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Autore: Heliconia    25/06/2020    1 recensioni
"Era solo un piccolo uomo che stringeva tra le mani un pugno di mosche, nella speranza che un giorno si trasformassero in farfalle."{Archer}
Storia partecipante al contest "Some are born heroes and some are born villains. Or maybe not?" indetto da AleDic sul forum di EFP. [FUORI CONCORSO]
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Archer
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Note♫♪ dell’autrice
Tredici traci trotterellanti tra i troiani♪…
Bentornato e grazie per aver proseguito la lettura! Come avrai ben intuito dal capitolo precedente, per scrivere la storia ho consultato il poema originale e altri testi, tra cui l’Iliade di Alessandro Baricco. Piccola nota doverosa, giacché vi è all'interno del testo qualche citazione sparsa, opportunamente rielaborata. Ovviamente, non mancano citazioni tratte anche dall'anime e, in particolare, dalla ballata di Archer.
Per quanto riguarda la storia: entriamo ora nel vivo della guerra. Tieniti forte and… Enjoy!

Parole: 5593
Citazione: Chiunque può essere un eroe, anche un uomo che fa una cosa semplice e rassicurante, come mettere un cappotto sulle spalle di un bambino per fargli capire che il mondo non è finito.” ~ dal film Batman Il Cavaliere Oscuro - Il Ritorno.


2





Nel buio della tenda, scorsi delle luci fare su e giù per il campo. Ettore aveva deciso per la prima volta di festeggiare, facendo portare nella pianura carne e vino. Preferii starmene in disparte e dormire un po’. Sebbene uno spirito eroico non ne abbia realmente bisogno, stento a farne a meno. Necessito di un gesto che giustifichi lo stato letargico in cui mi inducono i pensieri della notte: così densi da viaggiarmi davanti agli occhi, in un’escalation di scene frammentarie che mi estraniano dalla realtà. Difficile capire se si tratti di pure elaborazioni della mia mente o ricordi che, in teoria, non dovrei più avere.
«Gli dei, dunque, possono sognare?»
Mi rigirai sulla branda con uno scatto fulmineo. E me lo ritrovai davanti, disteso sul fianco.
«C-che ci fai tu…?»
«Perdonami, onorato Febo. Sono venuto a chiamarti e ho avuto bisogno di coricarmi un attimo.»
Aveva il viso arrossato dal vino, gli occhi languidi. Uno sguardo beota.
Nei giorni trascorsi dopo il duello davanti alle porte Scee, non avevo mai visto quell’uomo. Il solito Ettore era sempre composto e rassicurante. Celava, sotto un’espressione bonaria incorniciata da modi umili e gentili, l’acume di un combattente esperto. La battaglia gli infuriava nelle vene, ma lui la impacchettava in un sorriso sornione. Quell’individuo, invece, mi rivolgeva un ghigno beffardo. Era fastidioso alla vista, il contrasto tra la grandiosità del suo corpo scultoreo e la sua pochezza mi innervosiva.
«Cosa vedi mentre dormi?»
«Quello che vedono anche gli esseri umani.»
Sbadigliò. Si prese un attimo per osservarmi.
«Ne dubito, hai il sonno beato di un pargolo.»
«Mi stavi fissando mentre dormivo…?» sibilai.
Sgranò gli occhi e fece per alzarsi.
«Oh. Ti ho forse…»
«Si.»
«Non volevo…»
«Lasciami dormire.»
«Volevo offrirti del…»
«Non mi va.»
«Va bene…»
Lentamente, rotolò su sé stesso e si mise prono.
«Ti attendo fuori, qualora dovessi cambiare idea…»
Non risposi. Mi limitai a guardarlo, mentre tentava goffamente di sollevarsi sulle braccia. Sospirai. Mi misi in ginocchio e provai a metterlo seduto, cingendogli il torace. Lui oppose resistenza e rise, afferrandomi le braccia.
«Non so cantare…»
«Cosa?»
«Si dice che la voce di Achille sia tanto soave da commuovere voi dei…»
Mi arresi. Ubriaco fradicio com’era, non rispondeva più di sé stesso. Lo aiutai a sdraiarsi sulla branda e mi sedetti accanto a lui.
«Ma non mi dire!»
«Se ti tratterrai in ascolto mentre canta, troverai naturale non riuscire a distoglierti da lui, nemmeno per un istante. E anche il mondo intero parrà fermarsi, per non perdere neanche una nota. Io non sono capace. Non una donna o un fanciullo mi guarderebbero come viene guardato Achille, mentre canta. E poi non ho capelli color del miele e pelle rosea… Femminea è la sua bellezza. Meravigliosa. A me pare sia persino più bello di Elena, che di Zeus è il cigno prediletto. E infatti, si dice che Achille sia stato partorito da una dea; venerabile Nereide, Teti, la più bella tra le sue sorelle.»
«Capisco…»
Mi fissò ancora e più a lungo, come se volesse aggiungere altro.
«Ettore, vuoi essere bello e intonato come Achille?» Risi.
Ma lui si fece di colpo serio.
«No. Vorrei essere potente come Achille.»
Stavo per ribattere, ma subito m’incalzò.
«Voi dei e i vostri figli avete tutto: bellezza, forza, intelligenza. Io vi invidio. Se avessi avuto il vostro potere, giorni fa avrei potuto mettere fine a questa guerra affrontando un solo uomo, così da salvarne centinaia. E questa notte starei dormendo beato, come fate voi.»
Gli occhi gli brillavano, ma non per il vino. Era commosso.
«Apollo, imperatore. Non mi concederesti il…»
«Lo farei volentieri, se potessi.»
Si morse il labbro. Mi voltò le spalle, stringendo il suo corpo in una posa contrita.
«Desidero solo un finale buono per tutti...» mugolò. «Mio fratello è certamente dalla parte del torto, ma non posso cedere la dolce Elena al marito. Condannerei il mio popolo all’onta della vergogna. Io stesso verrei cantato come “Ettore il codardo”. Una simile onta macchierebbe per sempre il nome della mia discendenza… Di mio figlio, Astianatte… Lui non lo merita… Rendetelo, o dei, ben più grande del padre che – vi prego – allontanate dalla sventura, a cui il suo debole animo lo attira…! Or dunque, ci tocca combattere, Arco d’Argento… Ma a che prezzo…? Fare strazio degli innocenti di entrambi gli eserciti, in nome di due altrettanto valide ragioni…? È questa la giustizia…?»
Vederlo così mi stringeva il cuore. Il suo piglio sicuro, tutta la risolutezza di cui era capace anche nei momenti più drammatici… che fosse quello, in realtà, il vero Ettore?
«Stai facendo tutto il possibile.»
«Tutto il possibile… Non è abbastanza…»

