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Autore: lipstick_    29/06/2020    1 recensioni
Renée è una dottoressa. Lo ha sempre saputo che avrebbe fatto quel lavoro. Fin da piccola, quando lei le bambole le usava come pazienti e non le faceva giocare come le sue amichette.
Renée sa di essere brava, non permette a nessuno di mettere in dubbio il suo operato.
Ed è per questo che quando incontra Andrea, un ragazzo estremamente bello come estremamente arrogante, non si perde d'animo e risponde per le rime. Non le piace vantarsi, a lei non interessa che gli altri sappiano quanto lei sia brava, ma questo bellissimo ragazzo arriva in un momento caotico e Renée non sa proprio come ma parla senza pensare. Decisamente insolito per la controllata Renée.
__ SAAALVE__ questa è la prima storia che pubblico, non sono una scrittrice e nemmeno una dottoressa, quindi chiedo perdono se alcune cose saranno approssimative.
ci tengo a precisare che personaggi, luoghi e vicende sono del tutto inventati dalla mia testolina.
spero di potervi tenere compagnia e perchè no? spero anche che possa piacervi la mia fantasia.
lipstick_
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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CAPITOLO SECONDO
 

Scendo dalla macchina alla fine del vialetto di casa dei miei genitori passando le chiavi al ragazzo dei parcheggi. Paolo, l’anziano maggiordomo mi saluta calorosamente, possiamo anche dire che per me è, nonostante tutto, quasi un parente.
“Renée, bambina da quanto tempo, come va in quel buco di matti?” - sorrido, a lui non è mai piaciuto l’ospedale in cui lavoro, secondo la sua personalissima opinione io sarei dovuta andare all’estero per far vedere chi sono davvero.
“Ciao Paolo, va come sempre” dico ridendo.
L’uomo sorride e mi apre il portone sussurrando cospiratorio “divertiti bambina”- sapendo benissimo che a questi eventi, per me da divertirsi c’è ben poco.
“Zia!” - mi riempie di gioia sentire le due splendide vocine chiamarmi, ne individuo velocemente i proprietari, seduti sugli ultimi scalini delle ampie scale.
“Ah, i miei meravigliosi mostri questa sera sono tirati a lucido, quanto siete belli” ed effettivamente lo sono davvero, e non mi riferisco solo ai loro vestiti. Il mio è un giudizio di parte, ma per me sono i bambini più belli al mondo.
“Altrimenti chi la sentiva mamma” - guardo mio fratello Guido, alzare gli occhi al cielo. Non c’è che dire, i miei nipoti hanno preso gran parte del loro aspetto da lui, oltre che dalla sua meravigliosa moglie.
Mi rivolgo direttamente a lui “quanto pensi che mi farà pesare il mio abbigliamento?”
Amo mia mamma, è una delle donne più geniali che io abbia mai conosciuto, ma geniale a modo suo. Lei crea abiti, creature le chiama lei. So che è fiera di me, lo leggo nel suo sguardo, ma non è solo mia madre, è anche la grande Veronica Bienti, lei deve giudicare, non importa chi tu sia. Quindi so per certo che questa sera – come ogni altra volta del resto – avrà da ridire sul mio umile tubino nero. Posso già sentirla: tesoro, quanto dovrò aspettare per vederti con uno dei miei abiti. E la risposta non può che essere una: è inutile aspettare, non mi sento a mio agio con i tuoi vestiti.
Non che siano brutti eh, semplicemente non fanno per me.
 
Mio fratello ride, perché lo sa anche lui quanto sia stato difficile per me dire a nostra madre voglio fare il medico, non voglio diventare una delle tue modelle.
Me la ricordo ancora la faccia che ha fatto, è impressa nella mia mente. Lei che venticinque anni fa appena ricevuta la notizia di portare in grembo una bambina, aveva già cominciato a programmare le mie sfilate, improvvisamente si è vista andare in fumo i piani minuziosamente programmati, perché io, figlia tanto desiderata, non ne volevo sapere di sfilate.
 
A lei interessa solo la scienza.
 
