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Autore: Violet Sparks    26/06/2020    22 recensioni
Ben Solo incontra per la prima volta Poe Dameron all'età di sei anni, in occasione dei funerali della madre di quest'ultimo, Shara Bey.
Poe sembra essere l'esatto opposto di Ben -bambino timido, solitario, spaventato dai suoi stessi poteri- eppure i tra i due si instaura un'amicizia profonda.
Un'amicizia che li accompagnerà per tutta l'infanzia, riempiendola di luce, prima che le ombre del Lato Oscuro si abbattano irrimediabilmente sulla vita di tutti loro.
[Darkpilot!]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Ben Solo/Kylo Ren, Kylo Ren, Poe Dameron
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 4
 
 
Light will guide you home
And ignite your bones
And I will try to fix you
(Fix you, Coldplay)
 
 
 
La luna splendeva alta nel cielo ormai, quando i medici finirono di visitare Ben, lasciandolo finalmente solo, nell’angusto stanzino della clinica, insieme ai propri pensieri.
Dal basso della branda dove era disteso, il bambino sospirò, osservando il soffitto pallido e scrostato sopra di sé.
Erano state ore frenetiche, quelle appena trascorse.
Ore in cui gli eventi si erano succeduti uno dopo l’altro ad una velocità vertiginosa, come una giostra impazzita che correva e correva e non dava segno di volersi fermare.
Adesso che era di nuovo con i piedi per terra, Ben desiderava soltanto riappropriarsi di se stesso, mettere a tacere quella valanga di pensieri che minacciava di inondargli il cervello e, magari, tornare a respirare ad un ritmo normale.
Serrò le palpebre, mentre i ricordi lo investivano senza pietà alcuna.
Si era sentito morire quando Poe gli era svenuto addosso, la fronte spaccata da un taglio netto, la pelle brunita irrimediabilmente bagnata di sangue.
In un impulso del tutto irrazionale, aveva pensato che gli sarebbe piaciuto poter cancellare quel colore vermiglio come una banale macchia su un foglio bianco, lo schizzo d’inchiostro sfuggito ad una penna difettosa, perché d’un tratto gli era parso così disturbante – così maledettamente sbagliato – vedere quel visetto di solito luminoso giacere lì, deturpato e inerme, che le membra gli si erano congelate dal terrore e il suo intero corpo aveva preso ad ardere sotto il fuoco bruto della rabbia.  
Aveva voluto salvarlo, invece era riuscito soltanto a fargli del male.
A quell’ora, Poe sarebbe potuto essere al sicuro, a casa propria, intento a cenare insieme alla sua famiglia fatta di persone semplici e sorrisi contagiosi, se soltanto lui fosse stato in grado di difendersi.
Se soltanto avesse scelto la via principale al posto di imboccare quel vicoletto stretto.
Se soltanto il suo nome fosse stato uno dei tanti, uno qualunque nell’universo e non Ben Solo…  
“Ben! Ben, dallo a me, andiamo! Il tuo amico ha bisogno di un medico! Adesso!” aveva esclamato all’improvviso lo zio Luke, ridestandolo dai propri pensieri, prima che la sua mano metallica corresse a strappargli il ragazzino ferito dalle braccia per caricarselo sulle spalle.
A quel punto, si erano fatti guidare dagli abitati di Yavin4 fino alla clinica più vicina, fortunatamente non troppo distante dal luogo in cui era avvenuta la rissa.
Poco dopo essere entrati e aver affidato sia Poe che Nathaniel all’equipe medica, sua madre Leia era apparsa alla porta d’ingresso, stravolta e trafelata.
“Mamma!”
“Per tutte le stelle del cielo!” aveva gridato la donna, per poi lanciarsi su di lui e stringerlo tanto forte da mozzargli il respiro “Stai bene? Dimmi che stai bene! Parlavano di ossa rotta, ragazzini feriti e io sono morta di paura!”
“Sto bene, mamma, davvero! Mi stai strozzando però!”
Finalmente, Leia si era decisa a mollare la presa, tuttavia aveva cominciato ad osservare Ben con fare indagatore, tastandolo da tutte le parti come a sincerarsi che non mancasse qualche pezzo.
“Leia, non c’è bisog-”
“Oh, sta’ zitto, Luke! Guarda tu, è pieno di graffi!” era stata la sua risposta piccata, prima di tornare a rivolgersi al bambino in maniera ancor più impetuosa “Ben Solo Organa, avevamo un patto io e te! Tu saresti tornato dritto a casa dopo la biblioteca ed io non ti avrei più fatto accompagnare da C3PO!”
“Lo so, mamma e stavo tornando, però…”
“Mi spieghi cosa è successo? Come ci sei finito in una rissa?”
“Io…”
Davanti al volto turbato della madre, Ben aveva tirato un lento, tremate sospiro di disagio.
Si era avviluppato nelle sue stesse braccia, avvertendo sulla pelle tutto il peso dello sguardo dei due adulti ritti di fronte a sé, dopodiché aveva cominciato a raccontare la sua storia.