Il ragazzo giunse nel deserto, in quello sprazzo vagamente urbanizzato. Infuriava il caos; tra lo svolazzio di mimetiche e turbanti non c’era modo di capire chi fossero i militari e chi i civili. Gli ordini erano precisi, eppure si ritrovava spesso a vagare per il campo stordito, senza sapere esattamente cosa fare. In verità, non accettava per niente il compito che gli era stato assegnato: combattere; uccidere degli uomini per salvarne altri. Era in fin dei conti il ciclo naturale delle cose, ma lui lo rifuggiva con tutto sé stesso. E così, si ritagliò uno spazio per coltivare l'intento di vedere l'intera umanità unità in un lieto fine, come nei suoi sogni più rosei.
Tra una carneficina e l'altra, prestava soccorso a bambini, donne e anziani. Distribuiva beni di prima necessità e si ritrovava, spesso, a cucinare per coloro che non avevano più un tetto sotto cui pranzare insieme con la propria famiglia. Ben presto, si sparse la voce in città e la gente cominciò a cercarlo. Non chiese mai nulla in cambio: la felicità altrui era la sola cosa che desiderava. La sola cosa che gli importasse veramente. Ma un giorno, lo stesso esercito che lo aveva reclutato catturò lui e un gruppo di civili, accusandoli di cospirazione. Per tentare di salvare questi ultimi, confessò.
«Si, sono stato mandato dal nemico. E ho agito da solo.»
Lo torturarono, più e più volte. Ma quella gente fu trattenuta.
«Sono solo! Loro non c’entrano niente, ve lo giuro!»
Non servì a nulla.
Fu allora che decise di giocarsi il tutto per tutto. Riuscì a liberarsi e inveì come un pazzo contro l’esercito. Sebbene fosse diventato un mago molto forte, i soldati ebbero la meglio: era troppi per lui. Ma, prima ancora di quegli infami, fu il suo stesso ideale a vincerlo. Non voleva fare del male a nessuno, non aveva senso. Era tutto frutto di un malinteso: voleva che se ne convincessero. Ma così non fu.
Allora sentì di aver tradito tutti.
Di aver tradito tutto ciò in cui credeva.
E si infuriò con sé stesso.
Era solo un piccolo uomo che stringeva tra le mani un pugno di mosche, nella speranza che un giorno si trasformassero in farfalle.
Non era degno di essere un paladino della giustizia. Forse, non lo sarebbe mai stato davvero.
La sua era e sarebbe rimasta, per sempre, una stupida fantasia.
Coloro che lo circondavano avrebbero continuato a morire e lui non avrebbe potuto fare niente per impedirlo. Anche quelle persone, che aveva difeso con immensa fatica, sarebbero state vittime della sua impotenza.
Erano lì.
Sulla forca.
Lo guardavano.
Non poteva aiutarle…
Non poteva fare niente…

