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Autore: Longriffiths    30/07/2020    5 recensioni
Narcissa allungò una mano nella manica opposta, e tirò fuori la propria bacchetta.
Andromeda la imitò, ed entrambe puntarono le estremità ai lati della lapide.
Dal terreno, nacquero due roseti.
Fiori accesi di rosa, i preferiti di Andromeda a destra, e fiori bianchi, i preferiti di Narcissa a sinistra, per omaggiarla in eterno dei loro ultimi regali, delle scuse che non le avevano mai fatto, dei ringraziamenti che non le avevano mai rivolto.
Dell’ascesa nel delirio che non le avevano mai impedito.
Genere: Angst, Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Andromeda Black, Bellatrix Lestrange, Narcissa Malfoy
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
- Questa storia fa parte della serie 'La Nobile e Antichissima casata dei Black. '
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Questa storia fa parte di un’iniziativa chiamata ‘Scrivimi’, ideata da gruppo facebook Caffè e Calderotti.
Prompt di MusicDanceRomance:
https://efpfanfic.net/viewuser.php?uid=115047

Genere: Introspettivo. (obbligatorio)
Prompt: Una frase da una tua canzone preferita- in questo caso, ne utilizzo alcune dalla stessa -
https://www.youtube.com/watch?v=d7oGkfhlC9k -
Personaggio: Una o tutte le sorelle Black.
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                                                                                           BELIEVER.


First things first, I'mma say all the words inside my head,
I'm fired up and tired of the way that things have been.   



Non era l’atmosfera adatta ad un luogo simile, ma rifletteva perfettamente gli animi degli abitanti di quello splendido mondo, depurato finalmente dal male che lo minacciava da fin troppo tempo.
La diurna stella che si ergeva alta nel cielo non era luminoso quanto non più il semplice alone, ma l’indelebile gora di una gioia che aleggiava per le vie in cui vi era presente anche una sola minima traccia di magia. Difficilmente sarebbe sbiadita, o avrebbe perso il suo calore nell’albore del tramonto come facevano i raggi di un sole insignificante, se paragonato a quel che da non più di tre settimane era il sentimento che caratterizzava la vita di maghi e streghe.

Maggio, era il mese delle rose.
I raggi dorati battevano sui petali di quei fiori accarezzandone la setosità, la loro linfa ne traeva vita e permetteva loro di crescere, aprire ogni bocciolo dalle sfumature più tenui a quelle più accentuate, tutte alte e sovrastanti le tombe dei caduti di guerra.

Su ogni lapide o monumento agli onori e memorie vi erano di quei fiori, resi sempreverdi dalla magia che aveva salvato le loro case, le vite dei restanti uomini, donne e bambini che non avevano più nulla da temere. Soltanto quella specie floreale in tutte le sue varietà adornava il cimitero, tutti i camposanti dei guerrieri e innocenti che avevano perso la luce della vita, erano commemorati col simbolo della gratitudine, dell’eleganza, dell’amore puro. Avrebbero riposato sotto la frescura delle fronde, col profumo di quelle bellezze che mai sarebbero sfiorite, come il loro coraggio, come l’indimenticabile contributo che avevano saputo dare innanzi all’avversità che aveva reso parte della storia il loro mondo, i loro nomi.
Lacrime cariche di nostalgia e rifiuto all’accettazione avrebbero alimentato la freschezza di quei vegetali in eterno, molto più che la pioggia incontaminata o i generosi getti d’acqua dei guardiani di quel luogo, dei visitatori che stramazzavano al suolo abbracciando la fredda pietra che conteneva i loro cari, incapaci di trattenersi.
I singhiozzi e gli ansiti strozzati erano l’unico sottofondo, che non infettava l’aria creatasi al di sopra di quei luoghi. Ognuno era chiuso nel proprio dolore impossibile da archiviare nelle memorie e tenere recluso all’interno del cuore davanti a quei nomi incisi nel candido blocco di marmo, uno strazio che non li avrebbe mai lasciati e solo un’entità divina e più forte sapeva se mai avrebbe fatto meno male.
Lacrime indispensabili, a tenere vivo un orribile ricordo, e fare in modo che una sofferenza simile non si volesse riprovare mai più, per fare in modo che la storia non fosse più ciclica ma solo lineare, per impedire che riaccadesse neanche la metà dei martiri patiti. O sentire il loro peso in avanti per la prima volta, per chi di loro poteva vantarsi del privilegio di non avere subito mancanze nella lotta alla pace compromessa dal mago Oscuro peggiore di tutti i tempi, e di tutti i suoi sostenitori, assassini, causa dei tanti lutti.