Era partito dal principio naturalmente, dal momento in cui Nathaniel e i suoi amici lo avevano accerchiato in quel vicoletto maleodorante, approfittando del fatto che fosse solo, per deriderlo a causa della sua famiglia, del suo nome altisonante, da sempre associati a capacità fuori dall’ordinario.
Aveva continuato, parlando dell’arrivo di Poe, del modo in cui il ragazzino aveva messo in ridicolo i più grandi grazie alla sagacia delle sue battute, al suo cipiglio risoluto e sfacciato, tuttavia non era riuscito ad andare oltre perché, non appena aveva sollevato le pupille dal pavimento, Ben si era reso conto che sua madre non aveva ascoltato neanche una delle parole che erano uscite dalla sua bocca, troppo occupata a fissare gli occhi cerulei dello zio Luke, con un’espressione insieme grave e atterrita, che era arrivata nello stomaco del bambino come una coltellata.  
La conosceva bene, quell’espressione lì, purtroppo.
In dieci anni di vita, l’aveva vista apparire sul volto di Leia così tante volte, in così tante occasioni, che oramai aveva perso il conto.
C’era sempre quando la notte si svegliava urlando, preda di incubi terribili, fatti di voci che lo blandivano e ombre pesanti che cercavano di schiacciargli il petto.
C’era sempre quando le diceva di avvertire i pensieri degli altri addosso, intorno, dentro e i loro stati d’animo arrivavano come zaffate di fuliggine dritte in gola.
E ovviamente c’era stata anche quel giorno, quando era giunta correndo nel grande corridoio, all’ultimo piano del Palazzo di Giustizia di Hosnian Prime e aveva visto ciò che era successo a Kane.
Ciò che lui gli aveva fatto.
“Mamma, non mi stai ascoltando…” aveva mormorato dunque Ben, i pugni stretti quasi a far male, la vista sfocata da una patina salata e lucida.
“Tesoro, come si sono feriti quei due ragazzini?” gli aveva però domandato la madre, con un tono di accondiscendenza assolutamente fasullo “Sei stato tu? Hai usato la Forza?”
“No!” aveva affermato lui d’impulso, ma una singola occhiata verso il sopracciglio inarcato di Leia gli aveva fatto intendere che non sarebbe mai riuscito a mentirle, per cui “Sì, okay l’ho usata!” si era ritrovato a confessare “Ma se solo tu mi lasciassi spiegare…”
“Ben, quante volte lo abbiamo detto? La Forza non deve essere usata così! Non è un’arma! Devi cercare di controllarti!”
“Lo so!”
“Davvero? A me non sembra!”
“Io ho cercato di controllarmi! Ma loro ci avevano accerchiati, Nathaniel stava per…”
“Loro ti avevano accerchiato e tu hai pensato bene di rompere il polso ad uno e spaccare la fronte ad un altro?”
“NO! IO NON VOLEVO FARE MALE A POE! NON L’HO FATTO A POSTA! NON LO FAREI MAI!”
Al tuono delle sue parole, i vetri della piccola clinica avevano preso a vibrare pericolosamente, al punto che sia i medici che le poche persone sedute nella saletta di ingresso, erano balzate in piedi dalla paura.
Ben invece era caduto in ginocchio, piangendo sotto la coltre dei suoi capelli neri.
Non sarebbe voluto esplodere in quella maniera, non avrebbe voluto spaventare i presenti né tantomeno rispondere alla sua mamma con una tale veemenza, ma l’accusa di aver procurato quel taglio a Poe intenzionalmente, mescolata alla voce crudele, meschina, che nel suo cervello non aveva smesso un solo secondo di bisbigliare che sì, quella era la verità, lui non sapeva fare altro che distruggere, che causare dolore, perfino alle persone che si erano dimostrate così buone e gentili come Poe Dameron, gli avevano aperto una tale vuoto, all’altezza del petto, che Ben si era sentito come affogare sulla terraferma.
Ad un tratto, la mano metallica dello zio gli aveva sfiorato lievemente la nuca. Subito dopo però, sua madre si era inginocchiata davanti a lui e se lo era stretto al petto, sbilanciandolo contro la sua figura minuta.
“Scusami… scusami, piccolo mio… sono una stupida… non volevo accusarti così, mi dispiace tanto…” aveva sussurrato la donna, la voce flebile, un po' rotta “Non mi importa cosa sia successo: hai avuto paura e ti sei difeso, è normale. Ciò che conta è che tu stia bene.”
“Mamma, io non volevo… lo giuro…”
“Lo so, amore, lo so.” sempre tenendolo tra le proprie braccia, Leia lo aveva scostato quel tanto necessario a congiungere le loro fronti, dopodiché aveva preso a sistemargli i capelli dietro le orecchie e ad asciugargli le lacrime con le proprie dita sottili “Va tutto bene… va tutto bene… è passata… sei qui con me adesso…”
Quando lo aveva visto più tranquillo, gli aveva rivolto uno dei suoi sorrisi caldissimi, brillanti come le stelle, quindi gli aveva baciato la punta del naso e “Allora, chi è questo famoso Poe? Un tuo amico?” aveva domandato, per stemperare la tensione.
