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Autore: Kaiidth    16/07/2020    0 recensioni
Jim represse un sospiro rassegnato, non voleva irritarla, le punizioni in quell’istituto erano decisamente dure – lo aveva imparato a proprie spese, poco dopo il suo arrivo – e la signora Kuida era tra le peggiori.
Doveva resistere per almeno due anni, su Tarsus IV, dopodiché sarebbe stata riesaminata la propria condotta e sarebbe potuto tornare sulla Terra. Doveva solo essere buono, essere un Kirk.
Genere: Drammatico, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: James T. Kirk, Leonard H. Bones McCoy, Nyota Uhura, Spock | Coppie: Kirk/Spock
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Disclaimer: Star Trek non mi appartiene, quanto scritto è tutto frutto della mia fantasia e tutti i contenuti sono creati per diletto senza alcun fine economico. 


“I'll use you as a warning sign
That if you talk enough sense then you'll lose your mind
And I'll use you as a focal point
So I don't lose sight of what I want
And I've moved further than I thought I could
But I missed you more than I thought I would”
I found – Amber Run
 

La vergogna

 
2246.5.23 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
Spock aprì gli occhi e si accorse che era ormai quasi l’alba. Le stelle nella volta celeste iniziavano a diradarsi, coperte dal chiarore del giorno che a breve avrebbe inondato il cielo.
Si guardò intorno e vide che J era disteso accanto a lui in posizione fetale, stava dormendo profondamente. Nessuno dei due aveva riposato quella notte, troppo confusi e impauriti per potersi abbandonare al sonno.
Spock continuò a fissare l’altro ragazzo e i suoi capelli biondi scompigliati, il corpo tremante, non avrebbe voluto svegliarlo ora che era riuscito ad addormentarsi davvero, ma non c’era altra scelta.
Aveva paura, non si vergognò ad ammetterlo a sé stesso. Aveva avuto paura, un’emozione che era sfuggita al suo ferreo controllo mentale e lui aveva lasciato che quella paura lo attanagliasse per tutta la notte.
Era illogico avere paura, era illogico lasciare che prendesse il sopravvento.
Ma non aveva potuto fare a meno di provare.
Si rese conto che era stata la vergogna verso sé stesso e la sua paura ad impedire di rivelare il suo vero nome, il nome che tutti usavano per chiamarlo. Lo aveva solo brevemente citato, ma aveva detto a J di chiamarlo Shin. Aveva avuto paura e aveva provato vergogna e questo Spock non poteva permetterlo era un disonore per lui e per suo padre.
J si mosse, distogliendolo dai suoi pensieri e lui lo guardò mentre l’altro si metteva seduto lentamente, sbadigliando.
“Buongiorno” bofonchiò il Terrestre “è quasi l’alba, eh?”
“Esatto. Dovremmo incamminarci verso la fonte del ruscello, nel mentre potremmo guardare se troviamo del cibo nel bosco”.
“Si” J si alzò e si incamminò verso il ruscello sciacquandosi il volto e bevendo. Spock, no, Shin, lo emulò, conscio del fatto che avrebbero dovuto sterilizzare l’acqua prima di berla. Tuttavia non era possibile pensare di accendere un fuoco, il fumo si sarebbe visto e le guardie avrebbero saputo dove cercare.
“Andiamo” disse J.
Lo sguardo negli occhi del Terrestre era diverso quella mattina, ben lontano dallo sguardo terrorizzato che Shin aveva visto il giorno prima. Non sapeva come interpretare quella nuova espressione che gli era completamente estranea.
“Shin, secondo te quando arriverà la Flotta? Ormai dovrebbero essere in viaggio verso Tarsus IV”
“È un calcolo che non sono in grado di fare. Non sappiamo se hanno ricevuto la comunicazione del Governatore, inoltre non possiamo sapere se siano a conoscenza della scelta di Kodos di decimare la popolazione”
Jim ci pensò su, le sopracciglia aggrottate nella concentrazione “Quindi secondo te potrebbero non arrivare mai?”
“Forse”
Si sentiva frustrato dalla mancanza di informazioni, dall’impossibilità di conoscere come sarebbero andate le cose da lì in poi. Ma non poteva farci niente.
Era arrivato su Tarsus IV da una settimana, i suoi genitori avevano insistito perché facesse parte del Programma del Dipartimento dell’Istruzione Interplanetaria, in particolare sua madre che sperava potesse imparare a relazionarsi con altri popoli oltre che con la gente di Vulcano.
Doveva sedare le sue emozioni, si disse, doveva mantenere saldi i suoi scudi mentali e pensare lucidamente, era un Vulcaniano e doveva comportarsi come tale.
“Shin” J frenò di colpo i suoi passi, negli occhi uno sguardo che Shin non riconobbe sembrava un insieme di terrore, frustrazione e sconfitta. J stava indicando un albero poco lontano, molto probabilmente un albero di Kuwat, una pianta che fioriva ovunque sul Pianeta. Il Kuwat dava dei frutti piccoli e dolci, simili all’uva terrestre ma più dolci e con una buccia dura intorno alla polpa.
Shin guardò l’albero e i suoi frutti e capì subito il motivo dello sguardo di J. I frutti erano bruciati, totalmente appassiti.
I due si avvicinarono per osservare meglio, sembrava che tutti i frutti avessero subito la stessa sorte. La buccia completamente marcia, così come la polpa al suo interno.
“Le spore” sussurrò, più a sé stesso che all’altro, “hanno, di certo, distrutto ogni risorsa presente sul pianeta. Tutto il cibo, non solo quello rifornito dalla Flotta Stellare”.
J lo guardò con gli occhi sgranati “Quindi non c’è niente? Non possiamo mangiare nulla? Tutto il cibo è semplicemente finito?”
Shin annuì.
Tutto il cibo.
Non avevano nulla da mangiare, era andato tutto distrutto.
 
