Nella foto, tratta dal film “Il club del libro e della
torta di bucce di patata di Guernsey”, come immagino Matteo e Sarah «nella
spiaggetta racchiusa tra le scogliere e sovrastata dalla montagna» ai
capitoli 5 e 27.
Capitolo 35
Il cuore e i suoi inganni
“Chi t’insegnò i passi che fino a me ti portarono?
Quale fiore, pietra, fumo ti mostrarono la mia dimora?
Certo è che tremò la notte paurosa,
l’alba empì tutte le coppe del suo vino
e il sole stabilì la sua presenza celeste,
mentre il crudele amore m’assediava senza tregua
finché lacerandomi con spade e con spine
aprì nel mio cuore una strada bruciante.”
Pablo Neruda, Aspro amore
Campo
di Fossoli, 22 febbraio 1944
Sarah
si volse lentamente, mostrandogli un’espressione triste e spaesata,
interrogativa. Il tono con cui l’aveva chiamata, pronunciando il suo nome,
s’era addolcito, lasciandole intendere cosa stesse per chiederle.
“Ti
aspetto dopo cena”, le disse infatti, con quell’aria allusiva e insolente che
lei ben conosceva, come se nulla fosse successo, incurante del suo malessere
fisico e, soprattutto, emotivo.
E,
questa volta, fu Sarah a ripristinare le distanze e ristabilire la gerarchia
fra di loro. “Sì, signore”, rispose, quasi in tono di sfida e nemmeno si curò
di nascondere la sua espressione corrucciata.
La
parte forse più razionale di sé si augurò di averlo innervosito, così da
scansarsi la notte con lui. Questi, invece, non si scompose e accennò uno dei
suoi sorrisi sornioni. “Hermann”, la corresse.
“Sì”,
fece una pausa, confusa dalla sua doppia personalità e nauseata per la troppa
tensione accumulata e all’idea di abbandonarsi tra le sue braccia dopo tutto
ciò che era accaduto – la deportazione di innocenti che aveva eseguito, la
crudeltà con cui le aveva parlato –, “Hermann.”
Reggendosi
il braccio dolorante, andò via e il nodo che le si era stretto alla gola si
sciolse soltanto in infermeria, quando il medico, con non molta delicatezza, le
avvolse un bendaggio stretto intorno alla zona contusa, lievemente per fortuna.
Lacrime di delusione poterono così liberarsi, nascondendosi tra quelle
scaturite dal dolore fisico e non ne avrebbe provato rimorso. Dalla piccola
finestra, s’intravedevano già le prime luci del tramonto a preannunciare la
notte bugiarda e voluttuosa alla quale, in un modo o nell’altro, si sarebbe
sottratta.
Napoli,
ottobre 1946
Il
molo situato di fronte all’ex stazionamento dei tedeschi non era molto
frequentato dai pescatori che preferivano attraccare al poggio antistante alla
Cattedrale, lì dove aveva visto Matteo per la prima volta, mentre nella barca
riparava le reti.
Sarah
aveva camminato a lungo, ritrovandosi senza neanche accorgersene nella cornice
del loro primo bacio e, adesso, sedeva con i gomiti sulle ginocchia e la testa
tra le mani a piangere la morte di Hermann, laddove in mezzo al mare terminava
la banchina. L’enorme sfera arancione del sole che scendeva dietro l’orizzonte
delle isole faceva da unico spettatore alle sue copiose, irrefrenabili lacrime.
Tormentata
dal rimorso di non aver fatto, di non esser stata abbastanza per convincerlo a
spogliarsi della sua divisa durante la Battaglia Partigiana di Gonzaga, confusa
dal susseguirsi dei ricordi d’amore e di dolore, nemmeno davanti alla
consapevolezza che non si sarebbe mai più ricongiunta alla sua famiglia aveva
pianto in quel modo. Lo sciabordio delle onde che s’infrangevano contro il molo
tentava invano di sovrastare il suono dei suoi singhiozzi disperati.
Le
lacrime di Sarah si dissolsero lentamente, quando la brezza della sera,
accarezzandole il viso, divenne il tocco di due mani sulle guance e di un bacio
all’angolo della bocca. L’ultimo bacio, le ultime carezze, sotto gli occhi
perplessi di un trio di partigiani con i fucili puntati.
Sistematasi
a gambe penzoloni sulla banchina, iniziò a fissare sotto di sé l’acqua del mare
e un brutto pensiero si fece spazio nella sua mente che, adesso, vagava nel
vuoto. Scivolare giù, sprofondare nelle acque scure e calme del crepuscolo
sarebbe stata l’espiazione della colpa per non essere riuscita a salvarlo,
quando, a Gonzaga, ne aveva avuto la possibilità, la strada che l’avrebbe
ricondotta a lui per condividerne l’eternità e riscrivere il passato.