Decido di cambiare discorso, per evitare l’incontro e la sua relativa critica a più tardi possibile. “Papà è nel suo studio?” - mio fratello sbuffa “come sempre, lo sai che odia questa serate”. E lo so sul serio, perché qui, sono letteralmente d’accordo con mio padre.
È per questo che mi incammino velocemente verso il suo studio, busso alla porta e senza aspettare una risposta entro.
“Ciao mio piccolo genio ben arrivata” sorrido al nomignolo, piccolo genio, ha cominciato a chiamarmi così quando all’età di quattro anni, all’asilo, le maestre chiamarono lui e mia madre, complimentandosi con loro, perché sapevo già leggere perfettamente, contare e altre cose che secondo loro una bambina di quattro anni non era in grado di poter fare.
Mi considero un genio? No, no davvero. Mi è solo sempre piaciuto leggere, mi sono sempre chiesta il perché delle cose, e finché non arrivavo ad una conclusione accettabile, non mi fermavo.
Inutile dire che da quel momento, seguirono solo anni in cui saltavo le classi, perché secondo le maestre io “sminuivo e mettevo in difficoltà” gli altri bambini. Una bambina come poteva sapere tutte quelle cose? Ero strana agli occhi delle altre persone. Mi dava fastidio? No, in fin dei conti ero io ad annoiarmi, parlavo con i bambini della mia età, ma loro non capivano quello che dicevo. Erano loro a farmi sentire inadeguata, sbagliata.
 
“Ciao papo, come va la serata?” - fa una smorfia, lo so che si sta nascondendo qui dentro fino a che la moglie non lo verrà a cercare.
“Io le odio queste feste” - appunto - “non capisco perché quella pazza di tua madre mi costringa a partecipare. Quella donna è la mia vita, ma anche la mia pena”.
Rido, perché so che mio padre fa paura a molte persone per via del suo aspetto da orso, ed effettivamente non ammette mai repliche, se non a sua moglie. Quando parla lei, lui sta zitto ed annuisce, si può dire che le decisioni della famiglia le prende solo la mamma, e nessuno può fiatare.
 
Sto per rispondere ma la porta si apre di colpo “Tesoro mio!” - ecco - “ma perché ti nascondi qui da tuo padre? Non sei venuta nemmeno a salutarmi?” dice l’amorevole donna che mi ha messo al mondo, baciandomi le guance.
“Ma figurati mamma, stavo solo salutando papà, ti avrei raggiunto tra pochissimo” - bugiarda.
Lei mi sorride – sorride? - “hai un vestito meraviglioso, piccola mia”. Momento. No, non è vero, questo è il vestito più semplice che ho trovato sul fondo del mio armadio, bello, ma semplice, e di certo lei non lo definirebbe mai meraviglioso.
Lancio uno sguardo a mio padre, ha in mente qualcosa? E l’occhiata con cui mi risponde vuol dire solo lascia stare sorridi e annuisci. Ed è esattamente quello che faccio, perché non scherziamo, mia madre ha sempre qualcosa da commentare su qualsiasi outfit, anche i suoi.
 
“Sai cosa? “ - no, decisamente no - “questa sera ci saranno anche i Tospa, te li ricordi? Andavamo tutte le estati in Sardegna insieme, quelli che avevano il figlio tre anni più grande di te, lui ora è un fotografo bravissimo ed è anche bravo a cantare sai? E poi è di una meraviglia, proprio perfetto. Ma te lo ricordi?” - “Ehm, si, si mi pare” - bugiarda.
“Dai andiamo che così li saluti, vieni Davide” - mio padre sbuffa sonoramente beccandosi uno sguardo storto dalla moglie.
Nel corridoio individuo e fermo per un braccio mio fratello. - “la mamma è impazzita, o ha qualcosa in mente, mi ha detto che il mio vestito è meraviglioso, meraviglioso Guido, MERAVIGLIOSO” - mio fratello si blocca sconvolto. Perché lui lo sa, non è una cosa normale, e vuol dire solo che la donna ha qualcosa in mente.
“Tu evitala il più possibile” - dice infatti - “cerco Claudia e la avviso”, perché sua moglie sposandolo, è stata messa al corrente di tutte le stranezze della nostra famiglia e questa, lo è decisamente.
 
