Storie originali > Fantasy
Ricorda la storia  |      
Autore: Kerberos 1001    19/07/2020    0 recensioni
Anni e anni or sono, vigeva la sana abitudine, tra gli abitanti del contado, di riunirsi in bande che viaggiavano per la nazione, contribuendo ad esplorare luoghi oscuri, malfamati e sconosciuti. Queste persone sagge ed esperte nei vari campi del sapere necessario a portare a termine tali difficoltose incombenze, contribuivano a pacificare le nazioni, a risolvere contenziosi in atto da generazioni tra i signori che legiferavano su quei vasti territori.
A volte.
In altre occasioni - rare - erano causa di bisticci e guai, niente di serio, ma pur sempre spiacevoli.
La costante del loro comportamento, il miraggio che spingeva sempre nuovi adepti ad unirsi al gruppo, era la possibilità di migliorare il proprio status con le ricchezze che avrebbero trovato, forti del diritto di conquista.
D'altronde, nessuno mai avrebbe ammesso pubblicamente che l'unico scopo di tutti quei novellini era quello di ripianare le perdite subite in battaglia
Questa è la storia di una di queste bande che, massima sfortuna, scelse di depredare il bersaglio sbagliato ...
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Improvviso, un rumore, un tintinnare cristallino simile allo scroscio di una cascata nel buio.
Poi una luce, quella tremolante di una torcia, nell’aria pesante e immobile del cunicolo, sufficiente a malapena a trarre bagliori metallici da piccoli oggetti rotondi sparsi sul pavimento.
S’erano voltati col cuore in gola, come se quel suono fosse stato il presagio di un nuovo pericolo e si erano trovati a fissare con occhi stralunati il piccolo umanoide che si precipitava a raccogliere qualcosa, dopo aver infisso la propria torcia in una fessura fra le pietre: evidentemente, la sua borsa si era strappata impigliandosi in una leva che sporgeva dal muro, riversando a terra il suo prezioso contenuto.
Già! La borsa: la cosa più importante per un ladro, dopo le mani e i grimaldelli, più importante persino della sua stessa vita.
«Scusatemi! Scusatemi! Non è colpa mia: non volevo!»
Ecco tutto ciò che riusciva a dire, lui che trovava sempre un mare di parole per descrivere la più inutile e banale delle cose!
Certamente avvertiva la tensione, sinistra, impalpabile e per questo ancora più opprimente.

Tutto era andato bene, fino a quella maledettissima ora in cui avevano attivato la torre!
Certo, chiunque non avesse vissuto la vita dell’avventuriero per scelta, come loro, un semplice commerciante, ad esempio, sarebbe stato di parere ben diverso: rischiare la propria pelle nella speranza di ottenere un po’ d’oro e di gemme da sperperare nella prima bettola subito dopo averle predate, non rientra di sicuro nella normale ottica della gente comune. Per loro, invece, costituiva il succo stesso dell’esistenza, il magnete che li attraeva, spingendoli a gravitare l’uno verso l’altro, formando bande che potevano persino durare più di una razzia!
Ecco quindi che penetrare nel castello vecchio come il mondo, violare le sue difese, le misure di sicurezza che gli antichi costruttori avevano sicuramente predisposto a protezione dei loro tesori, costituiva una sfida che non potevano materialmente rifiutare, non più di quanto avrebbero potuto rifiutarsi di respirare per vivere.
Era strano ed inquietante, il castello, un bersaglio degno di rispetto e per questo ancora più invitante: una piantina semi-scolorita e macchiata di fluidi sulla cui origine ritennero più prudente non indagare, rinvenuta per caso nel doppio fondo di una cassapanca, mostrava una curiosa successione di corpi di fabbrica tutti collegati tra loro in ali concentriche, separati da cortili regolari via via più piccoli man mano che ci si avvicinava al mastio, così che, dall’alto, pareva di osservare da vicino la tela di un ragno, con i suoi fili portanti e la spirale della trappola che partiva dall’esterno, stringendosi sempre più verso il centro... 
