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Autore: Nadine_Rose    23/06/2020    1 recensioni
Sarah ed Hermann sono rispettivamente due tra le tante vittime e i tanti carnefici nell’ora più buia della storia dell’umanità. Il campo di Fossoli, anticamera dell’inferno nazista, sarà la loro comune e perenne prigione d’amore malato.
Matteo, un giovane pescatore, sarà colui che proverà a sciogliere il cuore di Sarah dalle catene del tenente Hermann, nello speranzoso e disperato scenario del dopoguerra napoletano.
[Capitolo 65: Un amore a Fossoli]
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Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
Capitoli:
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Capitolo 33

 

Trentacinque chilometri da Berlino

 

“Più non s’incanteranno i miei occhi nei tuoi occhi, più non s’addolcirà vicino a te il mio dolore. Ma dove andrò porterò il tuo sguardo e dove camminerai porterai il mio dolore. Fui tuo, fosti mia. Che altro? Insieme facemmo un angolo nella strada dove l’amore passò.”

Pablo Neruda, Farewell

 


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Immagine dal film “Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”

 

Napoli, ottobre 1946

 

Nel racconto della sua prigionia ad Auschwitz, Davide omise i particolari più atroci, parlandole principalmente della sua reale conversione al cristianesimo avvenuta proprio in quei giorni e di come fosse sopravvissuto grazie al suo talento di compositore e musicista, suonando il pianoforte per gli ufficiali delle SS. «I nazisti amavano la musica», le aveva detto con un tono intriso di sarcasmo e amarezza, mentre Sarah pensava a quanto fossero simili lei e Davide. Entrambi avevano ceduto al nemico una parte di sé per continuare a vivere.

Davide posò sul piattino la tazzina vuota del caffè e riprese a parlare, assumendo un’intonazione preoccupata: “Sei pallida e, da quando sono qui, non hai smesso di tremare.”

Con Davide e Maria, era sempre stato così. Entrambi possedevano la capacità di accorgersi dello stato d’animo di chi stava loro di fronte e il dono di saper leggere negli occhi. Il loro era uno sguardo penetrante, comprensivo e mai accusatorio, che induceva però ad abbassare gli occhi per sfuggire alla verità di se stessi.

è che…” Sarah fece una pausa e, allontanando dalle labbra la tazzina del caffè che non aveva ancora bevuto, gli confidò: “Credevo fosse qualcun altro.” E alzò lo sguardo dal tavolino finemente intarsiato per incontrare gli occhi scuri e stanchi di Davide.

“Ah, di questo non devi più preoccuparti”, ribatté l’uomo risoluto, intuendo a chi si riferisse, “quell’infame non potrà più farti del male.”

E lei dilatò lo sguardo in un’espressione interrogativa, mentre una parte del suo cuore si lasciava trafiggere dall’appellativo usato da Davide.

“È stato dichiarato morto”, sentenziò l’uomo apatico e lapidario e le parole continuarono a uscirgli dalla bocca come un fiume in piena che ruppe gli argini e travolse Sarah, facendola annegare in sentimenti che lei stessa aveva voluto sommergere. “Dopo Fossoli, fu messo in congedo per qualche mese a seguito di un lieve trauma cranico.”

Nelle orecchie le riecheggiò il rumore del colpo assestatogli alla nuca dal calcio di un’arma partigiana e il tonfo del suo corpo attutito dalla neve.

“Poi fu richiamato a Berlino e ricevette la nomina di capitano. Gli assegnarono un lavoro nel Dipartimento economico e amministrativo delle SS, ma non riuscì mai a svolgerlo, dato l’arrivo dell’Armata Rossa”, proseguì Davide e, mentre sentiva il proprio cuore accartocciarsi, non le venne da chiedersi perché lui sapesse così tanto e non scoprì mai la sua ossessione per la ricerca di giustizia che nascondeva nello zaino tra i fascicoli degli aguzzini incontrati sul suo cammino. “Fu catturato dai soldati russi e portato in un campo di concentramento a trentacinque chilometri da Berlino. Lì ha finito i suoi giorni.”

L’inammissibile flebile speranza che fosse ancora vivo si era spenta e un brivido di sconcerto le si propagò in ogni angolo del corpo, immaginandone le possibili cause di morte e sentendo nell’anima una vecchia corda vibrare assieme a quella del dolore per la tragica notizia.

“I sovietici non sono stati molto teneri con i tedeschi.” La voce dell’uomo le arrivò alle orecchie come un suono ovattato, lontano e non riuscì a coglierne l’intonazione vagamente soddisfatta. Sulla tazzina abbassò lo sguardo che si perse nel caffè e, mentre gli occhi le si inumidivano di lacrime, incrociò le braccia, stringendo la propria sofferenza di un lutto da metabolizzare, di ricordi da elaborare.

“Sarah, Sarah.” Preoccupato, Davide la chiamò più volte e invano nel tentativo di riportarla alla realtà.

 

22 febbraio 1944

 

“Sarah, Sarah.” All’udire il proprio nome pronunciato da Giuditta con preoccupata insistenza, Sarah scosse bruscamente lo sguardo dal tè che nella tazza aveva ormai smesso di fumare. La donna glielo aveva preparato nel tentativo di rincuorarla, ma lei era rimasta ferma con le braccia incrociate ad attenuare il dolore causato dai ripetuti colpi di manganello e dalla forte presa di Hermann, sopraffatta dalla malinconia per la partenza dei suoi compagni di baracca e dall’angoscia per l’insulto e la minaccia da lui proferiti con violenza.

