Videogiochi > Final Fantasy VII
Ricorda la storia  |      
Autore: Vanilla Wolff    19/06/2020    3 recensioni
La bestia dagli occhi di Mako stava tornando a ruggire. Selvatica, feroce.
Questa volta non avrebbe fallito. L’avrebbe protetta.
Non era più il Soldier disciplinato. Era, oramai, una bestia senza guinzaglio.
Il destino era crudele ma lui poteva esserlo molto di più.
[Dopo anni ci ricasco - clerith]
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Aeris Gainsborough, Cloud Strife
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: FFVII
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
La sua guardia del corpo.
 
Era il suo ruolo, il compito. Era iniziato per gioco e per casualità. Si era preso in carico una responsabilità mai chiesta e nemmeno per denaro. Si era stretto alla caviglia la catena di una ragazza indifesa, dallo sguardo brillante e la voce vivace, perché i lupi avrebbero potuto divorarla in un solo boccone. Era stato un Soldier, una macchina che non sente rimpianto nella morte, ma quel tarlo ancora lo masticava: morale.
Il tarlo continuava a perseguitarlo, incastrandolo in situazioni scomode. Gli plagiava la mente di un’emotività che, ne era certo, lo avrebbe portato alla morte.
In guerra i sentimenti sono inutili.
In battaglia le emozioni sono forvianti.
Nella vita non c’è compassione.
Quelle emozioni lo stavano sgretolando.
 
Fallito.
Non sei riuscito a proteggerla.
 
Quella stessa emotività che, in quel momento, lo lasciava tra veglia e sonno, dentro un limbo di sensazioni. Gli sembrava di avere mille e più insetti sulla pelle che lo deridevano e commiseravano, mentre continuava a tornargli l’eco dello schermo che gli aveva rivelato il suo fallimento. Era come vederla ancora dietro quella telecamera, prigionoera e lontana. Lui lottava per un’utopia e lei salvava concretamente delle vite. Salvava Marlene. Lui, invece, si salvava mentre migliaia di persone venivano schiacciate sotto le macerie del settore sganciato.
Lui era vivo.
Lei era prigioniera.
E i morti si moltiplicavano.
 
La perderai.
E’ il tuo destino.
 
Cloud venne strappato dal limbo con lo scricchiolare di una porta e di passi leggeri, esitanti. Rimase fermo, ancora stordito dal flusso di pensieri già dimenticati. Ascoltò l’ascesa dei passi lungo le scale.
Tifa?
Emise un sospiro, soffocando dal suono rombante delle russa di Barret. Era sicuro che non si sarebbe svegliato: se era capace di dormire con il chiasso che lui stesso stava facendo allora poteva uscire sbattendo i piedi che non lo avrebbe svegliato. Cloud si alzò recuperando istintivamente la spada. Barret era un amatoriale, un Avalance membro di un gruppo auto definitosi protettori del pianeta, che poi così diverso dai terroristi non avevano. Non avrebbe mai potuto dirlo ad alta voce: lo avesse fatto sarebbe probabilmente finito crivellato di colpi dal grande uomo con il braccio meccanico.
Chissà come ci era finito un mitragliatore al posto della mano, poi.
Per i Soldier era diverso. Cloud non poté non considerarlo. Erano addestrati a essere perpetuamente sull’attenti. Dormire era solo una stasi, un momento superficiale dove riposare il corpo e probabilmente illusoriamente la mente. Ogni suono, ogni rumore, che esce dagli schemi è un segnale di allarme. Cloud era così: i suoni che uscivano dagli schemi lo mandavano in allarme, quasi inconsapevolmente, la sua mente si svegliava, ma non abbastanza da destarlo, e se quel segnale si prolungava allora usciva completamente dalla dormiveglia. Come se non si fosse mai addormentato, pronto, reattivo, capace di cogliere ogni singolo elemento e metterlo assieme in poche frazioni di secondo. Per uccidere e per sopravvivere.
 
La perfetta immagine del Soldier.
 