Senza alcuna ragione apparente, Ben era arrossito da capo a piedi, assumendo una vaga tonalità pomodoro.
“No! Cioè sì, più o meno…” aveva snocciolato, pieno di imbarazzo “Lui viene sempre in biblioteca con me, non so perché!”
“È il figlio di Kes Dameron.” era intervenuto Luke, sopra di loro “Dovresti conoscerlo, Leia, secondo me ti piacerebbe! Ha l’argento vivo addosso, proprio come Shara.”
Innanzi a quella rivelazione, l’animo di sua madre si era riempito di una profonda tenerezza, “Il figlio di Shara Bey…” aveva scandito lentamente, mentre i suoi occhi si inumidivano appena “È incredibile! Anche io e lei eravamo buone amiche, sai Ben?”
“Davvero?”
“Oh sì, abbiamo combattuto fianco a fianco in tantissime battaglie! Era una persona meravigliosa, oltre che un pilota eccellente.”
Ben aveva trattenuto il fiato.
Dunque, non si era sbagliato. Quel legame, quel senso di familiarità che aveva avvertito la prima volta in cui Poe Dameron si era presentato a lui nella biblioteca di Yavin4, non erano stati soltanto una sciocca impressione, ma qualcosa di assolutamente reale.
Il profumo dei fiori.
La sensazione dell’erba fresca sulla pelle.
Il suono di quel nome, svelto come un fischio: Poe.
Chissà, forse si erano già incontrati prima di allora.
O forse, si trattava di un nodo ancor più profondo: attraverso lo spazio ed il tempo, il loro sangue era sempre stato destinato a riallacciarsi.  
“Facciamo così,” aveva affermato Leia, sollevandosi di nuovo in piedi “tu ti fai vedere da un medico, per favore. E no, non ammetto repliche al riguardo! Lo so che stai bene, ma voglio esserne sicura! Io intanto contatto Kes e gli spiego la situazione, d’accordo?”
Alla fine, nonostante gli sbuffi e le proteste animate - perfino da parte di Luke- Ben aveva ubbidito, affidandosi alle cure di due droidi-medico, i quali si erano limitati a disinfettargli qualche ferita e a fasciargli la caviglia che sentiva dolorante.
Non reputava necessaria nessuna delle due operazioni, ovviamente, ma sapeva anche che sua madre non avrebbe smesso di insistere fintanto che non gli fosse stato applicato almeno un cerotto, per cui se ne era rimasto buono, sotto le attenzioni dei gelidi arti metallici.
Con un respiro profondo, si scrollò di dosso quei gravosi pensieri, si issò sui propri gomiti e scrutò verso la porta, dove un minuscolo spiraglio permetteva di guardare l’ingresso.
Ben era sempre stato alquanto curioso di conoscere il volto di Kes Dameron, il padre di Poe, tuttavia l’uomo che si era presentato alla clinica e adesso dialogava amabilmente con Leia e Luke, doveva essere suo nonno, Kaspar Bey.
Nonostante l’età e alcune rughe che gli segnavano la fronte, per il bambino fu quasi immediato scovare in lui piccoli tratti del nipote, simili a indizi casuali disseminati qua e là dalla natura.
I suoi capelli erano striati di bianco, ma folti e pieni di onde come quelli di Poe. La sua pelle era ugualmente scura, quasi nera sulle braccia massicce, abituate a lavorare la terra anche nelle ore più calde di sole. Aveva lo stesso, identico modo di ridere, sonoramente e senza alcun risparmio, arricciando il naso in una smorfia giocosa.
Ben si morse il labbro, mentre il suono di un’altra risata - quella autentica, cristallina di Poe- si infilava fastidiosamente nei suoi ricordi.
Non aveva avuto il coraggio di chiedere circa le sue condizioni.
Origliando la conversazione di un paio di infermiere, aveva scoperto che era stato portato nell’ultima stanza in fondo al corridoio, ma lo sferragliare dei droidi che si stavano occupando di lui, purtroppo gli aveva impedito di carpire altre informazioni.
Suo nonno era sembrato sereno dopo essere andato a visitarlo, quindi, con ogni probabilità, doveva essere tutto a posto, solo che…
Ben si agitò sul materasso, avvertendo un prurito spiacevole scivolargli lungo la schiena.
Poe si era svegliato?
Aveva riportato altre ferite?
Quanto sangue aveva perso?
Sarebbe rimasta una cicatrice?
E se il colpo gli avesse causato dei danni permanenti?
Tipo che non sarebbe più riuscito a parlare?
O a mettere in ordine i pensieri?
O addirittura a ridere?
L’ipotesi gli causò un moto di panico talmente forte che per poco non vomitò quei due, tre morsi di razione che era riuscito a sbocconcellare mentre veniva medicato dai droidi.
Provò per l’ennesima volta a concentrarsi, a percepire l’essenza di Poe attraverso le stanze della piccola clinica, ma l’incertezza, la paura, gli rendevano praticamente impossibile focalizzarsi su qualsiasi cosa.
