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Autore: Gaia Bessie    19/06/2020    1 recensioni
«Finché avrai voglia di provarci, io ti manderò indietro a quel preciso istante» asserì Aion. «Ma fai attenzione, Annabeth Chase: il passato, il più delle volte, è solamente una grossa delusione cui non possiamo porre rimedio».
Un viaggio a ritroso nel tempo, con un unico scopo: salvare Luke Castellan.
[Epilogo]: Luke scosse il capo, anche se gli costò un’enorme fatica. «No» mormorò. «Avremo altre occasioni, io… ti cercherò per tutte le mie altre vite».
«Ti prometto che ci troveremo, in qualche modo» rispose lei, asciugandosi le lacrime. «E ci andremo davvero, in Alaska, e in Europa e…».
«Va bene così, un giorno… ci rincontreremo, in qualche modo» sussurrò il ragazzo, piano.
[Seconda classificata al contest "Il citazionista 3" indetto da SherylHolmes e giudicato da fantaysytrash sul forum di Efp]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Luke Castellan, Luke/Annabeth, Percy Jackson
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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«Finché avrai voglia di provarci, io ti manderò indietro a quel preciso istante» asserì Aion. «Ma fai attenzione, Annabeth Chase: il passato, il più delle volte, è solamente una grossa delusione cui non possiamo porre rimedio».
Lei non ebbe il tempo di replicare: il Dio prese i dadi, li rigirò tra le mani paffute e, con un abile lancio, li fece atterrare sulla scacchiera con un tonfo sordo.
Distrattamente, Annabeth pensò che certamente non erano i dadi adatti per giocare a backgammon: tutte e sei le facce erano bianche.
 
 
1. Questa vita tutta rotta


People always say
Life is full of choices
No one ever mentions fear!
Or how the world can seem so vast
On a journey ... to the past
(…)
Home, Love, Family.
There was once a time
I must have had them, too.
Home, Love, Family,
I will never be complete
Until I find you
(Anastasia, Journey to the past)
 
Non importa quanto lunga sia la strada
I finestrini aperti e le risate nella notte
Mi basteranno per tornare ad essere più forte
Ci lasceremo indietro quello che non ci appartiene
Ho sempre rotto tutto in questa vita
Adesso voglio stare bene
(…)
Ma tanto tutto questo un giorno passerà
Comunque vadano le cose qui con te
Va tutto bene
(Giulia Molino, Va tutto bene)
 
«Annabeth, ti prego» Luke, controluce, aveva gli occhi ricolmi di lacrime. «Vieni con me. Non… per te posso lasciare tutto e fuggire, ma da solo…».
Lei lo guardò, meravigliata: aveva ancora negli occhi il sorriso del Dio bambino, Aion, mentre gettava i dadi vuoti sulla scacchiera. Quel lancio aveva generato un rumore che l’aveva assalita, come un’onda d’urto, facendola tremare.
Quando il rumore s’era esaurito, davanti a lei era comparso Luke Castellan. Era esattamente come se lo ricordava, come lo aveva sognato, per più di due anni, mentre le chiedeva di fuggire insieme. Di fregarsene della guerra, della morte, degli Dei avversi e, soprattutto, di Percy.
Avrebbe mai potuto perdonarla, Percy, se mai avesse avuto il coraggio di confessargli che, in un altro futuro che non avrebbero mai più vissuto, avrebbe quasi potuto amarlo?
Quasi. Se quel quasi non avesse avuto un nome, un cognome, e due occhi azzurri che la scrutavano in paziente attesa, pieni di aspettative.
«Luke» mormorò lei, dolcemente. «Non possiamo semplicemente fuggire, se dovessero trovarci…».
«Ci ucciderebbero» completò lui. «Ma morirei in ogni caso. Sarebbe una morte migliore, del morire solo e spaventato».
«Perché hai lasciato che le cose si spingessero così oltre?» domandò la ragazza, con una vena di astio che la sorprese. «Perché hai preferito abbandonare il Campo e… me».
«Ho sbagliato, Annabeth» mormorò Luke, con un tono che ne tradiva la stanchezza. «Ha manipolato i miei sogni. Pensavo… che avrei potuto avere la mia rivincita. E che mi avresti seguito».
«E come avrei potuto?» rispose Annabeth, dolcemente. «Ho fatto ciò che credevo fosse giusto, ma non significa che…».
Che non m’importasse di te, vorrebbe dirgli. Ho scomodato l’intero Olimpo, e il Dio minore del tempo, solamente per salvarti.
«Hai preferito giocare agli eroi con Percy Jackson» borbottò lui, scuotendo il capo. «Anche ora, stai preferendo rimanere dalla sua parte».
«Io sono dalla tua parte» replicò lei, rossa in viso. «Ma non possiamo semplicemente fuggire, Luke, cerca di essere ragionevole».
Lui la guardò, senza dire una parola, in un silenzio che se la mangiò viva: si era scavato, Luke, così tanto che gli zigomi sembravano volergli bucare la pelle, l’ennesima e inutile armatura, per poter vedere la luce. Sembrava ne avesse bisogno, di luce e calore, perché era così pallido e stanco da apparire sul punto di crollare sulle proprie ossa.
«O sei con me o sei contro di me» commentò Luke, atono. «Capirò, se non vorrai venire con me. Significherebbe che, dopotutto, ho preso un abbaglio e… i miei sentimenti non sono ricambiati».
A lei, per un attimo, mancò il respiro. Le sembrò quasi di tornare indietro, o forse avanti, nel tempo e di vedere Luke morente che le dedicava le sue ultime parole.
Si domandò, silenziosamente, se anche questa volta avrebbe avuto il coraggio di mentirgli, di dirgli che non lo aveva mai amato. Che non aveva mai creduto, nel loro amore da favola, che anzi si era sgretolato sotto la pressione dei suoi sogni di bambina.
«Io…» borbottò, imbarazzata. «Come puoi credere che io non…».
Luke la guardò, un sorriso ironico che gli sfigurava il volto come una seconda cicatrice. «Lo so» disse mestamente. «Jackson».
«No!» disse lei, con voce insolitamente acuta. «Penso che Percy potrebbe piacermi, se solo… se solamente non ci fossi tu».
E nemmeno allora, pensò distrattamente, potrei pensare a lui soltanto: ci ho provato, credimi, ma quando non c’eri percepivo comunque la tua assenza, e mi stava facendo diventare matta.
«Quindi verrai con me?» domandò Luke, la voce che tradiva un principio di sorriso. «Come i vecchi tempi?».
Annabeth sorrise, sentendo che tutto il mondo che aveva conosciuto fino a quel momento cominciava a incrinarsi inesorabilmente
 