La
morte di Hermann aveva riportato in vita un sentimento che, dal suo cuore
ancora sanguinante per le ferite d’amore, ogni tanto boccheggiava, ma che era
pur sempre vivo.
Il
rumore di una barca a motore che solcò veloce la superficie tranquilla del
mare, lasciando dietro di sé una scia di schiuma bianca e grigia, la scosse dai
suoi pensieri. Seguì con lo sguardo l’imbarcazione, mentre il suo cuore tornava
a Matteo, al loro imminente matrimonio, alla loro bellissima casetta dal tetto
rosso affacciata sul porto, alla propria immagine riflessa nello specchio della
sartoria con indosso l’abito bianco in stile anni ’20, ad Hannah che, più di
un’amica, era una sorella, al signor Gennaro e alla moglie che continuavano a
prodigarsi per lei come per una figlia, a Davide che l’avrebbe accompagnata
all’altare.
Indietreggiando
e sedendosi meglio sulla banchina, si aggrappò di nuovo alla vita per le
persone che l’amavano e per Hermann che la vita gliel’aveva salvata, da
Auschwitz e dal vuoto d’amore.
22
febbraio 1944
La
luce soffusa della stanza avvolgeva la sua figura dritta vicino al mobiletto. I
capelli biondo grano spettinati, una bretella abbassata e un lembo della
camicia fuori dai pantaloni gli conferivano un’aria vagamente scanzonata che lo
rendeva più umano, meno diverso dagli altri uomini. Senza la sua divisa con il
fregio del teschio a rievocare la morte e da solo con lei, sembrava esserlo
realmente.
“Cosa
ti ha detto il dottore?” Hermann la guardò di sottecchi per nascondere un
piglio apprensivo, mentre riempiva un bicchiere di vodka. I movimenti erano
tesi e rallentati dal cruccio di non sapere come approcciarsi a lei,
consapevole del suo stato d’animo dopo quello che era successo.
“è una lieve contusione”, biascicò
Sarah, guardando un punto impreciso dinanzi a sé, tra la parete e le sue
spalle, “tre, quattro giorni di riposo e starò bene.” Dentro di sé, l’impulso
di fuggire lottava già contro il desiderio di restare.
“Non
volevo essere troppo duro con te”, si giustificò inaspettatamente, sancendo
così il vincitore nella lotta, “ma, oltre questa stanza, abbiamo dei ruoli da
rispettare.” Le porse il bicchiere e subito cancellò dal viso l’espressione
accigliata che un attimo prima aveva ostentato. “Tieni, ti farà sentire
meglio”, le disse e, dietro quel tono asettico, tentò ancora di mascherare le
sue reali emozioni.
Nonostante
avesse dissentito con un cenno della testa, essendo astemia, Hermann le
avvicinò il bicchiere alla bocca e lei si ritrovò a intingervi con esitazione
le labbra, poggiando involontariamente la mano sulla sua. Solo un sorso e
avvertì bruciore alla gola, quasi dolore e indietreggiò, arricciando il naso e
strizzando gli occhi per il disgusto. Non si sentiva affatto meglio, né con il
braccio né con la mente che aveva preso ad ascoltare il cuore e i suoi inganni.
Sentì il suono del bicchiere posato sul mobiletto e il tocco di una mano calda
che prendeva la sua fredda per condurla a sedersi assieme sul bordo del letto e
tenne gli occhi chiusi al soffio di un profondo respiro sul collo, mentre le
abili dita furono sotto la sua gonna.
Gli
trattenne la mano, colpendogli e afferrandogli il braccio e un lamento uscì
dalle sue labbra tremanti. “No”, sussurrò e un velo di lacrime le coprì gli
occhi dilatati per la paura delle conseguenze del suo ardire. Ma, stavolta, non
si sarebbe concessa volontariamente a lui che rimase per qualche istante
interdetto, prima di incorniciare tra le mani il suo viso provato dalla dura
giornata, inducendola a guardarlo negli occhi.
“Tranquilla”, le disse
con tenerezza e decisione e già avvertì il tremore abbandonare lentamente il
corpo di Sarah, “non faremo nulla che tu non voglia fare.”
Le prese una mano e
gliela baciò ripetutamente, piano, fino a sfiorarle i polpastrelli, fino a
suscitare in lei un tremito nuovo che abbassò le sue lunghe ciglia nere,
inumidite dalle lacrime trattenute e dischiuse le sue labbra di rosa. E fu
pronto a liberare il cuore. Per un attimo eterno, si fermò a respirare il
respiro della sua bocca e chiuse anche lui gli occhi, mentre univa le labbra
alle sue.
“Tra l’anima e la superficie, la cicatrice.
Quello che non si dice sul cuore incide
e scava nuove ferite,
mentre vorrei solamente cancellarti per sempre
o forse solo un istante.
Ma tu sciogli i pensieri
e leghi le mani, allora mi ami.
Ma è tardi domani.”
Francesco Renga, Cancellarti per sempre