Non poteva resistere oltre.
Doveva assolutamente sapere.
Senza farsi vedere da nessuno, scivolò giù dalla branda, per poi sgattaiolare fuori dalla stanzetta.
Avrebbe dato solo una sbirciatina, giusto il tempo di appurare che Poe fosse sano e salvo, quindi sarebbe corso subito da sua madre e le avrebbe chiesto di lasciare il pianeta.
Dopo ciò che era successo, dubitava che il ragazzino gli avrebbe più rivolto la parola, ma alla fine, non importava.
A Ben bastava soltanto che stesse bene.
Non osava chiedere di più.


 
****** 
 
 

“Ben, sei tu?”
Ben sussultò, stringendosi nelle proprie spalle, pronunciò mentalmente una parolaccia che spesso diceva suo padre e che di solito faceva inorridire la mamma, dopodiché ruotò con estrema lentezza sul posto, finché non fu di nuovo innanzi alla porta.
Poe, semidisteso su un bel mucchietto di cuscini, lo inchiodò con due occhietti vispi ma cerchiati, volgendo verso di lui un’espressione incuriosita.
A quanto pareva, era stato spogliato dei suoi vestiti, sostituiti da una tunica bianca che creava un netto contrasto col suo incarnato bruno. Accanto a lui, il tubo trasparente di un flebo correva fin sotto un cerotto, appiccicato all’incavo del suo braccio nudo e sottile come un giunco, mentre i capelli erano tenuti indietro da una fascetta rossa, per evitare che qualche ciocca ribelle toccasse lo squarcio che ancora svettava caparbiamente sulla sua fronte lucida.
Alla vista di quell’ultimo, il cuore di Ben perse un battito: i dottori avevano ripulito il viso del ragazzino e la ferita, fermando l’emorragia, tuttavia era evidente che il taglio necessitasse di ulteriori medicazioni.
Abbassò lo sguardo, schiacciato dalla vergogna. 
Maledizione.
Non voleva affrontare Poe.
Perché si era fatto scoprire come un’idiota?
“Ciao…” disse quindi Ben, con un filo di voce, torturandosi l’orlo della maglietta.
A quel punto, aspettò diligentemente che l’altro cominciasse ad urlargli contro, lo cacciasse via in malo modo, intimandogli di non farsi mai più vedere su Yavin4, invece, dopo un lunghissimo, infinito istante di silenzio, “Ben! Speravo proprio fossi tu! Sono così felice di vederti!” proruppe il ragazzino, ad un volume di voce spaccatimpani, prendendo ad agitare le braccia con un tale vigore che per poco non fece cadere anche la flebo vicino al letto “Mi stavo annoiando qui da solo! Come stai? Ma tu eri ferito? Non mi ricordo! Ti hanno curato? Come ti hanno curato? Mio nonno ha detto che è venuta anche tua madre! Lo sai che io non ho mai visto tua madre? Cioè, ne ho sentito parlare, ma mica so come è fatta! Lei che ti ha detto? Si è arrabbiata? Mio nonno lo era un bel po'! Ma tanto gli passa: lui non sa stare arrabbiato per tanto tempo! Si scoccia o so lo dimentica! Io non sono così, penso di aver preso da mio padre in questo. Sai che mio padre…”
Ben sollevò lo sguardo, decisamente perplesso.
Non riusciva proprio a comprendere: Poe sembrava davvero contento di vederlo e si stava comportando come se niente fosse successo, come se non avesse mai rischiato la vita per colpa sua.
La sua essenza era calda, amichevole, colma di un entusiasmo vibrante e sincero, nonostante la stanchezza data dalla ferita e dallo svenimento fosse molto più intensa di quanto volesse dare a vedere.
Ben lo fissava, immobile e a bocca aperta e non poteva fare altro che starsene lì, completamente sbalordito mentre, per l’ennesima volta da quando lo conosceva, quell’esplosione umana che rispondeva al nome di Poe Dameron raccoglieva tutte le sue certezze e le gettava via neanche fossero della banale carta straccia, agendo nel modo esattamente opposto a ciò che ci si sarebbe aspettati da lui.
Come un automa, Ben mosse allora qualche passo in avanti e si avvicinò al lettino, “Quando ti sei svegliato?” chiese quindi, interrompendo quel flusso incontrollato di parole.
Poe si placò all’istante.
Con un movimento composto, ripose finalmente le proprie mani in grembo, si rilassò contro i cuscini e gli rivolse un piccolo sorriso stropicciato.
“Da poco, in verità. Devono ancora mettermi i punti, ma credo si siano dimenticati…” prese a spiegare “I dottori hanno detto che ho preso una bella botta, ma starò bene. A me non fa male per niente, infatti volevo tornarmene a casa con nonno, ma preferiscono che rimanga qui almeno stanotte, in osservazione.”
Ben annuì, senza riuscire a trattenersi dal sollevare gli occhi al cielo.
Sapeva che il ragazzino stava recitando la parte dell’eroe coraggioso davanti a lui, visto che poteva avvertire la sua spossatezza, il dolore che a vampante ancora gli picchiava la fronte dandogli le vertigini, tuttavia decise di tenere quelle verità per sé e lasciare che Poe si crogiolasse nella sua recita.