***
 
I suoi sogni, quella notte, si popolarono di bianco: era come se ogni immagine, ogni proiezione che la sua mente ideasse, venisse automaticamente cancellata, come se il suo cervello non fosse più in grado di elaborarla. Quando si svegliò, era ancora a casa sua, a S. Francisco: pensò quasi di essersi immaginata tutto quanto, che il punto di partenza del suo strano viaggio nel tempo dovesse ancora verificarsi. Se non fosse stato per il braccio di Luke che le sfiorava la vita: evidentemente anche il ragazzo aveva avuto sogni agitati, perché si era sensibilmente avvicinato a lei, seppur rannicchiato su sé stesso.
Chissà se stava sognando Crono, Luke, chissà se avrebbe mai smesso di sognarlo: e, infine, chissà se la loro vita sarebbe stata spesa fuggendo, da Crono, prima, e dagli Olimpi, infine, quando avrebbero scoperto che erano scappati insieme. Atena, sicuramente, sarebbe rimasta delusa dal comportamento della figlia. Solamente Ermes avrebbe parlato in loro favore, ma sarebbe bastato?
«Luke» mormorò, scuotendolo leggermente. «Svegliati».
Lui aprì gli occhi a fatica, come se le energie gli fossero state prosciugate dalla conversazione avuta la sera precedente.
«Buongiorno» borbottò, insonnolito. «Che succede?».
Lei lo guardò, stupida. «Dobbiamo andare» disse, semplicemente. «Prima che qualcuno si renda conto che ieri sera non sei tornato sulla nave».
Luke subito annuì, vigile. «Hai ragione» convenne. Posò lo sguardo sul mappamondo sulla scrivania di Annabeth. «Scegli dove vuoi andare, se vivremo abbastanza potremmo perfino dover tornare due volte nello stesso tempo».
«Dove voglio andare?» domandò lei, stupita. «Possiamo veramente andare da qualunque parte?».
«Io inizierei con una meta negli Stati Uniti» rispose Luke, scrollando le spalle. «Ma saremo più al sicuro se ci allontaneremo dall’America. Non ti piacerebbe visitare l’Europa?».
Annabeth annuì, incantata. «Certo che mi piacerebbe» mormorò. «La Grecia, ad esempio…».
Lui sorrise. «Il Partenone» la anticipò. «Lo immaginavo. Ma potremmo andare anche in Italia, in Francia… se non farà troppo freddo, perfino in Russia. Dovunque vorrai».
Lei pensò che sarebbe stato fantastico, per qualche mese, forse, perfino per qualche anno. Ma quanto potevano resistere, loro due soltanto, senza una casa, dovendo scappare continuamente?
Cercò di scacciare questo pensiero: le bastava solamente che sopravvivessero entrambi, senza farsi notare né dall’esercito di Crono né dagli Dei. Silenziosamente, pregò Ermes che vegliasse sul loro eterno vagabondaggio.
«Sono contento che tu abbia deciso di venire con me» ammise Luke, chinando il capo. «Altrimenti non so che fine avrei fatto».
Annabeth sorrise, conciliante, mentre stralci di un futuro perduto le passavano davanti agli occhi e mano a mano sbiadivano, come cancellati dal rumore di due dadi interamente bianchi.
«Avrei fatto qualunque cosa pur di salvarti da lì» sussurrò, così piano che si sentì solamente lei. «Qualunque cosa».
 
