo da parte ç.ç Ansia da scrittura lenta per mancanza di tempo, scusatemi.
Però continuo. Continuo. Conta questo, no?
Allora, credo che alzerò il rating della storia perché... ahem... mi faccio perdonare per il capitolo triste, diciamo, quello precedente. Anche quello successivo sarà...
Be' va be', amatevi ragazzi, Ofelia e Thorn già lo fanno, buona lettura a tutti.
 
Capitolo 13
 
Quando arrivarono i parenti, Thorn era già andato al lavoro.
La sciarpa di Ofelia, non più avvezza a tutto quel trambusto, come la stessa padrona, si ritrasse spaventata quando Ofelia venne passata di braccia in braccia, abbracciando e baciando uno per uno tutti e trenta i famigliari. Fu una giornata lunga ed estenuante. Ne impiegarono mezza solo per osservare Serena, passandosela di grembo in grembo come un cimelio, mentre l’altra metà fu dedicata a fare un giro del castello, che con le sue innumerevoli camere e anfratti bui e sconosciuti persino ad Ofelia sembrava più un labirinto che una dimora. Agata era la più entusiasta di tutte.
- Davvero hai altri dodici castelli oltre a questo? È una cosa in-cre-di-bi-le – osservò a più riprese, aumentando di volta in volta il numero delle proprietà della sorella, che erano nove in totale.
Ofelia la correggeva con pazienza, subissata di domande. Ringraziava Serena di tutto cuore quando piangeva e reclamava il suo cibo, perché almeno poteva avere un attimo di respiro. Si era scordata quanto potessero essere rumorosi tutti quegli Animisti. Desiderava tanto parlare con il suo prozio, di cui sentiva gli occhi addosso da parecchie ore, ma non ce n’era mai occasione.
Aveva concesso a Renard la giornata libera per risparmiargli la frenesia dell’arrivo dei parenti, e a giudicare dal suo sguardo entusiasta era facile intuire dove fosse diretto, con Salame al seguito. Sperava che Gaela non avesse cambiato idea su di lui, era sempre stata molto simile a Thorn sotto certi aspetti; statura, turpiloquio e trasandatezza a parte.
Tutti erano rimasti incantati da Serena, comunque, e nonna Sophie si era commossa versando lacrime e lanciando gridolini a tutti, neanche fosse la prima nipote. Agata appioppava ogni volta che poteva la sua secondogenita, Berenilde, in onore della dama che tanto ammirava, al marito, e la bambina poco più piccola di Vittoria scalciava e si dimenava in un modo che fece incupire Ofelia: sperava proprio che Serena rimanesse calma per sempre; non avevano scelto il suo nome a caso… La zia Roseline doveva pensarla come lei, perché spesso le si era accostata mormorando che rimpiangeva già la quiete della loro vita quotidiana e che se le fosse venuto il mal di testa si sarebbe trasferita da Berenilde nel suo palazzo. Nonostante le minacce e i borbottii, Ofelia sapeva che era felice di rivedere i parenti, e non la vide stare zitta nemmeno un minuto.
Hector invece si era dimostrato particolarmente interessato a Tom, il nipotino più piccolo che ormai però aveva quasi sei anni, con pochi mesi di differenza da Vittoria. Per una volta il fratello era passato dall’altra parte: doveva rispondere a tutte le domande di Tom, ai suoi perché, come un circolo vizioso. Era ormai un uomo, sebbene il viso fosse ancora quello di un bambino e agli occhi di Ofelia rimanesse sempre il fratellino minore, ma il modo in cui si occupava del nipote le stringeva il cuore. Era vero che i suoi parenti erano dei gran confusionari, che urlavano ed entravano in contatto fisico più di quanto al Polo si facesse in un anno intero, però ad Ofelia erano mancati, se n’era resa conto solo alla fine della giornata. Non aveva visto crescere le sue sorelline, Beatrice, Eleonora e Domitilla, che erano delle belle ragazze civettuole e le ricordavano sia Agata che le sorelle di Archibald, e non avrebbe mai visto crescere Tom e la piccola Berenilde. Il rovescio della medaglia le suggeriva che nemmeno loro avrebbero visto Serena in ogni fase della crescita, così si premurò di lasciare la figlia con la madre quanto più tempo possibile: la nonna doveva fare il pieno della nipote prima di tornare su Anima.
Le cose si complicarono verso l’ora di cena, quando Thorn rincasò. A giudicare dalla sua espressione appena varcò la soglia, Ofelia intuì che era dibattuto se fare dietrofront e tornare all’intendenza o lasciarsi fagocitare da quella marea umana. Solo lo sguardo implorante della moglie lo trattenne dal darsela a gambe. Voleva almeno prendere in braccio Serena come faceva sempre quando rientrava, perché tenerla in qualche modo lo rilassava e gli dava l’idea di dimostrare che non aveva intenzione di abbandonarla come avevano fatto i suoi genitori, ma Sophie fu irremovibile. Ofelia avrebbe voluto credere che fosse stato il suo ricorso alla diplomazia a fermarli, ma sapeva di non avere alcun ascendente sulla madre, nemmeno ora che era una madre lei stessa: fu l’entrata in scena di Berenilde e scongiurare la battaglia.