Forse, studiandola più da vicino, si sarebbero resi conto che una tale regolarità comportava pesanti adattamenti alla cima di una comune montagna; che nessun architetto o ingegnere militare normale avrebbe mai posto mano a simili lavori di sterro solo per realizzare una forma a lui grata; visto però che il loro fine ultimo era quello di arricchirsi, non badarono ad altro che a cercare una via d’accesso facile e sicura: non trovandone alcuna segnata sulla piantina, la accantonarono e partirono.
Vedendolo per la prima volta dal vero, arroccato sui pendii, le mura completamente lisce come se fossero sorte direttamente dalla roccia stessa, ebbero l’impressione che in qualche modo li stesse aspettando, loro, qualcun altro, chiunque, una creatura dotata di una propria, peculiare forma di volontà, concentrata nella sua torre centrale, un altissimo blocco unico di cristallo nero, scolpito in forme affusolate e perfette chissà da chi, chissà come!
Incuriositi, chiesero nei villaggi del contado, ottenendo sempre la medesima risposta: erano trascorsi secoli, forse millenni, da quando i suoi ultimi abitanti erano scomparsi – non partiti, badate bene: scomparsi! – e nessuno ricordava più quando o da chi fosse stato edificato: semplicemente, nei racconti, nelle tradizioni di quella regione, era sempre stato là, presente, un’ombra oscura, solida. Inattaccabile come la montagna sulla quale sorgeva...
Come depredarlo?
Nonostante gli avvertimenti della gente, evento quasi incredibile nei confronti di un gruppo di ladri dichiarati come loro, solitamente scacciati subito come la peste, avevano cercato quella via d’accesso che non figurava sulla loro piantina ormai entrata a far parte della storia: non si vedevano sentieri, nel fianco granitico del picco, nemmeno uno, né aperture di sorta nelle mura, persino se osservate attraverso il cannocchiale.
Accamparsi nella stretta valle formata dai due massicci speroni che interrompevano verso sud il ritmico susseguirsi di cime e dirupi della catena era sembrato quanto meno necessario, nonostante l’atmosfera tetra che il terreno brullo e l’arco naturale di pietra irto di stalattiti che ne collegava le estremità contribuivano a creare: una mente suggestionabile avrebbe facilmente potuto credere di stare infilandosi volontariamente tra le fauci spalancate di una belva famelica...
Gli entusiasmi iniziali un poco raffreddati, per lo meno nei novellini che avevano insistito per unirsi a loro nell’impresa, suggestione o meno, nessuno era riuscito a prender sonno quella prima notte, chi ascoltando i lamenti che il vento produceva soffiando sotto l’arco e tra le cime, chi cercando strenuamente una qualche traccia che potesse condurli al bottino.
Già, avete capito bene: rinunciare, per loro, non era un’opzione praticabile. Non lo era mai stata!
Appena spuntata l’alba, dopo una notte trascorsa a gironzolare su e giù per la valle, l’halfling Bealy, l’unico vero ladro ufficiale del gruppo, si era trovato a passare per caso nel punto in cui la valle terminava come un colpo di spada, schiacciata tra la parete liscia e a strapiombo della montagna e la parte iniziale degli speroni: rivolta direttamente ad est, illuminata in pieno dai primi raggi del sole nascente, quella zona stava assumendo un aspetto quasi piacevole, con i suoi giochi di ombra e luce che sottolineavano la roccia quasi fossero pennellate.
Ovunque, tranne che in un punto, che rimaneva nero come la pece.
Quale non fu la sua sorpresa, quando, avvicinatosi per controllare, si accorse di aver trovato una fenditura di forma regolare, palesemente scavata da mani umane, che dava accesso ad un tunnel in salita!
Oltremodo eccitati dalla scoperta, i nostri eroi levarono il campo in fretta e furia, iniziando la pericolosa esplorazione del dedalo di corridoi, armerie profonde, fucine, magazzini, camerate e pozzi che sembravano traforare l’intera montagna. Non si fermarono neppure un istante a chiedersi come mai quella fessura tanto regolare, quasi una porta, non fosse stata notata la sera precedente, durante l’esplorazione preliminare della valle...