***
 
«Spero che tu non soffra il freddo» commentò Luke, uscendo dalla finestra. «Non possiamo rischiare attraversando l’intero Atlantico… dovremo passare dall’Alaska alla Siberia, il tratto di mare è più breve».
Si voltò e, sebbene lei non ne avesse bisogno, le porse la mano per aiutarla a uscire da camera sua. Senza farsi vedere, aveva lasciato al padre un biglietto scritto a matita, sperando che le sue scuse fossero sufficienti. Probabilmente, non lo avrebbe visto mai più.
«Dobbiamo allontanarci il più possibile da New York» borbottò il ragazzo, cominciando a camminare. «Ci conviene seguire il confine con il Canada».
«Luke…» mormorò, così piano che si stupì del fatto che lui fosse riuscito a udirla. «Perché sei tornato indietro?».
Lui si fermò, soppesando le parole. «Ho fatto un sogno» disse, infine. «Erano mesi che non dormivo bene, invece quella notte… è stato come se finalmente gli incubi potessero lasciarmi in pace».
Luke sorrise, riprendendo a camminare. Forse sperava che lei lasciasse cadere il discorso, ma sottovalutava la necessità, che Annabeth provava, di ricevere risposte: di sentirsi dire che non aveva sbagliato, nonostante ogni evidenza contraria, a credere nell’amore delle favole. E nella stupida e ingenua convinzione che lui potesse amarla per davvero, non semplicemente come una sorella o una migliore amica.
«E questo cosa c’entra con me?» domandò, quindi. «Cosa avevi sognato?».
«Una stanza con una scacchiera e dei dadi tutti bianchi» rispose Luke, scrollando le spalle. «E c’eri tu seduta su un cuscino. Mi hai detto di venire da te, che mi avresti aiutato e che…».
Si interruppe, voltandosi per guardarla negli occhi. Controluce, sembrava che la cicatrice che gli sfigurava il viso fosse sparita.
«Che proteggi sempre le persone che ami».
 
***
 
Quando erano ormai vicini alla periferia di S. Francisco, Luke si fermò davanti a un parcheggio: anche senza guardarlo in volto, Annabeth ne intuiva l’imbarazzo dalle spalle strette, e dalla mano che nervosamente vagava tra i capelli.
«Ci serve un’auto» disse, infine. «Più in fretta raggiungiamo il confine, meglio è. Io potrei…».
Gli mancò la voce. Era paradossale, che Luke, colui che aveva abbandonato tutto per votarsi al Dio peggiore che potesse scegliere, avesse delle remore nel compiere un furto d’auto. Aveva avuto il coraggio necessario per lasciarsi alle spalle la vita – e lei stessa – che aveva sempre conosciuto, ma non quella piccola scintilla che serviva per accettare di essere progenie di Ermes, Dio dei ladri.
«Vado io?» domandò Annabeth, cercando di mostrarsi comprensiva. «Non… non l’ho mai fatto, ma imparo velocemente».
Luke scosse il capo. «No» mormorò. «Vado io. Ho… ti ho già messa in una situazione che non meritavi. Non ti lascerò fare qualche altra cosa che, in fondo, non vuoi».
«Luke…» borbottò lei, contrariata. «Io non…».
Lui scosse il capo. «Non dire niente» disse. «Non… sono stato egoista. Ma io avevo bisogno che tu venissi con me».
A lei, per un attimo, mancò il respiro. Cercò, dentro di sé, le parole giuste per dirgli che era lei, quella egoista, quella che, in un altro futuro ormai sbiadito e irraggiungibile, lo aveva condannato a morte. Che l’aveva sognato, per più di due anni, mentre affranto lasciava che la sua anima immortale si staccasse dal corpo, dopo che lei si era dovuta cavar di bocca una bugia con cui, a conti fatti, aveva ferito anche sé stessa.
«Rimani qua» le disse Luke. «Cercherò… di far presto».
Ma, quando si voltò, rimase come pietrificato, come di fronte a una resuscitata Medusa: Ermes lo guardava, e aveva un dispiacere innestato tra le rughe della fronte, che lo faceva apparire stanco, e deluso.
«Luke» disse il Dio, quasi come se faticasse a pronunciare il nome del figlio prediletto. «Vedo che hai abbandonato la tua guerra, figliolo».
«Non era la mia guerra» sibilò Luke, stringendo gli occhi. «Io… sono altre, le mie battaglie».
«Lo so» concesse Ermes, chinando il capo. «Ma adesso tutti gli altri Dei vogliono la tua testa. Non… non importa quanto tu possa fuggire, ti troveranno».
«Quindi hai pensato di consegnarmi tu a loro?» domandò il ragazzo. «Prendimi pure. Non sarebbe la prima volta, che…».
«Che ti abbandono» completò per lui il Dio. «Credimi, lo so. Ho cercato in ogni modo di rimediare, ma per te non sono mai stato in tempo per farlo».
«Esattamente. Ma sono disposto a seguirti sull’Olimpo senza opporre resistenza, se…» Luke si voltò a guardare Annabeth, indicandola con un cenno del capo. «Se lascerete stare lei. Io… io l’ho obbligata a seguirmi, padre».
Lei lo sguardò, stupefatta, ma non fece in tempo a discolparlo che il divino Ermes scoppiò in una fragorosa risata. Quando rideva era straordinariamente simile a suo figlio: sembrava quasi che una nuvola di passaggio gli avesse proiettato sul viso la medesima cicatrice.
«Risparmiati questa scusa se mai riusciranno a trovarvi» commentò Ermes, scrollando le spalle. «Io sono dalla tua parte, Luke. Sappi che benedico il tuo viaggio e, quando la guerra sarà finita, chiederò a Zeus di concederti il suo perdono».
Il ragazzo lo guardò, stupito, ma non disse niente. Chinò semplicemente il capo, aspettando che il Dio vi posasse su la mano, per accoglierne la benedizione.
Ma Ermes esitò.
«Luke» borbottò. «Fai attenzione. Avrai sempre qualcuno, Dio o Titano, alle calcagna finché la guerra non sarà finita».
Il Dio dei viandanti prese un respiro, mentre con il palmo della mano accarezzava il capo color sabbia del proprio figlio prediletto. «Fai attenzione. C’è una macchina che ti aspetta dietro l’angolo, partite subito» ripeté, con maggiore enfasi. «Percy Jackson vi sta cercando».
 