L’intuizione di J si rivelò corretta, la fonte del ruscello era una cascata che sgorgava dalle rocce più alte della montagna, intorno ad essa, seminascoste dalla vegetazione riuscirono a scovare una serie di grotte nella parete rocciosa.
“Avremo acqua a volontà” constatò J, tuttavia Shin avrebbe voluto rispondere che molto probabilmente anche l’acqua poteva essere avvelenata dalle spore. Avrebbe dovuto monitorare le loro condizioni entro quarantotto ore.
I due entrarono in una caverna più piccola, era umida ma ben coperta dal resto della vegetazione, guardandosi intorno non notarono tracce di animali.
“Ieri ho chiaramente sentito il verso di un Korl. Dunque gli animali non sono stati avvelenati dalle spore, giusto?”
“Esatto. Non ha avuto effetti sulla biologia degli esseri viventi presenti sul pianeta” confermò Shin.
“Dunque potremmo cacciare, giusto? Quali animali sono presenti su Tarsus IV?”
Shin soppresse un fremito e un senso di disgusto. I Vulcaniani non mangiavano carne, non uccidevano animali e lui non poteva nutrirsi di quegli esseri.
Eppure.
Eppure aveva fame e tutto il cibo sembrava essere perduto.
“Dovremmo tornare in città” disse, senza rispondere alla domanda dell’altro.
“Cosa?”
“Quando siamo stati portati via le scorte di cibo dell’istituto non erano ancora in stato di decomposizione, sarebbe ragionevole pensare che il cibo conservato o replicato subisca un processo di decomposizione più lento” spiegò con calma.
“Ma… la città. Sarebbe meglio cacciare, restare qui nei boschi” si lamentò J.
Shin abbassò lo sguardo.
Ma lui non voleva cacciare. Non voleva uccidere e non voleva mangiare esseri viventi.
“Perché? Dimmi, qual è il vero motivo per cui vuoi tornare in città?” lo sguardo dell’altro era indagatore, sospettoso.
Shin non voleva dirgli la verità e svelare la sua vergogna, la sua debolezza. Non voleva aprire sé stesso ad un perfetto estraneo.
Eppure.
Eppure.
“Sono Vulcaniano. Noi non mangiamo carne” disse flebilmente.
J inarcò un sopracciglio e per un momento, un attimo fugace, sembrò voler dire qualcosa. Poi si voltò e uscì dalla grotta camminando verso la cascata.
“Allora andremo in città”.
 
 
 
