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Autore: Kaiidth    20/07/2020    0 recensioni
Jim represse un sospiro rassegnato, non voleva irritarla, le punizioni in quell’istituto erano decisamente dure – lo aveva imparato a proprie spese, poco dopo il suo arrivo – e la signora Kuida era tra le peggiori.
Doveva resistere per almeno due anni, su Tarsus IV, dopodiché sarebbe stata riesaminata la propria condotta e sarebbe potuto tornare sulla Terra. Doveva solo essere buono, essere un Kirk.
Genere: Drammatico, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: James T. Kirk, Leonard H. Bones McCoy, Nyota Uhura, Spock | Coppie: Kirk/Spock
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Disclaimer: Star Trek non mi appartiene, quanto scritto è tutto frutto della mia fantasia e tutti i contenuti sono creati per diletto senza alcun fine economico.
Note dell'autrice: 
siamo arrivati alla fine della prima parte della storia, da qui in poi ci sarà un cambio di scenario e la storia si muoverà molto più velocemente nel tempo e nello spazio. Spero che vi stia piacendo. Baci!
P.S. ascoltate le canzoni che pubblico ad inizio capitolo, se potete, perché ogni capitolo nasce dalla canzone corrispondente :)


“Vows are spoken to be broken
Feelings are intense words are trivial
Pleasures remain so does the pain
Words are meaningless
And forgettable”
Enjoy the silence – Joseph William Morgan
 

La promessa

 
2246.6.15 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
Jim poggiò la fronte contro il muro e chiuse gli occhi, era stremato, erano giorni che non riusciva a dormire e Kevin piangeva affamato.
Non sapeva che cosa fare, era confuso e solo. Shin era stato una costante fino a quel momento, l’unico a dargli la lucidità necessaria per lottare e ad infondergli coraggio, con lui aveva sperato che le cose potessero andare meglio e anche se erano state solamente mere illusioni Jim ci aveva creduto.  
E ora? Shin era disteso in un’incoscienza senza fine, erano giorni che il Vulcaniano non si muoveva e non si svegliava. Quella notte lo aveva riportato alla caverna, a fatica aveva trascinato quel corpo dolorante, l’amico aveva urlato per tutto il tempo, a volte aveva cercato di divincolarsi dalla sua stretta. Quando erano arrivati al loro accampamento, però, l’altro aveva chiuso gli occhi ed era crollato in un sonno dal quale ancora non si era svegliato.
Jim aveva provato a medicargli le ferite alla mano, ma non aveva potuto fare molto, se non strappare uno dei loro sacchi e con la stoffa creare un bendaggio di fortuna. Ora non sapeva che cosa fare, si sentiva totalmente inerme.
Inutile.
“Non importa cosa vuoi tu. Non sei nessuno” glielo aveva detto Frank il giorno in cui aveva deciso di gettare quella stupida Corvette giù dal burrone, il giorno in cui suo fratello Sam se n’era andato. E forse era vero, lui non era nessuno, non serviva a niente e non importava il suo volere.
Eppure… eppure Shin doveva svegliarsi, non poteva abbandonarlo ora, non dopo quello che avevano passato per arrivare fino a lì.
“J?” chiamò Kevin, Jim si avvicinò al bambino e gli si sedette accanto abbracciandolo. Sapeva che il piccolo era affamato e che quella fame lo stava divorando dall’interno, ma non poteva fare niente, non poteva uscire a cercare cibo dopo quello che aveva fatto, non poteva lasciare Shin in quello stato di incoscienza e Kevin totalmente da solo. Era solo un bambino.
E se non fosse più tornato? Che ne sarebbe stato di loro due?
Allo stesso tempo non poteva restare lì.
Erano passati giorni da quando aveva ucciso quell’uomo, molto probabilmente il suo corpo era già stato ritrovato e i militari si erano già messi sulle tracce di chi lo aveva assassinato. Si chiese cosa sarebbe successo se la loro ricerca li avesse condotti alla caverna.
“J mi racconti una storia?” chiese Kevin, aveva grandi occhi nocciola pieni di tristezza e paura. Avrebbe fatto di tutto per proteggerlo, si disse.
Ma lui ora si sentiva inutile.
Inutile.
Proprio come aveva detto Frank.
“In una caverna sotto terra viveva uno hobbit. Non era una caverna brutta, sporca, umida, piena di resti di vermi e di trasudo fetido, e neanche una caverna arida, spoglia, sabbiosa, con dentro niente per sedersi o da mangiare: era una caverna hobbit, cioè comodissima” iniziò a raccontare e sperò di poter essere come uno dei suoi eroi, come uno dei protagonisti di quei romanzi che tanto amava: impavido, gentile e valoroso.
 
 
 