Avevano solamente cercato la via più diretta per raggiungere la cima, mentre erano là sotto, ovvio; anche perché a loro importava ben poco delle tonnellate di polvere che stagionavano nella maggior parte di quegli ambienti sotterranei da millenni: nessuno, da che mondo è mondo, si è mai arricchito con la polvere!
E poi c’erano i topi, a tenerli impegnati: enormi topi che avrebbero potuto tranquillamente nutrirsi di un cavallo e che evidentemente non apprezzavano gli intrusi, se non come antipasto.
Ma niente ragni, nemmeno uno.
Anche così, giungere ad uno dei cortili esterni era stato relativamente facile, quasi banale: ci avevano pensato i loro spadaccini, mercenari abituati a trinciare armature come macellai un filetto o un pollo, a rintuzzare i primi, feroci assalti, anche se con qualche perdita, inevitabile quando si mette in mano ad un pivello una spada che è quasi più pesante di lui; ma ben presto, vista la mala parata e la tenacia dei nuovi avversari, i ratti si erano tenuti alla larga da loro, limitandosi ad osservarne i movimenti dal buio, gli occhi che brillavano rossastri alla luce delle torce, promettendo vendetta.
Rilassatisi un poco, gli avventurieri avevano spalancato la botola di massiccia pietra, facendola ruotare su cardini perfettamente oliati, e si erano guardati attorno a bocca aperta per lunghi minuti, in piedi, tutti riuniti attorno allo sbocco delle scale che li avevano condotti sino a lì: l’edificio li circondava da ogni lato, alto tre piani scanditi da altissime bifore a sesto acuto, con mura che erano un vero prodigio di possanza e robustezza.
Si riposarono nel cortile per qualche tempo, rifocillandosi, medicandosi le ferite chi ne aveva bisogno, lieti di poter godere il tepore del poco sole che riusciva a filtrare fino a loro. Quando le ombre si furono allungate abbastanza, ripresero la via del castello, trovando una porticina che dal cortile penetrava nel corpo di fabbrica adiacente: un corridoio di marmo lucido colore del muschio, una fuga di stanze sul lato destro, lungo la parete opposta a quella su cui si apriva la porta, per il resto traforata di delicate finestre e vetrate.
Strano, dite? Decisamente. 
Ancora più strano era il fatto che da quel momento il loro percorso verso l’interno diventasse un vero e proprio calvario, costellato di tali e tante trappole da far dubitare che il progettista della fortezza possedesse una vena di sadismo alquanto spiccata: sempre diverse, sempre più difficili da scoprire e disattivare, le trappole, alcune al limite del barocco, falcidiarono la banda, prendendosi la vita degli incauti, tutti novellini, che li avevano seguiti fin là. Alla fine non rimase che il nucleo duro dei veterani a potersi vantare di levare lo sguardo sulla torre di cristallo, al centro del cortile più interno.
Ne era valsa la pena?
Eccome: mentre procedevano lentamente, cercando di evitare gli ostacoli, avevano scoperto interi saloni traboccanti d’oro e d’argento, mucchi di gemme grosse quanto uova di drago, intere biblioteche di testi magici e non, armerie dove facevano bella mostra di sé armi e armature che avrebbero fatto sfigurare quelle di un imperatore. In una sola stanza, una qualunque, erano state accumulate ricchezze sufficienti a comprarsi un intero continente; ce n’era abbastanza di che soddisfare generazioni intere di loro pari un centinaio di volte più avidi di quanto loro già non fossero!
Era il paradiso!
Ed era tutto per loro!
Soddisfatti, i sopravvissuti si erano complimentati l’un l’altro per essere giunti sin lì, prima di apprestarsi ad esplorare la torre: una certa idea cominciava a farsi strada nelle loro menti, allettante e subdola; ora che avevano sconfitto la fortezza, loro cinque avrebbero potuto prenderne possesso e, paradossalmente, in maniera persino legittima, per diritto di conquista, visto che nessuno l’aveva mai reclamata. 
