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Autore: Parmandil    29/06/2020    1 recensioni
Accertato che la Terra è il loro pianeta d’origine, i Voth – discendenti degli Hadrosauri – ne reclamano la proprietà. Gli Umani devono sloggiare o subiranno il trasferimento forzato. Piuttosto che affrontare una delle specie più potenti della Galassia, l’Unione cede all’ultimatum. Svenduta la Terra ai Voth, non resta che schiacciare gli ultimi difensori. I superstiti della Flotta Stellare devono scegliere: schierarsi col nuovo regime o fuggire col marchio di terroristi. La lunga notte della Guerra Civile è cominciata.
Senza più ordini, né rifugi, né certezze, gli ufficiali della Keter sono abbandonati a se stessi. Braccati dai loro ex colleghi. Divisi da lealtà inconciliabili e dal tradimento che non risparmia amici né parenti. Dai labirinti informatici del planetoide Memory Alpha ai laboratori degli orrori di Elba II, ogni tappa è una discesa agli Inferi. Con spietata efficienza tecnologica, il nuovo regime sta cancellando ogni memoria storica del passato, per creare una nuova società, “libera da tutto ciò che è Umano”. E allora non resta che combattere i mostri creando un nuovo mostro, la Banshee. Perché l’Unione ha scelto il disonore anziché la guerra, e ora li ha entrambi.
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Chakotay, Dottore, Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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-Capitolo 1: Ultimatum alla Terra

Data Stellare 2590.303

Luogo: Terra (Sol III)

 

   Seduto comodamente sulla sua poltrona di comando, l’Ammiraglio Hadron si palleggiava da una mano all’altra il modellino della Terra, vecchio di oltre due secoli e ormai consunto. Era lo stesso globo che Chakotay aveva donato a Forra Gegen e che questi aveva lasciato in eredità a Frola. Quel modellino, assieme a una serie di coordinate, aveva guidato i Voth fino alla loro patria ancestrale. L’Ammiraglio alzò gli occhi allo schermo, su cui brillava la Terra. La contesa fra i difensori della Dottrina e i riformisti poteva dirsi conclusa con la vittoria di questi ultimi. Ma il ritrovamento del Mondo Perduto aveva scatenato un altro conflitto drammatico, che non si sarebbe risolto nei laboratori di paleontologia e nelle aule dei tribunali. Perché dal momento in cui i Voth avevano accettato di provenire dalla Terra, la consideravano parte inalienabile del loro retaggio. La Terra era una proprietà che andava riconquistata, a costo di sloggiare gli attuali abitanti: gli Umani e le altre specie federali.

   Da nove giorni la flotta di Hadron assediava il pianeta, impedendo a chiunque di entrare o uscire e bloccando anche le comunicazioni con il resto dell’Unione Galattica. La Terra però era tutt’altro che indifesa. Essendo stata la capitale della Federazione per quattrocento anni, e dell’Unione negli ultimi trentaquattro, e avendo già subito molti attacchi, aveva difese imponenti. L’intero globo era avvolto dalla bolla perlacea dello Scudo Planetario; sopra di esso orbitavano centinaia di piattaforme difensive. Di conseguenza le astronavi Voth – cento in tutto – si erano disposte appena oltre il raggio di tiro. Erano vascelli chilometrici, dagli scafi curvilinei, eleganti e aggressivi al tempo stesso. Di color grigio argento, con dettagli azzurri e verdi, erano punteggiati dalle luci degli alloggi, che li facevano somigliare a città nello spazio. Tra tutti spiccava la Nave Fortezza: lunga 134,5 km, era il più grande vascello entrato nel sistema solare dai tempi di V’Ger.

   Quando i sensori Voth captarono l’astronave federale in avvicinamento, la Nave Fortezza uscì dalla formazione e andò a intercettarla. Le si fermò davanti, racchiudendola nel suo cono d’ombra. «Ah, la Keter» riconobbe Hadron. «Mi chiedevo dove fosse finita». La Keter era la prima nave federale che avevano incontrato nel Quadrante Alfa. L’avevano salvata da un assalto di predoni Vaadwaur e in cambio erano stati accompagnati fino alla Terra. Stavolta, però, tutto faceva presagire che l’incontro non sarebbe stato amichevole. «Aprire un canale» ordinò l’Ammiraglio, sempre giocherellando con il modellino.

   Sullo schermo apparve un’ampia veduta della plancia federale. Hadron riconobbe il Capitano Hod, il Comandante Radek, l’Ufficiale Tattico Norrin e il Medico Capo Ladya Mol. C’erano anche il timoniere Vrel Shil e l’addetta ai sensori Zafreen. L’Ammiraglio aveva un buon ricordo di loro, tanto che si addolorò al pensiero che forse avrebbe dovuto distruggerli. «Bentornati» li accolse in tono cortese. «Siete stati via a lungo. Cominciavo a temere che vi fosse capitato un incidente».

   «Siamo di ritorno da una missione nel Quadrante Delta» spiegò il Capitano Hod, fissandolo adombrata. «Abbiamo incontrato qualche avversità, ma tutto si è risolto. Ora però devo chiederle che significa questo dispiegamento di forze attorno alla Terra».

   «Ah, sì» disse Hadron, vagamente imbarazzato. «Capisco che siate allarmati, ma vi prego di non equivocare. Non abbiamo intenzioni ostili nei vostri confronti. Anzi, vi siamo grati per l’accoglienza che ci avete dato» chiarì.

   «Questa è... una splendida notizia» disse Hod, per nulla rassicurata. «Posso sapere allora perché avete circondato la nostra capitale?».

   «Certamente» rispose l’Ammiraglio. «Come ricorderete, siamo venuti qui per verificare la teoria dell’Origine Lontana. In questi mesi abbiamo esaminato il DNA di migliaia di specie terrestri, confrontandolo col nostro. Le somiglianze genetiche sono inequivocabili: gli stessi marcatori ricorrono in tutte le specie di rettili, uccelli e mammiferi. Alla luce di queste prove, la teoria del professor Gegen è dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio. La Terra è davvero il nostro pianeta d’origine. Evidentemente ne perdemmo il ricordo, dopo la migrazione che ci portò nel Quadrante Delta; ma ora la verità storica è stata ristabilita. Abbiamo trasmesso i risultati della ricerca al nostro governo, che li ha resi accessibili alla popolazione. I circoli scientifici li hanno esaminati, confermando le nostre valutazioni».

   «È tutto molto interessante» disse Hod, tesa come una corda di violino. «Ma quindi...?».

   «Quindi esigiamo che la nostra patria ancestrale ci sia restituita» rispose il Voth con naturalezza. «Abbiamo chiesto al vostro governo di consegnarcela entro dieci giorni. Ne sono già passati nove; restano ventiquattro ore esatte».

   «Consegnarvela?!» sobbalzò il Capitano. «Altrimenti?».

   «Altrimenti la prenderemo con la forza» rispose Hadron in tono dolente. «Spero proprio che non si giunga a questo».

   Dato che Hod era rimasta inebetita, fu Radek a prendere la parola. «Supponendo che v’impadroniate del pianeta... che progetti avete nei confronti della popolazione? Perché vi ricordo che la Terra è abitata. Ci vivono cinque miliardi di Umani e quasi altrettanti alieni».

   «Ovviamente dovremo trasferirli» spiegò Hadron in tono pratico. «Per questo ho portato la mia Nave Fortezza in appoggio al resto della flotta. Trasferiremo gli abitanti sugli altri mondi federali, così da far spazio per i nostri coloni».

   «Vuole deportare i Terrestri?!» inorridì Vrel.

   «Suvvia, moderi i termini!» lo richiamò Hadron. «“Deportare” è un termine che suggerisce una finalità distruttiva. Noi non vogliamo far del male ai Terrestri, infatti c’impegneremo a tenere unite le famiglie e a costruire per loro nuovi alloggi. Trasferiremo anche il patrimonio culturale, almeno tutti quegli oggetti che possono essere spostati. Per quanto riguarda i monumenti, cercheremo di conservarli in loco, compatibilmente con le nostre esigenze d’insediamento. Così, se vorrete, potrete ancora fargli visita. Non vi sembra un compromesso accettabile?».

   Siccome gli ufficiali erano sotto shock, si fece avanti Ladya. «Che cosa pensa di tutto questo Frola Gegen?» chiese. «Lei voleva sì dimostrare la teoria di suo padre, ma non per scatenare conflitti interstellari! Voleva solo far trionfare la verità scientifica, anche perché rinunciando alla Dottrina la vostra società ne avrebbe beneficiato in termini di tolleranza» spiegò la dottoressa.

   «La signora Gegen è stata molto lieta di veder confermata la teoria paterna» disse il Voth. «Ora però il suo ruolo in questa faccenda si è concluso. È una questione politica e pertanto io seguo le direttive del mio governo. Direttive che, vi avverto, sono tassative. Ho l’ordine di reclamare il pianeta Terra: possibilmente in modo pacifico, altrimenti con i mezzi più opportuni».

   «Voglio parlare con il Comando di Flotta» disse Hod, pallida come un cencio.

   «Spiacente, ma non è possibile» ribatté Hadron con decisione. «Finché il vostro governo non ci risponderà, sono vietati sia gli spostamenti che le comunicazioni. Per questo stiamo emettendo segnali di disturbo che impediscono le trasmissioni radio e subspaziali».

   «Se crede che l’Unione sia disposta a cedere così facilmente la Terra, si sbaglia» avvertì Norrin. «Nessuna civiltà della Galassia consegnerebbe la propria capitale a gente che conosce appena».

   L’Ammiraglio Hadron sospirò e spostò lo sguardo da un ufficiale all’altro, mentre cercava il modo migliore di spiegarsi. «Sentite, sono molto spiacente per questa situazione, ma non dipende da me. Se anche togliessi il blocco dalla Terra, il mio governo mi rimuoverebbe dall’incarico e mi sostituirebbe con qualcun altro, che farebbe il lavoro in modo più spiccio» chiarì. «Come ho detto, vi sono grato per l’accoglienza e la collaborazione. Mi state simpatici e non vorrei mai distruggervi. Ma sarò costretto a farlo, se sarete così scriteriati da attaccarci. Perciò vi consiglio caldamente di non fare mosse avventate e di ritirarvi ad almeno un parsec da qui. Aspettiamo che il vostro governo ci dia una risposta, dopo di che agiremo di conseguenza. Fra 24 ore al massimo, signori, sapremo il destino della Terra. Ora andate, vi prego, o dovrò distruggervi».