Dandole della stupida ebrea, Hermann l’aveva riportata indietro, al momento dell’abuso – qualche attimo prima, infatti, l’aveva apostrofata con il medesimo appellativo – e, con quel «dopo facciamo i conti», sembrava volesse infrangere la sua promessa di non farle più del male e la propria speranza nell’immaginare una realtà meno dura. Dopo un’intera notte vissuta tra le sue braccia, pur temendone l’inevitabile cambiamento del quale irragionevolmente s’incolpava, era più difficile immaginarlo nelle vesti di carnefice, almeno verso di lei.

“Forse dovresti andare in infermeria”, esordì Giuditta, mentre, stando in piedi di fianco a lei, asciugava un piatto, “il braccio potrebbe essersi fratturato. Se vuoi, ti ci accompagno io.”

Neanche il tempo di valutare la sua proposta, che la porta della cucina fu spalancata con tale violenza da far scivolare dalle mani di Giuditta il piatto che andò a frantumarsi in tanti pezzi sul pavimento e mettere in allerta le altre cameriere presenti.

Per ultima, giacché dolorante, anche Sarah si mise sull’attenti, all’udire il suono della sua voce autoritaria che tuonava di rabbia.

“Fuori tutte”, proruppe il tenente e Sarah restò al proprio posto, ben sapendo del perché Hermann fosse lì, incredula e spaventata per così tanta veemente fretta nel voler sistemare con lei i conti. “Ferma”, intimò poi a Giuditta, vedendola in procinto di abbassarsi per raccogliere i cocci, “ci pensa Sarah.” E, con un cenno della testa verso il pavimento e i suoi occhi lucidi e spaesati, le fece capire che doveva pensarci subito.

Sarah obbedì al suo muto, tracotante comando e tremò quando Hermann iniziò a battersi il frustino sullo stivale, proseguendo con un ritmo cadenzato ai pensieri che gli vorticavano nella mente. Avvertiva dentro di sé l’inadeguatezza di una parte che si costringeva a recitare.

Sussultò solo al primo colpo e proseguì a raccogliere i cocci con espressione marmorea e mani ferme, nonostante la visibile fatica nel muovere il braccio e la tremenda consapevolezza che, non soddisfatto del lavoro svolto dal suo subalterno, l’avrebbe punita anche lui, magari facendole assaggiare lo schiocco del suo frustino, aggiungendo lividi sui lividi, dolore al dolore, lacrime urlate contro la muta delusione per una promessa in parte già infranta con parole d’ingiuria e di minaccia e, in ultimo, con il suo costringerla a quella posizione mortificante.

Hermann smise di battere il frustino e iniziò a parlare, mentre Sarah lentamente si alzava, lasciandosi sfuggire una smorfia di sofferenza, davanti alla quale lui faticò a restare indifferente.

“Ti ho dato la mia parola e non vorrei essere costretto a rimangiarmela”, disse in un crescendo di voce sempre più alta e perentoria, “non tollero comportamenti sovversivi nel mio campo.”

Forse fu in virtù di quell’intimità vissuta insieme e a cui lei aveva dato un’importanza, che Sarah osò giustificarsi, rispondendogli coraggiosamente, seppur biascicando: “Non era mia intenzi…”

Non era sua intenzione e lui lo sapeva, come anche sapeva quanto sarebbe stato difficile riaprire la porta del suo cuore al calar della sera, mentre la interruppe, urlando: “Silenzio!”

Sarah sobbalzò, strizzando gli occhi per la paura e, stavolta, chiudendo le mani a pugno, fu lei a darsi della stupida.

“Ti ho forse dato il permesso di rispondermi?!” aggiunse più incollerito, ma subito dopo cedette e, sbuffando, come per liberarsi dal peso di se stesso, cambiò atteggiamento.

Si strofinò la fronte con il pollice e l’indice, spostando un po’ di lato il cappello che gli ombrava i lineamenti e socchiuse per un attimo gli occhi, prima di rabbonire l’espressione e il tono di voce.

“Passeranno in molti per questo campo e non puoi affezionarti a tutti. Siamo in guerra e, se vuoi sopravvivere, devi pensare solo a te stessa”, la mise in guardia e, da apprensiva, a ogni parola, la sua voce tornava ad assumere un’inflessione più severa, “e non voglio che tu dia le cose che io ti porto agli altri ebrei.”

Sarah sbarrò gli occhi in un’espressione terrorizzata, ripensando al cioccolato che aveva dato ad Agnese e temendo di aver messo la ragazzina in una qualche situazione di pericolo.

“E non fare quella faccia”, riprese Hermann con un tono più pacato ma di disappunto, “non è mia abitudine togliere i dolciumi dalle mani dei bambini. Non sono così sadico come credi”, fece una pausa, mentre nel cuore di Sarah s’intrecciarono molteplici sentimenti, “e adesso vai, vai in infermeria che non mi piace quel braccio.”

Confusa ma risollevata, si avviò verso la porta con residui di paura da scrollarsi di dosso e lacrime da ricacciare indietro.

“Sarah!” Hermann la fece voltare di nuovo verso di sé, richiamandola con voce decisa e suadente.

 

Napoli, ottobre 1946

 

“Sarah!” Chiamandola con tono di voce più alto e deciso, Davide la riportò alla realtà presente e, mentre gli rivolgeva di nuovo lo sguardo, una lacrima fuggevole le scivolò lungo la guancia.

 

“Non pensarci e perdonami,

se ti ho portato via un poco d’estate

con qualcosa di fragile come le storie passate.

Forse un tempo poteva commuoverti ma ora è inutile credo,

perché ogni volta che piangi e che ridi

non piangi e non ridi con me.” 

 

Francesco Guccini, Farewell

 

   
 
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