«Per gli dei!»
Mi svegliai. Quell’invocazione mi fece scattare in piedi. Ettore, che fino a pochi attimi prima ronfava sulla branda, era sparito. Mi fiondai subito fuori dalla tenda e vidi l’intero accampamento in subbuglio. Uomini che, nel buio lambito da qualche barlume di luce, si allontanavano verso il campo di battaglia imbracciando armi e scudi. Più il sole si levava alto, più lo scintillio delle corazze bronzee e delle lame si faceva intenso e mi stordiva.
«Che sta succedendo? Dov’è Ettore?»
Imprecazioni, urla, vocii spezzati dall’angoscia. I troiani presero a calci le braci su cui avevano arrostito la sera prima, tra vino e canti. Sguardi perplessi, facce smarrite. Lasciarono in massa l’accampamento e io li seguii, incerto sul da farsi.
Gli achei erano già schierati davanti a noi. Dietro di loro, il muro che avevano così fieramente costruito notti addietro, con tanto di torri e fossato; il confine della bella città improvvisata dentro cui li avevamo costretti, come topi intrappolati nella loro stessa tana. Ora la sua sagoma ci sovrastava con il suo sinistro influsso, assumeva per la prima volta i contorni di una vera e propria fortezza. Faceva quasi paura. I nemici avevano formato oltre il fossato un secondo muro fatto di carne e bronzo, ancora più minaccioso. Le loro lame pregustavano già le membra dei troiani e li attendevano come squali, nell’oceano d’erba sospinto dal vento che profumava di tamarisco. Agamennone ci osservava, l’auriga e i suoi cavalli erano già sull’assetto di guerra.
Continuai a cercare Ettore. Mi parve di vederlo per un breve istante, ma poi sparì di nuovo. Era come un sole che appariva e scompariva tra le nubi, un astro sfuggente. Ebbi come l’impressione che questo attacco, più di altri, stesse mettendo a dura prova i suoi nervi. Dava indicazioni agli uomini, lo sentivo sbraitare, ma alla fine tacque e subentrò un nitrito, seguito da un fitto scalpitare di zoccoli. Era salito sul carro. Vidi l’elmo, il pennacchio che ondeggiava sulla sua testa, e lo raggiunsi.
«Perché gli uomini sono così agitati?»
Non mi guardò, ma la rabbia gli adombrò il viso.
«Maledetti siano quei bastardi! Hanno preso Reso, regale condottiero; gli hanno squarciato la gola. Quegli animali, che Zeus li fulmini! Hanno preso lui e tredici traci; i suoi cavalli, belli come le cavalcature di voi dei, spariti. E non v’è traccia di Dolone.»
Aggrottai la fronte.
«Dolone? Parli del tizio a cui hai ordinato di intrufolarsi nell’accampamento nemico, promettendogli in cambio i cavalli di Achille?»
«Sì: più che equini, figli nati dal copular del drago della Colchide e di una giumenta. Solo guardarli mi fa accapponare la pelle.»
Ooookay… Solo una domanda, perché?
«So a cosa stai pensando: di viltà era reo come di stupidità immane. Avrebbe potuto tradirci.»
«Hm, infatti…»
La tensione lo stava logorando. Disegnai in una voluta argentea l’arco, che da tempo immemore mi seguiva in ogni battaglia, e lo sollevai sulla mia testa. Da semplice arma, in quel momento, divenne l’emblema della mia fedeltà verso quell’uomo.
«Anche quest’oggi le mie frecce sono al tuo servizio, Ettore. Qualunque cosa tu decida di fare, io sono con te!»
Le mie parole sembrarono dargli la carica giusta. Ci scambiammo uno sguardo d’intesa, prima che la perfetta geometria delle file nemiche si sfaldasse. Il principe si affrettò ad aggiungere qualcosa, poi si lanciò all’attacco.
«Se tu sei con me Sminteo, vinceremo di sicuro!»
«Ma… Dannazione, non chiamarmi più così!!»
Agamennone si schiantò con la sua possente stazza contro due soldati, impalandone uno con la lancia e facendo a pezzi l’altro con la spada. Era lontano, ma i suoi ruggiti ci investirono con una ferocia disarmante. Gli achei, rinnovati nella furia da ogni suo ordine, ci spinsero verso la pianura. Le ultime fila retrocessero e balzarono in un gesto disperato verso le mura della città, lasciandoci interdetti. Allontanandosi, si lasciarono dietro una scia di urla e un tanfo cadaverico, che li rendevano simili a buoi insanguinati che scampavano al macello.
Di colpo, la voce di Ettore tuonò nella mattanza. Si tuffò letteralmente dal carro per inseguire i soldati che fuggivano, sotto lo sguardo turbato del suo auriga.
«Serrate i ranghi!! Muovetevi!»
Dopo averli minacciati e aggrediti, si ritrovò a tessere le file con rinnovata pazienza. Il suo corpo era impastato di terra, sangue e sudore. I suoi occhi erano lucidi; le lacrime solcavano il putridume che gli insozzava le guance. Eccolo: il volto dell’estraneo nella tenda; il volto pervaso dal rammarico e dai dubbi.
«Oggi ci prendiamo le navi! Che io sia maledetto, se non do fuoco a quei bastardi!»
L’armatura era squarciata in più punti, ma ancora reggeva e poteva fermare molti altri colpi. Tuttavia, era intimamente disarmato. Nudo, di fronte al suo rinnovato destino.
Me ne resi conto prima ancora di udire quelle parole; mentre vedevo i suoi occhi ardere della stessa veemenza con cui investiva gli achei e i loro alleati. Forse ci aveva riflettuto su proprio durante la notte. Forse, semplicemente, non ne poteva più.
Ettore… Il principe disposto ad immolarsi pur di proteggere tutta quella gente da un ingiusto massacro, senza alcuna distinzione tra amici e nemici. Colui che, dopo il duello con Aiace, aveva continuato ad uccidere col magone. Quello stesso Ettore, alla fine, si era arreso all’idea che quella strada lastricata di cadaveri fosse la sola da percorrere.
Sì, pensava ancora che Menelao meritasse di riavere con sé Elena e che i suoi uomini, gli eroi più grandi di tutta la Grecia, non dovessero morire per l’idiozia di Paride. Tuttavia, era stanco di cercare la soluzione di quel rebus. Si sarebbe limitato a difendere il suo popolo, l’esercito, Astianatte. E basta.
Per salvare qualcuno, bisogna sacrificare qualcun altro: eccola, la grande contraddizione del nostro ideale. Aveva deciso, infine, di farla sua.
Afferrò quindi l’afflizione, che si era portato dietro fino a quel momento, per scagliarla lontano.
Prese a calci l’ombra del fallimento, che gli era stata ogni giorno col fiato sul collo; quel tumore che gli premeva dentro e non lo faceva rilassare neanche un istante.
Stava aprendo la carne.
Bucando e afferrando quel tormento con le dita.
Ancora uno sforzo.
Tirava…
Stava per estirparlo…
Un fischio spezzò il flusso dei miei pensieri.
«Attento!!»
La lancia volò verso la sua testa.
Si scansò, perse l’equilibrio…
Il pennacchio sull’elmo si avviluppò, come una bandiera scossa da un uragano.
In un millesimo di secondo, il suo corpo volò via dal carro e si schiantò nel fango.
Fintanto che colpiranno me, non sentirò alcun dolore.
Continuerò a combattere, anche con decine di spade conficcate nel mio corpo.
Finché nessun’arma riuscirà a penetrare le mie difese, la mia forza non sarà scalfita...
«Ettore…!!»
Il grido salì lungo la gola e mi esplose nella testa...
Non si muoveva.
La calca mi impediva di raggiungerlo. Tremavo all’idea che qualcuno potesse portarlo via, spogliarlo della sua armatura e delle armi…
Dovevo recuperarlo…
Dovevo impedire a quelle bestie di banchettare sul suo corpo esamine…
Una freccia mi sibilò accanto all’orecchio. Il sangue nelle vene si raggelò all’istante, bloccandomi sul posto. Alle mie spalle, un guerriero acheo lanciò un grido di dolore. La punta si era conficcata nel suo piede. Mi voltai e lo vidi.
Paride… La corda dell’arco che ancora vibrava.
Quante cose avrei voluto dirgli…!
«Seguimi!» mi ordinò.
«Ma…!»
«Non c’è più tempo, muoviti!!»
Sgranai gli occhi inferocito. Dovevamo continuare a combattere… Non potevo lasciarmi sopraffare dalla collera. Dovevo cercare di trattenermi.
Mi voltai ancora una volta, alla ricerca di Ettore. Ma era già sparito.