***
 
Nell’abitacolo del pick-up blu di Ermes, Luke si era rinchiuso in un mutismo insondabile e ostinato: se avesse semplicemente guidato, guardando con attenzione la strada, Annabeth non avrebbe mai intuito quanto le parole del Dio lo avessero turbato. Ma il ragazzo stringeva il volante con forza innaturale, che gli aveva fatto sbiancare le nocche. Forse, a breve, gli avrebbero potuto bucare la pelle, rompendola.
«Luke…» mormorò Annabeth, incerta. «Io non… non pensavo sarebbe venuto a cercarmi».
«Io ne ero certo» borbottò lui, con aria contrariata. «Tu e lui… ho sempre pensato che avessi fatto in fretta, a… a colmare i vuoti».
Lei penso che, di tutte le cose che Luke avesse mai detto, o fatto, questa era la più strana e innaturale: Annabeth non aveva dimenticato, le notti passate a temere per la sua vita, sapendolo soggetto a Crono. Non aveva dimenticato quel dolore viscerale che aveva provato, nel pensare che, un giorno chissà quanto vicino, avrebbe dovuto combattere contro di lui. Da qualche parte della sua memoria, ripescò la disperazione con cui aveva scelto di tornare indietro, scomodando un Dio bambino, solamente per poterlo salvare.
«Tu te ne sei andato» disse, invece, con voce rotta. «Non… mi hai lasciata da sola, Luke, hai scelto di non dirmi che erano mesi che sognavi Crono. Quando hai smesso di dirmi le cose?».
«Pensavo non avresti capito» mormorò lui, sommessamente. «Che avresti pensato che fossi impazzito, o peggio».
«L’unica cosa che non riesco a capire è perché tu abbia deciso di voltarmi le spalle» borbottò Annabeth. «Avremmo… avremmo potuto risolverla insieme, come i vecchi tempi».
Luke sorrise, a disagio. «Lo so» ammise. «Ed è per questo che ho abbandonato tutto quanto per venirti a cercare. So di averti chiesto un sacrificio enorme, e se tu dovessi pentirtene…».
«Non lo farò» lo interruppe lei. «Io… per tutti questi anni stavo aspettando che tu tornassi indietro».
Lui sorrise ma, con il sole che stava già cominciando a tramontare, sembrava solamente un’altra cicatrice. Il sole morente gli aveva restituito il biondo originario dei capelli ma, nonostante tutto, Luke continuava a sembrare infinitamente stanco. E, per quanto potesse voler fingere che quella non fosse altro che una vacanza tra amici, spaventato.
«Sono quasi sei ore che guidi» osservò Annabeth, incerta. «Ormai dovremmo essere vicini a Medford… forse potremmo fermarci lì, per la notte».
«Posso farcela» mormorò Luke, senza distogliere lo sguardo dalla strada. «Davvero. Più distanza mettiamo tra noi e New York e meglio sarà».
«Luke» mormorò lei, posandogli una mano sul braccio. «Sei troppo stanco per continuare a guidare. Cercheremo un hotel a Medford, devi riposare».
Il ragazzo finalmente annuì. «Sul sedile posteriore c’è uno zaino» borbottò. «Nella tasca posteriore c’è un portafoglio, dovrebbero esserci delle carte di credito».
Annabeth non disse niente, ma pensò che Luke fosse stato cieco, a non rendersi conto che suo padre, il Dio Ermes, aveva sempre cercato di favorirlo in ogni modo possibile. Anche adesso che era costretto a fuggire dai nemici più potenti al mondo, l’Olimpo intero e Crono, e l’unica maniera che avesse per sopravvivere era nascondersi.
Luke non la meritava, la morte del topo: nascosto in un vicolo cieco odoroso di muffa, con la paura che invade ogni nervo. Eppure, comprese Annabeth in quel momento, se qualcuno li avesse trovati, adesso o tra cent’anni, sarebbero morti come ratti.
È comunque una morte migliore, le aveva detto Luke. Ma lei, mano a mano che si allontanavano da New York, non era poi così convinta.
 