   Cadde un silenzio di piombo, che si protrasse a lungo. L’Ammiraglio stava per riprendere la parola, quando il Capitano Hod si fece avanti. Fissò Hadron con sguardo bieco: il timore e lo smarrimento si erano già trasformati in una collera gelida. «Voi Voth siete abituati ad averla sempre vinta, ma stavolta avete messo gli artigli su una bomba che vi scoppierà in faccia. Attenti a voi!» avvertì.

   Prima che l’Ammiraglio potesse replicare, i federali troncarono la comunicazione. La Keter riapparve sullo schermo, più minacciosa che mai, con lo scafo in neutronio privo di finestre ma costellato d’armi. Si girò rapidamente, come un’orca assassina che guizza nell’acqua, e partì a cavitazione. Hadron intuì che non si sarebbe allontanata di molto. E allo scadere dell’ultimatum sarebbe tornata con i rinforzi.

   «Bene, siamo pronti a riceverli» si disse l’Ammiraglio. Non temeva i federali, certo com’era della propria superiorità tecnologica. Però gli dispiaceva vedere degli amici che si trasformavano così rapidamente e irrimediabilmente in avversari. «Riprendiamo posto nello schieramento» ordinò.

   Mentre la Nave Fortezza manovrava, l’Ammiraglio si riadagiò contro lo schienale della poltroncina. Riprese a palleggiare il modellino della Terra, ma da lì a un minuto fu interrotto da una visita. Frola Gegen irruppe in plancia, seguita da un paio di guardie che cercavano di trattenerla e balbettavano scuse all’Ammiraglio.

   «Dov’è la Keter?!» chiese l’anziana Voth, con le scaglie imporporate dalla rabbia.

   «Se n’è andata» rispose Hadron, seccato dall’intrusione.

   «Voglio parlare col Capitano Hod. La richiami! O mi dia una navicella, così potrò seguirla!» pretese Frola.

   «Non se ne parla» rispose seccamente l’Ammiraglio. «Lei resterà qui, al sicuro. I federali non sono più nostri amici. Se andrà da loro, la sequestreranno per ricattarci».

   «Non saremmo mai arrivati a questo punto, se non fosse per la vostra smodata avidità!» proruppe la Voth. «Assediare la Terra è una pazzia. I nostri avi l’abbandonarono milioni di anni fa; non possiamo pretendere che gli Umani ce la restituiscano!».

   «I nostri avvocati dicono il contrario» le ricordò Hadron. «L’Assemblea degli Anziani ha approvato questo intervento all’unanimità. La Terra deve tornare in mano nostra; altrimenti saremmo solo una banda di esuli, senza un retaggio da rivendicare».

   «E gli Umani, non hanno anche loro un retaggio sulla Terra?!» obiettò Frola.

   «Gli Umani sono venuti dopo. Sono i figli minori, secondogeniti del pianeta Terra. È giusto che se ne vadano, mentre noi – i primogeniti – amministriamo la nostra eredità» rispose con calma l’Ammiraglio.

   «Follia! Pura follia!» insisté l’anziana. «Il lavoro della mia vita, della vita di mio padre, non serviva semplicemente a dimostrare che ci siamo evoluti in un luogo piuttosto che in un altro. Doveva insegnarvi l’umiltà! Doveva insegnarvi a trattare le altre specie con rispetto! Ah, mio padre si rivolterebbe nella tomba, se sapesse che sfruttate le sue ricerche per giustificare un’invasione militare!».

   «Ora basta, sta esagerando!» disse Hadron, scattando in piedi. «Non sono stato io a prendere quest’iniziativa: è l’Assemblea che mi ha incaricato. Se non è d’accordo, vada dagli Anziani e protesti con loro. Intanto ci lasci lavorare. Quanto a voi...» disse, scrutando le guardie, «non fate più entrare la signora Gegen senza il mio permesso. Anzi, finché la Terra non sarà nostra, voglio che la confiniate nel suo alloggio. In seguito potrà andare dove vorrà. Ma io le consiglio vivamente di tornare a casa e non far più parlare di sé» disse, fissandola minaccioso.

   «Altrimenti?!» lo irrise Frola. «Non potete ricattarmi come avete fatto con mio padre. Non ho figli, io. I miei parenti sono morti, come anche il mio caro Tova. Sono sola al mondo, quindi potete accanirvi solo contro le mie vecchie scaglie e le mie vecchie ossa» disse, allargando le braccia.

   «Mi dispiace che la vita sia stata così dura con lei» disse l’Ammiraglio, addolcendosi un po’. «Ma vede, questa situazione non dipende da me. Capisco che si preoccupi per gli Umani e in certa misura condivido le sue preoccupazioni. Le prometto che farò di tutto perché la restituzione della Terra avvenga nel modo meno cruento. Di certo le mie navi non spareranno per prime. Ma se i federali ci attaccheranno, allora dovremo rispondere al fuoco».

   «Questo ci porterà a una guerra senza quartiere contro l’Unione» avvertì Frola.

   «Vinceremo facilmente. L’Unione non è alla nostra altezza» rispose Hadron, con la massima tranquillità.

   «Ne è certo? L’Unione comprende trecento specie, ciascuna con i suoi talenti e le sue risorse» insisté la Voth. «Ed è abituata a difendersi. Noi invece siamo in pace da così tanto che abbiamo dimenticato le asprezze della guerra. Sareste pronti a sacrificarvi?».

   «Confido che non sarà necessario» disse l’Ammiraglio, vagamente innervosito. «C’è ancora la possibilità di un accordo coi federali. Potremmo entrare pacificamente in possesso della Terra».

   «Lei cederebbe la nostra capitale a una potenza aliena?» chiese Frola. «Certo che no. Forse conquisteremo la Terra... ma sarà solo l’inizio di una guerra lunga e terribile. Una guerra dovuta al nostro orgoglio e alla nostra cupidigia!» avvertì la studiosa.

   Per qualche secondo regnò il silenzio. Hadron si accorse che la vecchia scienziata aveva attirato l’attenzione degli ufficiali. Molti la guardavano con scetticismo, come a una persona non più lucida, ma altri sembravano spaventati dalle sue fosche previsioni. Capì che doveva farla sloggiare, prima di avere problemi con l’equipaggio. «Accompagnate la signora Gegen al suo alloggio» ordinò alle guardie.

   «Conosco la strada» rispose Frola con dignità. Scostò le guardie che l’attorniavano e si avvicinò all’Ammiraglio. Con uno scatto rapido gli sottrasse il globo terrestre dalle mani. «Questo appartiene a me» rivendicò. «E quella appartiene agli Umani!» aggiunse, indicando la vera Terra che campeggiava sullo schermo. Solo allora lasciò la plancia, scortata dalle guardie.

   «Ancora per poco» mormorò Hadron, risedendosi sulla sua poltrona. L’ultimatum scadeva tra ventiquattro ore, un lasso di tempo che sarebbe passato alla Storia come “il giorno più lungo dell’Unione”.

 

   Lasciato il sistema solare, la Keter s’inoltrò nello spazio aperto. Tutto l’equipaggio era in subbuglio per l’amara sorpresa. I federali, che dopo otto difficili mesi nel Quadrante Delta sognavano una licenza, si trovavano catapultati in un incubo. «Voglio una ricerca coi sensori a lungo raggio» ordinò il Capitano, camminando rabbiosamente avanti e indietro. «Dobbiamo riunirci subito al resto della Flotta, per elaborare un contrattacco».

   «Ho un riscontro» disse Zafreen. «C’è un segnale di adunata generale a Proxima Centauri. Rilevo 450 navi già lì e altre in avvicinamento».

   «La prima buona notizia!» commentò Hod, smettendo di aggirarsi. «Rotta per Proxima Centauri, massima velocità».

   «Inviamo il nostro codice di riconoscimento» aggiunse Radek. «La Flotta non sa che siamo tornati, e poi ci sarà una gran confusione laggiù».

   «Spero che siano pronti a espellere i Voth a calci!» ringhiò Vrel, inserendo le coordinate sul computer di navigazione.

   La Keter balzò nel tunnel quantico, raggiungendo la destinazione in due minuti, data la sua prossimità al sistema solare. All’arrivo trovò la Flotta Stellare schierata intorno al pianeta Proxima b, sede di una colonia federale. La luce fioca della nana rossa imporporava gli scafi delle astronavi, come un sinistro presagio di guerra.

   «Bene» disse Hod, un po’ rassicurata nel vedere la potenza della Flotta Stellare. «Ora vediamo chi comanda, in mancanza d’istruzioni dalla Terra. Zafreen, cerchi l’Enterprise».

   «Eccola» disse l’Orioniana, inquadrandola sullo schermo. La nave ammiraglia, vecchia di quarant’anni ma ancora tra le più potenti della Flotta, orbitava sopra la colonia. Era l’undicesima nave della Flotta a portare il glorioso nome Enterprise; la dodicesima contando anche quella di Archer. Apparteneva alla rinomata classe Universe: la sua immensa sezione a disco ospitava migliaia di civili, rendendola un’autentica città nello spazio. Le sue imprese erano leggendarie: era la nave che aveva combattuto la Guerra delle Anomalie dalla prima all’ultima battaglia, che aveva sconfitto la Scourge ad Andromeda e che negli ultimi anni aveva pattugliato il tormentato confine coi Breen. Inizialmente sotto il comando di Alexander Chase, era passata a Ilia Dax, poi a T’Vala Shil e infine al romulano Talmath.