Le file troiane si stavano riversando come scarafaggi nel fossato e Paride ci si buttò in mezzo. Difficile capire se per combattere o sfuggire al suo avversario, che cercava di raggiungerlo zoppicando, tra orribili imprecazioni.
Gli arcieri achei, protetti dagli scudi, puntarono verso di noi.
Non esitai.
Tesi, combattendo contro il tremore delle dita che non riuscivano a bilanciare la freccia. Era un gesto semplice, ripetuto migliaia di volte.
Ero in tilt.
Ettore, nel fango…
Colpii. Gli scudi si sfracellarono nell’implosione scintillante dei dardi.
Ettore, immobile…
Colpii ancora. Decine di uomini caddero al suolo, come tronchi abbattuti dal vento. Brandelli di cuoio e visceri calarono un manto lugubre sugli elmi dei troiani.
Poi, vidi lui.
Mi fissava con i suoi occhi chiari, di nuovo pervasi da quella frustrazione. Quel non detto a cui non sapevo dare un volto, ma che ci aveva infine connessi.
Tese la corda e scoccò. Le frecce volavano rapide, come la lancia del principe contro lo scudo di Aiace. Non sbagliava un colpo. Il suo talento mi lasciava senza parole… Ma lo avrei spezzato comunque. Avrei spezzato quell’essere perverso. Quella macchina da guerra. Quel messaggio nascosto nei suoi occhi, che non volevo più interpretare.
Mirai…
Un ruggito mi fece sussultare.
Aiace, alle sue spalle. Reggeva sulla sua testa un macigno due volte più grande di lui. Gli uomini, di sotto, lo fissarono increduli…
Mollai l’arco e mi fiondai lì.
Corsi più veloce che potevo, spintonando e intrufolandomi nella calca.
Il gigante aderì al parapetto, facendo forza sui possenti muscoli delle gambe. Già pregustava lo schianto, le membra spappolate dei troiani, il pasticcio di carne e sangue che si sarebbe rimestato sotto la pietra… E la lasciò cadere.
No…!
Un urlo si levò dal fossato.
Mi ci tuffai dentro.
Non ne ero affatto sicuro, ma era la nostra unica possibilità…
Tesi la mano verso l’alto.
Cinque spire disegnarono gli scudi, impilati l’uno sull’altro. Opalescenti, violacei. La consistenza vitrea che ispirava tutto fuorché la capacità di respingere quell’enorme proiettile. Sarebbero stati abbastanza contro una lancia… Ma per quello…
Il masso impattò sul primo scudo. Lo infranse.
Le urla dei soldati, stretti intorno a me, si intensificarono.
Non dovevo mollare.
Forza...!!
Crepò il secondo. Spinsi forte, con tutta la potenza magica di cui disponevo.
Il secondo strato saltò.
La spinta di ritorno mi investì come il rinculo di un fucile. Mi tremarono le gambe.
Strinsi i denti, fino a sentire il sangue inondarmi la bocca, fino a non udire altro che un fischio penetrarmi i timpani, spaccarli, fino a cancellare il fossato, la guerra, Ettore, tutto il casino che mi infuriava intorno… E scoppiò. Il macigno scoppiò non appena ebbe scalfito il terzo scudo.
Ceneri e schegge investirono i soldati, che dopo un breve silenzio lanciarono un grido di giubilo. Rilassai i muscoli e mi lasciai cadere tra di…
Dolore.
Aveva atteso che abbassassi la guardia per colpire.
Il ragazzo dagli occhi chiari. Mi aveva trapassato la spalla.
Rovinai tra i cadaveri dei soldati abbattuti. Mi accorsi solo in quel momento che stavamo camminando su di loro; erano diventati tutt’uno col fango e la polvere. La punta, che guizzava fuori dalla carne, fu spinta dentro dall’impatto col suolo. Una fitta atroce.