Era pronto a tutto ciò che gli si sarebbe parato di fronte. Eppure era calmo. Non sentiva il rush adrenalinico, non c’era il cuore che rallentava per ricollocale la distribuzione del sangue alla muscolatura che gli sarebbe servita in battaglia. Era calmo. Desiderava solo scoprire la fonte di quell’anomalia. Cloud si avvicinò all’uscio della porta, lanciando un ultimo sguardo a Barret, il legno della casa sembrava tremare sotto il barrito di quel russare.
No, non si sarebbe svegliato.
Tornò a concentrarsi sulla maniglia della porta, per aprirla e schiuderla a sufficienza da potere osservare il corridoio. Era calmo, ma non sprovveduto, sapeva come agire. Non c’era nessuno, niente che indicasse un possibile pericolo. Aprì la porta e uscì, lanciando una breve occhiata alla stanza di Aerith, dove ora Tifa e Marlene dormivano. Era chiusa. Un altro scricchiolio dalla scale, sembrava quasi un richiamo. Una paziente esigenza della sua attenzione, a cui non poté che rispondere allungandosi verso la ringhiera. La mancina guantata a sfiorarla, mentre sporgendosi notò una familiare treccia imbastita di un fiocco rosa svanire dietro l’angolo degli ultimi gradini.
Gli mancò un battito.
 
Tutto ciò che lei ora sta soffrendo è solo causa tua.
 
Schiuse le labbra, senza riuscire a nominarla. Se avesse chiamato quel nome lo avrebbe sporcato. Insultato. Era un fallito. Aveva fallito.
Non era lucido.
Inspirò una boccata d’aria, improvvisamente fredda nei polmoni, sporgendosi verso la camera da cui il russare di Barret arrivava indifferente. Chiuse la porta e si avviò cauto. Era in quel momento che il cuore si agitava, sbatteva nel petto a un ritmo lento, micidiale, minacciando di togliergli il respiro.
L’emotività era una pericolo per la mente. Era un danno. Un’illusione. Quella stessa emotività piena di morale che Aerith continuava a gocciolargli addosso: piccoli e infiniti tarli nell’anima. Non poteva essere lei. Era prigioniera. Era stata catturata, si era sacrificata per Marlene, perché lui – inetto – non aveva potuto proteggerla. Non poteva proteggere nessuno.
Cloud si spostò riscosso. Ostentò passi altrettanto cauti, cercando di imitare la leggerezza ascoltata con un risultato scarso. Lo scricchiolio sotto gli stivali gli sembrava l’eguale di uno sparo. Non aveva tempo per cercare una soluzione, gli sembrava inutile perderne, voleva accertarsi di avere finalmente perso ogni senso logico. Scese le scale senza guardarsi alle spalle, attraverso il salotto senza chiedersi nulla, fino a uscire da quella casa.
L’aria fresca della notte gli ridiede i pensieri.
Quando aveva smesso di respirare?
Esitò sulla soglia e guardò le luci flebili che accarezzavano il giardino. Le tonalità arancioni che davano calore mentre la pelle gli si increspava sotto l’umidità espirata dai fiori, dalle piante, da quello stesso laghetto che circondava i piccoli campi. Il mondo, lì, sembrava sereno.
Spartano in guerra che camminava tra gli Elisei.
 
Sei petrolio caduto in acqua cristallina. Lo sei sempre stato. Dal principio. Infinitamente fuori posto.
 