Dal suo canto, sperò ardentemente di aver celato a dovere il sollievo e la felicità che si erano insinuati in lui alla notizia che l’altro si sarebbe rimesso e nessuno dei quadri drammatici che si era prefigurato, si sarebbe mai realizzato: non voleva apparire ancor più patetico di quanto già non fosse.
Il solo fatto di essere stato scoperto a sbirciare le sue condizioni di salute, lo metteva tremendamente in imbarazzo.
“Ehi, mi ero dimenticato!” esclamò all’improvviso Poe, drizzando il busto “Guarda nelle tasche dei miei pantaloni, per favore.”
Ben crucciò le sopracciglia, ma fece come gli era stato indicato, avvicinandosi ai vestiti del ragazzino che erano stati riposti su una sedia e afferrando i suoi calzoni.
Fu una ricerca breve poiché, non appena introdusse le dita nella tasca posteriore, incappò inaspettatamente in uno dei pennini che era solito utilizzare durante il lavoro di copiatura.
Lo osservò confuso per qualche istante, poi fece due più due e capì.
“È per questo che ti trovavi lì, in quella parte della città…” mormorò, stringendo l’oggetto tra le mani “Volevi ridarmi il mio pennino.”
“È il tuo preferito no? Me lo sono ritrovato nello zaino e ho pensato di riportartelo.”
“Il mio preferito?”
“Sì, ho notato che ne hai altri più belli, ma usi sempre questo qui, credo perché ci scrivi meglio. Non volevo che ti dispiacessi pensando di averlo perso, così ero venuto a restituirtelo.”
Il senso di colpa che investì Ben, innanzi a quella dichiarazione, fu così violento che il bambino dovette fare un passo indietro per mantenere l’equilibrio.
Aveva ragione, quello era il suo pennino preferito: suo padre glielo aveva regalato quando aveva otto anni, il giorno prima che si trasferisse all’Accademia Jedi insieme allo zio Luke. Non era il migliore che aveva – come Poe, Han capiva poco e niente dell’arte della calligrafia – era piuttosto semplice, color dell’ebano, addirittura un po' scheggiato accanto alla punta, eppure era il più maneggevole che conosceva, flessibile e leggero simile allo stelo di un fiore.
Il fatto che Poe avesse notato una cosa del genere e si fosse preoccupato dei suoi sentimenti, lasciava Ben parecchio spaesato, ma il pensiero che quello fosse addirittura finito con una ferita alla testa, soltanto per restituirgli uno stupido accessorio, cancellava ogni altro sentimento e gli stringeva il cuore in una morsa dolorosa.
Per questo, si voltò di scatto verso il ragazzino e “Te lo regalo!” affermò, modulando la voce in un tono risoluto.
Poe ruotò appena il capo verso la spalla, sbattendo le ciglia lunghissime con aria confusa.
“In che senso me lo regali?”
“È tuo adesso, puoi tenerlo per sempre.” ribadì Ben, sventolando l’oggetto nella sua direzione “Anche quelli più belli, se li vuoi. Puoi prenderli tutti.”
Poe lo osservò per un istante, poi emise una risata di vetro, il cui suono parve riverberare direttamente sotto la pelle di Ben.
“E tu poi come fai a scrivere, scemo? Io non me ne faccio niente, mica sono bravo come te.”
“Non importa, li puoi rivendere, ti compri quello che vuoi.” insistette ancora. 
“Ma ti piace così tanto scrivere! Sono troppo preziosi per te, non posso accettare.”
“Invece sì, sono tuoi adesso.”
“Ed io te li regalo di nuovo.”
“Cosa?”
“Tu li regali a me ed io li ri-regalo a te, sono di nuovo tuoi adesso.”
Ben sbuffò, frustrato.
Voleva fare qualcosa per Poe - qualsiasi cosa!- ma quel testone glielo rendeva dannatamente difficile.
Cominciò a spremere le meningi e a pensare ad una valida alternativa: fargli un regalo gli era parsa una buona idea – era così che soleva fare suo padre con lui e la mamma, quando stava via più a lungo di quanto aveva promesso- tuttavia era evidente che Poe non avrebbe accettato niente da parte sua, che fosse una penna, un’intera astronave o un qualunque altro oggetto della Galassia.
Gli lanciò un’occhiata furtiva, cogliendo il ragazzino nell’esatto istante in cui una brutta fitta alla testa gli fece accartocciare la faccia in una smorfia dolente.
In realtà, ciò che Ben avrebbe desiderato davvero, era poter curare la sua ferita, raschiando via finanche il ricordo stesso di essa, peccato però che non sapesse nemmeno da dove iniziare e il terrore di causare danni peggiori, gli impedisse di compiere alcun tipo di azione.
Ripose il pantaloncino e la penna sulla sedia, mentre il suo cervello ronzava ancora.
Poi, un’illuminazione improvvisa.
“Posso metterti i punti!” esclamò, in tono vittorioso.