2246.6.18 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
“Kevin ho bisogno che tu faccia una cosa molto importante per me. Lo farai?” chiese Jim mentre il piccolo Kevin lo guardava terrorizzato.
“Dimmi che lo farai” continuò insistentemente.
“Cosa? Ti prego non andartene. Ho paura del buio” si lamentò il piccolo.
Jim si passò una mano sul volto stanco “Devo scendere in città per cercare del cibo e tu sei l’unico che può restare qui per vegliare su Shin”
Kevin guardò il Vulcaniano disteso per terra, inerme, il petto che si alzava e si abbassava al ritmo regolare del respiro.
“Voglio venire con te, J, ti prego”
Jim scosse il capo “No, non posso portarti. Hai un compito molto importante, devi controllare Shin e se si sveglia devi dire dove sono andato e che non deve preoccuparsi perché tornerò molto presto”
Il bambino sembrò pensarci su prima di annuire debolmente e biascicare un “okay” poco convinto.
Jim si avvicinò al corpo disteso di Shin e gli si inginocchiò accanto, il Vulcaniano era rilassato in quel suo sonno continuo, forse era in coma, forse non sentiva più la fame, forse era morto. Ma Jim non voleva pensare che fosse morto, voleva solo sperare di tenerlo ancora con sé e di poterci parlare il prima possibile. Era il suo unico amico, il suo punto fermo e non poteva pensare di perderlo.
“Ti prego, ti prego cerca di svegliarti. Ovunque tu sia cerca di ritornare, starò via per poco, ma ti prego non morire” gli sussurrò all’orecchio appuntito prima di lasciargli un bacio sulla fronte ed alzarsi.
Doveva ritornare in città.
 