Seguì il sentiero mentre il profumo dei fiori lo inseguiva. Gli ricordava lei. Gli ricordava il suo sbaglio. Gli suggeriva dove cercare, come una scia impossibile da sbagliare. Lui non poteva sbagliare, ma sbagliava sempre. Eppure quella scia non riusciva a fraintenderla. Fu oltre un piccolo masso coperto di erba e fiori che la vide, nella vivacità dei colori ottenebrati dalla notte, rannicchiata a sussurrare ai fiori, sorridendo dolcemente.
Gli si indebolirono le gambe.
Era lei. Lo era davvero.
Fu attraversato da un sospiro, che tremò sul filo delle labbra mentre si faceva forza abbastanza da salire il breve sentiero, avvicinarsi sotto il peso di infinite parole e pensieri. Cloud ne vide gli occhi limpidi e accesi anche nella penombra. Il verde più prezioso che avesse mai potuto incontrare, e tutto, solo vedendo quegli occhi gentili, accarezzati da un sorriso, divenne calmo.
   «Com’è…»
Possibile. Non lo era. Aerith era stata portata via, era prigioniera della Shinra. L’ultima Antica che non avrebbero ceduto nel giro di poche ore. Eppure era lì, come la risposta che lo aggredì senza dargli scampo. Il docile bagliore dell’aurora danzava alle spalle della Cetra. L’intero cielo era accarezzato da veli smeraldini, come una cupola che impediva di scorgere oltre. Un limite.
   «E’ un sogno?» chiese a se stesso, a lei. Lo chiese forse a quell’aurora stessa.
Aerith si alzò, ciondolando appena. Era lei. Inequivocabilmente lei. Mossa da una continua energia leggera, pronta a scuotersi in danze mai espresse, ad alzare il mento e scrutare il cielo con lo sguardo. A cercare lui, osservarlo, come se cercasse qualcosa.
   «Forse… dimmelo tu. »
   «Stai bene? »
Il sussulto della sua risata appena accennata. Lo faceva tutte le volte che qualcosa la turbava, ma rideva di ogni preoccupazione. La scacciava e la esorcizzava sorridendo. Cloud la guardò allargare le braccia, mostrarsi. Lui, però, la guardava già.
   «Non sembro stare bene? » lo aveva previsto. Il sorriso di Aerith si incrinò, mentre abbassava lo sguardo. Cercava di essere forte, di mostrarsi incrollabile, ma aveva imparato a leggerle lo sguardo, a coglierne la preoccupazione. Il timore. «Un tempo vivevo nel palazzo del Shinra… quando ero ancora piccola. »
   «Sì… tua madre ce lo ha detto. »
Non voleva parlare di quello. Non voleva sapere quello. Voleva sapere dov’era. Come stava realmente. Voleva avvicinarsi, ma i sogni svaniscono tra le dita. Non osava.
Aerith gli sorrise di nuovo. Stava odiando quel sorriso forzato, incerto.
   «Esatto. Quindi… sembra quasi sia tornata alla mia infanzia, sai? Onestamente… non è così male. »
Una scossa di irritazione pervase Cloud. Lo frustrava. Lo frustrava avere fallito e quell’insistente ostentazione di Aerith a sminuire quello che la feriva. La colpiva. Era ferita, ma sorrideva ancora. Inghiottiva le emozioni e non gli chiedeva aiuto. Non gli chiedeva di salvarla. Lui era la sua guardia del corpo, ma sembrava ricordarlo solo lui. Strinse la mascella costringendosi a distogliere lo sguardo, per nascondere quella frustrazione.
   «Quindi? » chiese, con più durezza di quanto volesse, addolcendo poi la voce. «vuoi rimanerci? »
   «Avanti Cloud… non essere sciocco. »
L’aveva ferita.
 
Crudele.
 