Guardai verso di lui.
Non riuscivo ad urlare…
Non riuscivo più a muovermi…
Mirò di nuovo…
«Teucro!!»
L’urlo di Aiace lo bloccò. Subito, i troiani mi protessero con i loro scudi. Riuscii appena ad intravedere due uomini che, approfittando della situazione, avevano cominciato a scalare il muro. Il ragazzo ne ferì uno al braccio, veloce come un fulmine, e questo ci cadde addosso. L’altro non demorse: continuò a salire e, come le radici avventizie di un’edera, si aggrappò al parapetto là dove si ergeva una delle porte. Iniziò a tirare. Non lo vedevo più. Udii un rovinare di mattoni.
«Allora, volete che prenda il muro da solo?! Sbrigatevi!»
Lo aveva fatto a pezzi. Impossibile… O forse no. Forse avevamo bisogno proprio di quel miracolo e un dio – uno vero – ci aveva assistiti.
Afferrai la freccia, impregnata del mio sangue, e senza esitare nemmeno un secondo strinsi i denti e la spezzai. Scostai gli scudi e materializzai di nuovo l’arco.
«Aiutiamolo!»
Un tumulto di uomini si avventò sulla breccia. Teucro fu subito supportato dagli altri arcieri e da Aiace, che lo coprì col suo immenso scudo. La nostra squadra si apprestò a raggiungerci, scortata da Paride.
Tesi la corda.
Cercai, con tutte le mie forze, di ignorare il dolore…
Scoccai.
Portai a segno decine di colpi, permettendo alla maggior parte dei nostri di proseguire incolume.
Gli achei ci superavano di numero e in potenza.
Non riuscivo a fermare tutte le frecce, che piovevano addosso ai soldati da ogni angolo.
Stavo perdendo troppo sangue…
«Troiani, alle navi!!»

Spalancai gli occhi, incredulo.
Quella voce…
Apparve dal nulla e si avventò contro la porta con una pietra affilata. Un enorme mattone che, spezzandosi, si era trasformato nell’arma del nostro trionfo. Nessuno poteva fermarlo. Stava frantumando i cardini. Teucro puntò verso di lui. Esplosi un colpo sopra la sua testa e, stordito, il ragazzo si ritrovò catapultato a terra. Gemetti… La ferita si era allargata in uno squarcio, ma non aveva importanza… Lui era ancora vivo.
Ettore, il nostro comandante, era lì.
Aiace afferrò subito Teucro per un braccio e, insieme, sparirono nella confusione.