Avrebbero potuto vivere da gran signori, comprare un titolo nobiliare oppure addirittura farsene insignire da un re, dopo averlo allettato con il puro potere militare dell’esercito che avrebbero assoldato: tra sopra e sottoterra, in quella meraviglia avrebbero potuto trovar posto facilmente migliaia di uomini!
E ci sarebbero comunque stati dei nemici da sconfiggere, scaramucce di confine con i nobili confinanti, con i nobili rivali... ed alla sconfitta del nemico, di solito faceva seguito la razzia, il vassallaggio e il tributo.
Vero, il loro stile di vita non sarebbe cambiato molto: sarebbe unicamente salito di tono.
A questo pensavano, varcando la soglia dell’unico accesso; l’interno della torre li lasciò senza fiato: per qualche prodigio della magia, il cristallo, a specchio all’esterno, era perfettamente trasparente all’interno, tanto che non c’era alcun bisogno di finestre: la luce si riversava naturalmente là dov’era richiesta, morbidamente filtrata dalla sostanza stessa delle pareti. Non era tutto completamente trasparente, del resto: alcune parti del cristallo, quelle che separavano i molti piani, le pareti delle stanze, le scale che si arrotolavano a spirale, partendo da un corridoio circolare centrale, attorno alla grandiosa colonna istoriata che costituiva la spina dorsale dell’edificio, erano state lasciate al naturale, come l’esterno, creando meravigliosi giochi di riflessi e sfumature che ingannavano piacevolmente l’occhio.
I loro stivali, pur di morbido cuoio, traevano curiosi rintocchi musicali dai pavimenti, quasi stessero componendo una melodia involontaria che faceva vibrare l’intero edificio.
Giunti in cima, sotto l’ampia cupola del tetto, giurarono che avrebbero fatto rinascere quel luogo, a qualunque costo.
Fu mentre tornavano da basso che Bealy, osservando professionalmente la spina, si accorse che quelle che la ricoprivano da cima a fondo non erano solamente semplici decorazioni: seguendole attentamente con lo sguardo, tastandole occasionalmente con le dita agili e sottili, condusse i compagni che lo seguivano in silenzio fino ad un punto situato al centro esatto della torre, ad un piano che per motivi sconosciuti era stato lasciato completamente vuoto. Lo avevano ovviamente già notato, durante la loro esplorazione, ma senza prestarvi eccessiva attenzione, soprattutto perché in quel luogo la luce che filtrava uniforme dalle pareti creava un effetto particolare, tanto che pareva quasi di galleggiare in un mare color oro, attraversato da correnti di raggi più intensi.
La porta segreta che il piccolo ladro vi trovò, mascherata tra gli arabeschi, era rivolta verso nord e si apriva su di una stanza poligonale, alta quanto il piano stesso – all’incirca tre metri – le cui pareti, il pavimento e il soffitto erano completamente ricoperti da fregi vaporosi e indistinti, che sembravano mutare forma e proporzioni a seconda dell’angolo sotto cui li si guardava, sfumando in dimensioni che eccedevano quelle dello spazio comunemente conosciuto. Il loro mago sgranò tanto d’occhi, tirò un gran respiro, poi si soffregò soddisfatto le mani: muovendosi lentamente per la stanza, spiegò che, da quello che riusciva a capire, si trattava di una stanza costruita per facilitare l’evocazione; se gli avessero lasciato un po’ di tempo per studiarne meglio i segreti e le caratteristiche, entro qualche giorno avrebbe potuto donare loro un esercito invincibile, senza bisogno di sperperare alcunché nel soldo di comuni mercenari.