2246.5.27 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
Shin osservò il sole mentre tramontava dietro le montagne, il cielo era macchiato da un rosso acceso che sfumava nel rosa delle pesche. Le aveva mangiate qualche volta poiché erano dei frutti che a sua madre piacevano e che ordinava dalla Terra ogni anno.
Tenne a bada il brontolio del suo stomaco cercando rifugio nella sua mente, doveva placare la sensazione di fame con gli esercizi di respiro controllato che suo padre gli aveva insegnato.
Tuttavia la logica, negli ultimi giorni, sembrava vacillare e con essa anche lui.
Avevano deciso di spingersi fino alla città ma non avevano ancora trovato il coraggio di muoversi dal rifugio. Quello era un luogo sicuro, non ancora battuto dalle squadre di Tarsus IV, sebbene non potessero essere certi di trovarsi al sicuro avevano deciso di restare, nonostante sarebbe stato logico continuare a muoversi, nessuno dei due aveva abbastanza energie per spostarsi regolarmente e non volevano allontanarsi dalla fonte d’acqua.
Tarsus IV era un pianeta caldo, non come Vulcano, ma le temperature erano molto alte e l’acqua era rara, una risorsa che non poteva andare sprecata. Di ruscelli come quello accanto al quale si erano fermati ve ne erano solamente cinque su tutto il Pianeta e rifornivano la colonia con l’essenziale per potersi idratare bevendo.
L’acqua dei ruscelli veniva raccolta nelle cisterne della colonia e veniva distribuita a tutti i coloni. Il controllo dell’acqua e del cibo forniva al Governo del Pianeta un potere assoluto.
Per fortuna, anche se la fortuna non era davvero una causa diretta, l’acqua non era stata avvelenata dalle spore dei funghi esotici e loro potevano almeno fare ricorso a quell’ultima risorsa.
Ma il cibo.
Un Vulcaniano adulto, nel pieno delle forze poteva resistere cinque punto sei mesi senza mangiare e continuando ad idratarsi regolarmente, un adulto Terreste nel pieno delle forze poteva resistere due punto due mesi. Tuttavia Shin non era un Vulcaniano adulto nel pieno delle forze, era solo per metà Vulcaniano e non era forte come la media dei suoi simili. Avrebbe resistito circa tre punto uno mesi, ma anche di meno, considerando le condizioni fisiche e psicologiche in cui si trovavano.
Tuttavia J, nonostante cercasse di mostrarsi forte ai suoi occhi, sapeva di non poter resistere per più di un mese.
Dovevano mangiare.
Shin, no, Spock, il tuo nome è Spock, si disse, non pensava che la fame potesse avere degli effetti così disastrosi sulla sua disciplina mentale. Erano passati quattro giorni da quando aveva mangiato per l’ultima volta, eppure la stanchezza e la fame lo stavano destabilizzando. E sarebbe andata ancora peggio se non avessero trovato un rimedio.
“Shin, hey” si avvicinò J mentre si strofinava gli occhi con i palmi delle mani, aveva riposato per tutto il giorno poiché per entrambi era difficile dormire di notte “penso che stasera dovremmo scendere verso la città”
Shin annuì, lo aveva pensato anche lui.
“Si, durante la notte sarà più facile passare inosservati. Suppongo che abbiano istituito dei posti di blocco e che le squadre stiano pattugliando il perimetro della città così come il secondo e il terzo anello nei boschi. Durante la notte dovremmo, con le dovute cautele, avere il cinquantasei punto trentanove percento di probabilità in più rispetto al giorno”
J sbuffò una risata “Sai, potresti essere più conciso nel dire le cose”
Shin non rispose, si limitò ad alzare un sopracciglio, un riflesso involontario del suo corpo, come gli accadeva spesso negli ultimi giorni.
“E se ci prendessero, invece?” J si sedette accanto a lui “Che cosa ne sarebbe di noi?”
“Sarebbe logico pensare che verremmo giustiziati così come anticipato il giorno della condanna”
Rimasero in silenzio per un po’, ognuno perso nei propri pensieri. Ognuno a contemplare i rischi che avrebbero corso scendendo in città, ritornando nella tana del lupo per la loro stessa necessaria sopravvivenza.
“Io non voglio morire. Ho paura” sussurrò J, dopo un po’ “Non voglio morire Shin”.
Non voglio morire.
Era così chiara la paura del Terrestre, così palese, di fronte agli occhi del Vulcaniano. L’espressione negli occhi del ragazzino biondo era di nuovo quella di cinque giorni prima, in quella piazza, circondati dalle urla e dagli spari e dai corpi.
E lui? Cosa voleva lui?
La morte era un’inevitabile tappa della vita stessa, uno stadio finale da raggiungere con la certezza matematica che aveva creato l’intero universo e la vita stessa. La morte era una meta logica nel percorso dell’esistenza dal suo stadio iniziale a quello finale, nella trasformazione della materia.
Eppure lui era un essere vivente, un essere senziente, ed aveva emozioni seppur controllate dai dettami della disciplina logico-mentale. Era vivo.
Vivo.
Che cosa voleva lui?
Che cosa vuoi, Spock?
“Anche io ho paura di morire”
Illogico.
 