Poe rimase un attimo interdetto, “Vuoi mettermi i punti di sutura? Sai farlo?” chiese.
“Sì!” fece ancora Ben, prima di aggiungere un timidissimo “Sempre se ti va… ovvio…”
L’altro però spalancò gli occhi giganti versi di lui, in un misto di sorpresa e ammirazione, quindi “Certo che sì! Mi fido di te!” rispose, scostandosi subito di lato per fargli spazio sul materasso.
Davanti a quella fede cieca, totale e del tutto gratuita, Ben sentì le proprie orecchie fumare per la vergogna, tuttavia nascose il visetto arrossato sotto i capelli e si affrettò a recuperare l’occorrente da un mobiletto bianco, unico segno di arredamento della vecchia stanzetta medica.
Pose gli strumenti con cura su un vassoio di acciaio, dritti e nell’ordine in cui avrebbe dovuto utilizzarli, dopodiché si avvicinò al letto e vi si arrampicò, sistemandosi nell’angolino appositamente lasciatogli libero dall’altro.
Non appena si sedette, il fiato caldo del ragazzino, a pochi centimetri da lui, gli accarezzò le labbra, procurandogli un brivido che gli rigirò la pancia in una specie di capriola.
Che brutta idea che aveva avuto…
Se ne stava già pentendo.
“Okay, adesso ti farò un po' male, ma tu cerca di resistere. Devi stare fermo, va bene?” gli intimò Ben, mentre preparava la pinza, con l’ago e il filo.
In tutta franchezza, nutriva svariati dubbi circa la capacità di Poe Dameron di non muoversi per più di cinque secondi di fila e infatti, non ebbe il tempo di finire la frase che quello si voltò bruscamente verso di lui. “Non c’è problema! Non sentirò niente, ci vuole ben altro per farmi male! Starò più fermo di una statua!” disse, con una certa fierezza nella voce.
Ben si grattò il capo, “Guarda che ti stai già muovendo!”
“Ma non abbiamo cominciato!”
“Sì, che abbiamo cominciato! Poe, davvero, non voglio fare un pasticcio, non devi muoverti!”
E forse in nome della leggera, quanto nitida vena di disperazione che probabilmente stava emanando la sua espressione facciale, Poe snocciolò un flebile cenno di assenso, congiunse le proprie mani in grembo e si affidò alle cure di Ben, in quale prese a ricucire la ferita con estrema attenzione.
Non gli piaceva fare il gradasso, ma era piuttosto bravo nelle saturazioni.
Come per la calligrafia, anche quello era un lavoro di precisione, di fermezza, persino di eleganza negli scatti del polso che permettevano di annodare il filo in quelle trame sottili.
Ben fece appello a tutto il proprio autocontrollo pur di mantenere i movimenti ben saldi, accurati fino al millimetro, sebbene la vicinanza del ragazzino continuasse a provocargli un formicolio che non capiva e il cuore gli battesse così forte dietro le costole che quasi gli venne il dubbio che qualcuno potesse avvertirne il suono a eoni di distanza.
D’un tratto, dovette afferrargli il mento per ruotarlo un poco e il contatto con la sua cute fresca, più morbida del velluto, generò una scarica elettrica sotto i suoi polpastrelli.
Era così preso da quel turbinio di sensazioni che fece un vero e proprio salto quando Poe ruppe di nuovo il silenzio. 
“Te lo hanno insegnato alla scuola dei Jedi?” chiese il ragazzino, mordendosi le labbra a sangue.
Ben valutò la possibilità di sottolineare che il ‘non muoversi’ comprendeva anche il ‘non chiacchierare’, ma un po' perché intavolare un discorso almeno lo avrebbe distolto dal fuoco che gli stava ustionando le vene, un po' perché intuiva che lo stesso Poe, per quanto si stesse sforzando di nasconderlo, necessitava di una distrazione dal dolore, decise di dargli corda.
“Non è una scuola, è una Accademia!” precisò, con un sospiro. Temendo di essere stato troppo brusco però, si strinse nelle spalle e “Comunque no, me lo ha insegnato mio padre.” si affrettò ad aggiungere, continuando ad armeggiare con ago e filo.
“Han Solo…” scandì invece Poe, con aria sognante “È il mio personaggio preferito, sai? Nelle storie sulla Guerra Galattica, intendo! Dicono sia il miglior pilota vivente ed io ci credo! Un giorno sarò proprio come lui!”
Ben sorrise appena.
“Sì, è forte, in effetti.”
“Non lo vedi molto però, vero?”
Ci mancò poco che infilzasse Poe storzellando l’ago nella ferita.
Si fermò di colpo e osservò l’altro con due occhi sgranati, “Perché dici questo?” domandò, stranito.
Poe si voltò piano piano verso di lui e infilò il proprio sguardo nel suo.
“Perché non parli spesso di lui.” disse, semplicemente “Cioè, tu non parli spesso in generale, ma di lui ancora meno. Di solito nomini tua madre o tuo zio, ma quasi mai tuo padre.”
Ben aprì e chiuse la bocca un paio di volte, senza sapere bene cosa rispondere.