Se fossero stati più saggi, meno avidi, forse avrebbero trascinato di peso il mago fuori dalla stanza, un pentacolo perfetto, per poi sigillarla nuovamente, insieme alle figure indistinte che già sembravano muoversi nel gelo ultraterreno dietro le sue pareti di cristallo. Forse sarebbero anche fuggiti, portandosi dietro tutto quanto potevano trasportare dei tesori che avevano trovato, memori del disagio che avevano provato emergendo nel cortile esterno, della sensazione sgradevole di essere continuamente osservati...
Invece, lasciarono il mago a trafficare da solo al centro della spina per tre giorni, mentre procedevano ad inventariare i loro nuovi possedimenti.
All’alba del quarto giorno, l’urlo di un’anima martoriata li fece accorrere: salendo le scale della torre, si resero conto che l’atmosfera, là dentro, era cambiata, si era fatta opprimente, densa di rumori sommessi, fruscii appena percepiti; sbucando dal pavimento nel piano centrale, lo trovarono colmo di nebbia, che fluiva lenta in pallide onde nella luce diffusa.
C’erano ombre che vagavano in quella nebbia, impalpabili; ombre che riuscivano a vedere solamente con la coda dell’occhio, quasi stessero giocando con loro a nascondino.
Girando attorno alla spina, avevano raggiunto la porta, limitandosi ad affacciarsi poiché, in quel momento, per nulla al mondo avrebbero messo piede oltre la soglia: la stanza era colma di fumo oleoso, acre, che puzzava dell’odore di villaggi dati alle fiamme con tutti i loro abitanti; la veste sbrindellata del loro compagno giaceva in un angolo, contro la parete: a giudicare dagli orli
bruciacchiati, sembrava che un centinaio di aguzzini si fosse divertito a trapassarla in lungo e in largo con spade incandescenti.
Il mago aveva mantenuto la parola data: era davvero riuscito ad evocare un esercito.
Un esercito che adesso stava cercando loro!
Non persero tempo a recriminare, a maledire l’ex-socio per l’errore di presunzione che aveva evidentemente commesso nel pretendere di poter comandare a creature soprannaturali che neppure conosceva e tanto meno comprendeva: raccolte le loro poche cose, raggiunsero combattendo il cortile esterno da cui erano arrivati e si tuffarono a capofitto nei sotterranei, convinti di raggiungere in poche ore l’uscita che dava sulla valle ai piedi della montagna, riuscendo a battere in velocità gli inseguitori; un ottimo piano, perseguito con tenacia e coraggio degni di una compagnia di eroi... solo per trovarsi a vagare lungo corridoi e stanze mai viste in precedenza, incalzati ferocemente dagli Altri, rendendosi vagamente conto che quello che era stato un percorso quasi rettilineo
al loro arrivo era ora diventato un labirinto che mutava forma ad ogni passo, quasi fosse dotato di vita propria.
La trappola perfetta.
In ultimo, erano rimasti in tre, da quando Ulfgang, il nano massiccio e taciturno, si era fermato in una strettoia per cercare di trattenerli.
I nani erano forti e resistentissimi, ma lui era già stato ferito e Loro erano tanti: sicuramente ne aveva portati  molti con sé.
 
Bealy aveva finito di raccogliere il suo oro, ma il tintinnio metallico sulla pietra continuava, lieve: nella penombra oltre il ristretto cerchio di luce gettato dalla torcia si udiva ora un respirare lento e pesante, affannoso; si guardarono terrorizzati, preparandosi subito dopo alla difesa, schiena contro schiena, le spade sguainate.
Lentamente, dall’ombra emerse Ulfgang: stracciato, insanguinato, ma ancora vivo, camminava poggiandosi pesantemente al manico del suo martello da guerra, e sorrideva; Myrach e Lembra erano subito corsi a soccorrerlo, felici, sollevandolo da terra per portarlo in trionfo: non erano certo preparati alla grande sorpresa del nano!