La porta cadde e i troiani si fiondarono dentro. Si riversarono come un fiume nel campo acheo; Ettore e i guerrieri più forti in cima al gruppo. Per quanto affrettassi il passo, non riuscivo a stargli dietro. Ero esausto… Riuscivo appena a camminare. Un alone scuro mi stava offuscando la vista…
L’uomo che aveva scalato il muro mi raggiunse. Da vicino era una montagna umana, la versione più contenuta e meno minacciosa di Aiace. Senza perdersi in cerimonie, mi issò sulla sua spalla.
«Ma che…?!»
«Sarpedonte, mio signore! Ho avuto spesso il sospetto che un dio stesse combattendo al nostro fianco, ma non immaginavo di ritrovarmelo davanti in carne ed ossa!»
Sospirai… A che pro disilluderlo? Ormai ci avevo fatto l’abitudine. Me ne restai lì, a penzolare come un sacco di patate, finché gli uomini non si fermarono di colpo. Gli chiesi di mettermi giù.
«Vuoi le nostre navi? Allora preparati, perché le difenderemo fino alla morte!»
Mi avvicinai e lo vidi.
Uno scudo, mastodontico come la porta dilaniata, si frappose fra noi e il nostro traguardo.
Proprio lui, il gigante di Telamone, ci aveva subito raggiunti. Ma dov’era Teucro?
«E allora sii tu a prepararti» ringhiò Ettore, «perché stai per andarle incontro!»
Era la battaglia decisiva. Il regolamento dei conti.
Il principe caricò la lancia e, di nuovo: un colpo micidiale, ben assestato – ancor più di quello che vidi sotto le mura troiane. Aiace non ebbe nemmeno il tempo di scansarsi.
La lama si conficcò dritta nel suo petto…
Ma non cadde. Né mostrò segni di cedimento.
No. Rise, gli occhi pieni di grinta trasudavano una gioia senza pari. La ferita non perdeva sangue.
Ettore ne fu terrorizzato. Indietreggiò… Quello era un mostro.
Capii subito a cosa stava andando incontro…
Mi lanciai davanti a lui.
Un botto.
«Sminteo!!»
Le ossa di tutto il corpo mi scricchiolarono.
Rotolai via.
Un rivolo di sangue scivolò giù, lungo la tempia.
Udii di colpo grida, stridii di lame, uno scalpitio convulso di passi.
Provai ad alzarmi, ma mi girava la testa…
La guerra intorno a me ronzava.
I soldati vorticavano.
Ricaddi in avanti.
Si stava facendo buio…

Perché?
Ancora quella voce.
Perché continui ad agire senza alcun riguardo per la tua vita?
Diventa sempre più difficile farla tacere.
Perché rischi di ammazzarti tutte le volte?
Chi sei? Ho il tuo nome sulla punta della lingua…
Sei proprio un idiota, Shi__
La luce spezza le tenebre. Il fuoco incendia le torce.
Il fuoco incendia la città di Fuyuki.
Grida, nel tramestio. Delle voci lontane.
Non appartengono alla guerra.
Provengono da un passato remoto, che non si è ancora compiuto.

Un guardiano della deterrenza non ha ricordi, ma nella sua stessa essenza permane sempre qualche piccola parte della sua vita passata. Scene inscindibili dallo stesso ideale che incarna.
Io mi ricordo di te. Buona parte della tua vita mi sfugge, sì, ma ho conservato quei pochi indizi in cui risiede la genesi del nostro antico legame.
Ed ecco perché, nonostante tu sia ormai andato e la memoria di te si sia disintegrata da eoni negli anfratti del tempo, mi sei rimasto dentro. Come una macchia di vernice che – per quanto gratti forte – non va mai via.

Eccoti.

Un attimo prima stai dormendo tranquillo, col piumone tirato fin sopra la testa. Un attimo dopo, un boato spaventoso ti risucchia in una dimensione aliena; che è in realtà la stessa in cui hai sempre vissuto, ma così messa non la riconosci. Vorresti muoverti, ma non puoi: hai le gambe bloccate. Il torso schiacciato da un cumulo di detriti. Puoi permetterti appena di respirare. Inali fumo che ti brucia i polmoni.
Non piangere, non è colpa tua. È che non sei mai stato preparato ad affrontare la vita. Nessuno ti ha mai detto che questa continua: anche quando il tuo cantuccio, imbottito di amore e certezze, si schianta in mille pezzi. Né ti è stato rivelato che, anche a sette anni, si può morire.
Fino a quel momento, ti sei sempre limitato a ridisegnare ex novo gli angoli di realtà che non potevi vedere, annullati dalla luce abbagliante che ti è stata sparata in faccia dalla mamma di notte, quando la pregavi di non lasciarti solo con i tuoi fantasmi. Hai ridefinito ciò che trovavi spaventoso con la tua immaginazione, hai creato ponti e connessioni tra gli eventi per dargli un senso che non ti facesse salire la stessa ansia del buio. L’ansia del vuoto incontrollabile, delle cose ignote. E infine tutto, nella tua ingenua visione del mondo, ha acquisito un senso; persino ciò che ti sembrava illogico. Il tuo segreto è non perdere il filo, l’intima connessione tra le cose. Semplice, no?

Come puoi vedere, ricordo bene come la pensi.
Nella tua realtà, le case non vengono mangiate dalle fiamme.
Le mamme e i papà non muoiono carbonizzati.
I figli non vengono schiacciati dal soffitto delle loro camerette.
I polmoni ti stanno per scoppiare, insieme a tutto il resto del corpo; ma tanto riuscirai a venirne fuori, perché è ovvio: i bambini non possono morire. Non possono, no? Insomma, è scritto a caratteri cubitali nel manuale delle tue verità. E allora aspetti.
Aspetti.
Aspetti.
Aspetti.