Era passato molto tempo dall’ultima volta che era stato in città e non sapeva che cosa aspettarsi. Shin non aveva potuto dirgli nulla sulla sua ultima spedizione, sapeva solamente che qualcuno lo aveva seguito e aveva cercato di ucciderlo.
Gli vennero in mente le immagini della notte in cui Shin era stato aggredito, le risate del militare mentre torturava il suo amico, le urla disperate, i gemiti e lui che si avvicinava silenzioso, estraeva il coltello dalla cintura e, raccogliendo tutte le forze nel suo corpo, affondava la lama nel collo morbido ed esposto della guardia.
Il coltello non aveva trovato nessuna resistenza, la carne si era aperta sotto il metallo e il sangue aveva iniziato a zampillare dalla gola come un fiotto impazzito più scuro della notte. Mentre fissava il fiotto di sangue le sue mani avevano cominciato a tremare e lui si era vagamente reso conto del coltello macchiato stretto nel pugno. Per un attimo si era bloccato senza sapere che cosa fare, aveva guardato l’uomo afflosciarsi al suolo e lui era rimasto fermo e confuso. Aveva ucciso un uomo. Aveva ucciso.
Scosse il capo per cercare di allontanare quelle immagini dalla sua mente come se bastasse quel gesto a cancellarle, in cuor suo sapeva che non le avrebbe mai dimenticate. Lui era ormai un assassino e questo suo peccato non sarebbe mai stato perdonato.
Avvicinandosi alla città scorse delle luci in lontananza e delle voci che rimbombavano nell’aere, come se fossero amplificate. C’erano altri suoni, altri rumori e sembrava che l’intera colonia fosse sveglia.
Tremò al solo pensiero di dover fare retromarcia e ritornare alla caverna a mani vuote.
“-il cibo è stato consegnato ai restanti coloni di Tarsus IV, chi tenterà di rubarlo sarà giustiziato pubblicamente nella Piazza Centrale. A voi fuggitivi, dispersi tra le montagne, sappiamo che ci siete ma non vi abbiamo seguito poiché sarà la fame ad uccidervi o a farvi uscire allo scoperto. Io sono qui, vi aspetto
Era la voce del Governatore Kodos e le luci che aveva visto poco prima erano le innumerevoli riproduzioni olografiche del suo discorso.
Vi aspetto.
Se solo avesse potuto avvicinarsi a Kodos, pensò sfiorando il coltello appeso alla sua cintura, allora forse non avrebbe esitato ad ucciderlo. Solo pochi giorni prima aveva ucciso quell’uomo senza pensarci due volte.
Era diverso, stavi proteggendo Shin.
Sarebbe riuscito ad uccidere a sangue freddo?
Forse sì, forse no. Ormai non riconosceva più sé stesso.
Secondo quanto riportato dal messaggio registrato, tutte le provviste erano state distribuite ai coloni, dunque avrebbe dovuto infiltrarsi in una casa abitata – e molto probabilmente sorvegliata – per riuscire a trovare del cibo.
Si fece forza e decise di continuare a camminare, non aveva molta scelta e doveva mangiare.
La fame era un perenne dolore, una costante presenza che gli stringeva il corpo in una morsa fredda e lo divorava lentamente dall’interno. Non poteva più resistere e nemmeno gli altri potevano. Era finita, doveva tentare.
Si addentrò tra i vicoli della colonia che portavano al cuore della città, le grandi ville decorate lasciavano intendere di essere abitate da persone importanti, di sicuro lì avrebbe trovato i membri di valore della comunità.
Camminò furtivamente tra le strade, le ville illuminate dalle luci erano protette dalle squadre di sicurezza, era impossibile avvicinarsi o pensare di entrare. La zona era completamente sorvegliata ed era un rischio anche solo essere lì. Doveva pensare ad altro, farsi venire un’idea. Doveva lottare o morire.
Continuò a camminare per cercare un punto qualsiasi in cui potersi infilare ma prima di proseguire per attraversare la strada venne attratto da un sibilo frettoloso. Si acquattò ancora di più contro il muro mentre si guardava intorno con circospezione. Era paralizzato dalla paura.
Pochi secondi dopo sentì un bisbiglio e poi un altro e un altro ancora, sembrava che qualcuno stesse parlando, si rese conto che i suoni provenivano dall’angolo alla sua sinistra e lui era indeciso se proseguire o scappare il più lontano possibile da lì. Si disse che di certo non potevano essere delle guardie o non avrebbero bisbigliato, il che poteva fare di quelle persone dei fuggitivi come lui, affamati come lui. E se lo avessero aggredito?
Sentì la paura aumentare nel suo petto ma si rese conto di trovarsi ad un bivio e l’unica altra scelta, oltre il palesarsi, era tornare indietro a mani vuote.
Si fece coraggio e continuò a camminare seguendo i bisbigli.
“Sei una testa d’asino! Come pensi di entrare?”
Ora le voci erano distinguibili e colui che aveva parlato si trovava ad una distanza minima, appena svoltato l’angolo lo avrebbero visto.
Decise di restare ancora nascosto e di anticipare la sua presenza, si fece coraggio e inspirò profondamente prima di bisbigliare con quanta più enfasi possibile “Hey”.
Le voci si zittirono e per qualche secondo nessuno rispose.
E se fossero state delle guardie che gli stavano tendendo una trappola?
“Hey, mi chiamo J, voi… voi chi siete?”
Pregò con tutto sé stesso di non aver sbagliato e di non aver firmato la propria condanna a morte con le sue stesse mani.
“Sei un fuggitivo?” gli rispose poco dopo la voce di una ragazza, o almeno sembrava, in quei sussurri non riusciva a distinguere neppure il proprio tono di voce.
“S-si”
Sentì un mormorio indistinto, poi dei passi. Avevano deciso di uscire allo scoperto e lui era da solo, con un coltello come arma e senza forze.
Strinse spasmodicamente il coltello e lo tenne fermo davanti a sé ma nell’ombra prodotta dalle luci delle strade riuscì a vedere una figura poco più bassa di lui, esile e con folti capelli ricci. Era una ragazzina.
“Metti giù quel coso, K’rut” sibilò l’altra, agitata.
Jim notò che dietro la figura comparivano altre tre persone, anche loro giovani, molto probabilmente avevano la sua stessa età.
Abbassò lentamente il coltello ancora insicuro sulla propria incolumità.
“Io… io sono J. Siete da soli?” chiese cercando di tenere a freno il tremolio nella propria voce, non voleva apparire spaventato.
“Si” parlò la ragazza “siamo soli. Io mi chiamo Julia, loro sono Tom e Solok”
Solok.
Solok.
“Tu… tu sei un Vulcaniano! Eri all’istituto, eri stato assegnato alla mia classe”
Il vulcaniano si fece avanti, parzialmente illuminato dalla luce artificiale Jim vide che era completamente diverso dopo quasi un mese passato nella fame e nella fuga. Era magro e pallido, aveva i capelli più lunghi e disordinati, gli abiti consumati. Gli altri ragazzi non erano in una situazione migliore.
Si disse che lui, Shin e Kevin non avevano un aspetto migliore, ma almeno erano puliti grazie alla vicinanza al ruscello.
“Ci sono altri tre ragazzi che ci aspettano sulle montagne. Se sei da solo puoi unirti a noi” rispose il Vulcaniano, senza davvero rispondere alla sua domanda. O aveva semplicemente affermato qualcosa di evidente.
“Io non sono solo, ho degli amici che mi aspettano, siamo accampati in una grotta sulle montagne, noi… io sono sceso per cercare cibo. Il mio… ah, amico, Shin, è Vulcaniano, è stato ferito e sta molto male. Credo sia entrato in coma o qualcosa del genere”
Julia si fece avanti “J, giusto? Mi dispiace per il tuo amico. Purtroppo qui non c’è modo di recuperare del cibo, abbiamo fatto il giro di tutto il quartiere e le ville sono… impenetrabili
Jim sospirò affranto, aveva immaginato quanto sarebbe stato difficile ma non credeva che fosse impossibile. Eppure non era solo, ora c’erano altri con lui e forse, forse avrebbe potuto pensare a qualcosa.
“Sentite, volete recuperare il cibo? Facciamo un patto: io vi aiuto e voi aiutate me e i miei amici” iniziò a parlare, gesticolando animatamente “c’è una villa a pochi metri da qui, ci sono passato poco fa, è la più esterna e la più vicina al buco nella recinzione elettrica. Dal momento che conosciamo la breccia nella recinzione sarà facile uscire velocemente. Se uno di noi distraesse le guardie e scappasse il più velocemente possibile gli altri potrebbero sfruttare la distrazione per entrare, saccheggiare e scappare” spiegò animatamente.
“Tuttavia il capro espiatorio sarebbe inseguito non solo dalle guardie assegnate alla villa, ma anche da quelle che pattugliano le strade” si intromise Solok.
Jim annuì “Lo so, ma è un rischio che bisogna correre. Solok è logico tentare di tornare con del cibo o morire provandoci”
“Trovo la tua logica fallace”
“Ma è un buon piano” si intromise Tom con un sorriso sghembo “se solo potessimo fidarci di te”
Jim grugnì di disappunto “Ancora non vi fidate di me? Sentite, ho dei ragazzi che mi stanno aspettando, uno in coma e l’altro ha nove anni. Ho davvero bisogno di portare loro del cibo”
“Così come noi” rispose Tom.
“E allora credetemi! Farò io da esca, mi farò seguire e ci incontreremo tra le montagne. Uscendo dalla breccia andate ad ovest, camminate esattamente per due punto sei chilometri troverete un tronco caduto, lì vi attenderò io”
I ragazzi si guardarono tra loro, senza parlare, Julia annuì – doveva essere lei la leader del gruppo – e ritornarono a voltarsi verso di lui.
“Va bene, J, affare fatto. Ci incontreremo al tronco. Muoviamoci ora”.
 