Bealy fece appena in tempo ad azionare d’istinto la leva cui si era impigliato e ad infilarsi nel buio passaggio che si aprì e si richiuse immediatamente alle sue spalle, quando l’illusione che aveva fatto credere a tutti loro che il vecchio amico si fosse in qualche modo salvato si dissolse: le grida di terrore e sofferenza dei suoi due ultimi compagni lo accompagnarono a lungo nel buio, anche se in realtà dovevano essere state brevissime. 
Corse, corse, corse, a perdifiato, senza osare di fermarsi nemmeno per un secondo, finché non inciampò, stramazzando lungo disteso al suolo, dove rimase lungamente a piangere sconsolato e impaurito: aveva una gran voglia di tornare indietro a combattere, fino allo stremo delle forze, per vendicare i suoi compagni, i suoi migliori, unici amici! Solo che lui era un ladro, piccolo per giunta, non un guerriero o un eroe!
Doveva esserci un’altra maniera...
Ma certo!
Prese rapidamente una decisione: doveva riuscire a fuggire, riunire della gente e distruggere quella fortezza maledetta! Raderla al suolo, calcinarne la cenere e spargere sale sul terreno su cui era sorta!
Sì! Solo allora si sarebbe sentito soddisfatto... e forse, solo allora la sua anima avrebbe trovato pace dal senso di colpa che provava per aver scoperto quella stramaledetta porta.
Mentre correva nel buio, continuò a rimuginare sul modo di distruggere quel luogo e si sentì sempre più sicuro di riuscirvi!
All’improvviso, in fondo al cunicolo, dietro ad una curva, vide una lama di luce che tagliava le tenebre scendendo dal soffitto: un’apertura, finalmente! Poteva anche trattarsi di una delle tante uscite che sicuramente costellavano il labirinto sotterraneo e che loro non si erano neppure presi la briga di cercare: in effetti, il tunnel che stava percorrendo era sceso di parecchio, di questo era sicuro.
Stava per farcela! Sarebbe uscito e poi... la fortezza in fiamme: una vista che apriva il cuore!
Il suo entusiasmo si raffreddò un pochino, allorché si rese conto, con un pizzico di meraviglia, di non trovarsi da qualche parte ai piedi della montagna, bensì ancora una volta in un vasto cortile esterno: di fronte a lui, a pochi metri soltanto, si ergeva un maestoso portale ad arco ed oltre ad esso, la libertà!
Rincuorato, si avviò a passo deciso verso gli enormi battenti, l’animo leggero come il giorno in cui aveva saputo di essere stato ammesso a far parte stabilmente della banda.
Le porte erano davvero gigantesche, realizzate, al pari delle mura, in solida pietra nera; al centro, tra splendidi arabeschi, campeggiava un mastodontico scorpione rosso, quasi scarlatto, che esercitava su di lui un fascino ipnotico.
Da esperto d’arte qual era, per ragioni puramente professionali, Bealy non poté fare altro che ammirarne l’ottima fattura, le proporzioni e la naturalezza: era talmente realistico che lo si sarebbe detto pronto ad afferrare la preda e...
Un rumore, dietro di lui: lieve, quasi impercettibile, ma reale.
Si voltò di scatto: nessuno.
Un tonfo e un breve rotolio, come se qualcosa fosse inavvertitamente caduto di mano a qualcuno sul lastrico del cortile.
Questa volta si mise a correre, terrorizzato, lo sguardo fisso sulle porte sempre più vicine, convinto di essere in salvo; si fermò di botto, dopo soli pochi passi: con noncurante eleganza, quasi danzando, lo scorpione si era staccato dalla pietra, un arto dopo l’altro, ed ora avanzava lentamente verso di lui, facendo schioccare ritmicamente le pinze, sbarrandogli la strada con la sua immensa mole.
Oh, sì, sì, certo: era più che pronto ad afferrare la preda, ma soltanto dopo averci giocato per un po’.
Con un gemito, il piccolo ladro crollò in ginocchio: stranamente, gli era venuta una gran voglia di ridere...

(Dedicato a tutti gli avventurieri che vagano per i mondi. Diffidate delle grandi occasioni: potrebbero non essere tali!)
   
 
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Kerberos 1001