Ancora una volta, Poe dimostrava di conoscerlo molto più a fondo di quanto avrebbe mai immaginato.
“È che lui… viaggia un sacco.” ammise, alla fine “Non gli piace stare sempre nello stesso posto e odia le faccende politiche della mamma, preferisce spostarsi insieme a zio Chewbe. Io vorrei tanto andare con lui, ma credono che sia meglio per me rimanere con lo zio Luke, per via dei miei poteri.” pronunciò, incapace di nascondere il proprio rammarico.
La verità era che non sapeva esattamente ciò che provava riguardo quell’argomento: da una parte capiva la voglia di libertà di suo padre e lo ammirava tanto per questo, ma dall’altra non poteva fare a meno di sentirsi tradito ogni qualvolta l’uomo che avrebbe dovuto essere il suo unico alleato rispetto alla Forza, sceglieva il suo irrefrenabile bisogno di uscire dagli schemi, di vivere all’avventura e non appartenere a nessuno, piuttosto che restare con lui.  
Con la scusa di rimettersi a lavoro, girò nuovamente il volto di Poe, sfuggendo ai suoi occhi nocciola, sempre così sinceri da farlo sentire esposto.
La sua voce, tuttavia, gli arrivò forte e chiara quando parlò.
“Anche mio padre non sta molto con noi.” scandì lento il ragazzino, come se ogni singola parola gli costasse un po' di fatica “Da quando è morta la mamma, non gli piace passare a casa tanto tempo, credo sia perché gliela ricordi troppo.” proseguì, mangiandosi di tanto in tanto l’unghia del pollice, in un vizio che, ormai Ben aveva imparato, egli compiva qualora si sentisse nervoso “Non è che non mi vuole bene o che non gli piace passare il suo tempo con me… è solo che…”
“Lui è fatto così.” si ritrovarono a dire i due bambini in coro, cosa che li fece sorridere, l’uno verso l’altro, in un gesto di intesa che scaldò Ben dall’interno.
Era bello sentirsi capiti.
Era una cosa che non aveva mai provato prima.
Con un movimento deciso, chiuse l’ultimo punto e recise il filo in eccesso.
Aveva fatto un ottimo lavoro, era soddisfatto: i punti erano precisi e ben allineati. Non era del tutto sicuro se gli sarebbe rimasta una cicatrice o meno, nel caso però, sperava almeno che non sarebbe risultata così visibile da dare fastidio all’altro, ogni qualvolta si fosse specchiato.
In quello stesso istante, Poe sollevò ancora le iridi nella sua direzione, regalandogli uno sguardo di gratitudine piena che mise Ben profondamente a disagio.
Non se la meritava.
“Perché fai queste cose?” gli chiese, di getto.
Poe aggrottò le sopracciglia, azione che gli causò una piccola fitta alla testa.
“Queste cose cosa?” domandò a sua volta, perplesso, mentre si massaggiava un poco la ferita.
Ben gli schiaffeggiò la mano con impazienza per allontanarla dalla sutura e “TUTTO!” esclamò “Perché vieni in biblioteca se non ti piace la calligrafia? Perché ti sei messo anche tu contro Nathaniel? Perché hai detto a mio zio che era stata colpa tua anche se non è vero? Perché ti interessa cosa penso o cosa provo? Non lo capisco!”
Poe lo osservò come imbambolato per circa un secondo.
Poi scoppiò in una fragorosa risata.
“Perché siamo amici, mi sembra ovvio!” disse, quasi con le lacrime agli occhi.
La risposta lasciò Ben ancora più stranito.
“Perché dovresti essere mio amico? Non ottieni nulla in cambio.”
A quelle parole, la risata di Poe si spense seduta stante.
Prese la mano di Ben tra le sue e lo guardò dritto negli occhi.
“Io non voglio qualcosa in cambio, mi piaci e basta.” scandì, lento e sicuro.
Ben sussultò come se qualcuno gli avesse appena dato uno schiaffo.
Nessuno gli aveva mai detto una cosa del genere. Le persone di solito si avvicinavano a lui per la sua famiglia, per il suo nome, provando sempre quella punta di invidia e di immotivata aspettativa nei suoi confronti, che lo facevano sentire in catene, già bollato e catalogato in una identità che nemmeno gli apparteneva.
Nel cuore di Poe Dameron invece, non c’era niente di tutto quello.
C’erano affetto e luce e una purezza talmente intensa da sembrare viva.
E Ben avrebbe sacrificato volentieri tutto ciò che possedeva, persino la sua casa, persino la Forza, se ciò avesse voluto dire poter tenere quelle cose belle con sé fino alla fine dei suoi giorni, peccato però che non ne fosse minimamente all’altezza.
Ritrasse la propria mano da quella di Poe, gli diede la schiena e abbassò il capo.
“Io non posso essere tuo amico, Poe. È meglio se le persone mi stanno lontane.” mormorò affranto, fissando il lucido pavimento della clinica.
“Perché?”
“Perché non so avere un amico, finirei per fargli male.”
“Che stronzate!”