Durante il primo anno alle scuole medie, sulla Terra, Jim non aveva avuto molto interesse negli sport, gli piacevano la corsa ad ostacoli e gli sport fisici di lotta ma non era mai entrato in qualche squadra, né aveva praticato gli sport seriamente. Aveva spesso passato il suo tempo libero a leggere, studiare, guardare il cielo e le stelle.
Molto spesso aveva fantasticato su suo padre e sull’uomo che era stato, a bordo di una nave spaziale, con sua madre al proprio fianco mentre viaggiavano verso nuove e ignote avventure.
Non era mai stato attratto dagli sport sebbene fosse fisicamente in forma e avrebbe potuto eccellere se solo ci avesse messo abbastanza impegno.
Eppure ora non era così, ora che l’adrenalina scorreva nelle sue vene facendo pompare il suo cuore due volte più velocemente, ora che le sue gambe si muovevano veloci e i suoi piedi sembravano non toccare il suolo, ora che scappava da morte certa, beh, ora gli sport non gli erano mai sembrati più utili.
Correva, Jim, come aveva corso il giorno della condanna, correva per salvarsi, per salvare; se i ragazzi avevano avuto successo allora avrebbe portato del cibo a Kevin e Shin. Allora avrebbe fatto qualcosa di buono.
Uno dei laser gli sfiorò il braccio, ma lui non si fermò, riuscì a gettarsi sotto la breccia della rete elettrica e a rialzarsi in fretta per dirigersi verso le montagne.
Il dolore al braccio cominciò a pulsare ma lui non lo degnò neppure di uno sguardo, continuò a correre, invece, perché doveva tornare indietro, doveva tornare a casa.
 
Arrivò al tronco e vi si nascose dietro. Se i ragazzi avevano avuto successo, allora sarebbero stati lì più o meno dopo un’ora dal suo arrivo. Sperò di non essersi sbagliato su di loro e che non decidessero di tradirlo.
La sua sopravvivenza dipendeva dalla fiducia che aveva riposto in quei tre sconosciuti e anche se lui non era bravo a fidarsi – Shin era un’eccezione – aveva voglia di sperarci con tutto sé stesso.
 
Dopo quasi un’ora e trenta minuti Jim notò delle figure avvicinarsi al punto d’incontro. Erano tre figure e non sembravano adulte. Sentì il cuore leggero e per poco non pianse.
Per poco, pensò, asciugandosi una lacrima.
 
I quattro ragazzi camminarono a lungo in direzione della caverna in cui Shin e Kevin erano rimasti. Avrebbero proseguito insieme per due punto otto chilometri, dopodiché Julia e Tom sarebbero andati a prendere gli altri ragazzini che erano rimasti al loro rifugio, mentre Solok e Jim – insieme al cibo che avevano recuperato – avrebbero proseguito per la fonte del fiume e li avrebbero aspettati alla caverna.
Nonostante avessero considerato che stare insieme poteva essere una scelta pericolosa, poiché se anche uno di loro fosse stato catturato e torturato avrebbe potuto mettere in pericolo tutti gli altri, avevano decretato che una squadra numerosa era anche una squadra più forte. Valeva la pena correre il rischio. Jim guidò il piccolo gruppo nel silenzio della notte interrotto solo dai loro respiri affannati e dai passi che si abbattevano sul sottobosco. Nella sua mente continuava a pensare a Shin e al modo per riportarlo indietro, ovunque fosse e qualunque cosa stesse accadendo al suo corpo.
 
“È in uno stato di trance indotta dalla mente, i Vulcaniani entrano in uno stato mentale di calma in grado di curare le proprie ferite mortali. Tuttavia, considerando il suo svantaggio, ha poche speranze di uscire da solo dallo stato in cui la sua mente si è rintanata” spiegò Solok mentre osservava attentamente Shin.
Jim scosse il capo, era troppo confuso per riuscire ad afferrare tutte le parole del Vulcaniano, ma si azzardò a chiedere “Tu potresti curarlo? Potresti riportarlo indietro?”
L’altro lo guardò a lungo, con uno sguardo imperscrutabile, prima di rispondere “Sono fisicamente e mentalmente debole, sarebbe meglio evitare l’intervento”
“Ti prego, Solok, ti prego. Riportalo indietro se… se non ci provi potrebbe anche non svegliarsi mai. Io… io ho bisogno di lui
Si vergognò quasi delle proprie parole ma non poteva fare a meno di pregare, chiedere che l’altro riportasse indietro Shin. Era il suo unico amico, la sua costante, il suo punto focale. Senza di lui si sentiva solo e non sarebbe andato avanti. Non ce l’avrebbe mai fatta.
“Perché ti preoccupi tanto per un Vulcaniano? La tua enfasi è peculiare”
Non poteva costringere Solok a capire ed accettare la sua disperazione ma doveva insistere, doveva fargli capire che per lui Shin era importante.
“Lui… lui è mio amico. Lui mi ha salvato la vita più volte e… io ho davvero bisogno che lui sia al mio fianco” biascicò abbassando lo sguardo.
Solok si spostò accanto a Shin, portandosi in ginocchio, si chinò sul viso del giovane e portò quattro dita in punti diversi sul suo volto “Molto bene, J, proverò a portare indietro il tuo amico”.
 
