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Zona di Esclusione di Chernobyl, Ucraina.
7 Novembre 2009.
Ex base militare sovietica Chernobyl-2.
16:52.
Anatoli Zelenko, Boris Volkov, Vassili
Karavaev, Serg. Olga Petrova, Sergei Kabakov, Irina
Kabakova, Pvt. Feodor
Kovalenko.
Il gruppo ha raggiunto la stazione radar Duga.
«Kovalenko!»
Un
ufficiale dell’esercito ucraino si avvicinò al gruppo di civili, mentre attorno
i superstiti gettavano i cadaveri oltre i cancelli, separando ex zombie dai
soldati caduti, ai quali venne sparato un colpo in testa per impedirne la
trasformazione.
Feodor
si mise sull’attenti, ma venne immediatamente messo a riposo.
«Dov’è
il resto della tua squadra, soldato?» domandò l’ufficiale.
Il
soldato riassunse quanto successo negli ultimi giorni, fino all’arrivo dei
civili, presentandoli al graduato, il capitano Aleksey Yaremchuk.
«Desolato
conoscervi in queste circostanze, signori. Cosa vi porta nella Zona di
Esclusione?» chiese, stringendo loro la mano.
«Abbiamo
l’ordine di scortare questi civili in un luogo sicuro» spiegò Olga. «Ci era
giunta voce che all’interno della Zona ci fossero militari, e che l’area, a
discapito delle radiazioni, sia relativamente sicura.»
Yaremchuk
si passò una mano dietro la testa.
«Temo
di avere brutte notizie per voi» sospirò. «Questa base è ad uso esclusivo
dell’esercito ucraino. I civili e la Militsiya, assieme a qualche soldato, sono
tutti a Pripyat. Non potete restare qui.»
Anatoli
sgranò gli occhi.
«Capitano,
non so se si rende conto, ma tra qui e Pripyat ci sono almeno venti chilometri,
e il sole inizierà a calare tra non molto» sbottò.
«Non
potete darci un passaggio con i vostri mezzi? Raggiungeremo la destinazione in
men che non si dica» propose Irina.
«Non
adesso. Domattina alcuni dei miei uomini andranno a Pripyat per consegnare
provviste ai civili. Vi daranno un passaggio» rispose il capitano.
Il
gruppo annuì.
L’uomo,
accompagnato da Feodor, li condusse poi verso gli alloggi, attraverso ciò che
restava della città militare. Giunti sul posto, Yaremchuk si congedò.
«Riposatevi.
Avete camminato abbastanza per oggi. Grazie per aver riportato indietro il mio
uomo.»
«Dovere,
signore» fece Boris, con una nota di timore.
Il
capitano fece per andarsene, ma tornò sui suoi passi.
«Sergente
Petrova, i tuoi nuovi ordini sono questi: una volta che avrai scortato i civili
e il poliziotto a Pripyat, resterai a sorvegliare la città con le altre forze
armate.»
Olga
annuì.
Feodor
strinse la mano a ognuno di loro, congedandosi.
«Vi
ringrazio infinitamente, mi avete salvato la vita. Buona fortuna per il vostro
viaggio» disse, salutandoli un’ultima volta.
«Anche
a te, soldatino» fece Sergei, allungandogli la mano.
Kovalenko
ricambiò la stretta, e lasciò riposare il gruppo.
«Furto
e rapina.»
Sergei
aveva rotto il silenzio, di nuovo. I sei avevano cucinato del cibo con dei
fornelli da campo nella camera, cenando in cerchio.
«Come?»
fece Vassili, guardandolo.
«Ecco
perché ce l’ho con voi sbirri. Prima che tutto questo scoppiasse, per mantenere
gli studi di Irina e mia moglie, ero ricercato per furto e rapina. Talvolta,
andavo anche a rubare pezzi di ricambio dai mezzi parcheggiati al cimitero dei
veicoli di Rassokha.» disse il padre di Irina.
«E
allora come mai non spari? In anni di furti e rapine non puoi non aver mai
sparato un colpo. Cavolo, lo fa pure Irina.»
«Sono
un ladro, non un assassino. Non ho mai usato armi nemmeno per spaventare chi
derubavo. Quanto a Irina… a diciotto anni ha iniziato ad andare a sparare al
poligono di tiro di Ivankov. Non avevo dubbi che sarebbe diventata
un’eccellente tiratrice.»
«Cosa
ti ha spinto a farlo? A rubare, intendo» domandò Anatoli.
Irina
prese il suo orsacchiotto in mano, guardando Boris e il resto del gruppo.
«Avevo
promesso che ti avrei spiegato il perché mi sto portando dietro Masha. Ed ecco
qui: io e mio padre… abitavamo a Pripyat, prima dell’incidente alla centrale
nucleare. Tra le poche cose che sono riuscita a prendere prima di lasciare
l’appartamento, c’era quest’orsacchiotto. È il mio portafortuna» disse.
Nella
stanza, per pochi momenti, calò il silenzio. Sergei raccontò cosa visse in quei
fatidici giorni del 1986.
«Prima
del disastro, ero un operaio della fabbrica Jupiter. Producevamo
componenti elettroniche, e fornivamo segretamente semiconduttori all’esercito
sovietico. Vivevamo in un appartamento al sesto piano di una palazzina in Via
dello Sport. La mattina del
26 aprile, mentre portavo Irina a spasso, vidi molte macchine della polizia, e
i poliziotti avevano mascherine antigas. Solo la sera dissero che c’era stata
un’esplosione al reattore. Il giorno dopo, all’ora di pranzo, passò un blindato
dell’esercito con un altoparlante, in cui veniva ordinata l’evacuazione
temporanea di Pripyat. Mia moglie e mia figlia furono portate a Kiev, ma
riuscirono a tornare a Ivankov, dai suoi genitori, pochi giorni dopo. Io fui
chiamato per fare il liquidatore, venendo assegnato alla decontaminazione. Ricordo
che le mascherine diventavano marroni dopo pochi minuti. Non ci dissero nulla
delle radiazioni, e non ci diedero nemmeno dei dosimetri per capire quanta
merda stessimo assorbendo. Quando finii il mio periodo, mi dissero che mi
avrebbero dato un vitalizio di 200 rubli al mese… ma non ho mai visto l’ombra
di un quattrino in tredici anni. Ho rischiato la vita per loro… ma, invece di
ringraziarmi, mi hanno rovinato.»
«Mi
avevi promesso di portarmi al luna park, ricordi? Volevo fare un giro sulla
ruota panoramica…» aggiunse Irina.
Il
padre di quest’ultima fece scendere qualche lacrima. Vassili gli mise una mano
sulla spalla, cercando di confortarlo.
«Chiuderete
il cerchio, Sergei. E tu, Irina, riporterai Masha a casa. Andrà tutto bene» disse.
A
cercare di allentare la tensione ci pensò Boris.
«Beh,
signore e signori, credo faremo meglio a dormire un po’» fece, stendendosi su
un vecchio materasso. «Domani non ci aspetta una passeggiata, e voglio vedere
con i miei occhi posti che ho visto solo su Call Of Duty e S.T.A.L.K.E.R.»
Gli
altri sorrisero, quasi amaramente, e seguirono il suo consiglio.