J si appiattì contro il muro mentre cercava di trattenere il respiro che di tanto in tanto fuoriusciva sotto forma di un sospiro tremolante.
Shin invece si piegò leggermente oltre il bordo per dare un’occhiata veloce alla villa e ai dintorni. L’immagine che gli si parava davanti era quella di un’abitazione molto probabilmente disabitata, le finestre erano aperte e tutte le luci erano spente, inoltre non si sentiva alcun suono provenire dal suo interno.  
Dalla sua posizione non riusciva a vedere la porta d’ingresso, ma era logico pensare che la villa fosse disabitata probabilmente perché i suoi inquilini dovevano essere tra i condannati di Kodos.
La villa era modesta, un solo piano, qualche finestra e il tetto non ancora completo, a completare il quadro si stagliava un piccolo giardino sul lato est della struttura, ma il piccolo angolo verde non veniva curato da molto tempo, a giudicare dall’erba che cresceva alta.
“Dovremo scavalcare e appiattirci al suolo” Spiegò a J, ritornando alla stessa altezza dell’altro “Strisceremo per tre punto sette metri e arriveremo alla parete nord dell’edificio. Entreremo dalla finestra aperta. Dovremo fare tutto in due punto otto minuti” terminò.
J prese un profondo respiro e annuì “Okay, scavalcherò prima io, poi tu mi seguirai. Fai in fretta, non devono vederci”.
Il biondo si aggrappò al muro inserendo le mani nelle crepe tra i mattoni e si diede slancio con i piedi per iniziare a salire. J si muoveva veloce e silenzioso, nonostante la stanchezza fisiche e le blande energie che possedeva dopo giorni di digiuno.
Il muro non era molto alto, non avrebbero avuto difficoltà, la parte difficile era quando sarebbero stati in cima poiché sarebbero stati esposti alle potenziali guardie che perlustravano la città.
Quando l’altro saltò giù dal muro, atterrando dall’altra parte con un tonfo sordo, Shin iniziò a salire.
Le crepe del muro erano affilate e le sue mani troppo sensibili, era un Vulcaniano e i suoi polpastrelli erano direttamente connessi alle sue sinapsi mentali che regolavano le sue capacità telepatiche. Tuttavia non poteva fermarsi ora, avevano rischiato troppo per essere lì e dovevano cercare del cibo.
Quando atterrò anche lui si acquattò al terreno e seguì J nell’erba alta, verso il muro della casa.
Riuscirono ad arrivare alla finestra aperta e ad issarsi nella casa deserta attraverso la finestra aperta, atterrarono in uno spazio buio, illuminato parzialmente solo dalle luci esterne della città. Si guardarono intorno e capirono di trovarsi in quello che doveva essere stato l’alloggio di un bambino, la stanza era spoglia con solo qualche mobile contro le pareti e pochi giocattoli di peluche gettati alla rinfusa sul pavimento. Al centro della stanza era posizionata una culla, i due ragazzi si guardarono prima di avviarsi al centro della stanza.
Il primo ad affacciarsi oltre il bordo della culla fu J che sgranò gli occhi e si portò le mani alla bocca emettendo un suono gutturale, forse per trattenere un urlo. Shin lo guardò stranito per poi affacciarsi anche lui. La visione che lo accolse fu quella di un neonato con il naso schiacciato, il viso peloso e rugoso, piccolo e tarchiato. Era un neonato Tellarite, in evidente stato di decomposizione. Il foro bruciacchiato al centro del petto evidenziava che era stato colpito con un fucile sonico.
J si aggrappò al suo braccio guardandolo con gli occhi inumiditi e il respiro corto. Shin riusciva a percepire lo sconforto e la tristezza del Terrestre, ma si accorse di non sapere che cosa dire al riguardo. Nonostante cercasse di sedare le proprie emozioni si rese conto di non essere indifferente a ciò che aveva visto e pensò che forse, un po’ delle emozioni che riusciva a percepire dal contatto con J, erano anche sue.
Shin si concentrò per rinforzare i propri scudi mentali e reprimere le proprie emozioni che lottavano selvaggiamente per risvegliarsi e divorarlo lentamente. Non poteva lasciarsi andare, si disse, era un Vulcaniano e doveva mantenere alta la sua disciplina mentale.
Ma quello era un neonato ed era stato assassinato per alcuna colpa, se non quella di essere nato su Tarsus IV. La sua logica vacillò insieme a lui ma si fece forza mentre J si riscuoteva e lo prendeva per mano cercando di condurlo in un’altra stanza. Il contatto con le mani di J era strano, per lui che non aveva stretto mai la mano di altri se non quella di sua madre, non poteva definirlo un disagio. C’era qualcosa in quel semplice tocco che lo aiutava a trovare una stabilità e a rinforzare la propria disciplina mentale, quel semplice scambio di pelle era come un baricentro che lo teneva in piedi impedendogli di collassare su sé stesso.
Percorsero un breve corridoio fino ad arrivare alla cucina della villa, J lo guardò con gli occhi ancora umidi e si limitò a sussurrare “Prendiamo tutto quello che possiamo e andiamocene via di qui”.
Iniziarono a cercare nelle dispense, tra i cassetti, ovunque, la maggior parte del cibo era stato avvelenato dalle spore, tuttavia Shin riuscì a trovare un vasetto di pesche sciroppate ancora in buone condizioni.
Si voltò verso J che provava a trafficare con il replicatore di cibo, tuttavia tutto il cibo che veniva replicato si avariava nel giro di pochi secondi. Shin annuì confermando le teorie che lo avevano accompagnato a lungo nelle notti dopo la condanna: il cibo replicato non era immune alle spore dei funghi, sembrava anzi che ne fosse influenzato maggiormente. Pur volendo replicare tutto il cibo possibile la colonia non sarebbe stata salva, il Governatore Kodos doveva aver vagliato anche questa ipotesi prima di emettere la sentenza.
“J” mormorò Shin mostrandogli il vasetto di pesche.
Il Terrestre lo prese in mano e lo guardò con gli occhi tristi prima di restituirglielo “mangiale tu, Shin. Sono tue” gli disse.
Shin scosse il capo “sono nostre
J si lasciò sfuggire un sorriso amareggiato “sono mortalmente allergico alle pesche, morirei il secondo dopo averle inghiottite”
Shin inspirò profondamente mentre un senso di vuoto si propagava al centro del suo torso, tentò di ignorarlo ma non ci riuscì. Forse erano emozioni, forse era tristezza per quel momento così ingiusto.
Se avesse provato emozioni, molto probabilmente Shin, Spock, avrebbe provato tristezza, rabbia, disperazione. Se avesse provato emozioni allora non avrebbe mangiato quelle pesche, ma le avrebbe lasciate lì a marcire a causa delle spore perché era impensabile mangiare qualcosa di così dolce, con un senso di colpa così amaro.
Ma aveva fame, aveva fame, ed era logico, logico logico logico, mangiare quelle pesche.
Aprì il vasetto e diede le spalle a J, tuffò la mano nello sciroppo senza pensare, senza considerare che i Vulcaniani non mangiano con le mani e prese due fette di pesca gettandosele in bocca, con rabbia, con disprezzo, con tristezza.
Se solo avesse provato emozioni.
Ma non le provava.
 