Erano passate diverse ore da quando Solok aveva poggiato le mani sul volto di Shin, Jim non riusciva a definirle con precisione, tuttavia queste erano volate quando nella caverna avevano fatto la loro comparsa Julia e Tom insieme a tre ragazzini piuttosto spaventati, erano molto piccoli – probabilmente della stessa età di Kevin – e nessuno dei tre aveva detto ancora una parola. Julia gli aveva detto i loro nomi: John, Shran e Anton. Shran era Andoriano e sembrava il più piccolo e spaventato.
Tom e Jim avevano finalmente messo le proprie mani sul cibo che avevano raccolto, i tre ragazzi avevano fatto un ottimo lavoro nella villa. Ascoltando il loro racconto Jim si disse che, oltre alla bravura, erano stati davvero fortunati. Ovviamente se si poteva considerare fortuna il rubare del cibo su un pianeta infettato da spore velenose, mentre il Governatore gli dava la caccia dopo averli condannati a morte.
La fortuna, si disse Jim, era un concetto davvero strano.
Illogico, avrebbe detto Shin.
Tuttavia Tom gli aveva raccontato che quando erano entrati nella villa non avevano trovato nessuno, molto probabilmente i suoi inquilini erano fuori e le uniche persone preposte a sorvegliare il cibo erano le guardie che Jim aveva distratto. Solok aveva velocemente creato un sacco strappando le tende della cucina e i tre avevano intercettato il compressore dove erano stati riposti gli alimenti destinati a quella famiglia. I tre non avevano avuto il tempo di girare per l’abitazione, ma Tom suppose che dovesse appartenere a gente molto ricca, considerando il mobilio pacchiano e la grandezza del posto.
“Quello che non capisco” li interruppe Julia “è il perché Kodos non faccia altro oltre a cercare di ucciderci tutti e suddividere il cibo rimanente”
“Beh, per loro saremmo delle bocche da sfamare in più e, considerando che siamo la feccia di questa comunità, per lui è logico eliminarci e permettere la sopravvivenza dei più valorosi” rispose Jim, mentre metteva da parte una scatola di fagioli precotti cercando di frenare l’istinto che gli diceva di aprirla e divorarla, senza pensarci due volte.
“Certo, questo l’ho capito. Ma J, è assurdo, metà del cibo della colonia è andato distrutto ormai sarà passato un mese, quanto ancora durerà il cibo rimasto? Perché Kodos non ha cercato di chiedere aiuto piuttosto che pensare a decimare la popolazione?”
Jim scosse il capo “Una cosa non esclude l’altra. Forse Kodos ha davvero chiesto aiuto e forse non ha ottenuto risposta. Per questo motivo ha preso in considerazione l’esecuzione. O forse no, non lo sapremo mai immagino”.
Jim pescò due confezioni dal sacco improvvisato e osservò attentamente il cibo tra le sue mani, il suo cuore perse un battito e lui si trovò ad inspirare profondamente e cercare di non dare nell’occhio. Strinse le due confezioni e si disse che doveva tenere quelle due scatole solo per sé, avrebbe dato via tutte le sue razioni di cibo, ma doveva tenere quel cibo solo per sé.
Un basso mugolio li distrasse tutti, Solok stava aprendo gli occhi e sul volto di Shin era comparsa una smorfia di dolore. Jim non ci pensò due volte prima di infilare le due scatole nel sacchetto che portava appeso alla cintura, ci infilò anche il coltello e si alzò in fretta.
“Cosa sta succedendo? Ce l’hai fatta? L’hai guarito?” chiese a Solok mentre questi si rimetteva in piedi.
“Suppongo che gran parte del lavoro l’abbia fatto la sua stessa mente, ha fermato l’emorragia di sangue dalla mano così che non costituisse un pericolo mortale per lui, in ogni caso ho stimolato la sua mente e dovrebbe essere in grado di svegliarsi tra poco”
Jim sospirò tutto il suo sollievo e si trattenne dal saltare su Solok per abbracciarlo.
Si disse che, tutto sommato, per quanto strano fosse il concetto di fortuna, in quel momento gli piaceva davvero essere fortunato.
 
 
 