***
 
Luke aveva dovuto guidare un’altra mezz’ora, prima di scorgere l’insegna dell’Holiday Inn. Sospirando, si avviò verso il parcheggio.
«Sei sicura?» domandò ad Annabeth, mentre si metteva in tasca le chiavi del veicolo. «Possiamo sempre proseguire e fermarci più tardi».
Lei scosse il capo. «Andiamo» disse, semplicemente.
Alla reception li attendeva una donna con i capelli tinti di uno squillante rosso acceso, probabilmente una tintura casalinga. «Buonasera» trillò. «Vi serve una camera?».
Luke annuì, frugando nello zaino ed estraendone il portafoglio. «Sì, grazie» disse, cordialmente.
La receptionist si illuminò: guardandola bene, si rese conto che probabilmente aveva la stessa età di Luke.
«A te e tua sorella andrebbe bene una doppia?» domandò la ragazza, sbattendo le ciglia con fare caricaturale. «O preferireste due singole?».
Solamente in quel momento Luke parve emergere dalla propria stanchezza: guardò in viso la receptionist, facendola arrossire. Sorrise leggermente.
«No, io e la mia ragazza preferiremmo una matrimoniale, se possibile» disse, candidamente. «Ti servono i documenti d’identità?».
«Oh, no» biascicò la ragazza, il viso divenuto del medesimo colore dei suoi capelli. «La 5B è libera: quinto piano, l’ascensore è sulla destra».
Luke le allungò la carta di credito, senza far caso alla delusione che aveva macchiato la voce della ragazza. La ringraziò con un cenno del capo e si diresse verso l’ascensore, con Annabeth che lo seguiva, scontenta.
«Spero non ti dispiaccia, se ho preso una camera sola» disse Luke, cautamente, mentre l’ascensore si fermava al quinto piano. «Ho pensato che sarebbe stato più… semplice, da gestire».
«Pensavo l’avessi fatto solamente per liberarti di quella mortale» rispose lei, acida. «O sbaglio?».
Lui la guardò, stupito. «Certo che no» disse, scrollando le spalle. «Per quanto riguarda poteva pensare anche che fossi tuo padre, figurati».
«Sono stanca, scusami» disse Annabeth, dirigendosi verso la sponda sinistra del letto. «Non mi va di chiacchierare».
«Annabeth» disse lui, tirandola lievemente per un braccio. «Non ti stavo prendendo in giro».
«Lo so» borbottò lei, scuotendo il capo. «So già che per te sono come una sorella, Luke, non c’è bisogno di ripetermelo».
Luke sbuffò, facendola voltare lentamente: con orrore, si rese conto che Annabeth aveva gli occhi lucidi. «Se non fosse contrario alle leggi di un buon 80% degli stati degli Stati Uniti» disse, con una dolcezza strana, nuova. «Ti chiederei di sposarci anche adesso. Se… se lo volessi anche tu».
Lei lo guardò, stupita. Provò a dire qualcosa ma, per la prima volta in vita sua, non le vennero le parole.
«Spero che fra due anni te ne ricorderai» disse Luke, con un sorriso furbo. «Perché te lo chiederò veramente».
 
***
 
Quando Annabeth aprì gli occhi, la mattina seguente, ancora doveva sorgere il sole. Eppure, Luke sedeva di fronte alla finestra, sulla propria sponda del letto, bisbigliando qualcosa.
Per un attimo che durò un’eternità, Annabeth temette che stesse parlando con Crono. Poi, si rese conto che stava pregando.
«Scusami» disse, improvvisamente, accorgendosi che lei lo stava osservando. «Non pensavo fossi già sveglia».
Luke si spostò sul letto, avvicinandosi a lei. «Vuoi fare colazione?» domandò. «Non credo che l’Oregon abbia chissà quali piatti tipici, ma potremmo comunque dare una chance a questo posto».
«Luke…» mormorò lei, incerta. «Dicevi sul serio, ieri sera?».
«Certo che dicevo sul serio» rispose lui, serio. «Io… lo penso da mesi, ormai. E… sono tornato anche per questo».
«Non pensi che sarebbe bello avere una casa, una famiglia?» domandò Annabeth. «Pensare che un giorno potremmo solamente scegliere un posto e vivere lì?».
«Sì, sarebbe bello» convenne Luke, ma sembrava perso in altri pensieri. «Se solamente ci fosse un modo».
Annabeth pensò che c’era, un modo, o forse semplicemente un altro mondo in cui lei e Luke potessero essere ancora, magari per sempre, una famiglia. Ma era anche un mondo in cui lei avrebbe dovuto trovare il coraggio di dirglielo, che una soluzione c’era. E a lui non sarebbe piaciuta.
 