Prima che Ben potesse interiorizzare quell’uscita scurrile, Poe lo circondò da dietro con le proprie braccia, lo stritolò fortissimo e si affacciò dall’alto della sua spalla.
“Amico, tu sei un pelino melodrammatico, lo sai?” disse, ridacchiando “Mica ci sono delle regole per essere amici e poi perché diavolo dovresti farmi male? Sei così mingherlino!”
“Ehi! Non sono mingherlino! Devo ancora crescere!” sbottò Ben “E poi ti ho fatto io il taglio sulla fronte, te lo sei dimenticato?”
“Che cavolo dici? È stato Nathaniel! Tu mi hai salvato! Se non fossi intervenuto tu, adesso sarei stecchito!” affermò Poe, ridendo più forte.
“Ma se fossi stato più attento… se avessi previsto che…”
“Sei un Jedi, mica un chiaroveggente!”
“Un apprendista Jedi!” lo corresse per l’ennesima volta.
“Sì, quello che è!” con una strana mossa, Poe si arrampicò in ginocchio sul letto e costrinse Ben, ancora recalcitrante, a girare il busto di nuovo verso di lui. Gli prese entrambe le spalle, lo strattonò un poco e “Io e te siamo ufficialmente amici, Ben Solo, è deciso! Non si torna indietro!”
Ben sbuffò sonoramente, “Io non ho ancora detto di essere d’accordo!” provò, a un passo dalla disperazione.
Okay, forse Poe aveva ragione – e soltanto le stelle sapevano quanto Ben desiderasse che Poe avesse davvero ragione! - ma una parte di lui, quella più insicura e introversa, gli chiedeva di restare con i piedi per terra.
Come era facile aspettarsi tuttavia, Poe non si diede per vinto.
“Oh sì che lo hai fatto!” fu la sua risposta furbissima.
“Sono sicuro di no!”
“Lo hai fatto cinque minuti fa!”
“Ma di che stai parlando?”
“Venire a trovare una persona in ospedale e curargli una ferita è molto da amico! Ormai non ci puoi fare più niente, mi dispiace!”
Ben rimase lì, a bocca spalancata come un idiota.
Non sapeva più cos’altro argomentare, inoltre il cipiglio risoluto di Poe gli lasciava intuire che il ragazzino avrebbe girato e rigirato il discorso a suo favore fino a quando lui non avrebbe ceduto per sfinimento.
Ci rifletté sopra ancora un instante, diviso tra quei due istinti opposti e nemici che gli urlavano a gran voce di fuggire e di legarsi, confondendosi l’un con l’altro in un brusio vorticoso.
Alla fine, chiuse gli occhi e lasciò decidere il cuore.
“E va bene, se proprio insisti…” bisbigliò, con un filo di voce.
Poe si esibì in un ululato di gioia.
Gli saltò addosso e lo strinse fortissimo contro il suo petto ossuto.
“Hai visto? Te lo avevo detto!” esclamò, l’entusiasmo che vibrava dalla sua cassa toracica direttamente sotto la faccia pressata del più piccolo.
Eppure, mezzo asfissiato e intontito dall’ennesimo sproloquio che partiva, Ben si scoprì a sorridere.
Forse, avere un amico, non sarebbe stato poi tanto male.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
NOTE AUTORE
A mia discolpa, vorrei dire che fosse per me aggiornerei minimo una volta a settimana! Metteteci però la mia lentezza, le mie crisi di nervi che mi fanno cancellare e riscrivere un capitolo almeno sette volte, gli impegni di cacca che chiamano e il porn (tipo Just Friends) che pretende di sbaragliare la “to do list”, ecco che impiego il doppio del previsto!
UN APPLAUSO (IN FACCIA) A ME!
 
Scleri a parte, il quarto capitolo di Preludio sancisce definitivamente l’amicizia tra Poe e Ben. Devo ammettere che ho amato particolarmente scrivere la seconda parte ed inventare quei dialoghi un po' scellerati tra i due bambini! Dopo la rissa con Nathaniel e la prima parte nella clinica, dove la tensione è ancora alta, era necessaria una ventata di fluff! Spero tanto vi sia piaciuta e vi abbia strappato un sorriso! :)
Altro dato che ho cercato di inserire nel capitolo, è stato il rapporto controverso che Ben condivide con i suoi genitori, Leia e Han. Sono sempre stata convinta che sia stato anche questo amore/odio nei loro confronti (per adesso ancora accennato e non del tutto consapevole) a spingere Ben al Lato Oscuro. In effetti, è un punto che credo svilupperò ancora nel corso della storia!
 
A questo proposito, ne approfitto per anticiparvi che il prossimo capitolo costituirà la fine di Preludio. Ma non disperate! C’è ancora tanto da raccontare e con un bel salto in avanti, ci focalizzeremo su un’altra estate, osservando come il rapporto tra i due ragazzi crescerà negli anni e affronterà il mostro nero dell’adolescenza! xD
 
Intanto, tenete gli occhi aperti, che il porn è sempre dietro l’angolo!
A presto!
 
Violet Sparks
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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