2246.6.19 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
Shin sedette ancora un po’ sul bordo parallelo alla cascata, guardava l’acqua gettarsi nel torrente che sinuoso si muoveva tra le montagne cercando di raggiungere la città. Prima dell’arrivo dei coloni, la città era stata un lago, tuttavia quando i primi pellegrini avevano pianificato la colonia, avevano deciso di prosciugarlo e raccogliere l’acqua del pianeta nei serbatoi che circondavano la vallata.
Jim fissò per un po’ l’amico prima di uscire dalla grotta e avvicinarsi a lui, tutti gli altri stavano ormai dormendo e anche Solok – che fino a poco prima aveva meditato – si era assopito. Erano gli unici due ancora svegli, ma ora che Shin si era svegliato Jim si rese conto di non voler dormire per niente al mondo.
Avevano cercato di mangiare quanto più cibo possibile, quella sera stessa gran parte di quello che avevano rubato sarebbe stato bruciato dalle spore velenose.
“Hey” disse, sedendosi accanto all’amico.
Shin lo guardò ma non disse nulla, si limitò a voltarsi di nuovo verso il torrente.
Molto probabilmente se non fossero stati dei fuggitivi su un Pianeta maledetto quel momento sarebbe stato un momento felice, tra due amici che condividevano un pomeriggio di tranquillità.
Ma erano solo dei fuggitivi su un Pianeta maledetto.
“Io… so che forse sto sbagliando ma-”
“Grazie per avermi salvato quella notte” lo interruppe Shin guardandolo di nuovo.
Jim scosse il capo “Non devi. È stata solo fortuna”
Fortuna.
“No, non lo è stata. Hai ucciso quell’uomo e se non lo avessi fatto lui avrebbe ucciso me” mormorò il Vulcaniano.
Jim annuì guardando gli alberi che circondavano la grotta e la scarpata, le radici facevano capolino tra le rocce del dirupo e in basso, verso il ruscello, ondeggiavano steli d’erba mossi dalla brezza e dal flusso dell’acqua in movimento.
“Sono un assassino, ora”
“No, non lo sei. Lo hai fatto per proteggere la mia vita”
Nessuno dei due parlò, il silenzio si innalzava tra di loro accompagnato dai rumori del bosco, e non era fastidioso e neppure opprimente, era un caro amico che li cullava nel dolce dolore che stavano vivendo.
“Noi Vulcaniani non uccidiamo. Non prendiamo la vita degli altri esseri viventi, per noi la vita è tanto sacra quanto abominevole toglierla. È il motivo per cui non mangiamo la carne” continuò.
Jim annuì di nuovo “È questo che sono, dunque? Un abominio?”
Shin lo fissò intensamente “Sono davvero pochi i casi in cui un Vulcaniano potrebbe uccidere. Per proteggere un familiare o per proteggere il proprio compagno. Quella notte tu mi hai protetto e facendolo hai tolto la vita, è un debito che non potrò mai ripagare. Tuttavia io ti sono riconoscente per ciò che hai fatto”
Jim chiuse gli occhi e respirò lentamente.
Non sapeva che cosa provare in quel momento, sentiva che sarebbe potuto precipitare nello sconforto in qualsiasi momento se si fosse fermato a pensare davvero a ciò che aveva fatto.
Ma non poteva farlo, non poteva crollare e trascinare tutti dietro con sé. Doveva resistere e farlo con tutte le forze che possedeva. Avevano una notte ancora lunga davanti ma doveva pur spuntare il sole prima o poi.
Riaprì le palpebre e sorrise “Ho un regalo per te” sussurrò portando le mani al sacco appeso alla cintura, si guardò intorno prima di estrarre due scatole in silicone e tenderle all’amico.
Shin le prese e le osservò a lungo.
La prima volta che Jim aveva visto un Vulcaniano aveva pensato che molto probabilmente avessero ragione coloro che li consideravano dei computer umani. Sul loro viso non c’era l’ombra di un’espressione, nessuna emozione, neppure nella loro voce. Quando aveva rivisto Solok, a distanza di un mese dalla condanna, il Vulcaniano non aveva lasciato trasparire nessuna emozione sul suo volto pallido. Tuttavia Shin era diverso, e questo Jim lo aveva notato dal primo giorno in cui l’altro gli aveva salvato la vita.
Shin guardava le scatole e forse per chiunque altro il suo sarebbe stato un volto privo d’espressività o di emozione, ma non per Jim che vide quei grandi occhi scuri riempirsi di emozione, le palpebre abbassarsi leggermente, un tremolio del labbro, la presa irrigidirsi sulle due confezioni.
Quando Shin lo guardò il suo volto era tutt’altro che una lastra di impassibile freddezza e mero calcolo, ma era un dipinto bellissimo di emozioni umane, rispetto, gratitudine, commozione, tristezza, gioia.
Jim sorrise mentre Shin mormorava “È zuppa di Ploomek”.
Il Terrestre annuì e di getto circondò l’altro con le proprie braccia, toccò un corpo solido, troppo sottile, troppo magro e con troppe ossa esposte. Eppure era solido e vivo. E anche se erano solo dei fuggitivi su un Pianeta maledetto quel piccolo momento di pace apparteneva solo a loro e lo stavano vivendo intensamente.
 
 
 
2246.6.24 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
Jim strinse al petto il piccolo Kevin mentre piangeva disperato, lo cullava tra le braccia da ormai un’ora. Gli altri ragazzi erano appiattiti contro le pareti della caverna con le mani premute sulle orecchie e gli occhi chiusi.
Shin era seduto accanto a lui e guardava fisso la parete di roccia che aveva di fronte come se potesse trovare una spiegazione al delirio in cui stavano vivendo.
Un boato si propagò fuori dalla caverna, la terra tremò e sembrò che l’intero Pianeta stesse vibrando con lei, Julia rilasciò un urlo spaventato e si strinse contro Shran. Solok lanciò un’occhiata fuori dalla caverna e sebbene il suo sguardo non lasciasse trasparire alcuna emozione, Jim sapeva che il Vulcaniano era preoccupato e spaventato.
Tutti loro erano tutti spaventati, anzi, erano terrorizzati.
“Non voglio morire, J, che cosa succede?” piagnucolò il piccolo Kevin.
Jim inspirò profondamente e scosse il capo, si voltò a guardare Shin prima di trovare il coraggio di parlare “Non lo so, Kev, non lo so cosa succede. Ma noi siamo lontani dalla città. Siamo al sicuro, qui”
Shin lo fissò di rimando con i suoi occhi scuri profondi e impenetrabili. Si guardarono a lungo e seppero, comunicarono, perché era evidente che ciò che aveva detto era solo una menzogna. Sapevano benissimo che cosa stava accadendo ma non volevano terrorizzare ancora di più i ragazzi più piccoli e forse dirlo ad alta voce avrebbe terrorizzato troppo anche loro.
Era passata una settimana dalla loro ultima incursione in città, in quei lunghi giorni avevano patito la fame ma non avevano osato rischiare. Erano senza forze, così deboli da aver perso anche la capacità di soffrire.
Era chiaro. Così chiaro da fare paura, così chiaro da far tremare la terra.
Il cibo su Tarsus IV era ufficialmente finito.
Ed era lì che la ribellione dei civili aveva inizio.
Era il tempo migliore e il tempo peggiore, la stagione della saggezza e la stagione della follia, l'epoca della fede e l'epoca dell'incredulità, il periodo della luce e il periodo delle tenebre, la primavera della speranza e l'inverno della disperazione. Avevamo tutto dinanzi a noi, non avevamo nulla dinanzi a noi; eravamo tutti diretti al cielo, eravamo tutti diretti a quell'altra parte” iniziò Jim e tutti gli occhi si puntarono su di lui.
Erano diretti al cielo? Erano diretti alle tenebre?
Erano diretti alla luce?
Nessuno di loro lo sapeva e nessuno di loro se lo chiedeva da tempo. Erano soli, affamati, stanchi, in un inferno senza fine costruito solo per loro, nove ragazzini al di là del tempo.
Era il tempo migliore e il tempo peggiore.
Shin lo guardò, i suoi occhi scuri brillarono nel buio, lo sondavano mentre Jim continuava a raccontare. Le sue parole erano un unguento per la paura, una distrazione dall’abisso che li stava inghiottendo.
Continuò a parlare fino a che un’altra bomba esplose distruggendo la quiete.
Continuò a parlare e lo fece finché non ebbe più le forze per continuare a parlare.
 