***
 
«Dove siamo diretti?» domandò Annabeth, salendo in macchina. «L’Alaska è ancora parecchio distante».
Luke, sedendosi sul sedile del guidatore, annuì. «Possiamo fermarci a Vancouver» disse. «Sono poco più di quattro ore di macchina, ho controllato ieri sera su una cartina alla reception».
Annabeth annuì solamente, mettendosi a guardare il paesaggio che lentamente iniziava a scorrere davanti ai suoi occhi.
Sarebbe bello, pensò con una nota di tristezza. Casa. Una famiglia.
«Luke…» mormorò. «So che non ti fa piacere, ma… dovremmo chiedere aiuto a tuo padre».
Lui non rispose subito, ma Annabeth notò una certa tensione annidata nella mascella: chissà che parole stava cercando di non dire, Luke, chissà quanta disapprovazione si stava trattenendo dal rovesciarle addosso.
«E perché?» disse, infine, semplicemente. «Noi… possiamo cavarcela da soli. Come una famiglia».
«Vuoi davvero scappare per tutta la vita?» domandò lei, posandogli una mano sul braccio. «Se tuo padre parlasse in nostro favore, forse…».
Luke scosse il capo. Con orrore, Annabeth si accorse che aveva gli occhi lucidi. «Mi ucciderebbero comunque» mormorò, gli occhi fissi sulla strada. «E… mi starebbe anche bene: ognuno deve pagare per le proprie colpe, in questo mondo. Ma… ». La voce gli si ruppe. «Sono egoista, se voglio solamente rimanere con te qualche mese, forse qualche anno, in più?».
Per un momento dolorosamente lungo, ad Annabeth mancarono le parole: a cosa si era ridotta, quella vita, se non a un buffo segmento di ossa rotte che, però, non riusciva a saldare insieme, come ne mancasse un frammento.
Poteva davvero costringerlo a consegnarsi agli Olimpi, mettendo fine a quella loro avventura, insieme, che potenzialmente sarebbe benissimo potuta durare in eterno? Poteva dirgli che non le importava, rimanere con lui finché le Moire l’avessero consentito, essere per l’ultima volta, quella definitiva, la sua famiglia?
«Non lo sei» bisbigliò, infine. «Non… hai ragione, non possiamo semplicemente chiedere pietà e sperare che funzioni. Possiamo solamente andare avanti».
«So che non è tutto quello che hai sempre sognato» continuò Luke, imbarazzato. «Ma farò del mio meglio, per renderti felice. Te lo prometto».
Lei si sistemò meglio sul sedile, voltandosi verso il finestrino, per non fargli vedere quanto fosse arrossita. Pensò al ricordo di un altro Percy, che ormai era più una fantasia che un vero ricordo, e si domandò se si sarebbe mai pentita della scelta di aver seguito Luke.
«Ho sempre rotto tutto, in questa vita» mormorò il ragazzo, sottovoce. «Adesso voglio stare bene».
 
***
 
Luke si fermò improvvisamente in un parcheggio sotterraneo, nel centro di Vancouver. Girò le chiavi nel vano e si voltò verso Annabeth, che lo scrutava perplessa.
«Credo sia ora di pranzo» si giustificò lui, imbarazzato. «Conosco… c’è un ristorante all’interno del Queen Elizabeth Quarry Gardens. Ho pensato che sarebbe stato bello, pranzare insieme come… come se fosse normale».
«Come se non stessimo fuggendo?» domandò lei, scherzosa. «Mi farebbe piacere pranzare con te» disse, con tono forzatamente formale. «Devo considerarlo un appuntamento?».
«Se pensi ancora che io e te abbiamo bisogno di un appuntamento» rispose Luke, scrollando le spalle. «Ma possiamo comunque considerarlo tale, se ti fa piacere».
Annabeth gli sorrise, raggiante, mentre risalivano in superficie: al sole sembrava tutto immensamente più semplice, più immediato. Pensò che se lo meritavano, un pranzo, un’ora soltanto, in cui poter fingere di aver tutto quello cui avevano rinunciato. Casa, una famiglia tutta loro.
«Io penso proprio che ne abbiamo bisogno» mormorò Annabeth. Istintivamente chinò il capo, come per indicargli la propria mano. «Anche senza fare finta».
Lui parve intuire il sottinteso e le tese la propria mano: era ancora quella che si ricordava, biscottata dal sole e resa callosa dal peso della spada. Non c’era nulla che raccontasse della loro improvvisa fuga, che le suggerisse le rischiose scelte che, per tornare da lei, Luke aveva dovuto compiere.
Lei non esitò a lasciargli prendere la propria mano: tienila pure, ti appartiene, come occhi, testa e cuore. Sono sempre stati tuoi. Avrebbe mai avuto il coraggio di dirglielo, che avrebbe rinunciato a ben più di una casa e una famiglia, pur di seguirlo?
Ma, improvvisamente, Luke si fermò. «Torna indietro» le sussurrò. «Presto».
Annabeth alzò lo sguardo e, se non fosse riuscita a trattenersi, avrebbe urlato. A pochi metri di distanza, Percy Jackson si guardava attorno, come se aspettasse qualcosa. O qualcuno.
 