Ed è con uno strano senso d’ansia, che mi avvio verso la sala da ricevimento – dove è stato preparato tutto alla perfezione – guardandomi intorno in cerca della figura di mia madre per tenermi il più lontano possibile.
Appena noto i miei nipotini vicino al tavolo da buffet, mi avvicino, pronta ad usarli come scudo umano contro le pazzie della loro eccentrica nonna.
“Oh eccola, amore mio vieni, saluta Rosa e Carlo” - mi fermo, incerta nel sentire mia madre chiamarmi con il suo tono di voce - fai ciò che dico, io ti ho messo al mondo, ricordalo - mi giro per eseguire il comando come un robot.
Mi trovo davanti la coppia di amici dei miei genitori, ma più vecchia di quanto ricordassi, infondo saranno passati quindici anni dall’ultima volta che io e mio fratello abbiamo assecondato le vacanze di famiglia in Sardegna.
 
“Renée cara, come sei cresciuta, e come sei bella” - sorride dolcemente la donna.
“Rosa, da quanto tempo, grazie, tu non sei cambiata per niente” - bugiarda, ancora.
Il marito grugnisce qualcosa di non bene identificato, lanciando un’occhiata a mio padre, segno che anche lui preferirebbe essere in un altro posto in questo momento.
La donna ricomincia a parlare “comunque, ti ringrazio davvero per ospitare Andrea, lui aveva davvero bisogno di trovare una casa in fretta qui in paese e noi abbiamo venduto la nostra vecchia proprietà da tanti anni”.
Ospitare? Andrea?
È una trappola. Mi giro verso mia madre. Mi guarda colpevole, lei sa che ho capito che dietro a tutto questo c’è lei.
Mi incollo un’espressione che solo per chi non mi conosce bene può sembrare un sorriso.
“scusate devo parlare con mia madre di una cosa urgentissima, perdonatemi” - tiro mia madre per il braccio e con lei, quasi per osmosi si muove anche mio padre.
“Cosa vorrebbe dire” - le sibilo quando ci siamo allontanati tutte e tre abbastanza – alza lo sguardo fiera lei, come se non mi avesse teso una trappola senza via d’uscita.
“Rosa e Carlo sono due nostri buoni amici, avevano bisogno di un favore, Andrea, il loro figlio, è tornato in paese ieri, improvvisamente. Lui è un uomo di mondo, viaggia sempre, mi sembrava brutto fargli affittare una casa quando starebbe fuori tutto il giorno, e casa tua è così grande.”
 
“Mamma, è casa mia, non puoi offrire ospitalità in casa MIA a chiunque tu voglia e soprattutto senza chiedermelo!” respira Renée, mantieni la calma.
Mia madre mi guarda male: “prima di tutto abbassa la voce, secondo non si tratta di chiunque, ma di Andrea, lo conosci, e per finire: quella casa l’hai comprata con i nostri soldi. Me lo devi.”
Me lo devi. Perché ho voluto fare il medico e non la modella e poi stilista come lei, o l’architetto come mio padre.
 
“Io non ricordo nemmeno la faccia di questo Andrea, l’ultima volta che l’ho visto avevo 10 anni” - poi mi rivolgo a mio padre “tu lo sapevi? E non mi hai detto niente?” pugnalata alle spalle più grande di questa nemmeno nella mia immaginazione.
Mio padre apre la bocca per rispondermi ma mia madre lo interrompe, come sempre.
“Ho chiesto io a tuo padre di non dirti niente, e comunque Andrea sta sera sarà qui, così lo saluterai e vi metterete d’accordo.”
Assurdo. Davvero.
“Tutto questo è ridicolo, mamma. Scommetto che il meraviglioso vestito che indosso in realtà ti fa schifo, ma avevi bisogno di non farmi innervosire prima di sganciare la bomba. Complimenti, davvero.”
Lei sembra un po’ dispiaciuta, è pur sempre mia madre, ma si riprende subito – sia mai che la grande Veronica si senta sminuita da qualcuno o qualcosa.
“Renée, sei arrabbiata, forse ho sbagliato a non avvisarti, ma non avresti mai accettato” - INFATTI è questo il punto - “e in più sei sempre così annoiata da tutto, non esci mai, sei sempre a lavoro o a casa, non hai stimoli bambina mia.”
Quindi ora vorrebbe farmi credere di averlo fatto per me?
“Non cercare di addolcirmi Veronica” - la chiamo per nome sapendo quanto le dia fastidio essere chiamata così dai suoi figli - “ perchè non funziona. Lo hai fatto per infastidirmi, perché sai che odio quando qualcuno invade i miei spazi, perché pensi che io sia asociale, perché non ti sono mai andata bene.”
Lo vedo davvero, il lampo di rabbia passarle negli occhi.
“Renée Maria Bienti, non ti azzardare. Sei mia figlia, ti amo, qualsiasi cosa faccio, la faccio anche per te. Ti sto chiedendo un favore. Infondo ti ho sempre lasciato fare ciò che volevi. Per una volta fai quello che dico io.” - detto questo, preso un bicchiere, si gira e torna al ricevimento.
 
