Capitolo 33
Trentacinque chilometri da Berlino
“Più
non s’incanteranno i miei occhi nei tuoi occhi, più non s’addolcirà vicino a te
il mio dolore. Ma dove andrò porterò il tuo sguardo e dove camminerai porterai
il mio dolore. Fui tuo, fosti mia. Che altro? Insieme facemmo un angolo nella
strada dove l’amore passò.”
Pablo
Neruda, Farewell
Immagine dal film “Il club del libro
e della torta di bucce di patata di Guernsey”
Napoli, ottobre 1946
Nel racconto della sua
prigionia ad Auschwitz, Davide omise i particolari più atroci, parlandole
principalmente della sua reale conversione al cristianesimo avvenuta proprio in
quei giorni e di come fosse sopravvissuto grazie al suo talento di compositore e
musicista, suonando il pianoforte per gli ufficiali delle SS. «I nazisti
amavano la musica», le aveva detto con un tono intriso di sarcasmo e amarezza,
mentre Sarah pensava a quanto fossero simili lei e Davide. Entrambi avevano
ceduto al nemico una parte di sé per continuare a vivere.
Davide posò sul piattino
la tazzina vuota del caffè e riprese a parlare, assumendo un’intonazione
preoccupata: “Sei pallida e, da quando sono qui, non hai smesso di tremare.”
Con Davide e Maria, era
sempre stato così. Entrambi possedevano la capacità di accorgersi dello stato
d’animo di chi stava loro di fronte e il dono di saper leggere negli occhi. Il
loro era uno sguardo penetrante, comprensivo e mai accusatorio, che induceva
però ad abbassare gli occhi per sfuggire alla verità di se
stessi.
“è che…”
Sarah fece una pausa e, allontanando dalle labbra la tazzina del caffè che non
aveva ancora bevuto, gli confidò: “Credevo fosse qualcun altro.” E alzò lo
sguardo dal tavolino finemente intarsiato per incontrare gli occhi scuri e
stanchi di Davide.
“Ah, di questo non devi più preoccuparti”, ribatté
l’uomo risoluto, intuendo a chi si riferisse, “quell’infame non potrà più farti
del male.”
E lei dilatò lo sguardo in un’espressione
interrogativa, mentre una parte del suo cuore si lasciava trafiggere
dall’appellativo usato da Davide.
“È stato dichiarato morto”, sentenziò l’uomo
apatico e lapidario e le parole continuarono a uscirgli dalla bocca come un
fiume in piena che ruppe gli argini e travolse Sarah, facendola annegare in sentimenti
che lei stessa aveva voluto sommergere. “Dopo Fossoli, fu messo in congedo per
qualche mese a seguito di un lieve trauma cranico.”
Nelle orecchie le riecheggiò il rumore del
colpo assestatogli alla nuca dal calcio di un’arma partigiana e il tonfo del
suo corpo attutito dalla neve.
“Poi fu richiamato a Berlino e ricevette la
nomina di capitano. Gli assegnarono un lavoro nel Dipartimento economico e
amministrativo delle SS, ma non riuscì mai a svolgerlo, dato l’arrivo
dell’Armata Rossa”, proseguì Davide e, mentre sentiva il proprio cuore
accartocciarsi, non le venne da chiedersi perché lui sapesse così tanto e non
scoprì mai la sua ossessione per la ricerca di giustizia che nascondeva nello
zaino tra i fascicoli degli aguzzini incontrati sul suo cammino. “Fu catturato
dai soldati russi e portato in un campo di concentramento a trentacinque
chilometri da Berlino. Lì ha finito i suoi giorni.”
L’inammissibile flebile speranza che fosse
ancora vivo si era spenta e un brivido di sconcerto le si propagò in ogni
angolo del corpo, immaginandone le possibili cause di morte e sentendo
nell’anima una vecchia corda vibrare assieme a quella del dolore per la tragica
notizia.
“I sovietici non sono stati molto teneri con
i tedeschi.” La voce dell’uomo le arrivò alle orecchie come un suono ovattato,
lontano e non riuscì a coglierne l’intonazione vagamente soddisfatta. Sulla
tazzina abbassò lo sguardo che si perse nel caffè e, mentre gli occhi le si
inumidivano di lacrime, incrociò le braccia, stringendo la propria sofferenza
di un lutto da metabolizzare, di ricordi da elaborare.
“Sarah, Sarah.” Preoccupato, Davide la chiamò
più volte e invano nel tentativo di riportarla alla realtà.
22 febbraio 1944
“Sarah, Sarah.” All’udire il proprio nome
pronunciato da Giuditta con preoccupata insistenza, Sarah scosse bruscamente lo
sguardo dal tè che nella tazza aveva ormai smesso di fumare. La donna glielo
aveva preparato nel tentativo di rincuorarla, ma lei era rimasta ferma con le
braccia incrociate ad attenuare il dolore causato dai ripetuti colpi di
manganello e dalla forte presa di Hermann, sopraffatta dalla malinconia per la
partenza dei suoi compagni di baracca e dall’angoscia per l’insulto e la
minaccia da lui proferiti con violenza.
Dandole della stupida ebrea, Hermann l’aveva
riportata indietro, al momento dell’abuso – qualche attimo prima, infatti,
l’aveva apostrofata con il medesimo appellativo – e, con quel «dopo facciamo i conti»,
sembrava volesse infrangere la sua promessa di non farle più del male e la
propria speranza nell’immaginare una realtà meno dura. Dopo un’intera notte
vissuta tra le sue braccia, pur temendone l’inevitabile cambiamento del quale
irragionevolmente s’incolpava, era più difficile immaginarlo nelle vesti di
carnefice, almeno verso di lei.