Vittoria incantò subito tutti, soprattutto il piccolo Tom, e le conversazioni si diressero verso acque più tranquille e navigabili. La cena fu affrontabile solo e unicamente grazie alla presenza di Berenilde che teneva banco, perché Thorn lanciava occhiate torve al piatto e sporadicamente alla figlia in braccio al parente di turno, senza far nulla per mostrarsi un buon padrone di casa. Agata invece era così incantata dalla zia di Thorn che rischiava di farsi uscire il cibo di bocca per quanto spalancava la mascella in ammirazione.
Quella scena rammentava ad Ofelia un pranzo di tanti anni prima, quando si era innamorata di Thorn, quando l’atmosfera a tavola non era così gioviale e il marito, all’epoca fidanzato, aveva fatto ricorso al numero dei suoi possedimenti per ingraziarsi la sua famiglia. Quei tempi erano così distanti e irreali che le scappò da ridere, e il marito le lanciò un’occhiata in tralice.
Fortunatamente il viaggio aveva stremato tutti, così andarono a coricarsi presto. Ofelia avrebbe voluto seguirli e buttarsi a letto, o tentare di parlare con Thorn, grazie al coraggio che sentiva scorrere in corpo in seguito all’abbondante bicchiere di vino, però un’occhiata del prozio la fece desistere. Mentre Thorn si dirigeva in camera con Serena, stringendo finalmente la figlia tra le braccia come a marcarne il possesso, Ofelia lo avvisò che avrebbe tardato un po’.
Rimasta sola in salotto con il prozio, non esitò a gettarglisi tra le braccia.
- Per tutti i musei, allora non ti sei dimenticata di questo vecchio curatore. Pensavo che ormai questa vita agiata ti avesse cambiata fino al midollo, ma sei sempre tu, o sbaglio?
Ofelia non gli rispose, cercò solo di asciugarsi gli occhi senza farsi vedere troppo. Prese un liquore da una credenza insieme ad un bicchierino, e lo fece assaggiare allo zio. Era forte e speziato, lo sapeva bene perché una sera ne aveva bevuto mezzo e, astemia com’era, le era girata subito la testa. In compenso aveva attaccato Thorn al letto come una bestia inferocita, ed era capitato più di una volta che il marito le proponesse di berne un altro bicchierino, facendola arrossire fino agli occhiali nonostante il suo tono non fosse neanche lontanamente malizioso. Non serviva che lo fosse: il messaggio arrivava forte e chiaro.
Quel ricordo solleticò la preoccupazione che l’assillava da giorni riguardo a Thorn, e il suo viso si adombrò. La sciarpa pendeva inerte dalle sue spalle, palesando al prozio che qualcosa non andava. A rimarcarne il fatto, Ofelia ruppe il bicchierino, fortunatamente vuoto.
- Ahi ahi ragazza mia, siamo messi proprio male, eh. Vuoi parlarne?
Quella domanda commosse Ofelia, ma riuscì a trattenere le lacrime e si sedette sul divano accanto al prozio, desiderando tornare indietro nel tempo a quando aveva dieci anni e lui le faceva visitare il museo, o a quando ne aveva quindici e parlavano di storia mentre mangiavano caramelle. Con lui aveva un’affinità che non aveva mai provato con nessun altro se non… Thorn. Provò nostalgia anche quando aggiustò il bicchierino con un dito, rammentandole la loro conversazione quando lei gli aveva detto che sarebbe andata in sposa ad un uomo del Polo.
Riuscì a reprimere sia le lacrime che un sospiro. – Non è niente, davvero. Forse un po’ di effetti collaterali del parto.
- Sicura che non c’entri tuo marito?
Ofelia sussultò. – No, Thorn non c’en… non ho nulla, sono solo un po’ stanca, non dovete tediarvi inutilmente.
- L’ultima volta che eri in questo stato hai rotto quasi tutte le stoviglie della mia povera cucina – le fece notare, riesumando dal passato ricordi a cui Ofelia non pensava ormai da troppo tempo.
- Non è questo il caso, anche se devo ammettere che la vostra capacità di riaggiustare gli oggetti mi tornerebbe davvero utile ogni tanto.
- Solo ogni tanto? – la prese in giro il prozio, ridandole il bicchierino, sorridendo sotto i baffi a manubrio.
- Mi siete mancato – ammise Ofelia, sinceramente, desiderando stringersi a lui.
- Anche tu, più di quanto avrei mai immaginato. Ma basta perderci in sentimentalismi e dimmi, tuo marito ti maltratta? Ogni volta che vengo a trovarti non mi sembrate proprio… affiatati.
Ofelia avrebbe voluto smentirlo, si sentiva ipocrita a mentirgli: tra lei e Thorn andava tutto bene come sempre, a parte un piccolo dettaglio… di cui non aveva alcuna intenzione di discutere con il prozio.
- Stiamo bene insieme, davvero. Non ho nulla di cui lamentarmi – affermò, sincera. – Parlatemi di voi e del museo. Le dispotiche Decane hanno censurato qualcos’altro?
Gli occhi del prozio si illuminarono di gioia mista a sdegno. – Che liberazione poterne parlare così apertamente e chiamarle con il nome che meritano! Sono solo delle mistificatrici ma hanno orecchie ovunque, su Anima, e mi tocca tenere i miei commenti per me.