Entrarono in un’altra casa poco lontano dalla prima ma anche in questa tutto il cibo era stato completamente distrutto dalle spore. Shin si sentiva meglio, forse più sazio, forse più vuoto, ma meglio di quando era arrivato in città.
Ma J non aveva ancora mangiato nulla, l’unico cibo che avevano trovato erano state le pesche e lui non le aveva potute toccare.
I due controllarono per la casa, era un edificio su due piani una casa piccola ma ben tenuta, nessuna stanza per neonati solo una camera da letto e una forse per gli ospiti. I due controllarono ovunque, ma di cibo non c’era l’ombra.
J sospirò abbassando il capo e Shin gli si avvicinò poggiando una mano sulla sua spalla, non sapeva perché ma non se lo chiese. Era giusto, era ora.
Un suono dall’esterno li mise in allarme e i due scapparono al piano di sopra cercando di fare meno rumore possibile, si infilarono nella camera da letto chiudendosi in un armadio. Trattennero il respiro sentendo altri rumori provenire dall’esterno, sembravano avvicinarsi e più si avvicinavano e più assumevano la forma di parole “- da questa parte”.
Qualcuno stava salendo le scale, qualcuno si avvicinava e li avrebbe trovati e uccisi lì come avevano fatto nella piazza, come avevano fatto a quel neonato.
Li avrebbero uccisi lì in quell’armadio.
J si strinse a lui e poggiò il capo sui palmi delle mani, Shin chiuse gli occhi e cercò rifugio nella sua mente.
“Mi sembrava che venisse da questa parte, diamo un’occhiata” la voce che aveva parlato era di un uomo.
Nell’armadio era buio l’aria era asfissiante e la paura era una corda che premeva intorno alla gola.
“Non vedo nessuno, forse sarà stato fuori”
“No, veniva da qui, saranno quei dannati fuggitivi del cazzo. Avranno fame”
I passi si avvicinarono all’armadio e si confusero con il suono dei battiti dei loro cuori.
Erano rumorosi, erano evidenti. Chi mai avrebbe potuto non sentirli?
Sembravano urlare “siamo qui! Venite a prenderci”.
“Vediamo un po’ qui”
E Shin strinse forte le palpebre. Non doveva avere paura, la paura uccide la mente, la paura uccide la mente, la paura uccide –
“keow”
Shin aprì gli occhi.
keow”
“Ecco il tuo fuggitivo! Un cazzo di Freok” urlò qualcuno.
“Che cosa?”
“Eccolo qua! Era un Freok a fare rumore”
Sentirono il fucile sparare, il suono del laser che penetrava la carne e poi i passi si allontanarono.
I due ragazzi ripresero a respirare, lentamente, con paura e rassegnazione, ma respirarono.
Erano vivi.
J fu il primo ad uscire e a dirigersi verso la porta, accanto ad essa il corpo esanime di un Freok, troppo simile a un gatto terrestre o a un Tribolo ma con testa senza orecchie e senza coda.
Shin guardò J e fu guardato di rimando, la risolutezza dipinta sul volto.
“No”
No.
“Si”
 
Shin si sciacquò la bocca nel ruscello, la risputò, la sciacquò di nuovo.
Andava avanti da molto, troppo, ma quel sapore non andava via.
Il sangue non andava via.
Era troppo.
Madre, padre, perdonatemi.
Vulcano, perdonami.
Era illogico chiedere scusa, era illogico provare repulsione, disgusto, tristezza per sé stesso.
Era illogico rifiutare il sostentamento quando c’era la fame.
Ma aveva mangiato quella carne fresca, dura, insanguinata. E aveva provato piacere.
Piacere.
Perdonatemi.
Perdonatemi.
“Perdonatemi”
 
Quella notte la caverna era più silenziosa e vuota che mai. Il bosco era un incubo avvolto nelle ombre e nelle tenebre e nella bocca il sapore del sangue era vivo, nauseante, reale.
Quella notte non avrebbero dormito, non avrebbero sognato, non avrebbero sperato.
Quella notte non avrebbero pianto.
J si avvicinò a lui e gli si stese accanto, gli poggiò una mano sulla spalla e lo guardò con un’espressione vuota “Scusami, Shin. Scusami” sussurrò nel silenzio, con una delicatezza tale da non spezzarlo “Vorrei poter fare di più, vorrei fare meglio. Scusami”
Shin scosse il capo e lo guardò in quegli occhi azzurri che anche nel buio sembravano troppo chiari, troppo grandi, troppo spenti.
Non avrebbero potuto fare altro, era più grande di loro, più forte di loro. Non avrebbero potuto fare niente.
“Domani torneremo in città” disse semplicemente.
J annuì e si accucciò a lui.
“Domani andrà meglio, vero?”
E Shin non avrebbe dovuto rispondere, perché era un Vulcaniano e i Vulcaniani non mentono.
“Si, domani andrà meglio”.
 
 
 