“Forse dovresti andare
in infermeria”, esordì Giuditta, mentre, stando in piedi di fianco a lei,
asciugava un piatto, “il braccio potrebbe essersi fratturato. Se vuoi, ti ci
accompagno io.”
Neanche il tempo di
valutare la sua proposta, che la porta della cucina fu spalancata con tale
violenza da far scivolare dalle mani di Giuditta il piatto che andò a
frantumarsi in tanti pezzi sul pavimento e mettere in allerta le altre cameriere
presenti.
Per ultima, giacché
dolorante, anche Sarah si mise sull’attenti, all’udire il suono della sua voce
autoritaria che tuonava di rabbia.
“Fuori tutte”, proruppe
il tenente e Sarah restò al proprio posto, ben sapendo del perché Hermann fosse
lì, incredula e spaventata per così tanta veemente fretta nel voler sistemare
con lei i conti. “Ferma”, intimò poi a Giuditta, vedendola in procinto di
abbassarsi per raccogliere i cocci, “ci pensa Sarah.” E, con un cenno della
testa verso il pavimento e i suoi occhi lucidi e spaesati, le fece capire che
doveva pensarci subito.
Sarah obbedì al suo
muto, tracotante comando e tremò quando Hermann iniziò a battersi il frustino
sullo stivale, proseguendo con un ritmo cadenzato ai pensieri che gli
vorticavano nella mente. Avvertiva dentro di sé l’inadeguatezza di una parte
che si costringeva a recitare.
Sussultò solo al primo
colpo e proseguì a raccogliere i cocci con espressione marmorea e mani ferme,
nonostante la visibile fatica nel muovere il braccio e la tremenda
consapevolezza che, non soddisfatto del lavoro svolto dal suo subalterno,
l’avrebbe punita anche lui, magari facendole assaggiare lo schiocco del suo
frustino, aggiungendo lividi sui lividi, dolore al dolore, lacrime urlate
contro la muta delusione per una promessa in parte già infranta con parole
d’ingiuria e di minaccia e, in ultimo, con il suo costringerla a quella
posizione mortificante.
Hermann smise di battere
il frustino e iniziò a parlare, mentre Sarah lentamente si alzava, lasciandosi
sfuggire una smorfia di sofferenza, davanti alla quale lui faticò a restare
indifferente.
“Ti ho dato la mia
parola e non vorrei essere costretto a rimangiarmela”, disse in un crescendo di
voce sempre più alta e perentoria, “non tollero comportamenti sovversivi nel
mio campo.”
Forse fu in virtù di
quell’intimità vissuta insieme e a cui lei aveva dato un’importanza, che Sarah
osò giustificarsi, rispondendogli coraggiosamente, seppur biascicando: “Non era
mia intenzi…”
Non era sua intenzione e
lui lo sapeva, come anche sapeva quanto sarebbe stato difficile riaprire la
porta del suo cuore al calar della sera, mentre la interruppe, urlando:
“Silenzio!”
Sarah sobbalzò,
strizzando gli occhi per la paura e, stavolta, chiudendo le mani a pugno, fu
lei a darsi della stupida.
“Ti ho forse dato il
permesso di rispondermi?!” aggiunse più incollerito, ma subito dopo cedette e,
sbuffando, come per liberarsi dal peso di se stesso,
cambiò atteggiamento.
Si strofinò la fronte
con il pollice e l’indice, spostando un po’ di lato il cappello che gli ombrava
i lineamenti e socchiuse per un attimo gli occhi, prima di rabbonire
l’espressione e il tono di voce.
“Passeranno in molti per
questo campo e non puoi affezionarti a tutti. Siamo in guerra e, se vuoi
sopravvivere, devi pensare solo a te stessa”, la mise in guardia e, da
apprensiva, a ogni parola, la sua voce tornava ad assumere un’inflessione più
severa, “e non voglio che tu dia le cose che io ti porto agli altri ebrei.”
Sarah sbarrò gli occhi
in un’espressione terrorizzata, ripensando al cioccolato che aveva dato ad
Agnese e temendo di aver messo la ragazzina in una qualche situazione di
pericolo.
“E non fare quella
faccia”, riprese Hermann con un tono più pacato ma di disappunto, “non è mia
abitudine togliere i dolciumi dalle mani dei bambini. Non sono così sadico come
credi”, fece una pausa, mentre nel cuore di Sarah s’intrecciarono molteplici
sentimenti, “e adesso vai, vai in infermeria che non mi piace quel braccio.”
Confusa ma risollevata,
si avviò verso la porta con residui di paura da scrollarsi di dosso e lacrime
da ricacciare indietro.
“Sarah!” Hermann la fece
voltare di nuovo verso di sé, richiamandola con voce decisa e suadente.
Napoli, ottobre 1946
“Sarah!” Chiamandola con tono di voce più alto e
deciso, Davide la riportò alla realtà presente e, mentre gli rivolgeva di nuovo
lo sguardo, una lacrima fuggevole le scivolò lungo la guancia.
“Non pensarci e
perdonami,
se ti ho portato via un
poco d’estate
con qualcosa di fragile
come le storie passate.
Forse un tempo poteva
commuoverti ma ora è inutile credo,
perché ogni volta che
piangi e che ridi
non piangi e non ridi
con me.”
Francesco
Guccini, Farewell