   Attorno all’Enterprise si erano radunati i nuovi incrociatori di classe Juggernaut, voluti dai Klingon per dotare la Flotta unificata di astronavi da guerra. Erano massicci quasi quanto l’ammiraglia, ma non trasportavano civili. Di forma squadrata, avevano grandi hangar pronti a rilasciare nugoli di caccia stellari. C’erano anche i vascelli di classe Horus, dalle linee aggressive che ricordavano gli sparvieri Klingon e Romulani. E c’erano navi più tradizionali come le classi Altair, Mjölnir, Theseus, Paladin, Sagittarius e Celestial. Nel complesso era un’armata imponente, la più grande che si fosse raccolta dai tempi di Procyon V. Vedendola, Hod si sentì rincuorata; ma non dimenticò la potenza dei Voth.

   «Aprire un canale con l’Enterprise» ordinò l’Elaysiana, sperando ardentemente che l’Ammiraglio Chase fosse al comando. Ma davanti a lei apparve il Capitano Talmath. Per quanto Hod lo rispettasse, non poté reprimere un piccolo moto di delusione.

   «Keter, che sorpresa!» li accolse il Romulano. «Non sapevamo che foste tornati. È un bene che siate qui... questa è l’ora più buia dell’Unione e ci serve ogni rinforzo».

   «Conosciamo la situazione; veniamo adesso dal sistema solare» annuì Hod. «L’Ammiraglio Hadron ci ha detto che l’ultimatum scadrà tra ventiquattro ore. È vero?».

   «Sì, purtroppo» confermò Talmath. «I Voth hanno trasmesso la loro richiesta su tutte le frequenze subspaziali e ora aspettano una risposta dal Senato. Se non avranno la Terra, se la prenderanno con la forza. Quindi sto radunando tutte le navi disponibili. Venga sull’Enterprise, così ne discuteremo con gli altri Capitani».

   «Arrivo» promise Hod. «Porterò anche il dottor Joe, che conosce i Voth dai tempi della Voyager. Ma intanto mi dica una cosa: chi è il Presidente dell’Unione, adesso? Siamo stati via così a lungo da perderci le elezioni».

   «Rangda è stata confermata per il secondo mandato» rispose cupamente Talmath. «Ha ancora la maggioranza assoluta al Senato».

   Hod incassò la batosta. Erano cinque anni che la Presidente smantellava la Flotta Stellare, accentrando su di sé tutti i poteri. Aveva abolito la Prima Direttiva, gettando l’Unione nel caos e inducendo un terzo dei sistemi a chiedere la secessione. E aveva cercato più volte di eliminare fisicamente la Keter, anche se non erano mai riusciti a incastrarla. Sapere che era lei a gestire la crisi fu uno schiaffo per il Capitano. «Capisco» borbottò.

   Talmath stava per chiudere il canale, ma si fermò a metà del gesto. «Non le ho chiesto com’è andata la missione nel Quadrante Delta» notò.

   Hod sbatté gli occhi, frastornata. Avevano passato otto mesi laggiù, ma erano bastati pochi minuti nel Quadrante Alfa per farglielo passare di mente. «Abbastanza bene» disse. «Abbiamo sconfitto i Vaadwaur, curato un’epidemia e stretto un’alleanza coi Krenim. Abbiamo anche incontrato i Borg che, detto fra noi, non hanno perso il vizio dell’assimilazione. Pensavo che ne avrei discusso col Comando di Flotta, ma nelle attuali circostanze...».

   «Già, è tutto rinviato» convenne il Romulano. «Spero che sarete altrettanto bravi anche qui, perché ne abbiamo bisogno. Enterprise, chiudo».

 

   La Keter entrò nell’orbita di Proxima b, affiancando l’Enterprise. Affidata la nave a Radek, Hod si teletrasportò sull’ammiraglia. Come annunciato portò con sé il dottor Joe: il vecchio Medico Olografico della Voyager si era distinto nel Quadrante Delta e la sua conoscenza dei Voth poteva ancora essere preziosa.

   «Benvenuti» li accolse Majel, l’Intelligenza Artificiale di bordo, subentrata a Terry dopo la battaglia contro il Melange. Aveva l’aspetto di un’Umana, dai capelli neri un po’ ricci. «Il Capitano Talmath e gli altri vi stanno aspettando. Siccome in sala tattica non c’è posto per tutti, andremo nell’aula conferenze. Vi faccio strada» si premurò.

   «Grazie» disse Hod, seguendola fuori dalla sala teletrasporto. Non era più abituata a interagire con le IA delle astronavi, dato che la Keter ne era sprovvista. Aveva molte domande che le ronzavano per la testa, ma pensò che era meglio farle ai colleghi, perciò si trattenne.

   L’aula conferenze era un salone molto vasto, come se ne trovavano sulle navi di classe Universe. Capitani e altri ufficiali lo gremivano, chiacchierando fittamente mentre aspettavano di essere al completo. Hod cercò Chase con lo sguardo, ma restò nuovamente delusa.

   «Ah, eccola» l’accolse Talmath, interrompendosi dalla conversazione con un collega. «Prego, si accomodi».

   «Grazie, ma prima vorrei sapere se avete notizie dell’Ammiraglio Chase» disse l’Elaysiana, aggrappandosi all’ultimo filo di speranza.

   «Era sulla Terra quando i Voth hanno posto l’assedio» rispose il Romulano, recidendo quel filo. «Non abbiamo potuto contattarlo, dato il black-out delle trasmissioni. Ma non dubito che ci direbbe di proteggere ad ogni costo la Terra».

   «Ricordo che l’Ammiraglio era inquieto, quando arrivarono i Voth» disse Hod. «Forse temeva questa mossa da parte loro».

   «La temeva eccome; infatti aveva già messo la Flotta in preallarme» confermò Talmath. «Questo ci ha permesso di mobilitarci in fretta. Ma con tutti i tagli che Rangda ha fatto in questi anni, gran parte delle navi è stata ritirata dal servizio o ceduta ad altre organizzazioni. Anche quando possiamo recuperarle, ci mancano gli equipaggi. Dovremo affidare tutto alle Intelligenze Artificiali».

   Hod si rabbuiò. Negli ultimi anni lei e il suo equipaggio si erano scontrati più volte con IA ostili. Certo, erano sempre state di origine aliena. Ma il Capitano sapeva che anche quelle della Flotta stavano dando problemi, perché spesso disobbedivano ai Capitani in nome di un’interpretazione leguleia dei regolamenti. O addirittura in nome delle loro emozioni, come Terry, che quattro anni prima aveva lasciato l’Enterprise. Tutto considerato, Hod era lieta che la sua nave fosse priva di IA: non le sarebbe piaciuto giustificarsi con un computer per ogni ordine che dava.

   «Non gradisce l’idea?» chiese il collega di Talmath, facendosi avanti. Era un Axanar, dalla pelle grigia e glabra e i denti un poco appuntiti. Hod lo riconobbe come Gulnar, il Capitano dell’USS Juggernaut. Si trattava di uno dei Capitani di maggior esperienza e prestigio della Flotta, una vera leggenda vivente. Si era distinto nella Guerra delle Anomalie e più di recente sul confine Breen, dove era arrivato vicino a catturare il famigerato pirata detto lo Spettro. La Flotta gli aveva offerto più volte il grado di Ammiraglio, ma Gulnar aveva sempre rifiutato, dicendosi soddisfatto del suo incarico. Del resto, poteva permettersi di aspettare: con un’aspettativa di vita di oltre quattro secoli, la sua specie era tra le più longeve dell’Unione.

   «Io, uhm... non ho problemi con le IA» disse l’Elaysiana, non volendo offendere Majel né il dottor Joe. «Ma l’assenza degli equipaggi è una grossa tara. Stiamo pagando il prezzo degli scellerati tagli al bilancio di Rangda».

   «Può ben dirlo» sospirò l’Axanar. «Sono Capitano da un pezzo e ricordo quando la Flotta Stellare era tutt’altra cosa. Ma è inutile rimpiangere il passato; pensiamo a salvare il presente. A proposito, non ci siamo presentati. Io sono Gulnar, della Juggernaut. Conosco le sue imprese; sono lieto che sia con noi in quest’ora difficile» disse, porgendole la mano.

   «L’onore è mio... anch’io ho sentito parlare di lei» disse Hod, affrettandosi a stringerla. Era lusingata dal fatto che il suo eroe d’infanzia la conoscesse e la stimasse. Dato che i Capitani stavano prendendo posto, gli sedette accanto.

   «Bene, signori, possiamo cominciare» disse Talmath, salendo sul podio. «Come sapete, questa è la più grave crisi interstellare degli ultimi trent’anni. I Voth, una delle specie più potenti della Galassia, reclamano la Terra. Questo sarebbe grave per qualunque pianeta abitato, ma la Terra è anche la nostra capitale. Ospita i nostri leader politici e il Comando di Flotta, con gli archivi segreti. Se i Voth se ne impossessassero, saprebbero tutto di noi: anche l’entità delle forze armate e la posizione delle basi. Insomma, avrebbero le informazioni necessarie a sottomettere il resto dell’Unione».

   «Che sia questo il loro vero scopo?» ipotizzò Gulnar.

   «No, non credo» disse il dottor Joe. «Questo dibattito sulle origini infuria nella loro società da oltre due secoli. Essendo così antichi, i Voth sono molto orgogliosi e gelosi di ciò che possiedono. Non cederebbero mai la loro tecnologia, o un loro pianeta, a un’altra specie. Ma la scoperta di essere nativi della Terra li imbarazza e li destabilizza nel profondo. Si sentono derubati della patria, anche se in effetti non sappiamo come e quando lasciarono la Terra. Hanno bisogno di riconquistarla per lenire il loro ego, per convincersi d’essere ancora superiori. Ecco perché non si arrenderanno mai».

   «Sembra che lei li conosca e li comprenda bene» notò Talmath, e in effetti le parole del Medico Olografico avevano attirato l’attenzione di tutti. «Come pensa che reagiranno, quando il Senato opporrà l’inevitabile rifiuto?».

   «Io temo che andranno su tutte le furie» rispose Joe, pessimista.

   «Eppure l’Ammiraglio Hadron sembra un tipo responsabile, tutt’altro che impulsivo» notò Gulnar.