Ciò che volevi, il medico.
Tipico di Veronica Bienti, anche dietro ogni complimento doveva sempre mettere in chiaro che c’era qualcosa che non le andava.
 
Guardo mio padre, e lui ricambia con uno sguardo da cane bastonato, non funziona uomo, quello sguardo l’ho inventato io, sbuffo, perché la situazione è davvero ridicola oltre ogni modo.
 
“Tesoro, lo sai. Tua madre ti ama, pensi di essere una delusione per lei, ma ti sbagli, non potrebbe essere più fiera di te. Ma lei non esprime i suoi sentimenti lo sai, hai preso da lei su questo. Pensa che in trentadue anni di matrimonio mi ha detto ti amo tre volte. Ma so che mi ama comunque, anche se non lo dice. Non essere sempre così rancorosa nei suoi confronti.”
 
Classico. Adesso è colpa mia. È sempre colpa mia alla fine.
 
“Poi mi andrò a scusare, vado a cercare i gemellini.”
Perché tanto so che poi mi andrò a scusare, non si può tenere il muso a quella donna, mai.
 
Quando trovo mio fratello con i suoi figli e sua moglie mi accollo a loro, non ho intenzione di ricordare le vacanze estive con questo Andrea di cui ricordo a malapena l’aspetto - senza contare che l’ultima volta che l’ho visto avrà avuto massimo tredici anni – e con mia madre mi scuserò a fine serata. È per questo che a cena, mi siedo tra i due bambini e non rivolgo parola a nessuno, non sarei dovuta venire.
 
Finita la cena, si alzano tutti per spostarsi nella sala dell’asta per un’associazione di cui nessuno si è premurato di mettermi al corrente, mentre cammino sento la mia genitrice chiamarmi con tono incerto.
 
Va bene, madre, è arrivato il momento di scusarsi. Ancora.
Ma non è da sola, no decisamente, vicino a lei c’è il tipo arrogante di questa mattina.
Davvero? Anche questo mamma? Mi vuoi definitivamente distruggere oggi?
 
“Non ci credo” lui ride, ride? Che c’è da ridere?
“mi scusi?” sto cercando di essere cortese, Cristo, vorrei spiattellargli una padella in faccia.
 
Il tipo smette di ridere e si asciuga una lacrima immaginaria, “questa mattina quando ti sei presentata, non credevo fossi quella Renée” quella Renée? Mio Dio in questo paese sono l’unica ad avere questo nome. Quale Renée.
 
Non capisco, scusi.”
“Sono Andrea Tospa, la gentilissima Veronica mi ha detto che starò da te per un po’, gentile da parte tua offrirmi ospitalità.” ghigna.
 
Andrea. Lui? Non scherziamo, l’Andrea che conosco io era un tredicenne tutto apparecchio, brufoli e videogame. Basso, pure bello in carne. Come si può cambiare così tanto? Come ho fatto a non collegare il nome del parente sulla cartella questa mattina?
 
Guardo mia mamma, e lei mi implora di non fare stronzate con lo sguardo.
 
Decisamente, non mi piacevano quei ricevimenti.
 
 

 

  
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