***
 
«Come ha fatto a trovarci?» bisbigliò Annabeth, come se temesse che Percy potesse udirla, una volta salita in macchina.
Luke la guardò, ma non disse nulla, limitandosi a mettere in moto il veicolo. «Dobbiamo allontanarci» disse, infine. «In fretta, prima che possa capire che siamo stati qui».
Annabeth, sul sedile del passeggero, aprì una cartina geografica e iniziò a scrutarla, strizzando gli occhi quando non riusciva a concentrarsi abbastanza per decifrare il nome di una strada o di una città.
«Potremmo fermarci alla prossima città» suggerì infine. «Hope. Ci servirebbe proprio, della speranza».
Luke sorrise, ma fu come se quella stessa azione avesse il potere di affaticarlo, di togliergli con il semplice lavoro dei muscoli tutte le energie. E, temeva Annabeth, anche le speranze.
«Forse avrei dovuto lasciarti andare da lui e continuare da solo» ammise, infine. «Non… se ti presentassi tu, dagli Dei, sicuramente saresti perdonata. Io… non c’è posto, per i traditori».
«Io non ti lascio» lo interruppe Annabeth, con fermezza. «Andiamo avanti. In qualche modo riusciremo a lasciarci tutto questo alle spalle».
«In qualche modo che non sappiamo» mormorò Luke, stanco. «Forse avevi ragione, dovremmo veramente arrenderci e… lasciar perdere».
«No» disse lei, scuotendo il capo. «Significherebbe lasciar perdere te, e io non voglio».
Ma Luke la guardò negli occhi e, riflessa in un azzurro ormai scolorato e opaco, vi era una disperazione così profonda che sembrava essergli incisa dentro. Quando aveva iniziato a pensare, Luke, che avrebbe dovuto semplicemente consegnarsi?
Quando aveva capito che, per quanta volontà potesse metterci, per quanta pazienza potesse dimostrare, si trovava ancora una volta immerso in un guaio che era irrisolvibile. Che non sarebbe bastato, fuggire per tutta la vita, a donargli quella tranquillità che silenziosamente desiderava.
Quando un sogno gli aveva suggerito che più kilometri avrebbe messo tra lui e l’Olimpo, più con ferocia l’avrebbero braccato. E, alla lunga, avrebbe solamente rischiato di ferire anche lei.
La sua casa, la sua famiglia.
A volte, puoi essere talmente egoista da distruggere tutto quel che ami, cercando di proteggerti.
A volte.
Altre volte, riesci a capire quando devi fermarti.
 
***
 
Arrivati a Hope, Luke si era fermato nel primo parcheggio disponibile, ed era sceso dalla macchina: dal finestrino, Annabeth non comprese immediatamente cosa stesse facendo e, quando se ne rese conto, sentì distintamente il proprio cuore ridursi a una massa grumosa e informe di tristezza. Luke stava pregando.
Avrebbe voluto scendere dalla macchina, dire qualcosa, impedirgli di consegnarsi a degli Dei che lo avrebbero trattato con una crudeltà che non meritava. E, pensò, forse era questo il problema che muoveva il suo mondo: qualunque cosa facesse, che si schierasse con Crono o implorasse piangendo il perdono degli Olimpi, Luke Castellan riusciva a massacrarle il cuore fino a renderlo una poltiglia di sangue e muscolo, che batteva incessantemente come una campana a morto.
Anche Annabeth, in quei momenti che durarono quanto mezza eternità, avrebbe voluto voltarsi e pregare: ma, se avesse dovuto scegliere un Dio, non avrebbe saputo verso chi indirizzare le proprie preghiere. E, come silenziosamente aveva fatto da quando era ancora una bambina, probabilmente avrebbe pregato Luke: di non andare, di non lasciarla di nuovo, in una maniera che sarebbe suonata terribilmente definitiva.
Se Luke fosse morto, a lei sarebbero rimasti solamente stracci di ricordi, fatti a brandelli dalla memoria che progressivamente si nutre dei momenti belli, e un viaggio che non avrebbero mai fatto: non l’avrebbero mai vista, la Grecia, Parigi, perfino la Russia. E magari lei ci sarebbe anche andata, a vedere il Partenone, ma da sola, e ogni respiro fatto in quel momento sarebbe stato quell’ultimo respiro che Luke non avrebbe mai potuto fare, e Annabeth si sarebbe solamente sentita soffocare.
«Ti prego» mormorò al finestrino. «Non farlo. Io… sarebbe andata bene, solo noi due».
Ma il Divino Ermes stava già camminando verso di loro, con un’espressione scontenta sul bel volto.
Luke stava ancora mormorando qualcosa, con il viso nascosto tra le braccia.
 