   «Hadron obbedisce agli ordini del suo governo, che sono tassativi... me l’ha detto lui stesso» intervenne Hod. «Non è un esaltato né un violento, anzi credo che gli dispiaccia trovarsi in questa situazione. Ma ha un atteggiamento paternalistico che non promette nulla di buono. Credo ci consideri come animaletti che abbaieranno un po’ e alla fine si calmeranno. Allo scadere dell’ultimatum, attaccherà la Terra».

   «Vi ringrazio per la vostra testimonianza» disse Talmath ai due della Keter.  «Questo ci porta alle considerazioni tattiche. Non occorre che vi riassuma lo stato della Flotta Stellare, dopo le riforme di Rangda. Vi basti riflettere su un dato. Cinque anni fa, la Flotta comprendeva 3.200 navi stellari in servizio attivo. Oggi sono appena 800 e non tutte in buone condizioni. Molte non dispongono del propulsore cronografico, o del pilota abilitato a usarlo, e quindi non ci raggiungeranno in tempo.

   Di conseguenza abbiamo pensato di ricorrere alle navi che erano state poste in disarmo. Trattandosi di tre quarti della Flotta, è una vasta risorsa a cui attingere. Ma anche questo si è rivelato difficile. Gran parte di queste navi sono mezze smontate nei cantieri spaziali e non possono ripartire in tempo utile. Le rimanenti sono state cedute ad altri uffici e a organizzazioni non governative. Abbiamo chiesto che ce le restituissero, ma i tempi della burocrazia sono proibitivi. E devo dire che da parte di queste organizzazioni non c’è stata la collaborazione che speravamo. Quasi tutte si sono rifiutate di renderci i vascelli. C’è chi non vuole nemmeno dirci dove si trovano e chi li ha sabotati, pur di non farceli riavere».

   Il Capitano Hod conficcò le unghie nel bracciolo della seggiola. «A questo siamo giunti!» si disse. Se non si fosse trattato della Terra e degli Umani, ci sarebbero stati così tanti ostacoli? Il Capitano cominciava a credere di no. Le tornarono in mente tanti discorsi fatti da Juri Smirnov, il loro consulente storico, prima che fosse arrestato per infrazione temporale. Aveva sempre pensato che l’Umano esagerasse, nel lamentare l’ostilità contro la sua specie. Ma i fatti gli stavano dando ragione in un modo agghiacciante. «Di quante navi disponiamo, in definitiva?» chiese.

   «Difficile a dirsi; continuano ad arrivare alla spicciolata» rispose Talmath. «Al momento sono 450. Allo scadere dell’ultimatum potrebbero essere sulle 480, magari anche 500».

   Hod chiuse gli occhi e si massaggiò la fronte. Cinquecento navi potevano sembrare molte, ma erano briciole in confronto a ciò che la Flotta poteva schierare prima di Rangda, cioè appena cinque anni addietro. Certo, erano più numerose delle navi Voth. Ma considerando la superiorità tecnologica dei sauri, rischiavano di essere insufficienti. Anche perché i Voth potevano sempre chiedere rinforzi. Chi sapeva quanto fossero forti, nel Quadrante Delta? Si erano sempre rifiutati di fornire informazioni sulle loro risorse militari.

   «Come accennavo al Capitano Hod, molte delle navi sono gravemente sotto organico» proseguì il Romulano. «Perciò dovremo affidarci alle Intelligenze Artificiali di bordo. Stiamo prendendo tutte le precauzioni per evitare che i Voth ne assumano il controllo. Ogni nave disporrà d’ingegneri che monitoreranno le loro funzioni e le disattiveranno, se notassero qualche anomalia».

   Tra i Capitani serpeggiò un certo nervosismo, ma nessuno prese la parola. Questa era la situazione; bisognava rassegnarsi e usare al meglio le poche risorse che restavano.

   «Alla luce di questi fatti, vi starete chiedendo qual è il piano» disse Talmath. «Per come la vedo io, ci sono due possibili scenari. Il primo e più auspicabile è che l’Unione e i Voth trovino qualche genere d’intesa che eviti il ricorso alla violenza. È improbabile che i Voth rinuncino del tutto alle loro pretese, ma potrebbero avere il permesso di visitare privatamente la Terra e magari di colonizzare le aree disabitate del pianeta. Questo creerebbe ugualmente un grosso problema di sicurezza, dato che i Voth non appartengono all’Unione, ma potremmo affrontare le complicazioni man mano che si pongono.

   L’altro, peggiore scenario è quello in cui i Voth cercheranno d’impadronirsi a forza della Terra. In questo caso, nessuno può prevedere con certezza cosa accadrà, dato che ignoriamo la portata della loro tecnologia. L’unico esempio su cui basarci è ciò che accadde durante il confronto con la Voyager. Vuole parlarcene, dottore?».

   Chiamato in causa, il dottor Joe socchiuse gli occhi, ricordando quei drammatici momenti. «Accadde tutto in un attimo» disse. «La Voyager fu teletrasportata tutta intera dentro la loro Nave Città. L’energia fu disattivata con un campo di smorzamento e l’equipaggio fu soverchiato da centinaia di soldati. Il signor Paris cercò di riattivare le armi, ma inutilmente. Alla fine ci salvammo solo perché il professor Gegen accettò di abiurare, in cambio del nostro rilascio».

   «Sfortunatamente non abbiamo più alleati fra i Voth» commentò Talmath.

   «Beh, ci sarebbe Frola» notò il Medico Olografico.

   «La figlia di Forra?» chiese il Romulano. «Da quanto ho capito, è un’anziana signora che è stata usata come simbolo della ricerca della Terra, ma non ha peso politico».

   «In effetti è così» ammise Joe. «Ma se riuscissimo a contattarla, chissà... potrebbe influenzare l’opinione pubblica Voth».

   «Per quanto la signora Gegen sia popolare tra la sua gente, non credo che possa far richiamare l’armata da qui a 23 ore. In questo confronto possiamo contare solo sulle nostre forze» disse Talmath. «I Voth cercheranno di distruggere le piattaforme difensive e di abbattere lo Scudo Planetario, per poi teletrasportare i Terrestri. Non credo che sbarcheranno subito i loro coloni. I primi a scendere saranno i soldati, che attaccheranno le strutture chiave dell’Unione e della Flotta. Questo apre scenari inquietanti, perché potrebbero sequestrare la Presidente e i ministri, oltre che il nostro Stato Maggiore».

   Hod si concesse un sorriso agrodolce. Se i Voth avessero sequestrato Rangda non se ne sarebbe certo dispiaciuta, anzi! Per quanto la riguardava, potevano portarsela nel Quadrante Delta, sempre che riuscissero a sopportarla. Ma se avessero sequestrato i ministri e i senatori, nonché gli ambasciatori dei popoli dell’Unione, allora sì che sarebbe stato grave. E se avessero rapito l’Ammiraglio Chase e gli altri capi della Flotta... non voleva nemmeno pensarci.

   «In tal caso dovremo disabilitare le astronavi Voth» proseguì Talmath. «Considerate che avremo un vantaggio tattico, perché schiacceremo il nemico contro lo Scudo Planetario. I Voth saranno presi nel fuoco incrociato tra le piattaforme orbitali e la nostra flotta. Per quanto le loro navi siano potenti, arriverà il momento in cui gli scudi cederanno. A quel punto, tutto dipenderà dalla loro ostinazione. Se gli infliggiamo abbastanza danni, i Voth potrebbero convincersi di star pagando un prezzo troppo alto, e ritirarsi».

   «Oppure si vendicheranno!» notò un altro Capitano. «Se non su di noi, potrebbero vendicarsi sulla Terra».

   «Anche se s’infuriassero, non credo che la distruggeranno» rispose Talmath in tono misurato. «Vogliono la Terra per viverci, quindi non possono danneggiarla troppo».

   «Ma con la loro tecnologia, potrebbero massacrare i Terrestri senza danneggiare irreparabilmente il clima e l’ecosistema» obiettò Hod.

   «Li crede capaci di tanto?» chiese il Romulano con gravità.

   Tutti gli sguardi si appuntarono sull’Elaysiana, che lasciò sfuggire un sospiro. «Non lo so» ammise. «Di primo acchito direi di no: i Voth non sono dei macellai. Ma il fatto è che non li conosciamo abbastanza. Sappiamo solo che hanno una cultura rigida e orgogliosa, arroccata nei suoi antichissimi privilegi. In un certo senso, sono dei bambini viziati. Non hanno mai ottenuto un no come risposta: quando lo riceveranno, andranno su tutte le furie. A quel punto non so cosa arriveranno a fare» sospirò.

   «Capisco» disse Talmath, a sua volta sconfortato. «Direi che restano valide le precedenti considerazioni. Se i Voth attaccheranno, dovremo respingerli con ogni mezzo. Perdere la capitale metterebbe a rischio tutta l’Unione. Gli altri mondi non riuscirebbero a gestire un’ondata di dieci miliardi di profughi. Si convincerebbero che l’Unione non può proteggerli e chiederebbero la secessione. Sarebbe la fine di un sogno, quello federale, che è cominciato 430 anni fa. Non lasciamo che accada» raccomandò, passando lo sguardo sui colleghi.

   «Non accadrà» si promise Hod. Avrebbe difeso la Terra a qualunque prezzo. Nessun invasore se ne sarebbe impossessato per soddisfare il proprio ego.

 

   Ritiratosi nel suo alloggio, Vrel Shil – timoniere della Keter – sedeva davanti a un oloschermo, aspettando con impazienza la risposta alla sua chiamata. Finalmente fu esaudito. Sua sorella Lyra, di sette anni più giovane, apparve nella cornice olografica. Aveva cortissimi capelli neri, occhi scuri e lineamenti peculiari che la indicavano come un misto di tre specie: Xindi, Betazoidi e Vulcaniani.

   «Vrel! Finalmente sei tornato!» si emozionò Lyra. «Sei stato via così tanto... temevo che ti fosse capitata qualche disgrazia, in quell’orribile Quadrante».