Passarono un’ora abbondante a chiacchierare e smascherare quelle impostore che facevano credere di sorvegliare la comunità per il bene cittadino ma in realtà erano solo delle limitatrici della libertà altrui. Ofelia fu contenta di ascoltare il prozio, si lasciò cullare dalla voce profonda e calda che conosceva sin da quando era bambina, avida di notizie sull’arca in cui era nata. Il prozio era parco di pettegolezzi e ad Ofelia andava bene così, la madre gliene avrebbe propinati sin troppi nei giorni a venire. Invece il suo padrino le raccontava proprio quello che Ofelia voleva sentirsi dire. Alla fine si interruppe, inducendola ad alzare la testa dalla sua spalla, dove l’aveva appoggiata in un gesto affettuoso.
Il prozio le diede dei colpetti leggeri alla mano inguantata e la sciarpa si riscosse, come svegliandosi da un lungo sonno. – Credo sia ora di dormire, figliola. Anche perché tra poco ti sveglierà la tua bambina. Sono proprio un vecchio, proprozio!
Ofelia sorrise e si raddrizzò, aiutando poi il prozio ad alzarsi. – Saggio, non vecchio.
Tornando lo scorbutico ometto di sempre, borbottò qualcosa di inintelligibile, ma Ofelia vide dal suo sguardo che era lusingato dal complimento.
Si augurarono la buonanotte e Ofelia dovette accompagnarlo in camera, dato che il pover’uomo temeva di confondere le stanze ed entrare in quella di qualcun altro. Si sentiva leggera, serena dopo tanto tempo. Chiacchierare con lo zio l’aveva riportata ad un’altra epoca, priva di preoccupazioni genitoriali o matrimoniali, quando ancora non era adulta. Le era piaciuta, e si era resa conto di quanto effettivamente non fosse mai stata pronta a dire addio al suo padrino.
Quando raggiunse la sua, di stanza, Ofelia trovò Thorn seduto sul bordo del letto, proteso verso la culla di Serena con quella sua lunga e incurvata colonna vertebrale, che la osservava. Il bagliore metallico dei suoi occhi a fessura però le fece capire che ora stava guardando lei, non la figlia.
- Ancora sveglio?
- Mi chiedevo che fine avessi fatto.
Ad Ofelia parve di percepire una specie di accusa nel suo tono, ma la sua voce era così sommessa e cavernosa che forse si era immaginata tutto. Si sedette accanto a lui.
- Dorme – sussurrò, sorpresa.
- Certo. Si è addormentata poco fa, dopo che l’ho cambiata, puoi concederti un po’ di sonno prima che si svegli di nuovo. Ho calcolato che i suoi cicli di sonno in media durano…
Ofelia alzò la testa e gli baciò il collo, mozzandogli le parole nei polmoni. Thorn si irrigidì, mentre Ofelia gli tracciava una scia di baci da sotto il colletto della camicia alla mascella ruvida per via della barba corta, sulla punta finale della cicatrice sulla gota e all’angolo della bocca. Quando aprì gli occhi vide che gli occhi di Thorn ardevano, metallici e infuocati, e fu lui a catturare le sue labbra, ad approfondire quel bacio prima casto, poi umido e languido.
Ofelia sospirò e fece per sedersi sulle sue gambe, finalmente in pace con se stessa grazie alle mani che Thorn le faceva correre sul corpo, ma non fece in tempo: lui si alzò, bloccandola nel suo slancio.
- Dovremmo dormire. Domani mattina ho un appuntamento di prima mattina all’intendenza e tu hai avuto una giornata sfiancante.
Ofelia rimase lì, con le mani in mano, letteralmente, a chiedersi cos’avesse sbagliato. Le era sembrato che Thorn apprezzasse… allora perché l’aveva nuovamente respinta? Quando Thorn si sdraiò a letto, lei si alzò e si coricò con la mente confusa. La stanchezza le piombò addosso come un sudario, impedendole di pensare lucidamente, e si addormentò subito, per fortuna.
Non abbastanza in fretta però, per non rendersi conto che Thorn quella sera non l’aveva stretta a sé.
 
Il giorno successivo fece la sua comparsa il buon vecchio Renard, che alcuni parenti ebbero l’occasione di conoscere meglio e altri da zero. Grazie alla sua innata gentilezza e giovialità, fu presto preso in simpatia da tutti, tanto che una zia commentò che sarebbe stato meglio se Ofelia avesse sposato lui invece di quell’orso che aveva per marito. Renard si offrì di far fare un giro turistico della città a chi lo avesse desiderato, e a metà mattina in casa si ritrovarono solo la zia Roseline, Agata con il piccolo Tom, che era diventato il miglior amico di Vittoria, Berenilde che era tornata in visita per dare man forte ad Ofelia e Ofelia stessa. Insieme alla madre ciarliera che faceva da sola baccano per venti. Pranzarono in intimità e nel pomeriggio si ritrovarono in salotto a sorseggiare te, osservando divertite Tom e Vittoria mentre Agata e Berenilde già progettavano il matrimonio.
- Vi immaginate, Ofelia? Vostro nipote e vostra cugina? – cantilenò Berenilde.
- Ofelia, posso lasciarti Tom se vuoi, per qualche settimana! Si divertirà tantissimo con la sua amichetta!
Ofelia rabbrividì all’idea. Serena stava poppando tranquillamente e, anche quando non era intenta a mangiare, era innaturalmente quieta per una neonata. Buona e silenziosa come suggeriva il suo nome. Ofelia dubitava di essere in grado di prendersi cura di un bimbo vivace e curioso come Tomas, invece. Era cresciuta con Hector, una sfida non da poco, ma non lo aveva dovuto crescere, era ben diverso.