 
 
2246.6.26 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
“J! J, corri! Corri! Stanno arrivando! Dobbiamo scappare” urlò Anton uscendo dalla caverna. Il ragazzino Terrestre era pallido, troppo magro, aveva le guance scavate e gli occhi cerchiati di nero gli davano l’aria di uno spettro, uno di quelli che Jim aveva visto solo nei film olografici.
Il bambino si scontrò contro di lui e per poco non caddero entrambi giù dalla rupe.
“Che succede?” chiese allarmato.
“Stanno arrivando! Ci sono delle persone, Tom li ha visti mentre perlustrava la zona, dobbiamo andarcene! Hanno i fucili”
Sentirono degli spari poco lontano, Jim constatò che erano abbastanza lontani da dargli un po’ di vantaggio ma troppo vicini da metterli in guardia. Scapparono entrambi verso la caverna dove gli altri ragazzi si stavano preparando per partire.
Non avevano niente con loro, se non le carcasse dei corpi denutriti che si trascinavano stancamente dietro.
“Andiamo! Risaliremo la montagna e cercheremo riparo dall’altra parte” disse “dobbiamo dividerci, così non saremo catturati tutti se dovessero arrivare a noi. Julia, Tom, prendete Shran e John e risalite verso ovest, Solok prendi Kevin e Shin e risalite a nordovest. Io resterò indietro e cercherò di depistarli creando false tracce”
Shin si fece avanti con lo sguardo determinato ma Jim alzò una mano dinanzi a sé “Non accetto proteste! Sei ancora debole dopo le ferite che hai riportato, è logico che sia io a depistarli. Ci incontreremo dall’altra parte”
Solok li fissò entrambi ma J non riuscì a leggere l’espressione del Vulcaniano, poi annuì “Dobbiamo andare”.
Jim si avvicinò a Shin e gli prese le mani tra le sue, il Vulcaniano sussultò sgranando gli occhi “Ci ritroveremo. Non importa come, non importa dove, ci ritroveremo. Tornerò da te”
Shin lo guardò come se fosse combattuto tra la voglia di obbedire e quella di abbatterlo per poterlo trascinare con sé ma alla fine si arrese e annuì anche lui.
Jim lo abbracciò, erano giorni che quel gesto continuava a ripetersi e nessuno dei due aveva detto nulla al riguardo. Quando si abbracciavano era l’unico momento in cui entrambi riuscivano a trovare un po’ di leggerezza e pace in quell’inferno in cui stavano precipitando.
“Resta vivo” sussurrò Jim prima di lasciarlo andare.
 
Cosa succede? Pensò, aprendo gli occhi.
Era steso a terra, gli faceva male il petto e sentiva le gambe pesanti, cercò di mettere a fuoco la vista ma sembrava che una patina rossa fosse calata sul suo viso e gli impedisse di vedere.
Provò a mettersi seduto ma si sentì spingere di nuovo a terra, c’erano mani intorno a sé che lo stavano toccando e sondando ogni centimetro del suo corpo.
Respirò a fatica, lo avevano colpito alla schiena e molto probabilmente avevano continuato a picchiarlo dopo che era caduto incosciente, ora sentiva i polmoni bruciare.
Aveva cercato di seminarli, di depistarli quanto più possibile, correndo impazzito per lasciare false tracce dietro di sé ma lo avevano raggiunto e ora lo tenevano inchiodato al suolo come fosse un oggetto inanimato o un pupazzo inerme. Era senza forze, era affamato, era stanco e forse, forse, era pronto a morire.
Che lo avessero pure ucciso, pensò, non gli importava più. Era ormai troppo tardi.
Aveva mandato via tutti, li aveva salvati dall’arrivo delle bestie, il suo compito era finito e lui poteva anche morire. Pensò a Shin, ai suoi occhi scuri e profondi, al suo sguardo risoluto, agli abbracci che si erano scambiati, alle parole non dette.
Ripensò al giorno in cui avevano trovato le pesche, al giorno in cui avevano mangiato il Freok, ripensò a quando avevano trovato Kevin, agli abbracci dati, alle parole dette, ripensò alle loro mani unite, allo sguardo del Vulcaniano quando gli aveva teso la zuppa di Ploomek confezionata. Ripensò al militare che aveva ucciso per proteggere Shin, al suo sangue che zampillava dalla ferita. Ripensò a tutto e a niente, era pronto a morire.
Era stato davvero il tempo migliore e il tempo peggiore, la stagione della saggezza e la stagione della follia, l'epoca della fede e l'epoca dell'incredulità, il periodo della luce e il periodo delle tenebre, la primavera della speranza e l'inverno della disperazione. Avrebbe solo voluto parlare, avrebbe solo voluto dire addio.
Ma le parole non erano necessarie, erano solo di troppo.
Scusami, Shin pensò Jim, sembra proprio che non riuscirò a raggiungerti, alla fine.
Sentì un colpo abbattersi contro la tempia destra, emise un suono alieno, irriconoscibile, ma non poteva fare nient’altro. Le orecchie fischiarono e il rosso accecante sui suoi occhi sembrò aumentare la propria intensità, divenne sempre più caldo, più denso, più scuro. Finché non divenne buio e poi svenne.
 