A quelli, erano rivolti i passi di chi avvertiva lontana come anni luce la contentezza di quei momenti. Non ne avvertiva l’essenza, sentiva solo una flebile e pacata scossa che dal centro del petto disegnava venature lungo le membra, avvolgendo di un appena percepibile calore le forme spirituali che conservavano nei corpi invecchiati, provati dalla vita, da tutto quello che una guerra e gli anni antecedenti ad essa aveva apportato loro, e alle loro famiglie.
Avrebbero dovuto avvertire la felicità più di tutti gli altri, ma risultava impossibile quando un travaglio lungo più di cinquant’anni terminava in quel modo, con la scomparsa di un marito e una figlia per una, e con un marito condannato alla prigione per il resto dei suoi giorni ed un figlio sfregiato nel corpo e nell’anima per l’altra.

Al loro passaggio molte teste si voltavano.

La guerra aveva spazzato via diversità e dislivelli sociali, tutti erano sullo stesso piano, sulla stessa barca traghettata in un nuovo albore in cui il passato era stato lasciato in un limbo che non si sarebbe più dovuto aprire, solo ricordare, per cui, in onore del rispetto di quelle che erano eguali vittime che stavano elaborando le mancanze incolmabili dei loro affetti, non mancavano gli ossequi.
Appena distinguibili cenni del capo, un delicato segno di mano, uno sguardo affranto di pura vicinanza e comprensione.
Andromeda e Narcissa potevano leggere negli occhi di chi le incrociava, un giustificabile moto di risentimento. Non era volto a dar loro la colpa di alcune delle più note scomparse, anche se ogni caduto aveva la stessa importanza di un altro, ma era comunque quasi impossibile per loro da sostenere, da affrontare, da reggere. Le iridi velate di lucido dispiacere non facevano che metter loro indosso il senso delle colpe che si ripetevano invano di non avere, accresciuto esponenzialmente di volta in volta in cui si recavano a porgere i saluti ai loro cari.
Non era raro per Andromeda passeggiare tra le lapidi.
Aveva in quel tempo già consumato la scritta sulla pietra di Ted e sul monumento di Ninfadora e del suo sposo, per quante volte l’aveva sfregata con le dita nel tentativo di arrivare col tocco della sua anima nelle viscere della terra che li conservava, e sperare di poterli in qualche modo riscaldare. Non erano gli unici a cui teneva compagnia quasi in ogni ora del giorno, quando non si occupava del piccolo Teddy, unica e ultima cosa che le restava nel quale poteva scorgere il frutto del suo amore, perduto. Nei suoi occhietti, nel suo sorriso di infante, nella sua irrequietezza, nel suono della sua risata, nei suoi forti e calorosi abbracci e nel colore dei suoi capelli, era indissolubile l’immagine di sua figlia.
Avrebbe vissuto la sua intera vita da capo altre mille volte, con tutte le gioie e i dolori, per rinnamorarsi di Ted e riavere per la prima volta tra le braccia la luce dei loro giorni, la sua piccola e amata esplosione di energia e solarità mutaforma, un vulcano attivo, una degna guerriera, una donna forte e carismatica, un determinato, testardo e amorevole tornado di buonumore in forma umana.
Le persone per la quale si era spesa dal primo all’ultimo momento, per la quale tutte le pene erano valse, per la quale non si era mai pentita, non aveva mai rinnegato.
La donna curava ora le piantagioni, puliva con profonda riverenza le tombe, porgeva le sue scuse a tutti i nomi che affollavano quel cimitero che era un’autentica opera d’arte per il riposo eterno, costruito apposta per loro, una commemorazione degna del suo significato.
Accoglieva il dolore altrui e dimenticava il proprio quando c’era da confortare, era benvoluta da tutti malgrado il nome della sua famiglia era stato partecipe e molte volte causa di rivolte razziste, persecuzioni, e delle più sadiche e pericolose manovre di tortura e stragi che avevano spaventato e ridotto alla follia, in tutti i sensi che il termine possa contenere in sé, migliaia di persone.

Ma non tutti i Black avevano apportato danni in quel supplizio universale.
Alcuni avevano messo a rischio tutto ciò che avevano.
Alcuni avevano dato la loro vita.