   «Anche tua madre è preoccupata. »
Fu tutto quello che riuscì a dire, cercando di rimediare, di scoccare una freccia emotiva per ancorarla a quel momento. A loro. A lui. Lo sguardo di Aerith si stava disperdendo nelle preoccupazioni, si perdeva e lui rischiava  di vederla svanire. Stava sognando. Era solo un sogno, ma in quel sogno lei era lì. Almeno in quel sogno voleva avere il potere di non perderla ancora.
Aerith alzò lo sguardo, facendolo sospirare di sollievo mentre le si animava di nuovo il viso, in una nota tra la perplessione e il divertimento, la piccola scintilla di malizia che aveva il potere di stringergli la bocca dello stomaco.
   «Anche?...Quindi… sei preoccupato per me? »
Il cuore tremò. Cloud raddrizzò la schiena, mentre lei si faceva avanti. Gli cercava lo sguardo, lo incatenava alle gemme smeraldine. Era lui, adesso, che rischiava di perdersi. Tanto da balbettare come un idiota.
   «C…certo che lo sono. »
Di nuovo le gemme smeraldine si dispersero. La stava perdendo. Persino nei suoi sogni le sfuggiva e non sapeva come trattenerla. Strinse i denti mentre il volto di Aerith si piegava in una nota di tristezza. La ascoltò scusarsi, dispiacersi. Non trovò le parole. Non doveva. Non voleva sentirla scusarsi. Voleva sentirla ridere, ancora, ma sinceramente. Voleva di nuovo il sole sulla pelle, il calore. Vederla splendere di colori raggianti, perché quel buio sembrava poterla divorare da un istante all’altro, strappandogliela dalle dita.
Aerith si distrasse. L’aurora nel cielo aveva iniziato a muoversi, i veli di verde brillante scivolavano come tende mosse dal vento, cosparsi da piccole stelle altrettanto luminose. Non guardava il cielo, guardava lei che gli voltava le spalle, un passo più lontana. Due. Infinitamente più lontana e lui bloccato in quel campo. Le gambe paralizzate, come quando nel momento, in cui lei gli rivelò di volere rimanere con lui, il cranio gli diede l’impressione di spaccarsi mentre la schiena di Aerith si allontanava, squarciandogli il petto di un dolore senza nome, senza paragone. A cui nessuno lo aveva addestrato.
   «Tutti noi moriamo… primo o poi. »  fu la profetica preghiera di Aerith.
   «Smettila…»
   «Per cui… dobbiamo cercare di estrapolare tutto ciò che possiamo dal tempo che abbiamo…per vivere le nostre vite come vorremmo. »
   «Aerith… smettila. »
L’urgenza nella voce di Cloud. Quella piaga stava tornando. Il dolore sordo che squarciava il petto, l’emotività a cui non era stato addestrato. Le guardava la schiena e gli sembrava farsi sempre più lontana. Gli dolevano le nocche. I pugni così stretti da indolenzire le braccia, mentre l’eco di un pianto familiare gli apriva il cranio.
   «Ogni minuto… ogni momento… ha importanza. »
Cloud sentiva la bocca asciutta mentre lei si voltava. Gli occhi innocenti di lei di nuovo dispersi, quasi irriconoscibili. Lucidi di un sentimento che raccontava addio, un arrivederci che non aveva mai chiesto ma che gli doveva. Un addio che apriva il cranio dell’ex soldier. Le leggeva timore negli occhi, ma anche una stilla di felicità raccolta nei pensieri. Quello sguardo lo uccideva strangolandogli il petto, togliendogli il respiro che accelerava assieme al battito cardiaco.
   «Sono… grata a tutte le parole che abbiamo condiviso. …Ogni momento… ogni memoria…»
 
Lei lo sa. Non puoi proteggerla.
 
   «Smettila! »
Quella schiena non c’era più. Quel momento si era sgretolato nell’attimo in cui Cloud le aveva affettato il braccio, facendola sussultare, strattonandola a sé con tale urgenza da strapparle un lamento e farla scontrare contro il suo petto.
Anche nel suo sogno Aerith profumava di fiori. Il respiro agitato della fioraia sopra la maglia era brace in contrasto con l’aria fredda della sera. Sentiva la fronte premuta contro di lui, appena sotto la gola, la presenza a un soffio, un passo. Forse la stava stringendo troppo, ma non osava allentare la presa. Aveva paura scivolasse ancora via da lui, paura di vederne la schiena allontanarsi e non avere la capacità di raggiungerla.
Le emozioni erano nemiche dei Soldier, confondevano e dissociavano dal ruolo, portavano a compassione e una lunga serie di inutili emotività. Lui era una guardia del corpo, era sua dovere proteggerla, recuperarla e portarla alla madre. Lui… la rivoleva. Voleva sentirla ridere, spronarlo a vivere. Aveva bisogno di lei. Aveva bisogno che gli ricordasse che anche lui era vivo. Lei era viva ed era vita. Voleva respirarla di nuovo.
   «…Non parlare come se fossimo un ricordo. »
Tremò nel percepire la mano di Aerith appoggiarsi contro il suo ventre. Lei si rilassava, sciogliendosi fiduciosa a lui dopo lo stupore iniziare. Si modellava alla presenza dell’Ex Soldier, raddrizzando la schiena ma non svelando ancora il viso. Lui, invece, si tendeva. Una corda di violino in attesa della vibrazione giusta, inebriato dal profumo della fioraia, dalla presenza tiepida, dalla mano di lunghe dita che si stringevano alla maglia, tendevano il tessuto e accarezzavano la pelle.
Dove lei toccava, rimaneva fuoco. Una brace che si dilatava nel petto cancellando l’abisso iniziale, scongelando i timori. Lei poteva fare retrocedere i demoni dell’ex soldier, mettere a tacere i loro bisbigli ghignanti. Tutto, con lei, era calore. Lui stesso diventava calore. Allentò la presa della mano contro il braccio della fioraia, ma non la lasciò. Non le permetteva di scivolare via da lui.
   «Non possiamo innamorarci. » sussurrò Aerith, con voce tremante.
Cloud tornò a stringere la mano attorno all’esile bracco della fioraia. La guardava, ora, mentre lei sollevava il volto, piegato in un’espressione che non le aveva mai visto.
Forse era veramente un sogno.
 