2246.5.30 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
“Non urlare!” J sussurrò a denti stretti il comando “Non urlare, ho detto! Non vogliamo farti niente”
Il bambino continuò a mugolare nonostante la bocca occlusa dalla mano del Terrestre.
Shin guardò J, la preoccupazione dipinta negli occhi azzurri dell’altro, il bambino spaventato tra le sue braccia. Era un bambino Terrestre e doveva avere circa nove anni.
“Non possiamo portarlo con noi” mormorò.
No, non potevano. Perché era solo un bambino, era ingestibile ed era un’altra bocca, altra fame, altra frustrazione. Non potevano.
Il bambino smise di agitarsi e rimase impalato a fissarlo con i grandi occhioni scuri pieni di lacrime.
“Non lo lascerò qui” rispose J “Non lo abbandonerò. Morirà se lo lasceremo”
Sì. Sarebbe morto e forse sarebbe stato meglio.
Vorresti essere morto, Spock?
“Tuttavia-”
“Nessun tuttavia! È solo un bambino e noi non lo lasceremo qui!”
Shin represse un sospiro, a volte J era fin troppo risoluto, controbattere non avrebbe portato a niente, era determinato a tenere quel bambino, la discussione era finita.
“Vado a cercare del cibo” tagliò corto Shin, cercò di evitare il senso di fastidio e irritazione che gli crescevano dentro. Era illogico provare quelle sensazioni e lui non provava emozioni, lui le sedava. Come sedava la fame, la sete, la paura, il terrore, il disgusto. Lui non provava niente, lui copriva con la logica e con la mente.
Eppure era da un po’ che non riusciva a sedare.
Vorresti essere morto, Spock?
Un Vulcaniano che veniva confuso dalle sue stesse emozioni, era una vergogna per la sua specie e per suo padre.
“Tu sei figlio di due mondi, Spock” gli aveva detto Sarek solo pochi mesi prima, ora sembrava che fossero trascorsi secoli.
Figlio di due mondi e appartenente a nessuno di questi.
Troppo Vulcaniano per la Terra e troppo Terrestre per Vulcano.
“Shin, ora tu sei Shin e sei su Tarsus IV” si disse, perché era quello ciò che contava. Era quella la verità e non aveva spazio per i dubbi sulla sua natura. Ora c’era solo la fame, J e la fuga. Ora c’era solo Tarsus IV, un Pianeta intero che lottava contro di loro.
Iniziò a cercare il cibo nelle credenze della cucina, in un sacchetto trovò cinque noci che non erano state bruciate dalle spore a vedere la buccia integra. Cinque noci era tutto quello che avevano.
Aprì un cassetto e vi trovò un set di coltelli da cucina, ne prese due e li portò con sé al piano di sopra.
Dovevano andare a caccia.
 
J era seduto accanto a lui, la schiena poggiata alla parete della caverna, l’unico suono intorno a loro era lo scosciare dell’acqua della cascata. Erano ormai le prime luci dell’alba e loro erano tornati da solo un’ora.
Avevano diviso le noci tra Shin e Kevin, il bambino che avevano trovato, J non aveva mangiato nulla poiché era allergico anche alle noci.
I due non parlavano, ma restavano vicini, la sola presenza dell’altro era come una ninna nanna confortante, sicura. Non avevano più nessuno, solo loro stessi.
“So che cosa pensi, che è stato un errore portarlo con noi. Ma io non potevo lasciarlo, capisci? Non potevo abbandonarlo lì” disse il Terrestre, guardando la parete di fronte a sé.
“Non hai mangiato, le tue forze fisiche sono ormai ridotte al tredici punto sette percento” rispose Shin, non c’entrava con il discorso, o forse sì, non lo sapeva. Ma non sapeva che altro dire, era frustrante.
“Parlami di Vulcano, Shin. Che cosa mangiate lì?”
Il Vulcaniano inspirò chiudendo gli occhi, non voleva pensare alla sua casa, non voleva pensare al cibo, non voleva pensare a sua madre e suo padre, a I-Chaya, il suo Sehlat, non voleva pensare.
Ma J ne aveva bisogno e forse anche lui ne aveva bisogno.
“La zuppa di Ploomek” iniziò Shin “il Ploomek è un tubero e viene cotto insieme ai principali legumi di Vulcano. Esiste la variante verde aggiungendo i nodi di sh’rr o quella arancione dove si cuoce il Ploomek insieme ai rigonfiamenti radicali del Kasa” ricordò l’ultima volta che aveva mangiato la zuppa di Ploomek, ne rimembrò il sapore sulla lingua, il sugo denso che scendeva nella sua gola, il sapore quasi dolce del tubero. Voleva piangere, voleva ridere, voleva tornare a casa.
“Io vorrei un Hamburger, pieno di salsa barbecue e cipolle, darei un braccio per mangiarne uno in questo momento” sospirò J.
“Mi piacerebbe bere tè speziato, invece” concordò Shin.
J si voltò a guardarlo a lungo prima di scoppiare a ridere, le labbra distese in un sorriso vero, reale e non le smorfie amare che aveva imparato a mostrare da ormai tre settimane. Rise con le lacrime agli occhi, rise e pianse.
Shin non si interrogò sullo strano comportamento, non parlò di logica, non si rintanò nella sua mente. Chiuse gli occhi e si lasciò cullare dalla risata vera, tragica, triste di J.
Non si chiese nulla, perché sapeva. Un angolo delle sue labbra si piegò all’insù e in quello strano, tragico, momento, si permise di sorridere senza provare vergogna per sé stesso.
 
 
 
2246.6.10 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
“Per favore, Shin, ti prego, posso andarci io!”
Shin lo osservò risoluto poiché non intendeva cedere alle suppliche dell’altro.
“Kevin non si fida di me, ti seguirebbe e vi metterebbe entrambi in pericolo. È logico che tu resti con lui e che vada io”
Al diavolo la logica! Non posso permetterlo, se… se ti succedesse qualcosa, io-” J si passò una mano sul volto, rassegnato, frustrato, affamato.
“Non mi succederà nulla. Tornerò prima dell’alba” tagliò corto Shin portandosi il coltello alla cintura, entrambi avevano recuperato pochi oggetti utili dalle case in cui erano stati. Per lo più coltelli da usare come armi e dei sacchi da appendere alla cintura e da riempire nel caso in cui avessero trovato del cibo.
Quando aveva imparato a promettere? I Vulcaniani non promettevano nulla e non affermavano senza avere la certezza delle loro parole.
Eppure su Tarsus IV non c’era certezza di nulla, neppure di essere vivi. Erano scheletri senza più passione, erano corpi mossi dalla fame, dal bisogno e dal desiderio.
Eppure voleva promettere e voleva farlo per J che ormai non mangiava da troppo tempo.
Quando si era legato così tanto a quel ragazzino? Perché lo considerava un punto di riferimento?
“Sai anche tu che non c’è certezza! Andremo insieme, Kevin starà buono qui, glielo farò promettere”
“No. La discussione è chiusa in questo momento. Andrò da solo e tu resterai qui con Kevin”.
 