Fortunatamente intervenne la mamma, che le risparmiò una risposta scomoda. – Oh, ma Agata, non credi ci sia il rischio che Tom prenda l’accento del Polo? È così duro! Senza offesa, madama Berenilde!
La madama sorrise mentre Agata scuoteva la testa. – Ma madre, l’accento di Berenilde è così af-fa-sci-nan-te! Le sue erre sono raffinate, io non avrei nulla in contrario se Tom prendesse la stessa intonazione!
Ofelia pensò a come l’accento del Nord suonasse invece duro sulle labbra di Thorn, scricchiolante e gelido. Eppure, nonostante fosse forte, quando sussurrava diventava quasi una lingua sconosciuta, che la ammaliava e la faceva rabbrividire. Ofelia sapeva anche quando Thorn usava quel tono sommesso, e rischiò di arrossire e deprimersi al tempo stesso.
Doveva parlargli, per forza.
- Piuttosto che discutere di accenti, parliamo di bambini! Dov’è tua figlia, cara Agata? – chiese la madre, aggiungendo lo zucchero al tè.
- Sta dormendo nella camera. Ho chiesto ad uno degli amici di Ofelia di darle un’occhiata e di riportarla qui nel caso in cui si fosse svegliata e avesse perso l’orientamento. Questo castello è davvero gi-gan-tes-co!
Agata non riusciva proprio a capire cosa fossero i domestici, o la questione delle gerarchie, come anche il resto dei parenti a parte la zia Roseline e il prozio. Come biasimarli, dal momento che lei stessa non aveva capito subito che ruolo svolgessero quando era arrivata presso il palazzo di Berenilde? Agata aveva capito che non erano parenti, allora li considerava amici molto volenterosi. Sostanzialmente credeva che il Polo fosse abitato da persone di buon cuore, altruiste e generose. Non poteva essere più lontana di così dalla verità…
- Pensi di avere subito un altro pargoletto? – chiese ancora la madre, come se stesse commentando la qualità del tè invece di ficcare il naso nella vita privata della figlia.
Berenilde era silenziosa, come la zia Roseline, ma seguiva lo scambio di battute con grande interesse.
- Io e Charles volevamo aspettare un attimo, forse sei mesi o un anno prima di riprovare. In fondo sono ancora giovane, potrei averne altri quattro prima di fermarmi. A Charles piacciono così tanto i bambini!
Ofelia avrebbe voluto farle notare che il fatto che lei glieli affidasse sempre non significava che gli piacessero. Diverse volte Ofelia lo aveva visto in difficoltà a dover gestire un Tom capriccioso e una Berenilde piagnucolona. Era tanto buono, quell’uomo.
Sophie ridacchiò. – Chissà se sarà vero, Charles è un po’ una piovra.
- Madre! – esclamò Agata, per nulla imbarazzata.
Più che imbarazzata, la zia Roseline era scandalizzata, Berenilde alquanto interessata e Ofelia… le andò di traverso il tè. La sciarpa iniziò a muoversi convulsamente e batterle sulla schiena. Quando si riebbe, Ofelia si rese conto di aver gli occhi di tutti le signore puntanti addosso. Fortunatamente Serena non si era scomposta, gorgogliava felice, stanca di poppare.
- Su Ofelia, non fare così, questi sono normali discorsi da signore sposate. Non ci avevi mai sentite discuterne perché eri ancora illibata all’epoca. Ora hai una figlia, quindi sei sicuramente pratica di queste cose – disse la madre, tranquilla nonostante l’argomento.
Pratica di quali cose?!
- Piuttosto, Ofelia, non credi che il parto sia stato un toccasana? Mi meraviglio che Berenilde abbia impiegato così tanto tempo prima di arrivare. È tutto così mi-glio-re dopo il parto.
Cosa? Di cosa stavano parlando?
- Oh sì – rincarò la madre, - superato lo scoglio del primo figlio il resto sono bazzecole!
- In effetti – intervenne Berenilde, che d’altronde era stata madre di più figli, - non posso darvi torto. Un parto fa bene alla vita di coppia, è risaputo. E voi Animiste siete famose per le famiglie numerose, un po’ vi invidio. Io ho fatto così fatica ad avere i miei figli.
Il sorriso di Agata vacillò un momento. – Figli? Non avete solo Vittoria?
Berenilde sorrise tristemente. – Sì e no, cara ragazza. Tenetevi cari Tom e la mia piccola omonima, perderli sarebbe devastante, ve lo assicuro.
L’atmosfera pesante indusse le donne a parlare di altro, e presto il loro cicaleccio tornò allegro e ameno, ma Ofelia non le ascoltava più. Di cosa stavano parlando? Un parto faceva bene alla vita di coppia? Tutto era migliore dopo il parto?
In che senso? Non le sembrava certo che la sua vita di coppia con Thorn stesse andando per il meglio.
Il resto dei famigliari tornò un paio d’ore dopo, e nessuna delle signore nel salotto chiese più un intervento di Ofelia. Solo la zia Roseline la scrutava, preoccupata, estranea a quei discorsi sui figli. Lei non ne aveva mai avuti, del resto.