Crudele.
 
Osservò come uno spettatore il verde liquido di quegli occhi familiari, sotto l’eco del cuore che gli martellava nel petto. Era pieno del suo profumo. Stava annegando nella sua presenza e non riusciva a lasciarla andare. Non voleva. Non poteva. La traccia delle dita di Aerith scorreva lungo l’addome, saliva, depositava lava sulla pelle anche tramite quella maglia, fino a toccargli il viso. Era delicata, leggera come il tocco di un petalo adagiato sulla pelle e rovente come il corpo dell’ex Soldier. Cloud sentiva la schiena inumidirsi, mentre i polpastrelli della fioraia facevano pressione, gli assaporavano la pelle. Lo toccava come mai aveva tentato prima e lui osava come mai aveva fatto, non per proteggerla, non per scudarla. Lo faceva perché desiderava sentirla, comprendere le pieghe di quel corpo e dei suoi colori. Impregnare il suo profumo nell’anima. Premette l’altra mano guantata contro i lombi della fioraia, la spinse contro di sé, espirando il fiato trattenuto quando le dune dolci di quel corpo così fragili si infrangevano caute contro di lui.
Aerith non si opponeva, ma i suoi occhi erano pieni di indecisione. Di dolore.
   «Sarebbe inutile. »
 
Crudele.
 
Fu a quel sussurro tremule della fioraia che l’ex Soldier lasciò il suo braccio. Sentiva ancora la pressione contro il guanto, premere contro il palmo, le dita. Non c’era più nessun pensiero, solo istinto. Non c’era tattica e strategia, il mondo era vuoto e l’aurora spenta. Non esisteva niente, nessun nemico e nessun amico. Solo il cuore della fragile contro il suo petto e il suo, di bestia, contro di lei. Le leggeva paura negli occhi, ma sapeva con una certezza alla soglia della follia che lei non aveva paura di lui.
Non poteva lasciarla andare.
Non voleva sentirla parlare così. Voleva ancora il suo sorriso, gli occhi raggianti che lo sfidavano a contraddirla. La sua energia vibrante che si scatenava su di lui, per scorrergli nelle vene e trascinarlo in follie patetica, senza la paura di una sua reazione, di un suo sguardo. Della sua anima di assassino. Lei non lo temeva. Non vedeva la bestia dagli occhi di Mako. Vedeva un ragazzo interrotto che poteva completare. La guantata dell’ex Soldier si  alzò a raccogliere la mano della fioraia ancora contro la guancia, circondarla e assaporarne la forma. La grandezza. Le lunghe dita, per scoprire che, in realtà, quelle mani erano piccolissime in confronto alle sue.
Era sempre stata così fragile?
Le dischiude le mano, guidandola scorrendo i polpastrelli tra le dita, scivolando tra esse fino a raggiungere l’incavo, incastrare le proprie tra quelle di lei e curvarle fino a premere i polpastrelli contro il palmo della mano della fioraia. Abbassarla, con l’aria fresca della notte a baciargli la pelle rovente, la bocca dello stomaco stringersi in una sensazione nuova, limpida, pungente, mentre si curva su lei. Disperso. Pieno di quel profumo.
Il respiro di Aerith si velocizzò. Gli piaceva. Era caldo sulle labbra.
   «Questo lo dici tu. »
 
Crudele.
 