Quando è notte, ti piace mettere insieme i pezzi delle giornate trascorse a muoverti con cautela tra una decisione dovuta e un desiderio. Tra la maldigerita consapevolezza di essere diventato un ometto e la voglia di fare i capricci come quando eri piccolo. È ingiusto che i tuoi genitori abbiano smesso di trattarti come allora... Ti viene quasi voglia di ripercorrere a ritroso i pochi anni della tua vita e riportare tutto alla normalità.
Quanta tenerezza che mi fai.
Forza, mettiti a fare quel gioco. Il destino, intanto, sta raccattando idee per tirarti fuori da lì. È così che funziona, no? I bambini non muoiono. Tieni gli occhi aperti, non addormentarti e aspetta.
Intanto, si è insinuato in te un dubbio che spezza il filo della tua infallibile logica: lacerandolo, dividendolo in miliardi di minuscoli pezzetti che si polverizzano fino a svanire del tutto, come se non fossero mai esistiti. Se tu venissi salvato, un’altra persona verrebbe lasciata indietro?
Se qualcuno corresse a salvare te, qualora tu riuscissi a restare in vita per un attimo in più – l’attimo necessario, - qualcun altro potrebbe perdere il proprio?
Ti senti in colpa.
La tua egoistica voglia di continuare a respirare, impedendo ad altri di continuare a farlo, ti contrae in una smorfia. È un dolore a cui non riesci ancora a dare un volto, che ti instupidisce al punto da minare il tuo istinto di sopravvivenza. Salvateli pensi, perché non è giusto. Non è possibile. Non me lo spiego questo male, perché esiste? Le loro vite sono importanti, non lasciate che finiscano. Io non sono nessuno, non ho fatto niente per meritare di essere qui.
Il destino non tarda a rispondere e ti manda una luce. Non è come quella della cameretta. È l’inizio di tutte le incertezze. È la vita stessa che ti tende la mano, con la più grande di tutte le cattiverie. È il caos che risponde. Qualcuno ti stringe forte e piange, al che impari che anche gli adulti possono disperarsi. Che chiunque può essere un eroe, anche un uomo che fa una cosa semplice e rassicurante, come mettere un cappotto sulle spalle di un bambino per fargli capire che il mondo non è finito.
Ma, nel contempo, dimentichi cosa significhi essere felice.
Non c’è stato giorno, dopo allora, in cui non ti sia sentito castigato con la tua sopravvivenza.
Hai combattuto una guerra in cui ti sei offerto alla morte decine, centinaia di volte senza pensarci, per metterti in pari con coloro che non ci sono più. E, non contento, sei andato oltre con altre decine e centinaia di guerre. Ma non ti sei mai arreso. No, hai continuato a disseppellire i fantasmi che hai distorto nella tua mente; che ti hanno trascinato con il loro continuo vociare lungo il percorso malato tracciato davanti a te. Le tue tenere idee da bambino sono diventate il leitmotiv della sua ridicola adolescenza… E, come se non bastasse, il più insensato di tutti i tuoi pensieri. La sintesi ultima delle tue manie, offertati su un piatto d’argento dall’uomo che ha firmato la tua condanna. La punizione definitiva per aver osato sopravvivere ai tuoi genitori.
Diventare un paladino della giustizia.
Diventare un eroe, per salvare la vita degli altri.
E la tua, senza fare rumore, è scivolata con un ultimo rantolo nell’oblio...

«Sminteo!!»
Spalancai le palpebre. Tornai al presente.
Una mano si tese verso di me ed io, quasi per inerzia, allungai la mia. Senza neppure aspettare che la afferrassi, questa mi acciuffò per trascinarmi sul carro. Sfrecciammo via, verso le navi.
«Resisti, ce l’abbiamo quasi fatta! Ormai manca poco…!»
Mi sforzai di tenere gli occhi aperti. E lo vidi.
Tese l’arco verso di me.
Non verso Ettore; verso di me.
Un rivolo di sangue gli rigava la guancia, come una lacrima. I suoi occhi chiari come il cielo sfidavano il furore delle fiamme.
Un millesimo di secondo.
Feci appello alle ultime forze che mi restavano.
Brandii l’arco.
I cavalli continuavano a correre all’impazzata verso di lui.
Non si muoveva da lì.
Non scoccava.
Allora fui io a farlo.
La freccia beccò in pieno il flettente superiore, la corda e metà dell’arco schizzarono via.
Lui fu sbalzato via dal colpo, ma subito si rimise seduto. Ci guardava, ci pugnalava letteralmente con gli occhi, ma non accennava ad alzarsi.
«Che stai facendo…?!»
Tolsi le redini all’auriga e virai.
Gli sfrecciammo accanto.
Incrociai, per un istante, il suo sguardo inviperito.
E il suo grido velenoso mi colpì in pieno.
«Perché mi hai tradito?!»
L’auriga riprese il controllo del carro e incitò i cavalli.
Mi voltai a fissare Ettore, trattenendo un gemito di dolore.
«Che intendeva…?»
Lui sospirò.
«Allora è vero.»
«Cosa?»
«Voi dei non ascoltate le nostre preghiere.»
Teucro, l’arciere più forte di tutti gli achei. Come avevo fatto a non pensarci prima?
Scrollai le spalle e sogghignai.
«Noi dei siamo fatti così: accettiamo solo un eroe alla volta nel nostro fan club» dissi, senza pensarci troppo.
«Fan…?»
«Lascia stare, te lo spiegherò un’altra volta.»