La cena fu tranquilla e anche Serena fece meno capricci del solito, come se tutto quel tramestio la spaventasse e la inducesse a starsene placida per non attirare troppo l’attenzione. Renard sembrava ubriaco, all’altro capo del lungo tavolo, e lanciò in più di un’occasione occhiate disperate a Ofelia, che rideva sommessamente e lo compativa al tempo stesso. Essere preso in simpatia da una trentina di Animisti non era facile, specialmente a tavola, quando ti si assiepavano intorno forchette, coltelli, cucchiai, bicchieri e zuppiere. Forse avrebbe dovuto dargli un altro giorno libero per aiutarlo a riprendersi, però in un certo senso le sembrava anche felice. Rideva e teneva banco come non aveva mai potuto fare a Chiardiluna, e Ofelia era certa che due cugine in età da marito lo avessero adocchiato. Era alto e atletico, imponente, non passava certo inosservato; in più aveva un sorriso gioviale e gentile. Peccato che non ci sarebbe stata nessuna speranza, a meno che le sue cugine non fossero delle meccaniche un po’ rozze con i ricci neri e i modi scorbutici.
Quando si ritrovò in camera dopo la cena, Ofelia si chiese se in realtà non fosse ubriaca. Aveva offerto al prozio un altro goccetto, di nascosto, chiacchierando con lui per alcuni minuti, fin quando Thorn non le aveva posato una mano sulla spalla, tenendo Serena in braccio. Le aveva detto che l’avrebbe aspettata in camera, nel frattempo avrebbe cambiato la piccola, ma Ofelia gli aveva chiesto di attendere: doveva farle il bagnetto, prima.
Aveva accettato un goccetto di liquore anche lei, ma non poteva davvero essere già ubriaca. Probabilmente era un misto di stanchezza, confusione e mal di testa da conversazioni eccessive.
Thorn le cedette Serena senza fiatare, e lei decise di allattarla prima di lavarla, in modo tale da non vanificare gli effetti del bagnetto: la piccola tendeva a sbrodolarsi quando mangiava, ingorda com’era. Ofelia si sedette sul letto e si attaccò la piccola al seno, arrischiando un’occhiata verso Thorn quando Serena iniziò a succhiare ritmicamente. Il marito la fissava immobile, in mezzo alla stanza, puntando lo sguardo prima sulla figlia e poi sulla moglie, alternativamente.
- Ti preparo la doccia o la vasca, intanto? – chiese dopo un po’, stanco di stare con le mani in mano.
Ofelia scosse la testa: - No, il lavandino andrà bene. L’acqua non deve essere bollente.
Thorn inarcò le sopracciglia ma non pose domande, si avviò verso il bagno e fece come gli era stato richiesto. Si arrotolò le maniche della camicia, valutò la temperatura dell’acqua e chiuse lo scarico del lavandino, osservandolo mentre si riempiva.
Ofelia lo raggiunse proprio quando lui chiuse il rubinetto. Gli porse la piccola.
- Vuoi farlo tu?
Thorn prese Serena senza fiatare, mentre Ofelia lo aiutava a spogliarla. Quando la neonata fu nuda in braccio al papà, Ofelia gli mostrò come immergerla nel lavabo, fortunatamente ampio e largo.
- Così, tienile sempre una mano sulla schiena perché non si sdrai, rischierebbe di annegare anche in questa poca acqua.
Thorn resse la bambina, che iniziò subito a sgambettare nell’acqua calda, schizzando tutto.
Ofelia rise. – Chissà che si addormenti subito dopo tutto questo movimento.
Prese poi una saponetta più delicata, diversa da quella che usavano loro, e iniziò a sfregare morbidamente ma accuratamente il corpo di Serena, producendo bolle e schiuma. Spiegò a Thorn, o forse alla bambina, chi avrebbe potuto saperlo?, che la saponetta era apposta per la pelle sensibile dei neonati.
Thorn era ammirato, ma fissava sia la moglie che la figlia con sguardo impenetrabile, né affezionato, né divertito. – Come fai a sapere tutte queste cose?
Ofelia sorrise. – Allo stesso modo in cui tu le sai adesso. Me le hanno spiegate.
- Chi?
- La zia Roseline soprattutto – rispose Ofelia, come se la cosa fosse ovvia. – Non ha avuto figli, ma tanti nipoti sì. In parte anche mia madre e mia sorella Agata.
Thorn annuì, cominciando a capire come funzionavano quelle cose. Le più adulte spiegavano alle più giovani, una specie di Memoria tramandata con consigli, parole e racconti. La trovò una cosa molto… intima. E fu grato che Ofelia lo stesse mettendo a parte di quegli insegnamenti. Non voleva in alcun modo essere un padre… assente.
Dopo poco tempo Ofelia tolse il tappo al lavabo e lasciò scorrere via schiuma e acqua, aiutando Thorn a sciacquare la piccola. Gli passò un asciugamano morbido e Thorn ve la avvolse, mentre Serena scalpitava e ciucciava il tessuto.
- Perché fa così? – chiese, la fronte tutta solchi e rughe.
Ofelia ridacchiò. – E chi lo sa, non c’è sempre un motivo specifico dietro ai comportamenti dei bambini.
Thorn si rabbuiò. Come avrebbe potuto interagire con delle creature così irrazionali e illogiche come dei bambini? Avrebbe mai potuto capire sua figlia? Ofelia la faceva sembrare tanto facile, ma lui non si sentiva proprio portato per quelle cose. Mentre rimuginava su questi foschi e labirintici pensieri, la asciugò, le mise il pannolino pulito e la vestì. La cullò per qualche attimo, ma era evidente che Serena stava già scivolando nel mondo dei sogni, e pochi minuti dopo la depose nella culla.