Aprì gli occhi e si trovò disteso sotto un cielo grigio mentre una pioggia di cenere lo ricopriva e il fumo denso gli entrava nei polmoni avvolgendoli dolorosamente.
Provò a respirare profondamente ma fu colpito da un colpo di tosse così forte da fargli scendere le lacrime.
Si guardò intorno mentre cercava di mettersi seduto, era sicuramente stato portato in città, riconosceva le case intorno a sé ma era stato abbandonato in qualche stradina secondaria. Forse lo avevano creduto morto e lo avevano gettato via come un corpo senza più alcun valore.
Si alzò lentamente a sedere e per un attimo la sua mente non riuscì a registrare ciò che i suoi occhi stavano guardando, percepì solamente la cenere che gli cadeva sul volto. Poi si rese conto, si guardò intorno e vide.
Era circondato dai corpi, tutto intorno a sé c’erano corpi distesi, immobili, con gli occhi sgranati e senza vita, le bocche ancora semiaperte e le membra disarticolate.
Un conato di vomito gli risalì alla gola e dovette lottare per mantenere giù la bile, non avrebbe potuto vomitare nient’altro. La puzza di fumo lo stava avvolgendo e gli occhi pizzicavano dall’aria rarefatta, doveva provare ad andare via da lì. Doveva scappare. Si fece forza sulle braccia per portarsi carponi, era stremato e il petto faceva male come se avesse una lama infilata direttamente nello sterno, ma cercò di trovare le energie per mettersi in piedi.
Si alzò lentamente e traballò per un po’ prima di mantenersi in una posizione relativamente stabile.
Cammina, Jim, ora cammina.
Cercò di muovere le gambe ma queste non rispondevano ai comandi del suo cervello, sembravano immobilizzate.
Sentì degli spari provenire da un’altra parte della città e sapeva di doversi allontanare da lì o sarebbe stata la fine per lui, così decise di reggersi alle mura per potersi dare la spinta necessaria a muovere le sue articolazioni. Camminò il più velocemente possibile, nonostante riuscisse a fare pochi passi per volta, ma doveva continuare a lottare.
Non sapeva dove stesse andando e neppure che cosa avrebbe fatto da quel momento in poi, era troppo debole per scalare la montagna ma non poteva restare in città dove sarebbe stato troppo esposto. Non sapeva che cosa stesse accadendo, che cosa fosse successo, ma era certo che i civili si stavano ribellando al Governatore e alle sue forze militari e forse lo stesso esercito si era ormai ammutinato.
Era una lotta all’ultimo sangue, una lotta in cui tutti combattevano contro tutti e lui era proprio al centro.
Camminò ancora, non sapeva quanta strada avesse percorso fino a quel momento, tutto quello che sapeva era che aveva necessità di fermarsi, di crollare, di morire lì.
Inciampò contro un gradino e cadde battendo la testa, era così stanco, così debole.
Debole.
Si accorse di essere ai piedi di una gradinata, tentò di guardare in alto e vide il palco, il podio dove Kodos aveva tenuto il suo discorso il giorno della condanna. Lasciò andare una risata amara, incredula, arrabbiata.
“Sono ritornato qui, alla fine” sussurrò, ma il solo movimento delle labbra gli provocò un altro conato di vomito.
Tentò di rimettersi in piedi ma con scarsi risultati, crollò di nuovo contro le scale.
Sospirò chiudendo gli occhi, non c’era più nulla da fare, era finito.
Sorrise e si distese in maniera malconcia sulla scala, avrebbe aspettato lì la morte mentre guardava un cielo plumbeo ricoperto dal fumo e mentre la fame lo mangiava lentamente dall’interno, il sangue gli bagnava il volto e la solitudine gli faceva compagnia come una vecchia amica.
Avrebbe aspettato solo la morte, nient’altro.
Non puoi fare più niente, Jimmy.
Chiuse gli occhi e si abbandonò al dolore e al piacere, si rilassò immaginando la fine, immaginando il suo corpo freddo e immobile, la pace che lo avrebbe atteso alla fine della sua vita.
Ricordò Shin e sorrise, in quell’unico, stanco istante, si disse che nonostante tutto, aveva avuto fortuna. L’ultimo pensiero fu l’immagine di Shin, poi svenne e non seppe più nulla, non sentì più niente.
Svenne e non sentì i passi che si muovevano velocemente verso di lui, non vide la tenente Kenzo avvicinarsi a lui con gli occhi sgranati mentre guidava una squadra di soccorso verso il palazzo del Governatore Kodos.
Non vide nulla, non sentì nulla, non disse nulla.
Le parole erano davvero irrilevanti.
 
 ...continua
Grazie per aver letto fin qui.
   
 
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