   «Il Quadrante Delta? Mah, non è tanto peggio del nostro. Abbiamo sistemato i Vaadwaur e ci siamo anche fatti degli alleati» disse Vrel, grattandosi un orecchio. «Tu piuttosto, come stai? Temevo che fossi rimasta bloccata sulla Terra. Poi ho pensato che la sede centrale del Federal News è su Memory Alpha, quindi era più probabile che fossi lì». Memory Alpha era un minuscolo planetoide a pochi parsec dal sistema solare. Sarebbe stato un insignificante puntino sulle mappe astrali, se non avesse ospitato la sede dell’Enciclopedia federale e dei principali notiziari, tra cui quello per cui lavorava Lyra.

   «Stavo facendo un servizio sulla ricostruzione di Akaali, quando è scoppiata la crisi» spiegò la cronista. «Il Federal News ci ha richiamati tutti su Memory Alpha. Seguiamo la situazione giorno e notte, ma ci prepariamo anche a ricevere gli sfollati. Qui è un delirio... e lì da te come va?».

   Vrel le avrebbe dato volentieri qualche ragguaglio, ma si trattenne. «Uhm... è meglio se non ti parlo delle nostre mosse. I Voth potrebbero intercettarci» disse. In realtà questo era solo uno dei suoi timori. L’altro era che sua sorella lo sfruttasse per avere notizie riservate con cui fare uno scoop. Non sarebbe stata la prima volta che ci provava.

   «Ah, certo» disse Lyra, vagamente delusa. «Comunque non preoccuparti per me. Non mi muoverò da Memory Alpha. Ma tu fai attenzione! Questi Voth sono determinati e hanno una tecnologia superiore alla nostra».

   «Sì, ho notato» mugugnò il timoniere. «Ma sai dirmi che ne è dei nostri genitori? Qui a Proxima non ci sono. Pensavo che sarebbero stati i primi ad accorrere!».

   «Mi hanno chiamata tre giorni fa. Resteranno a pattugliare il confine Breen con una manciata di navi. Vogliono evitare che i Breen approfittino della situazione per invaderci» spiegò Lyra.

   «Giusto, non ci avevo pensato» riconobbe Vrel. Negli ultimi anni i Breen si erano fatti sempre più ostili. Ora che la Flotta aveva dovuto sguarnire la frontiera, potevano approfittarne per sfondare. Il timoniere l’aggiunse alla lista delle sue preoccupazioni. «Per adesso papà e mamma stanno bene?» chiese.

   «Sono preoccupati, ma sì, stanno bene» confermò Lyra. «E lì da te? Come sta Jaylah?».

   Vrel si sfregò il mento, sovrappensiero. Era da un pezzo che non parlava con la sua amica, tanto da chiedersi se poteva ancora definirla tale. «Mah, in questi mesi è stata taciturna. E da quando ha avuto l’incidente coi Borg, sta ancor più sulle sue».

   «Un incidente coi Borg?!» si allarmò Lyra. «Ma cosa...?».

   «Tranquilla, non l’hanno assimilata» la rassicurò Vrel. «Ma ci sono andati vicini. L’hanno influenzata con le nanosonde, costringendola a fare alcune cose che ci hanno messi in pericolo. Comunque i ragazzi del turno di notte hanno ripreso il controllo della situazione e l’hanno liberata. Credo che Jaylah si senta in colpa per ciò che ha fatto, anche se non era in sé».

   «Groan... certo che oltre la frontiera non ci si annoia mai!» commentò Lyra. In quella il suo comunicatore vibrò. «Frell! Devo lasciarti, fra poco vado in onda» imprecò la cronista.

   «Hai ottenuto quel posto di speaker?» s’interessò il fratello.

   «Solo come tappabuchi» sorrise Lyra. «Ti richiamerò appena possibile. A presto, fratellone. Ti voglio bene» disse, levando il palmo verso di lui.

   «Anch’io, sorellina. A presto» disse Vrel, levando a sua volta il palmo. Svanita Lyra, il timoniere spense l’oloschermo e si stiracchiò, sbadigliando. A meno che non ci fossero nuove emergenze poteva dormire qualche ora, prima di tornare in plancia.

 

   Era il tardo pomeriggio ad Atlantide e il sole calante scintillava sulle cuspidi del palazzo presidenziale. Il freddo vento di fine ottobre strappava le foglie brune e rinsecchite dai giardini. Tutt’intorno, la città era immersa in un silenzio e un’immobilità anormali. Il coprifuoco decretato da Rangda obbligava i cittadini a starsene tappati in casa, così che le strade e il cielo erano solcati solo da veicoli della polizia e della Flotta Stellare. Lo stesso accadeva nel resto del pianeta. La Terra stava col fiato sospeso, in attesa di conoscere la sua sorte.

   L’Ammiraglio Chase sedeva nell’anticamera dell’ufficio presidenziale, attendendo con impazienza di essere ricevuto. Ogni tanto lanciava un’occhiataccia alla porta, sorvegliata da due guardie, e poi tornava a leggere i rapporti della Sicurezza sul suo d-pad. Finalmente l’ingresso si aprì e ne uscì uno Yridiano. Chase lo riconobbe: era Turf, uno dei leccapiedi di Rangda.

   «Sua Eccellenza è pronta a riceverla» annunciò l’Yridiano. «Le ha concesso dieci minuti d’udienza» disse, come se fossero un dono inestimabile.

   «Dieci minuti, tutti per me? Sono onorato» rispose sarcastico l’Ammiraglio. «Ma non so se io avrò tutto questo tempo» aggiunse, con un’ironia che andò sprecata.

   La porta blindata dell’ufficio si aprì con un rimbombo e le guardie si scostarono leggermente. Chase passò fra loro, entrando nella tana della belva.

   Quell’ufficio era stato il suo principale campo di battaglia, negli ultimi cinque anni. Un campo in cui purtroppo le sconfitte erano state numerose, mentre le poche vittorie si erano sempre rivelate effimere. Nella sua lunga carriera, Chase aveva affrontato molti nemici agguerriti. Ma nessuno si era mai rivelato così ipocrita, lezioso, saccente e viscido come Rangda. L’ufficio stesso diceva molto della sua proprietaria. Tutto l’arredo precedente era stato sostituito non appena si era insediata al governo. Al posto del sobrio mobilio neoclassico, adesso c’erano mobili e orpelli nello stile barocco e opulento degli Zakdorn, il popolo di Rangda. Anche il grande ritratto di Jonathan Archer dietro la scrivania era stato sostituito dall’effige di Leen-Kat, antica legislatrice – per alcuni demagoga – famosa per il detto: «Dieci cervelli alieni sommati non valgono un cervello Zakdorn». La moquette era rosa e le pareti lillà, essendo questi i colori preferiti della Presidente; lei stessa indossava un abito color pervinca.

   «Ah, Ammiraglio! Si accomodi!» lo accolse Rangda col solito sorriso affettato. «Posso offrirle qualcosa?» chiese, accennando al replicatore incastonato nella parete alla sua destra.

   «No, grazie... i dieci minuti stanno già volando» ironizzò Chase. «Sono qui per sapere cosa intende rispondere ai Voth. Mancano appena sette ore allo scadere dell’ultimatum. Il Senato dovrebbe essere in seduta plenaria per elaborare una risposta formale. Invece è tutto chiuso».

   «Si vede che lei non è esperto di politica!» ridacchiò la Presidente. «Il Senato non si sarebbe mai accordato in tempo. C’è sempre una fronda di senatori bizzosi e attaccabrighe che rovina tutto».

   «Eppure mi risulta che lei abbia la maggioranza assoluta» notò l’Ammiraglio. «Cos’è, ha problemi nel suo partito? Di certo non li aveva, quando ha tagliato i fondi alla Flotta».

   «Il mio partito non ha problemi» si accigliò Rangda. «Ma data la situazione d’emergenza, ho assunto i poteri di un Presidente in tempo di guerra. Quindi sto conducendo personalmente le trattative, attraverso uno speciale canale diplomatico».

   «Lei è in collegamento coi Voth?» si stupì Chase.

   «Ma certo» confermò la Presidente. «Ci parliamo via subspazio tutti i giorni, per molte ore al giorno. Ho già creato un rapporto di fiducia con l’Ammiraglio Hadron. Fra poco mi chiamerà di nuovo, così potremo fare altri passi avanti».

   «Perché la Flotta non ne è stata informata?» chiese l’Ammiraglio, corrucciato.

   «Perché non c’è ancora nulla da riferire. A trattativa conclusa riceverete le direttive» spiegò tranquillamente la Zakdorn.

   «Come ha detto lei stessa, è una situazione d’emergenza» obiettò l’Umano. «Quindi il governo e la Flotta devono dialogare costantemente. Per operare in modo efficace, dobbiamo sapere cosa state facendo e cosa vi aspettate di ottenere».

   «Ogni cosa a suo tempo» disse Rangda, con divertita superiorità. «Appena avrò una bozza di accordo, ve la comunicherò. Non creda che abbia dimenticato la Flotta Stellare. Il vostro intervento sarà cruciale per mantenere l’ordine e la pace sociale».

   Chase la osservò preoccupato. Non gli piaceva sapere che la Presidente stava facendo tutto da sola, senza consultare il Senato e senza rendere conto a nessuno. «I Voth pretendono la cessione immediata di questo pianeta, col trasferimento di tutti gli abitanti» le ricordò. «Lei che contro-proposta gli ha fatto?».

   «Oh, gliene ho fatte molte» rispose Rangda, sempre evitando di entrare nel merito. «I Voth sono orgogliosi quando si tratta di fare proclami, ma le assicuro che una volta rotto il ghiaccio sanno essere ragionevoli. Confido che questa crisi sarà superata senza che nessuno debba ricorrere alla violenza».

   In quella dei versi simili a miagolii attirarono l’attenzione della Presidente, che si volse subito alla sua sinistra. «Oh, i miei Mu-mu! Quasi dimenticavo che è l’ora della pappa!». La Zakdorn scattò in piedi come una molla, andò al replicatore e si procurò un piatto ricolmo di un pastone marroncino, dall’odore sgradevole. Con quello sfamò i suoi animaletti da compagnia, che teneva in una grossa gabbia trasparente, addossata alla parete di fondo dell’ufficio.