Quando si voltò, Thorn trovò Ofelia di fronte a lui, in vestaglia. Doveva essersi cambiata mentre lui finiva di preparare Serena. Ofelia aveva gli occhi lucidi e brillanti, ma Thorn scorse una certa malinconia sul suo viso.
- Ho pulito il bagno dal lago che Serena ci aveva lasciato, adoperalo pure – gli disse soltanto, abbassando lo sguardo.
Thorn vi si diresse e ne uscì poco dopo, pronto per dormire, con il solito paio di vecchi pantaloni di cotone a fungergli da pigiama.
Ofelia era seduta a gambe incrociate sul letto, dalla parte di Thorn. Teneva la sciarpa in grembo, accarezzandola come un gatto. Lui, basito, aggrottò le sopracciglia. Perché Ofelia era sulla sua metà?
- Sai… - esordì lei, senza incrociare il suo sguardo. L’ansia le attanagliava il petto, non riusciva a guardarlo in volto per paura di leggervi sentimenti che non avrebbe saputo gestire, come l’indifferenza. – Sei davvero bravo con Serena. Più di quanto mi sarei aspettata. Sei… molto presente.
Thorn decise di sedersi davanti a lei, sul bordo del letto.
- Dovere – disse semplicemente.
Ofelia alzò la testa, punta da quell’ammissione. – No, non è dovere. Non tutti i padri si dedicano ai figli in questo modo. Tu hai anche un lavoro impegnativo e stressante, ma trovi sempre un po’ di tempo per lei. Sei bravo, credimi. Non devi farlo solo perché lo senti come un obbligo, però.
- Non è un obbligo. È quello che va fatto.
Vedendo che Ofelia stava per ribattere ancora, non soddisfatta della sua risposta, la anticipò: - Quello che mi sento di fare, allora. È anche una mia responsabilità, sai bene che non mi sottraggo ai miei doveri.
- Responsabilità, doveri… - sbuffò Ofelia.
- Occuparmi di lei è piacevole – ammise infine Thorn, guardando altrove. – Appagante. Non lo avrei ritenuto possibile. Non mi pesa.
Ofelia chiuse la bocca di fronte a quella risposta. Sentiva un bisogno di abbracciarlo che era quasi doloroso.
- Resto dell’idea comunque che i mocciosi siano una scocciatura. Tollero a malapena il figlio e la figlia di tua sorella maggiore. Serena è mia figlia. Detesto i marmocchi, ma non se sono miei figli, credo.
- Ehi, Tom e Berenilde sono anche tuoi nipoti.
- Ho difatti detto che li tollero.
Ofelia sorrise appena. Thorn non cambiava mai, ma a lei andava bene così. – A malapena.
Thorn bofonchiò qualcosa in risposta, ma la conversazione morì lì. Rimasero a guardarsi negli occhi nella penombra della bassa luce soffusa, eppure Ofelia si sentiva esposta come se fosse stata in pieno giorno. Fece correre lo sguardo sulle sue labbra, sulle sue mani affusolate posate sul letto, sulle sue spalle larghe e ossute, sul corpo magro, asciutto e appena muscoloso, sull’accenno di barba sul mento.
Deglutì. Doveva distrarsi. – Comunque non sta andando troppo male con la mia famiglia. Come avevo promesso abbiamo ancora… i nostri spazi.
Non era un ottimo tentativo di distrazione, se tornava puntualmente sul discorso che aveva paura di affrontare.
- Direi di sì – ammise lui. – Anche se alla fine rimarranno qui tutto il mese lo stesso.
Ofelia si strinse nelle spalle. – Il viaggio è stato lungo, sarebbe solo una perdita di tempo andare a casa subito.
- Suppongo di sì. E del resto, loro sono tutti in vacanza, no?
- Precisamente.
Thorn aggrottò la fronte, gli occhi in ombra. – Mi chiedo proprio come facciano a funzionare burocrazia ed economia su Anima, se metà degli abitanti prende ferie e va a spasso in questo modo.
- Al contrario, mi chiedo come nessuno finisca in qualche clinica a causa dell’esaurimento, qui al Polo, compreso il funzionario delle finanze – rilanciò lei, sarcastica.
Thorn non rispose, e rimasero ancora una volta a fissarsi in silenzio. Percepivano entrambi che nell’altro c’era… qualcosa, che premeva per venire a galla, ma veniva ostinatamente ributtato sul fondo.
Alla fine fu Ofelia a cedere. Senza perdere il contatto visivo con Thorn, cercando di coglierne ogni minima increspatura di fronte o guizzo degli occhi, si sbottonò la camicia da notte lentamente. Il suo intento non era proprio quello di impiegarci così tanto tempo, ma l’ansia dell’ennesimo rifiuto rendeva le sue dita più maldestre del solito. La sciarpa si adeguò al suo stato d’animo e cominciò a frustare l’aria con una delle due estremità, mentre strisciava silenziosamente verso l’altra parte del letto, acciambellandosi sul cuscino. Più tardi Ofelia l’avrebbe messa nella culla di Serena, come sempre. Quando si fosse liberata di quel fardello.
Thorn non batté ciglio quando Ofelia si lasciò cadere dalle spalle l’indumento, rimanendo pressoché nuda di fronte a lui. Volente o nolente, si era cambiata in fretta anche per quel motivo: aveva indossato il minimo indispensabile sotto la vestaglia, sperando che…
Raccogliendo quel poco coraggio che le rimaneva, si avvicinò a Thorn, cercando di non cadere di faccia sul letto, cosa di cui sarebbe stata più che capace, e si sedette sulle sue gambe, a cavalcioni su di lui, premendosi contro il suo petto, ad un soffio dal suo viso. I suoi occhi erano spalancati, vibranti di emozione e allo stesso tempo tormentati.