La mano della fioraia rispose, nella sua. Si contrasse sigillandogli le dita. Si imprigionavano a vicenda. Un brivido rovente scorse lungo la schiena dell’ex Soldier, scivolò fino al ventre per languirvi e scaldarsi calando docile. La mano libera di Aerith gli premeva esitante contro la schiena, le dita si muovevano e accarezzavano. Sembravano esplorarlo, cercare di capire fin dove poteva osare. E lei osò, facendolo sospirare sulle sue labbra, scorrendo verso l’alto, tra le scapole che si contrassero in un guizzo di muscoli. Gli sorrise, tra le lacrime che già traboccavano sulle guance. Sorrideva alle reazioni innocenti che lo stordivano, alla sua espressione corrugata, quasi stesse tentando di concentrarsi su quella stregoneria.
   «E’ quasi mattina…»
Quando le dita della fioraia si immersero tra i capelli dell’Ex Soldier tutto si svuotò di ogni altro significato. Cloud abbassò il viso trovando la bocca morbida di cui conosceva ogni inclinazione ridente, dalla pura all’addolorata. Chiuse la propria sulla sua, assaporandola, assaggiandola mentre a quel solo tocco un rantolo rovente gli colò lungo il torace, scaricandosi al ventre, languendo in bassezza. Inalò bruscamente, nel momento stesso in cui Aerith si stringe a lui, tremando, stringendogli delle ciocche di capelli tra le dita, senza violenza, ma semplicemente per spingerlo contro di sé mentre di nuovo le bocche si univano, si modellavano con una consapevolezza improbabile. Si schiudevano e di nuovo si stringevano a vicenda in docili schiocchi. Musica e desiderio.
Il respiro dell’ex Soldier accelerò, ogni cellula del suo corpo era sensibile alle forme della fioraia. Ne sentiva il seno contro il torace, la tensione delle dita tra le proprie e tra i capelli, la sentì sussultare mentre spingeva con più veemenza la mano contro quei lombi tra i fianchi sottili, la sospingeva contro il proprio bacino. Pulsava. Il suo corpo intero pulsava, mentre chiedeva di più senza sapere come provare a ottenerlo. Aerith sorrise, reclinò il capo guidando il bacio maldestro per suggergli il labbro inferiore, facendolo fremere. Fu lei a scivolare nella sua bocca, a guidarlo nel calore umido di una danza deliziosa. E Cloud, per l’ennesima volta, non poté che farsi trascinare da lei gemendo di disappunto nell’istante in cui fu la fioraia a ritrarsi, reclinando il capo per premere la fronte contro quella dell’ex soldier e distanziare le loro bocche abbastanza da mescolare i respiri, da essere pronte a suggellarsi ancora, chiedere di più, osare di più.
   «Devo andare. »
L’ex Soldier aprì gli occhi. Lucidi, languidi, dilatati di pulsioni senza nome, senza senso. Rovente di lei, di quel profumo, di quel sapore. Non poteva andarsene. Lui l’aveva tratta a sé, catturata. Non poteva andarsene. Eppure piccoli pistilli di luce verde iniziavano già ad alzarsi dal corpo della fioraia, sgretolando ogni sua illusione, trascinandolo senza inibizione alla realtà delle cose. Lei non era lì, quel sogno era per lui, ma lei non era lì.
   «Verrò a prenderti. » ringhiò Cloud, contro quella bocca turgida.
   «Se proprio insisti… ti aspetterò. »
 
Il destino è crudele.
 
Cloud spalancò gli occhi.
Era realmente mattina. Era realmente stato un sogno. Su di lui rimaneva solo l’eco di un calore languido, fatto di sussurri e respiri mescolati. Rimaneva il sapore di una bocca che ha desiderato nella piega di emozioni senza nome. Il languore del ventre si plasmò in uno stomaco contorto, mentre stringeva la mascella e il respiro accelerava ancora, ma sotto una nota differente, fischiata tra i denti.
La bestia dagli occhi di Mako stava tornando a ruggire. Selvatica, feroce.
Questa volta non avrebbe fallito. L’avrebbe protetta.
Non era più il Soldier disciplinato. Era, oramai, una bestia senza guinzaglio.
Il destino era crudele ma lui poteva esserlo molto di più.
   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Final Fantasy VII / Vai alla pagina dell'autore: Vanilla Wolff