   L’Ammiraglio allungò il collo sopra la scrivania per vedere le creature. Erano orripilanti. I Mu-mu erano animaletti originari di Zakdorn, simili ai porcellini d’India, ma più grossi e grassi. Avevano un cervellino minuscolo, difatti passavano quasi tutto il tempo a mangiare e dormire, senza fare nulla d’interessante nei rari momenti di veglia. Erano insomma bestioline letargiche, magari un po’ buffe per come zampettavano. Ma Rangda aveva ingozzato le sue fino a renderle mostruose. Più che roditori, sembravano dei bruchi che avanzavano facendo tremolare il corpo grasso, o dei palloncini sul punto di scoppiare, con le zampine quasi invisibili per quanto erano affondate nella ciccia. Erano una dozzina, ammucchiati uno sull’altro sul fondo della gabbia, e mugolavano penosamente per chiedere altro cibo.

   «Che tesorucci! Mangiate la pappa, che vi fa bene!» trillò Rangda, gettando mestolate di sbobba nelle loro gole voraci. I Mu-mu  mangiavano otto volte al giorno; i loro escrementi si depositavano sul fondo della gabbia. Nemmeno i diffusori di profumo installati nell’ufficio riuscivano a mascherare il fetore. Ma Rangda non sembrava farci caso, forse perché ci era abituata. Un’altra caratteristica dei suoi animaletti era che si trattava di esemplari albini, dagli occhi rosa e ciechi. La prima volta che li aveva visti, Chase aveva chiesto lumi a Rangda. «Sono amorevoli, vero?» aveva risposto la Presidente. «Li allevo da generazioni. Mi piacciono così tanto che li faccio sempre riprodurre tra loro. Un paio di generazioni fa sono diventati albini, non so perché. Ma sono sempre un amore, vero?» aveva detto, carezzandoli sul dorso mentre li ingozzava. Ogni volta che vedeva quei mostriciattoli ciechi e obesi, interamente dipendenti da Rangda, l’Ammiraglio pensava che la loro sorte non era diversa da quella di molti cittadini. Probabilmente era così che la Presidente vedeva i suoi elettori.

   «Ecco fatto! State bene, ora?» chiese amorevolmente la Zakdorn, quando ebbe finito di rimpinzarli. Ma i Mu-mu si erano già addormentati, riversi uno sull’altro. La loro padrona li contemplò per qualche secondo, dopo di che ripose piatto e mestolo nel replicatore, dove furono riconvertiti in energia. Infine tornò a sedersi. «Allora, c’è altro che voleva chiedermi?» si rivolse all’Ammiraglio.

   «No, ma c’è una cosa che devo comunicarle» rispose Chase. «Se le sue trattative andranno per le lunghe, e nel frattempo i Voth cominceranno a rapire i Terrestri, la Flotta Stellare prenderà ogni contromisura per fermarli».

   «Ogni contromisura?!» s’irrigidì Rangda. «Voi non farete un bel niente! I Voth sono una delle maggiori potenze galattiche. Dobbiamo evitare ad ogni costo il conflitto. Quindi, qualunque cosa facciano, voi non aprirete il fuoco! Sono stata chiara?!» intimò, lo sguardo tagliente come una vibro-lama.

   «Dimentica che il black-out delle comunicazioni m’impedisce di dare istruzioni alla Flotta» notò Chase. «Al momento controllo solo le poche forze che abbiamo qui sulla Terra. Ma non dubito che in questo momento la Flotta si stia radunando nei pressi del sistema solare, pronta a spezzare l’assedio al primo atto ostile dei Voth».

   «Quando avrò concluso le trattative e potremo trasmettere a lungo raggio, lei ordinerà alla Flotta di non colpire» ingiunse la Presidente.

   «Questo dipenderà dall’esito delle trattative» ribatté l’Ammiraglio, senza cedere di un millimetro. «Presidente, questa non è una crisi come le altre. Stavolta l’Unione Galattica rischia il crollo. Quindi stia molto attenta alle promesse che fa, perché i Voth non se le scorderanno. Hanno la memoria più lunga dei suoi elettori».

   «Fuori di qui, Umano!» sbraitò Rangda, alzandosi col volto arrossato dall’ira. «Torni a giocare con le sue piccole astronavi, mentre io salvo l’Unione! Sono l’unica che ci tirerà fuori dai guai!». Così dicendo premette un comando sulla scrivania. La porta dell’ufficio si aprì e le due guardie entrarono immediatamente.

   «Accompagnate l’Ammiraglio fuori da qui» ordinò Rangda, in tono più controllato, sebbene un po’ ansante.

   «Non abbiamo finito, Presidente» disse Chase con decisione.

   «Invece sì. Portatelo fuori, ho detto!» ordinò la Zakdorn, accompagnandosi con un gesto imperioso. Dopo di che gli voltò le spalle, mentre le guardie gli si accostavano, una per lato.

   «Venga, signore» disse una guardia.

   «Non se ne parla. Devo sapere cosa sta offrendo ai Voth» insisté Chase, restando ostinatamente seduto.

   «Sei sordo, nonnetto? Devi sloggiare!» disse rudemente l’altro sorvegliante, anche lui uno Zakdorn. Afferrò Chase per il braccio sinistro e cercò di alzarlo a forza. Le Guardie Presidenziali, caratterizzate dalle uniformi rosse, erano un corpo militare distinto dalla Flotta Stellare; ma mai prima d’ora si erano rivolte così a un Ammiraglio.

   Sentendosi apostrofare a quel modo, e poi strattonare, il vecchio Umano perse la pazienza. Anche se aveva ottant’anni suonati, ed era solo, non si sarebbe fatto trascinare da quegli arroganti. Afferrò il polso dello Zakdorn con la mano destra e lo strinse tanto da fratturarlo. Ci fu uno scrocchio e il sorvegliante lanciò uno strillo acuto. Quando Chase lo lasciò andare, lo Zakdorn si ritrasse precipitosamente, massaggiandosi l’arto ferito. Dolore, incredulità e odio erano frammisti sul suo volto.

   «Ho il braccio artificiale. Un piccolo incidente di gioventù» lo informò l’Ammiraglio, lasciando finalmente la sedia. «Mettici del ghiaccio, ragazzo, e ti sentirai meglio». Si girò verso l’altra guardia, trovandosi un phaser puntato al petto.

   «La prego, Ammiraglio... non mi costringa a sparare» disse il sorvegliante, tremando leggermente.

   «Almeno l’hai puntato su stordimento?» chiese l’Umano. L’alieno non rispose, ma gli fece segno di muoversi. Con un sospiro, Chase andò verso la porta. Prima di uscire dette un’ultima occhiata a Rangda: la Presidente gli voltava ancora le spalle, con le braccia incrociate, in attesa che le guardie lo portassero via. Quella era la persona a cui gli elettori si erano affidati non una, ma due volte. La persona da cui dipendevano le sorti della Terra.

 

   Lasciato il palazzo presidenziale, l’Ammiraglio tornò al Comando di Flotta. Si trattenne fino a tardi, discutendo con lo Stato Maggiore su come procedere in caso di attacco, con le scarse forze di cui disponevano. Intanto l’ora X si avvicinava: mancavano solo tre ore allo scadere dell’ultimatum.

   Ritiratosi nel suo ufficio per leggere i rapporti e diramare le ultime istruzioni, Chase ricevette una visita inaspettata. Sua moglie Neelah entrò come un turbine, con le antenne da Andoriana irrigidite e il volto albino inazzurrito dalla rabbia. «Ho sentito cos’è successo da Rangda! Che infamia! Tu come stai?» si preoccupò, venendogli accanto.

   «Io bene. È una delle guardie che potrebbe necessitare delle tue cure» la tranquillizzò l’Ammiraglio. Neelah dirigeva il Comando Medico della Flotta Stellare.

   «La gente è fuori di testa... ovunque vada percepisco la paura» disse l’Aenar, portandosi le mani alle tempie. «Come va qui? Sei riuscito a contattare la Flotta?».

   L’Ammiraglio scosse tristemente la testa.

   «E loro hanno trasmesso qualcosa? Hai notizie di Jaylah?» incalzò Neelah.

   «I Voth bloccano anche i segnali in arrivo» sospirò Chase. «Ma non temere per nostra figlia. È sulla Keter, con persone in gamba. Probabilmente sono ancora nel Quadrante Delta, sulle tracce dei Vaadwaur. Temevo di mandarli nel pericolo... ma ora credo che siano più al sicuro di noi». Marito e moglie si abbracciarono, per confortarsi a vicenda.

   «Rivoglio la nostra bambina» mormorò Neelah, prossima al pianto.

   «Jaylah è un Agente Temporale; sa badare a se stessa» sostenne Chase, carezzandole i capelli. «Ora concentriamoci sui nostri problemi. Vorrei tanto contattare le astronavi, per avvisarle di tenere duro. Purtroppo i Voth bloccano tutti i segnali entro il raggio di un’UA».

   «Quindi Marte e le altre colonie del sistema solare possono ritrasmettere un messaggio» notò Neelah.

   «Sì, ma noi non possiamo comunicare con loro».

   «Hanno dei telescopi. Non pensi che li terranno puntati su di noi, in questo momento?» suggerì Neelah.

   «Sì... penso proprio che lo stiano facendo» convenne Chase, recandosi alla finestra. Scostò la tendina e guardò fuori: il sole era tramontato. Era la notte del 31 ottobre, la notte di Halloween. E a lui era appena venuta un’idea.

 

   «Avanti» ordinò Hod, sentendo trillare la porta del suo ufficio. Sebbene fosse ormai notte, secondo l’orologio di bordo, il Capitano era ancora in servizio, e così tutto l’equipaggio di plancia. Mancavano due ore allo scadere dell’ultimatum.

   «Abbiamo ricevuto un messaggio dalla Terra» disse Radek, entrando di fretta.

   «Dalla Terra?! Come?» si stupì il Capitano.

   «I Voth bloccano le trasmissioni radio e subspaziali, ma non possono ostacolare i segnali luminosi» spiegò il Comandante, con un sorriso sagace. «È notte, ad Atlantide. Qualcuno ha sistemato dei riflettori nel cortile del Comando di Flotta e ha inviato dei segnali in codice. Li hanno visti da Marte, coi telescopi, e ce li hanno ritrasmessi via subspazio. Zafreen li ha decifrati: usano un antico codice militare terrestre, il codice Morse».