Camminò stancamente fino alla recinzione che circondava la città. Evidentemente lui e J non erano i soli fuggitivi presenti sul Pianeta, così le guardie di sicurezza avevano innalzato una recinzione elettrica intorno alla colonia per impedire altre incursioni notturne. Per due notti lui e J avevano cercato una breccia, la prima notte erano andati via a mani vuote, mentre solo alla fine della seconda notte erano riusciti a trovare una falla nel sistema di protezione.
Molto probabilmente anche altri l’avevano trovata, ma non era importante fintanto che si potessero spingere a cercare del cibo.
Avevano provato a cacciare nei boschi ma la selvaggina era scarsa ed entrambi erano dei pessimi cacciatori, le case abbandonate ormai erano state perlustrate tutte anche dagli altri fuggitivi. Era ormai quasi del tutto finito il cibo che potevano trovare. Per Shin era chiaro che fosse arrivato il momento di rubarlo a chi ancora ne aveva. Tuttavia il pensiero di persone che vivevano tranquillamente nella colonia e che si cibavano, lo irritava sempre di più. Non riusciva a spiegarsi come avessero fatto a conservare quel cibo, perché non era stato distrutto insieme alla restante parte? Era un’equazione che non riusciva a risolvere e questo lo distruggeva. Se solo avesse capito forse avrebbe potuto salvare tutti e tre loro.
Avanzò con cautela verso il magazzino delle scorte alimentari, doveva essere sicuramente sorvegliato e lui sapeva di dover trovare un modo per eludere la sicurezza ed entrare.
I suoi pensieri furono confermati dalla presenza di tre guardie armate che sostavano di fronte all’entrata principale. Non aveva mai visitato il magazzino, non sapeva neppure che cosa aspettarsi dentro l’edificio. Se dentro ci fossero state altre guardie lo avrebbero preso e lui avrebbe lasciato J da solo. Però doveva tentare, era una questione di vita o di morte.
Vita o morte, Spock.
Girò intorno all’area riparandosi dietro al muro di contenimento, cercò di avanzare fino al retro per accertarsi che vi fosse la possibilità di entrare.
E c’era.
Proprio in cima, sul tetto, c’era una finestra chiusa.
La finestra era a dieci punto sessanta metri d’altezza, avrebbe dovuto arrampicarsi. Era un rischio, lo sapeva bene, ma non poteva fare diversamente.
Vita o morte.
Vita
o morte.
Si avvicinò cautamente all’edificio e decise di servirsi della grondaia per arrampicarsi, era leggero dopo tutti quei giorni passati senza mangiare e non avrebbe fatto eccessivo rumore. Iniziò a salire e a pensare agli occhi di J quando sarebbe tornato con il cibo.
 