Fu lui a baciarla, finalmente, mentre le sue mani le correvano avide e possessive sul corpo, preda di un bisogno impellente. La mancanza che aveva provato per lei in quelle ultime settimane risalì come una marea dentro Thorn, che se avesse avuto un briciolo di controllo in meno l’avrebbe presa lì, sul bordo del letto, ancora vestito. Invece le diede un ultimo languido bacio e si staccò, evitando di guardarla negli occhi, temendo quello che avrebbe potuto trovarvi annidato.
Ofelia strinse i pugni, serrò le palpebre. Non gli permise di muoversi. – Perché?
Thorn era una statua di marmo contro di lei, il respiro a malapena udibile, il cuore un tamburo rumoroso. – Cosa?
- Perché mi respingi, Thorn? Perché mi respingi ancora? Non sono più… adatta, ora che ho partorito?
L’aveva detto. Alla fine l’aveva detto. Aveva dato voce alla sua più grande paura: quella che lui fosse ripugnato, che non la volesse più, che non fosse più attratto da quel corpo che una settimana prima era stato lacerato dal parto, anche se non ne recava la benché minima ferita. Eppure Thorn sapeva come nascevano i bambini, e forse era proprio quell’immagine, anche se non vista di persona, a disgustarlo di più.
I suoi occhi però, invece che colpevoli e rassegnati, dardeggiarono minacciosi quando si posarono di nuovo su di lei. La mascella contratta, il solco tra le sopracciglia, le mani che le artigliavano le braccia in una morsa ferrea. E quello sguardo così gelido. Ofelia rabbrividì. Non si era aspettata tutta quell’ira.
- Cos’hai detto? – mormorò causticamente, la voce rauca e l’indignazione a stento trattenuta.
Ofelia deglutì: non lo aveva mai visto reagire così. – Hai capito cos’ho detto.
- Ho sentito, ma non capito. Come puoi anche solo insinuare una cosa del genere? È ridicolo. La cosa più ridicola, assurda e incomprensibile che tu abbia mai detto.
Ofelia alzò il mento, tutt’altro che spaventata. Con quale diritto lui osava arrabbiarsi? – Ridicola? Cosa dovrei capire io, allora, dal tuo comportamento? Non mi hai toccata per quasi un mese prima che Serena nascesse, per paura di nuocerle. Questo lo capisco. Ma ora? Ora che scusa hai per non… per…
Le parole le morirono sulle labbra, come spesso accadeva quando dentro di lei si affannavano troppe emozioni, troppi pensieri, incapaci di sgorgarle dal cuore come avrebbe voluto. Le si bloccavano in gola, come un tappo, e ammutoliva sempre mentre dentro infuriava una battaglia nota solo a lei.
Thorn, se possibile, indurì ancora di più lo sguardo.
La strinse a sé con tanta forza da mozzarle il respiro. Ofelia sentì che, nonostante le sue remore, il corpo di Thorn reagiva al suo come al solito; non era immune al contatto della moglie praticamente nuda su di sé.
- Pensi che non sia più attratto da te? – sibilò Thorn, con una cattiveria che fece quasi allontanare Ofelia.
Però lui non la lasciò muovere, le azzannò letteralmente le labbra, baciandola con una violenza inaudita. Thorn era quasi brutale, la barba le graffiava ogni centimetro di pelle del viso, labbra comprese, ma Ofelia non sentiva dolore; tutt’altro. Sentiva che era proprio di quello che aveva bisogno in quel momento. Si sfilò i guanti senza esitazione, senza goffaggine, gli artigliò i capelli facendolo gemere, si mosse su di lui per avvicinarglisi ancora di più, di più, di più, per entrargli dentro, fondersi, vivere in lui.
Ma Thorn si staccò, posandole una mano sul collo senza cattiveria, accarezzandoglielo col pollice, senza smettere di guardarla e al tempo stesso incenerendola con la sua ira. Avevano i respiri affannati, ad Ofelia brillavano gli occhi dietro gli occhiali sbilenchi, i ricci più spettinati del solito. Chissà come, ci era anche finita l’altra mano di Thorn dentro.
- Mi stavo trattenendo per non ferirti, Ofelia. Se potessi ti prenderei seduta stante, senza nemmeno curarmi degli ospiti, del tuo stato o di Serena accanto al letto – ringhiò, per nulla calmo nonostante le emozioni trattenute e il tono quasi distaccato. Sotto le dita della moglie, però, il suo corpo tremava. La mano che le teneva tra i capelli scese sulla sua vita, leggera come una piuma e bollente. – Hai partorito da una settimana, diamine. Avrei potuto chiederti questo, secondo te, subito dopo un parto? Un po’ di fiducia, dannazione.
Erano rare le volte in cui Thorn perdeva la calma in modo così incontrollato da ricorrere anche alle imprecazioni. Ofelia si sentì una stupida; poi, si sentì avvampare di irritazione.
- Un po’ di fiducia? – sussurrò, la voce roca ma udibile. – Hai fatto tutto da solo, Thorn. Potevi dirmelo, parlarmene, invece mi hai solo rifiutata quando io mi avvicinavo. Io mi avvicinavo, Thorn. Pensi che potrei mai comportarmi in quel modo per poi andarmene senza… senza…
Di nuovo, le parole le vennero meno.