   «Che dicono?» chiese Hod con ansia.

   Radek lesse il messaggio trascritto sul suo d-pad. «Ammiraglio Chase a Flotta Stellare. Rangda ha assunto pieni poteri e sta conducendo le trattative coi Voth senza consultare il Senato né il Comando di Flotta. Rifiuta di comunicare la bozza di accordo. In mancanza d’informazioni, resta valido l’ordine generale: difendere la Terra ad ogni costo. Se i Voth cercheranno di sequestrare i Terrestri, siete autorizzati a fermarli con la forza».

   Il Capitano impallidì. «È peggio di quanto pensavo» disse, alzandosi per passeggiare. «Rangda sta approfittando della crisi per prendere il potere assoluto. Ma se combina qualche pasticcio coi Voth, saranno i Terrestri a pagarne le conseguenze» aggiunse con un tremito.

   «Restano meno di due ore» le ricordò il Comandante. «Tra poco ci muoveremo verso il sistema solare».

   «Sì, fra un attimo vengo in plancia» disse Hod stancamente.

   «Ah, un’altra cosa. Sono arrivate altre tre navi, che portano il totale a 492. Sono più di quante ne aspettassimo» aggiunse il Rigeliano, per incoraggiarla.

   L’Elaysiana lo fissò con uno strano sguardo. «Radek...» mormorò.

   «Sì, Capitano?» fece lui, un po’ stupito.

   «In questi anni ho sempre cercato d’essere forte. Ho pensato che prima o poi avremmo superato le tempeste. Ma questo è un uragano che può farci colare tutti a picco» disse Hod con lentezza. «Io... ho paura, Radek. Sono stanca, e delusa, e amareggiata. Non so se ho la forza per comandare la Keter in questo frangente» confessò. Una parte di lei avrebbe voluto lasciarsi tutto alle spalle: dimettersi, tornare a casa, non sentir più parlare della Flotta.

   «Certo che hai la forza» la incoraggiò Radek, avvicinandosi. «Quanto alla paura, beh... ce l’abbiamo tutti. È naturale. Ma in questi anni ti ho vista fare cose incredibili. Ci hai condotti fuori dai pericoli più tremendi. Lo farai anche stavolta» disse con convinzione.

   «E tu sarai con me?» mormorò l’Elaysiana. Una lacrima le scintillò nell’angolo di un occhio.

   Il Rigeliano le prese le mani tra le sue e gliele strinse con dolcezza. «Certo» promise. «Ti starò accanto come Primo Ufficiale e come amico. Oh, quasi dimenticavo... ho qualcosa per te» disse, discostandosi. Si frugò in tasca e ne trasse un pacchetto variopinto.

   «Per me?» si stupì Hod.

   «Sì, oggi è il tuo compleanno. Con questa baraonda, mi ero quasi scordato di dartelo» disse, consegnandole il pacchettino.

   «Grazie» sorrise il Capitano. «Dovrei aprirlo subito?».

   «Beh, se non vuoi aspettare dopo il confronto coi Voth...».

   «Già, meglio farlo ora» convenne Hod, lacerando la carta da regalo. Ne trasse una collanina con un pendente a forma di mostrina della Flotta. Sul pendente era incisa una dedica: “Sono stato e sarò sempre tuo amico”.

   «Lo so, è una cosa pacchiana» si scusò Radek, un po’ imbarazzato. «Ma sono pessimo nello scegliere i regali. E poi fino a ieri eravamo nel Quadrante Delta, per cui non ho avuto tempo per pensarci...».

   «È perfetto» sorrise l’Elaysiana, rincuorata da quella dimostrazione d’affetto. Agendo d’impulso, si accostò al Rigeliano e lo baciò sulla guancia.

   «Ehm...». Radek arrossì leggermente e si ritrasse. Le relazioni tra colleghi non erano vietate dal regolamento, ma tra Capitano e Primo Ufficiale sarebbe stato meglio evitarle, perché potevano ripercuotersi su tutta la nave. «Credo che dovremmo concentrarci sulla missione» disse il Comandante. «Quando sarà finita, magari ne parleremo» aggiunse, per non chiudersi del tutto quella porta.

   «Sì, quando sarà finita» annuì Hod, ricomponendosi. Non poteva indossare apertamente il dono di Radek mentre era in servizio, così per il momento lo ripose in tasca.

   «Andiamo?» suggerì il Comandante.

   Il Capitano respirò a fondo. «Sì, andiamo» disse. Aveva riacquistato una parvenza di sicurezza. Radek si fece cortesemente di lato, permettendole di varcare la soglia per prima, e poi la seguì in plancia. La flotta aveva già cominciato a dispiegarsi, per eseguire il breve salto a cavitazione che l’avrebbe portata nel sistema solare.

 

   «Qui è Lyra Shil, per il Federal News, con un nuovo aggiornamento sulla drammatica crisi Voth.

Manca solo un’ora allo scadere dell’ultimatum che tiene col fiato sospeso la Terra e tutta l’Unione. I Voth continuano l’assedio, bloccando anche le trasmissioni e impedendoci quindi di sapere quali decisioni sono prese in questo momento dalle autorità. Gli analisti militari ritengono che il Senato non abbia ancora risposto all’ultimatum, perché in tal caso i Voth avrebbero fatto la loro mossa. Con l’approssimarsi dell’ora X il sistema solare è off-limits, tranne che per la Flotta Stellare. Anche le nostre sonde devono tenersi a una distanza di almeno 10 UA dalla Terra.

   Mezz’ora fa la flotta che si era raccolta a Proxima Centauri si è mossa. Al momento conta 492 navi e altre ancora potrebbero arrivare nei prossimi minuti. La flotta si è fermata nei pressi della Luna, per poi dispiegarsi in modo da circondare le navi Voth. Ricordiamo che sebbene siano in inferiorità numerica, i sauri dispongono di una tecnologia superiore alla nostra; le loro effettive capacità militari sono ancora sconosciute. Il Capitano Talmath dell’Enterprise ha rifiutato di rilasciare dichiarazioni, ma il dispiegamento di forze lascia intendere che la Flotta Stellare sia pronta a tutto. Alla flotta si è da poco aggiunta l’USS Keter, appena tornata da una lunga missione nel Quadrante Delta, completata con successo.

   Nel frattempo, sugli altri mondi, proseguono le proteste davanti alle ambasciate federali e ai presidi della Flotta Stellare. I manifestanti chiedono che si trovi un accordo, per scongiurare la guerra coi Voth. Anche molte colonie umane hanno espresso questo auspicio. Secondo il sondaggio Olonet promosso dal nostro giornale, il 97% dei cittadini federali è favorevole a cedere alcune zone della Terra ai Voth, mentre  il 78% gli cederebbe l’intero pianeta. Tuttavia il 90% ha anche affermato che non vorrebbe un afflusso di profughi Umani nella propria città. Il governatore della colonia Vega ha dichiarato che...».

   L’oloschermo si disattivò, troncando il discorso di Lyra. Indispettito e anche un po’ preoccupato, il detenuto si alzò dalla brandina e andò alla consolle. Scoprì che i tasti si erano disattivati, lasciando una superficie grigia e uniforme. Sempre più arrabbiato, andò alla parete trasparente della cella e vi batté il pugno, per attirare l’attenzione dei sorveglianti.

   Al loro posto si fece avanti uno Ktariano con l’uniforme bianco/azzurra dell’Ufficio di Salute Pubblica, una delle organizzazioni create da Rangda per sovrapporsi alla Flotta Stellare. «Ah, dottor Smirnov!» lo salutò. «Che succede, ha qualche problema? Mi dica tutto!».

   L’Umano gli rifilò un’occhiata al vetriolo, ma tenne le labbra serrate, come faceva da un anno intero.

   «Come dice? Non la sento!» lo derise lo Ktariano, portandosi una mano all’orecchio.

   Il prigioniero fece per tornare alla sua brandina, rassegnato, ma il medico si accostò alla parete trasparente. «Aspetti!» lo richiamò. «Non le andrebbe di rinegoziare le sue condizioni di soggiorno?».

   L’Umano si bloccò a metà del gesto e si riavvicinò di malavoglia alla paratia. Fissò sprezzante lo Ktariano, ma non disse nulla. Non poteva parlare, per non rompere il suo voto.

 

   Da diciotto mesi Juri Smirnov, ex consulente storico della Keter, era detenuto nel carcere di Elba II. Era lì con un’accusa molto grave, quella di pirateria temporale: l’unico reato che prevedeva ancora la pena di morte. Si era infatti alleato coi Na’kuhl, i peggiori nemici dell’Unione, aiutandoli ad alterare la Storia in loro favore. In cambio gli alieni avevano salvato sua sorella Svetlana, morta da bambina per una malattia. Ma le cose non erano andate come previsto. La Keter era intervenuta per ripristinare la linea temporale e all’apice dello scontro Juri aveva dovuto scegliere da che parte stare. Pentendosi delle sue azioni, aveva aiutato i federali a sconfiggere i Na’kuhl, anche se per questo aveva dovuto sacrificare l’amatissima sorellina. Ciò non era bastato a evitargli il processo per infrazione temporale.

   L’Umano si era salvato patteggiando con la Flotta. Aveva rivelato tutto ciò che aveva appreso sui Na’kuhl nel periodo trascorso con loro, così che l’Unione potesse attrezzarsi contro eventuali nuovi attacchi. In cambio si era visto commutare la pena capitale in ergastolo e aveva ottenuto qualche piccolo privilegio, come la possibilità di seguire i notiziari e ricevere visite. Gli interrogatori, lunghi e scrupolosi, erano finiti un anno prima. Da allora lo storico era prigioniero in cella d’isolamento. Ma i suoi guai non erano ancora finiti.

   Alcuni medici, come lo Ktariano, gli avevano offerto la possibilità di uscire di cella, se avesse accettato di sottoporsi alle loro terapie di “rieducazione e reinserimento sociale”. Juri aveva sempre rifiutato. E quando le loro richieste si erano fatte pressanti, aveva adottato un gesto estremo di protesta: lo sciopero del silenzio. Le sue ultime parole, prima di zittirsi, erano state: «Tornerò a parlare quando avrò qualcosa d’importante da dire». Ma in dodici mesi non era ancora successo.