***
 
L’Olimpo rumoreggiava: Annabeth aveva puntato i piedi e aveva scelto di seguire Luke, fino alla fine, e adesso, nel fronteggiare lo sguardo scontento e deluso di sua madre, tremava. Nell’osservare gli Olimpi, così tesi sui propri troni, si domandò se la guerra fosse finita o no, dove fosse Percy. E se, in qualche mondo possibile, avrebbero potuto semplicemente lasciare andare via Luke.
Annabeth guardò Ermes, sperando di cogliere almeno sul suo volto un briciolo di speranza, quella che avevano perso lungo la via per l’Alaska, ma non ne vide: il Dio dei ladri sedeva, scontento, come se già conoscesse l’esito per una decisione ancora in attesa di votazione. Fu allora, che Annabeth iniziò a sentire l’aria che si rifiutava di entrare nei polmoni.
Era come se vi fosse un tappo di sughero, incastrato nella faringe, che impediva il passaggio dell’aria. È comunque una morte migliore, sembrava dire Luke con lo sguardo. Ma, lei, non ne era poi più così convinta.
In principio, l’idea di costituirsi era stata sua: solamente adesso che Luke si trovava al centro della sala dei troni, e sembrava così immensamente piccolo, se ne pentiva. Nella sua fantasia, perché solamente quella le rimaneva, erano ancora in macchina, sotto un cielo stellato, i finestrini aperti.
Stavano ancora viaggiando verso il freddo secco dell’Alaska, verso una vita di vagabondaggi e qualcosa, forse una voce, forse un sussurro, le stava dicendo che sarebbe andato tutto bene.
Ma Luke era inginocchiato davanti al trono di Zeus, a testa china, e sembrava quasi che il re degli Dei fosse pronto a mozzargli la testa con un colpo di scure.
«Padre» intervenne Ermes, prima che Zeus prendesse la parola. «Mio… mio figlio vorrebbe dire due parole».
Zeus sospirò pesantemente, probabilmente trattenendosi dal dire che la reputava solamente l’ennesima e stupida perdita di tempo. «Che parli, allora» disse, burbero. «Lo ascolteremo con attenzione».
«Divino Zeus» cominciò Luke, la voce sorprendentemente salda. «Volevo solamente dire che sono colpevole di tutte le accuse che mi muovete».
Annabeth stava quasi per mettersi a urlare, che non era vero, che sapeva quel che stava cercando di fare, che non poteva. Che non. Ma Atena, dall’alto del suo trono, la zittì con una singola occhiata gelida e corrucciata, quasi come volesse ordinarle di non deluderla ulteriormente.
«Io… avevo capito i miei errori, ma non volevo pagare la punizione» disse Luke, mestamente. «Scappare è stata un’idea stupida, sì. Ma mia, interamente mia e… ho costretto Annabeth a venire con me».
Annabeth chiuse gli occhi, imponendosi di respirare: prima di farlo aveva visto Afrodite volgersi interessata verso il ragazzo, come se solamente in quel momento lo notasse per la prima volta.
«Lei non voleva venire con me, mi aveva detto che sarebbe rimasta con Percy a combattere contro Crono e… contro me» continuò Luke. «Ma io ero già stanco di combattere. L’ho caricata in macchina con la forza, e siamo partiti. Per tutto il tempo ha cercato un modo per tornare indietro, finché… finché mio padre non ci ha trovati».
In quel momento, fu come se il mondo intero si fosse fermato, come se il tempo fosse divenuto una matassa aggrovigliata di nervi e impulsi elettrici. Annabeth si costrinse ad aprire gli occhi, pregando in un miracolo.
Ma che Dio avrebbe potuto pregare, se tutti erano intenzionati a distruggere Luke, se perfino Ermes gli aveva permesso di discolparla a sue spese.
«Votiamo» disse Zeus, atono. «Chi è a favore del lasciare in vita il ragazzo?».
Annabeth non si accorse nemmeno di star piangendo, mentre in tutta la sala si alzavano solamente le mani di Afrodite ed Ermes. Atena la guardò, con un misto di scontento e comprensione, ma non si mosse di un millimetro.
«Divino Zeus» intervenne nuovamente Luke. «Se fosse possibile… vorrei la morte del guerriero».
Zeus si voltò verso Ermes, che lo guardava supplichevole. «E sia» concesse. «Ares, figlio mio, ti dispiace?».
Ares sguainò la spada. Annabeth chiuse gli occhi.
 
***
 
«Certo che potresti» confermò Aion, meditabondo. «Ma, Annabeth, il tempo è più complicato di un “potrei”. Ci sono infiniti mondi possibili, come disse un tuo fratello qualche secolo fa, e ogni azione compiuta ti proietta in uno di questi».
«Deve essercene uno dove posso riuscire a impedire che Luke muoia» osservò Annabeth, con forza. «Uno in cui potremmo essere di nuovo…».
Una famiglia. Le parole le si bloccarono in gola, come sabbia o cocci di vetro, facendola tossire.
«Potrebbe» convenne il Dio. «Chi lo sa? Se solo potessimo vedere l’infinita catena di conseguenze derivanti da ogni singolo gesto, allora, te lo saprei dire con certezza».
«Non mi serve, una certezza» borbottò lei. «Mi serve tentare, e lo farò finché non riuscirò a salvarlo. Mi aiuterà?».

 
Ciao a chiunque sia arrivato fin qui. 
Ho poco da dire su questo capitolo, se non che la citazione "Ho sempre rotto tutto in questa vita, adesso voglio stare bene" proviene da una delle canzoni citate a inizio capitolo, Va tutto bene (Giulia Molino).
Per il resto spero sia stata una lettura piacevole. Prossimo aggiornamento: mercoledì 24 o giovedì 25 (a seconda di quando ho una visita che ho dimenticato di appuntare sull'agenda).
Grazie a tutti
Gaia
 
   
 
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