Shin non credeva davvero a quello che era successo. Stringeva il sacco di iuta dietro le spalle, era pieno di cibo, era riuscito nel suo intento!
Nonostante tutto era deluso dall’impossibilità di conservarlo al di fuori del magazzino, gli scienziati che lavoravano per Kodos avevano capito che una camera di compressione, agendo sulle molecole del cibo per agitarle ed eccitarle continuamente, avrebbe impedito che le spore vi si attaccassero bruciandolo completamente. Era stata un’intuizione logica ed efficiente che però non aveva impedito la morte dell’altra metà dei coloni.
Ma ora non aveva importanza perché aveva il cibo per sé, J e Kevin. Avrebbero dovuto consumarlo velocemente, ma era già un risultato. Un punto di inizio.
Continuò a risalire la montagna, era debole e si accorse che il respiro si faceva sempre più pesante passo dopo passo, era affaticato e senza forze ma si sentiva bene per la prima volta dopo settimane.
Superò il tronco caduto che ormai usavano come punto di riferimento per raggiungere la caverna, stava seguendo il torrente e tra due punto tre ore sarebbe stato da J.
“Dove vai figlio di puttana? Quel cibo è nostro!” ringhiò una voce alle sue spalle.
Non fece in tempo a voltarsi che un pugnò si scontrò con il suo viso e lui cadde di spalle atterrando sul sacco dietro la sua schiena.
L’impatto lo confuse ma cercò di rimettersi velocemente in piedi.
“Bastardo! Vieni qui!” qualcuno lo strattonò per i capelli e questo gli fece venire l’impulso di urlare, ma non poté farlo perché il respiro gli si era bloccato nei polmoni.
“Ah sei una feccia di Vulcano. Pensavamo di averli uccisi tutti” rise l’uomo che lo tratteneva per i capelli.
Shin lo guardò cercando di rimanere impassibile, normalmente avrebbe potuto lottare con lui, conosceva cinquantadue stili diversi di combattimento e la sua forza equivaleva ad un uomo Terrestre adulto. In condizioni ottimali. Ma non mangiava un pasto proteico da quasi un mese ed era stremato dallo sforzo di quella sera, non avrebbe mai potuto lottare.
Un’altra figura si avvicinò a loro ridendo “Guarda che occhi, e c’è chi dice che questi non provano nulla. È terrorizzato” a parlare era stata una donna giovane, con lunghi capelli neri e un sorriso sprezzante.
“Dai, uccidilo e riprendiamoci il cibo” tagliò corto la donna.
“Ma no, perché non ci porti dai tuoi amichetti invece? Sicuramente hai dei complici, per chi avresti preso tutto quel cibo, ben sapendo che ti avrebbe rallentato?”
Era vero, l’uomo aveva capacità deduttive impressionanti. O forse erano solo le sue capacità ad essere completamente piombate allo stato di inefficienza assoluta dovuta alla mancanza di cibo.
“Allora? Sono qui vicino i tuoi amici? Perché non ce li fai conoscere?” ghignò l’uomo.
Shin mosse il braccio libero verso il coltello appeso alla sua cintura, doveva fare in fretta, doveva essere veloce come la luce.
“Avevo… avevo fame” disse, mentre muoveva il braccio verso la cintura “Sono da solo”.
Aveva imparato a mentire proprio bene.
I Vulcaniani sanno mentire e anche bene.
Il braccio gli fu bloccato dalla donna “Che pensi di fare, bastardo? Credi davvero che ti lasceremmo prendere quel coltello?”
L’uomo lo spinse a terra e gli tolse il coltello dalla cintura.
“Andiamo Zrog, è inutile perdere tempo con questa feccia. Uccidiamolo e riportiamo il cibo indietro”
L’uomo dal nome Zrog sorrise malignamente e gli staccò il sacco dalla schiena.
“Dov’è che i Vulcaniani hanno il cuore? Dove noi abbiamo il fegato, vero? Beh, mi piacerebbe proprio pugnalarti dritto lì in mezzo”
La guardia lanciò il sacco alla collega “Riportalo indietro, credo che resterò un po’ qui per divertirmi con questo bel faccino Vulcaniano”.
La donna roteò gli occhi al cielo “Cazzo, sei malato” e si incamminò con il sacco sulle spalle.
Shin vide il cibo, il loro cibo allontanarsi, avrebbe voluto piangere per la delusione, per la rabbia, per la tristezza. Era il cibo che avrebbe mangiato se solo fosse stato più attento, più cauto, più veloce. E invece era debole, così come la sua mente era debole. Non era più nemmeno un Vulcaniano.
“Allora, iniziamo a usare questo tuo coltellino magico?” rise Zrog.
Shin lasciò andare un mezzo sospiro, tanto valeva accettare la morte. Aveva fatto tutto il possibile per restare vivo e aveva protetto J e Kevin. Si disse che era stata una fortuna che i due lo avevano trovato lontano dal loro accampamento.
Fortuna.
Vide l’uomo aprirgli una mano e il coltello abbassarsi verso i suoi polpastrelli.
No, pensò terrorizzato.
“I Vulcaniani hanno dei polpastrelli molto sensibili, vero? Sono legati alla vostra telepatia” rise Zrog mentre la lama del coltello penetrava al centro del palmo e scendeva verso l’indice.
Shin urlò, non riuscì a trattenere il suo urlo di dolore, la testa cominciò a fare male e a bruciare come se vi fosse scoppiato un incendio. E lui non poteva spegnerlo, non poteva spegnerlo.
Zrog incise un altro polpastrello, Shin continuò a urlare.
Uccidimi, uccidimi.
Pianse, urlò, pianse ancora e ancora e ancora.
Era come morire e rinascere per morire di nuovo.
La sua testa era una melma incandescente di dolore.
Sentì solo la risata dell’uomo, il suo sospiro compiaciuto, la vista gli si annebbiò e sperò che stesse svenendo perché almeno non avrebbe sentito dolore.
Nella confusione del momento riuscì a notare l’uomo che si slacciava la cintura dei pantaloni e gli sorrideva malignamente.
Uccidimi.
Shin chiuse gli occhi ma il dolore alla testa era così forte, così forte, si sentiva accaldato, sentiva come se stesse bruciando interamente. Urlò ancora mentre l’uomo gli incideva un altro polpastrello e gli apriva le gambe.
Non sapeva se la sua tunica fosse stata slacciata, non sapeva che cosa stesse facendo l’altro. Sentiva di stare morendo e quel dolore, quel dolore lo stava uccidendo.
Sentì un vago rumore in lontananza, respirò pesantemente, pianse ancora e forse svenne. Forse no.
Gli sembrò di vedere J, gli sembrò che il peso di Zrog non fosse più sul suo corpo.
Uccidimi, uccidimi.
Pianse.
Svenne.
Non riuscì a vedere lo sguardo di J mentre stringeva il coltello insanguinato nelle proprie mani, non riuscì a vederlo nel buio, un ragazzo piccolo e affamato che aveva ucciso un uomo, per salvarlo.
Non vide nulla, non sentì nulla. Per un attimo non sentì neppure fame.
Solo dolore, solo fuoco, solo buio.
Uccidimi.
 
continua...
Grazie per aver letto fin qui.

 
   
 
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