Infine, il fuoco arse gli scafi e infuriò contro il cielo: l’unico spazio, fino a quel momento, inviolato dalla guerra. E proprio quando credemmo di avere in pugno il nemico, un carro si fece largo tra le fiamme. Il soldato a bordo ordinò a degli uomini di spegnerle, scagliò quelli a suo seguito contro i troiani. L’auriga frustò i suoi mostruosi cavalli.
Glorioso, nella sua scintillante armatura.
Una visione ultraterrena.
Achille.
Sarpedonte provò a braccarlo, ma cadde sotto la sua lancia.
Quel maledetto gli squarciò il petto, gli strappò via il cuore. Poi riprese la sua corsa, volteggiando sul campo di battaglia come un avvoltoio.
Chiunque gli passasse accanto, girava largo o veniva freddato all’istante.
Mieteva una vittima dietro l’altra.
Infilzava.
Spaccava.
Squartava.
Era veloce, troppo veloce.
I troiani fuggivano via, nessuno osava affrontarlo Uno alla volta, sarebbero caduti per mano sua.
Agii d’istinto, prima ancora che Ettore potesse parlare. Mirai.
Achille mi intercettò.
Accadde tutto in un millesimo di secondo…
Saltò subito giù dal carro.
Si mise sulla nostra traiettoria.
Afferrò un sasso.
Gli fummo addosso prima ancora di rendercene conto e, all’improvviso il nostro auriga sbalzò via. Il suo sangue schizzò sulla faccia di Ettore, che cercò di afferrarlo per i capelli. I cavalli sbandarono.
«Cazzo…!!»
La freccia andò a vuoto. Ci lanciammo in quel medesimo istante, mentre le creature si schiantavano contro la calca. Ettore recuperò il cadavere del suo uomo e, con un’occhiata furente, fulminò Achille.
Era lì, che ci attendeva. Con un ghigno superbo, svelò il suo misfatto; poi ringhiò contro il principe come una iena, pronto a sottrargli la carogna. Tirò via quel corpo come fosse una bambola di pezza. Voleva la sua armatura. Ettore lo trattenne.
«Mollalo, bastardo…!»
E lo mollarono entrambi. Furono i soldati ad azzannarlo, al che non lo vidi più.
Achille approfittò di quell’istante per sguainare la spada… Ma un urto violento lo spinse in avanti. Si accasciò in ginocchio. L’elmo gli balzò via dalla testa.
I lunghi capelli si riversarono sul suo viso.
Erano… scuri.
Lo fissai. Ettore stesso esitò, incredulo… Ma poi gli si avvicinò e sorrise. Gli occhi brucianti di vendetta. La sua preda perdeva sangue dalla bocca.
Qualcuno l’aveva colpita alle spalle, indebolendola per lui.
Senza indugiare un solo istante, le infilzò il ventre.
Vidi la luce agitarsi negli occhi del soldato e sentii di impazzire…
«Patroclo… è stato lui a mandarti, ammantato delle sue vesti?»
Quello rise.
«Non ha più importanza ormai… Tu, Ettore, da adesso sei morto che cammina. Egli verrà e ti ucciderà.»
Tutto il campo s’immerse in un silenzio innaturale.
Quel ragazzino dai capelli scuri fissò a lungo il suo omicida, coi suoi occhi grandi... Finché non si spensero.




Note finali♫♪
Un minuto di silenzio per Patroclo. Piccolo angelo (cit.).
Detto questo: ladies and gentlemen, eccolo finalmente: il leggendario Rho Aias di Archer! Sarà stata la musica, la grafica, non lo so… So solo che mi sono commossa un casino, quando l'ho visto apparire nella serie; momento epico.
Domande che tutti i fan si saranno posti: perché “Rho Aias”? E cosa simboleggia il fiore? Aias si riferisce, ovviamente, ad Aiace di Telamone. Su Rho invece ci sono varie ipotesi, tra cui quella del diminutivo di Rhoiteion: città dove è stato seppellito il corpo dell’eroe, da cui – secondo la leggenda – è nato un fiore di ibisco. Beh, direi che tutto combacia alla perfezione, che ne dici?
Scrivendo questo capitolo ho fantasticato più volte su un episodio in cui, prima di tornare sui suoi passi, Archer visita la tomba di Aiace e, per rendere un ultimo omaggio al temibile guerriero, decide di intitolargli a buona ragione lo scudo e di aggiungervi l’ibisco… Chissà, magari sarà per un’altra fic.
Ovviamente, piccolo riferimento alla Colchide: anche lì, fantasticherie varie su come inserire Medea nella trama… Ma ho dovuto desistere. Troppa carne a cuocere per una sola storia.
Che dire, caro lettore: grazie ancora per la tua attenzione!

   
 
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