Thorn allentò la presa sul suo collo, sostituendo la mano con la propria fronte. Si appoggiò alla sua spalla, svuotato. Non disse nulla. Non aveva nulla da dire.
Ofelia lo abbracciò e lo cullò, sperando che non si addormentasse così: la questione non era ancora chiusa. – Ho partorito, Thorn, non mi hanno dovuta operare da qualche parte. Non mi hanno nemmeno dovuto dare dei punti. Serena era piccolina. Io sto bene. Anche qualcosa di più, per citarti. Vorrei solo… sentire che tu mi vuoi quanto ti voglio io.
La voce le si spezzò sulle ultime parole, e Ofelia si ritrovò a versare lacrime silenziose di sollievo, ansia, paura e tristezza, emozioni accumulate in quei giorni e ancora prima, prima che nascesse Serena, e se ne liberò.
Thorn sollevò la testa e gliele asciugò come aveva già fatto numerose volte in passato, a cominciare dalla notte all’Immaginatoio, quando aveva potuto stringerla a sé per la prima volta. La rabbia era defluita lasciandolo senza forze, e invece di possederla all’istante voleva solo abbrancarla a sé, amarla lentamente, come se la notte fosse loro, senza tempo.
Le accarezzò le guance, le baciò collo, spalla e clavicola, prima di tornare alle sue labbra salate di pianto e scusarsi con la bocca, lenendo le ferite causate da gesti e parole. Per quanto Ofelia temesse che il giorno dopo le sarebbero rimaste le labbra gonfie, non rimpiangeva quel bacio irruento che a modo sua era stato dolce, sicuramente appassionato. Accarezzò le cicatrici sulla schiena di Thorn e rispose al bacio sollecitando velocemente un contatto più profondo, un ritorno alla voracità di prima. Ma Thorn non aveva fretta, non più. Non correva più contro il tempo.
Si staccò un istante solo, per sussurrarle: - Io non ti voglio quanto tu vuoi me. Io ti voglio molto più di quanto tu vuoi me, è un dato di fatto. Non spiegabile a parole, numeri o azioni, ma da prendere come un assioma, una certezza. Sarà sempre così. Sei diventata l’unica cosa indispensabile e importante nella mia vita. Non potrai mai volermi quanto io voglio te.
Poi sentì il respiro di Serena alle sue spalle, e si corresse: - Quasi l’unica indispensabile.
Avrebbe voluto aggiungere altro, chiederle se davvero era convinta, se non stavano affrettando le cose. Dirle che per lui era ormai più necessaria dell’aria, che quando lei gli si donava con anima, corpo, cuore, mente e ogni parte di sé lui pensava che fosse l’unica sua ragione di vita, il suo scopo, la sola cosa che valesse la pena vivere e provare. Un bacio rubato, un respiro condiviso, le dita sulla pelle, un gemito inebriato. Soppresse un moto d’ira quando la domanda che Ofelia aveva posto poco prima riaffiorò.
Non sono più… adatta, ora che ho partorito?
Stupida di una donna, moglie e madre.
- Io…
Thorn la baciò ancora, interrompendola, stanco delle parole. Voleva qualcosa di fisico e tangibile che non fossero parole.
Fecero l’amore lentamente, a lungo, cercando di fare piano per non svegliare Serena, anche se sembrava impossibile limitarsi. I loro sussurri spesso sconclusionati si persero nel calore dei loro corpi, nella dolcezza di quella notte. Poche ore dopo, quando Serena si svegliò piagnucolando, nessuno dei due stava realmente dormendo. Ofelia era sdraiata su di lui e gli auscultava il cuore, che aveva preso a battere regolarmente da poco tempo, mentre Thorn la osservava da una fessura tra le palpebre semichiuse, contando i suoi respiri.
Thorn la trattenne per il polso mentre sgusciava da sotto di lei e si infilava la biancheria minima, prima di prendere in braccio Serena. La tenne stretta, cullandola quasi impercettibilmente, mentre Ofelia li osservava dal letto, sdraiata sul fianco, coperta solo dalle lenzuola calde che profumavano di loro.
Per quanto fosse bravo Thorn, per quanto si sforzasse, certe cose proprio non erano da lui, come il cullare la bambina facendo ondeggiare il corpo o parlarle di cose stupide con una voce stridula e sommessa. A Serena andava bene lo stesso, quelle grandi braccia la calmavano a prescindere, e non ci volle molto perché si facesse vincere di nuovo dal sonno.
Ofelia la allattò poco, giusto prima che si addormentasse di nuovo, per evitare che si svegliasse dopo due ore, affamata.
Quando Thorn la rimise nella culla e si sdraiò accanto a lei, stringendola a sé, Ofelia seppe che si sarebbe lasciata andare subito all’incoscienza. Prima di scivolare via però sentì le labbra di Thorn tra i capelli, e sorrise impercettibilmente.
Thorn non era un tipo da baci e abbracci, con due eccezioni. I baci sulle labbra non contavano, perché di quelli era avido e se li prendeva quasi con prepotenza in certi casi. La prima riguardava un leggero bacio sulla testa prima di dormire, che non mancava mai e lui credeva che Ofelia non percepisse, già addormentata. La seconda era relativa al modo in cui dormivano. Più che un abbraccio, era un nucleo.
Thorn non la lasciava mai andare.

 
  
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