 

   «È da un po’ che non la vedevo» disse lo Ktariano. «Si ricorda di me, vero? Sono il dottor Colia Vash’Tot, neurochirurgo, filosofo evoluzionista e influencer federale».

   Juri lo ricordava fin troppo bene. Era stato Vash’Tot, con i suoi sinistri sproloqui sugli “interventi correttivi al cervello”, a indurlo allo sciopero del silenzio. Annuì lievemente, tanto per vedere cosa si era inventato stavolta lo scienziato.

   «Bene!» approvò lo Ktariano. «Come ricorderà, sono specializzato nelle terapie di riabilitazione delle personalità deviate. È un dato di fatto che le persone volgarmente definite “criminali” siano in realtà affette da disturbi cerebrali, che possono essere curati. Questo non vale solo per ladri e assassini, ma anche per i ribelli ideologici come lei. La bontà e la giustizia del nostro sistema sono così evidenti che solo chi soffre di una patologia mentale può avversarlo. Studiando la sua cartella clinica, sono giunto alla conclusione che lei soffre di Disturbo da Personalità Intollerante, che la porta a essere sospettoso nei confronti di chi non appartiene alla sua specie e non condivide le sue idee».

   A queste parole, Juri fece una smorfia sarcastica. «Forse, nelle tue ricerche, non ti sei accorto che i miei amici della Keter sono tutti alieni o meticci e che spesso hanno opinioni assai diverse dalle mie» si disse, ma come al solito tacque e lasciò che l’altro continuasse a parlare.

   «Ebbene, deve sapere che esistono molti interventi capaci di rendere gli Umani più tolleranti» proseguì Vash’Tot. «Questo è motivo di grande interesse etico per gli specialisti come me. Il trucco consiste nell’intervenire sulla corteccia fronto-mediale, la parte del cervello che reagisce alle minacce. Tra gli effetti benefici dell’intervento vi sono la diminuzione del tribalismo etnico e della fede religiosa... insomma, di tutti gli inutili retaggi dell’evoluzione. A proposito, lei è credente? Questa informazione non c’è, nella sua cartella clinica».

   Come al solito, Juri non rispose. Ma se gli sguardi ferissero, i secondini avrebbero dovuto usare l’aspirapolvere per portar via i resti del neurochirurgo.

   Un po’ deluso dal perdurante mutismo dell’interlocutore, Vash’Tot riprese il discorso. «Beh, come le dicevo, è assodato che i pregiudizi settari sono suscettibili di neuro-modulazione mirata. Il che ci porta al suo problema: l’intolleranza che l’ha indotta a criticare i programmi scolastici e poi addirittura a collaborare coi Na’kuhl per distruggerci. Vede, così come l’Unione può imporre la quarantena a chi soffre di gravi malattie infettive, così a maggior ragione deve circoscrivere ed estirpare l’intolleranza. Oggigiorno gli strumenti non ci mancano: ne abbiamo di chimici, di elettromagnetici e di chirurgici. Io preferisco gli interventi chirurgici, che danno risultati definitivi, non suscettibili di ricadute».

   Notando l’espressione dell’Umano, il dottor Vash’Tor lo guardò con indulgenza. «Stia tranquillo, non l’annoierò ulteriormente coi dettagli tecnici. Tutto ciò che mi occorre è la sua firma, o anche solo il suo assenso vocale. Dica “sì”... le basta dire questa semplice parolina per ricevere l’intervento correttivo. Dopo di che sarà rimesso in libertà. Non mi crede? Le do la mia parola!» disse, portandosi la mano al cuore. «Dopo l’intervento resterà in osservazione per un mesetto. Se tutto andrà bene – ma le assicuro che andrà bene! – potrà reinserirsi nella società e anche riprendere il suo vecchio lavoro. Sarà libero... e sarà anche molto più felice. No, non mi ringrazi! È un dovere e un piacere aiutare le persone nelle sue condizioni» sorrise il neurochirurgo.

   Juri non aveva minimamente accennato a ringraziarlo, né a gesti, né a parole. Pur non essendo un esperto di neurologia, sapeva – per cultura generale – che c’è davvero un’area del cervello che regola i meccanismi della fiducia e della diffidenza. Un difetto in quell’area, naturale o indotto artificialmente, porta a fidarsi ciecamente di tutti, anche di perfetti sconosciuti. Messo davanti a questa prospettiva, Juri scosse vistosamente la testa, in segno di diniego.

   «Oh, andiamo!» esclamò lo Ktariano, perdendo la compostezza. «Preferisce marcire in quella gabbia per il resto della vita?!».

   Dopo una breve riflessione, l’Umano annuì solennemente.

   «Allora è più schizofrenico di quanto pensavo!» sbottò Vash’Tot. «Ascolti, il mio lavoro consiste nel liberare i detenuti dalle prigioni, e dalle patologie che ce li hanno portati. Le carceri come questa non dovrebbero esistere! Sono un fossile giuridico, un barbaro residuo del passato!» esclamò, guardandosi attorno con fastidio. «Un sistema penale moderno e illuminato deve correggere, non punire! Rieducare, non reprimere! Altrimenti non è giustizia, ma solo vendetta. Io sono suo amico... deve fidarsi di me. Deve fidarsi della mia capacità di guarirla e di restituirla alla società. Dica di sì... mi basta questa sillaba. Non mi occorre altro» disse, quasi supplicando.

   Nel sentir questo, Juri si convinse che aveva fatto bene a entrare in sciopero del silenzio. Nelle celle di massima sicurezza come la sua c’erano microfoni che registravano ogni parola detta dai detenuti. Se si fosse lasciato scappare la sillaba “sì”, anche solo come parte di una parola più lunga, Vash’Tot l’avrebbe estrapolata dal contesto, sfruttandola come una dichiarazione d’assenso. A quel punto, Juri sapeva che non gli sarebbero bastati i dinieghi, le urla e le suppliche: lo avrebbero operato contro la sua volontà. E lo avrebbero ucciso... avrebbero ucciso tutto ciò che lo rendeva Juri Smirnov, anziché un’altra persona. Dopo quella mutilazione cerebrale, si sarebbe fidato di tutti... o solo dell’autorità costituita?

   «Allora?! Mi dica qualcosa... mi aiuti ad aiutarla!» insisté lo Ktarianio.

   C’era una curiosa urgenza in lui. Juri rifletté che era uno strano momento per venire a fargli quel discorso. Tra meno di un’ora si sarebbe consumata la lotta per il controllo della Terra. Il neurochirurgo non avrebbe dovuto seguire la cronaca, come tutti gli altri? A quel pensiero, gli tornò in mente che l’oloschermo della sua cella si era disattivato. Lo storico andò accanto all’emettitore e lo indicò con aria interrogativa.

   «Ah, sì» fece Vash’Tot, con un sorriso perfido. «Finché lei non mi parlerà come si deve, non potrà più seguire i notiziari. Che peccato... credo siano in corso degli eventi che le piacerebbe seguire. Anche se è nato sulla Luna, lei è sempre stato molto legato alla Terra. Di certo vorrà sapere se passerà sotto il controllo dei Voth. E soprattutto vorrà conoscere la sorte dei Terrestri. Resteranno a casa loro? Saranno deportati? O magari verranno sterminati? Se vuol saperlo, sia più collaborativo» disse lo Ktariano, col dolce sorriso di chi assapora la vittoria.

   Juri era già stato ricattato, in vita sua, ma mai in modo così meschino. Quello di Vash’Tot non era un semplice sopruso: era una palese violazione degli accordi con la Flotta Stellare, che gli aveva accordato il diritto all’informazione. Ora qualcuno, a qualche livello dell’organizzazione, si era rimangiato la parola. E lui non poteva farci niente. Il ricatto era tanto più amaro in quanto Juri aveva a cuore le sorti della Terra e voleva seguire gli sviluppi della vicenda.

   Fatte le sue considerazioni, l’Umano si avvicinò di nuovo alla parete trasparente della cella. Lo Ktariano lo osservò trionfante. Con gesto lento e ricercato, il prigioniero sollevò la mano destra e gli mostrò il dito medio. Poi alzò anche la sinistra, eseguendo lo stesso gesto.

   Lo Ktariano non conosceva la gestualità umana, ma intuì che si trattava di un’ingiuria. I suoi occhi giallognoli si riempirono di collera. «Molto bene... ne riparleremo tra qualche mese» sibilò. «Forse per allora le sarà venuta voglia di sapere se i Terrestri esistono ancora» aggiunse, prima di ritirarsi con un sorriso compiaciuto.

   Fatto un sospiro, Juri tornò stancamente al suo lettino e vi si distese. Senza la possibilità di consultare l’Olonet, la sua prigionia si faceva davvero dura. Forse un giorno qualcuno si sarebbe accorto dell’ingiustizia e avrebbe rimediato... ma Juri non ci sperava molto. Gli unici che potevano salvarlo, denunciando l’accaduto, erano i suoi parenti o anche i suoi amici della Keter, se fossero venuti a fargli visita. Ma i suoi parenti, che vivevano sulla Terra, rischiavano di essere deportati chissà dove. E i suoi amici della Keter sarebbero sopravvissuti alla battaglia? Juri lo sperava ardentemente. Ma anche in quel caso, avrebbero avuto altro a cui pensare che fargli visita.

   In quel momento di sconforto, in cui non sapeva nemmeno che stava accadendo alla Terra, l’Umano sentì di doversi aggrappare a qualcosa. Gli serviva un atto di fede... non necessariamente in senso ultraterreno. Ripensò al sorriso compiaciuto dello Ktariano e si chiese quanti pazienti egli avesse già “curato” a suo modo. Fu così che Juri trovò quello che cercava. «Un giorno, in qualche modo, ti metterò le mani addosso. E allora ti leverò la voglia di fare del “bene”» si promise. Quella era la speranza che lo avrebbe sorretto nei giorni a venire.

 

   
 
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