Avevano, alcuni di loro, lottato prima che contro i nemici, contro i loro amici, i loro cari, la loro stessa famiglia. Con dolore, con dispiacere, o con estrema necessità di fuggire perché non inclini a quel tenore di vita, estranei a quelle fredde mura che erano la loro casa.
Avevano, alcuni di loro, lasciato enormi quanto occulti ausili disseminati nel corso della vicenda durata fin troppo tempo, sovrastando ciò che era facile per assicurare il giusto. Avevano scavato tra le righe dell’occhio del ciclone in cui erano stati intrappolati in un modo o nell’altro, affrontando la tempesta senza timore, perché la distruzione di un milione era un’immagine di gran lunga peggiore della morte dei propri corpo.
Avevano gettato basi che potevano vantare la vittoria, premeditate o improvvisate, che soltanto in futuro, da due anni a quella parte tramite le preziose parole del bambino sopravvissuto che aveva appena sconfitto l’ultimo nemico, quello che aveva portato invece via i suoi genitori troppo precocemente, avrebbero trovato la luce in quella verità.

Non sapevano gli abitanti del mondo magico, non ancora, quanto il loro contributo avesse pesato, quanto grosse fossero state le loro gesta, quanto il sapore del suicidio non fosse stato amaro per loro che avevano pregustato nella fermezza delle loro scelte, giuste o sbagliate che fossero, la salvezza di quel mondo. La salvezza delle loro anime, di quelle ancora vive che potevano godere della pace.
Il pentimento, il lume della ragione che presto o tardi aveva solleticato la loro coscienza scavalcando l’idea di un fallimento mortale, perché consapevoli e decise condanne a morte compiute o meno erano state le scelte che avevano fatto, concretizzato.
Regulus, Andromeda, Sirius e Narcissa.
Ci avevano provato.
Quel che gli altri chiamavano tradimento, per loro era stata fedeltà.
Presto o tardi, avevano vinto la partita a scacchi con la realtà, ed Harry Potter stesso non avrebbe permesso che tutto ciò restasse nella propria mente. Avrebbe nel giro del mondo intero portato dall’inizio alla fine tutto ciò che la sua pelle aveva vissuto, e nessuna delle persone che direttamente o no ne avevano fatto parte sarebbero state dimenticate, nel bene o nel male.

Era Andromeda quella ancora in vita, associata alla fetta di persone dalla macchia nera per genetica, da ricordare e divulgare alle generazioni correnti e future con un sorriso e un moto d’orgoglio all’altezza del petto, secondo le genti.
Narcissa era colei che veniva ancora scorta con disdegno, collocata nel giro di persone marchiate di nero per scelta, la quale colpa aveva portato gran parte della comunità nella falce della Morte, nel suo eterno mantello tetro e incorporale.
Ed ora, Narcissa era stanca.
Lo era da molto in realtà.
Affaticata dal peso degli ultimi anni che le erano gravati quanto non aveva fatto il numero di decenni che era vissuta prima, piegandole le spalle, intrappolandole l’orgoglio, legandole le mani dietro la schiena.
Nessuno aveva scavato all’interno del suo petto, quando il nome di suo marito era andato in rovina, quando lui stesso era stato rinchiuso. Quando Draco era stato punito, non scelto. Narcissa sapeva bene, quanto quel compito gravasse sulla vanagloria del demone a capo di tutta l’orda di uomini che avrebbero potuto accondiscendere alla sua volontà. Nessuno aveva cullato i suoi dispiaceri, aveva inghiottito da sola le lacrime, affogando nel cuscino del suo letto vuoto per metà, quella reclusa esattamente come lo era lei, incatenata dall’interno e priva di un solo unico moto di felicità a cui affidare l’anima. Nessuno, aveva visto dietro la madre che era il disperato bisogno di aggrapparsi alla sicurezza che suo figlio ne uscisse indenne, che l’aveva costretta a piegarsi dinanzi un uomo e lasciare in una fredda tomba la dignità, per avere la forza di alzarsi ogni giorno e andare a dormire, con la fondata certezza che Draco non venisse ucciso, o peggio.
Si era venduta, spesa, consumata per amore della propria famiglia.
Nessuno aveva letto nei suoi occhi la confusione, il passivo distacco dalla realtà, il rifiuto, l’impotenza, l’incapacità di esprimere la rabbia e il disappunto, quando la sua casa era stata scelta come quartier generale.

Il proprio ambiente sicuro, la dimora di una vita colma di ricordi felici legati a ciò che più le allietava il cuore; della crescita del gioiello più prezioso che le apparteneva, che in tutta la ricchezza materiale e pura che aveva caratterizzato la sua esistenza era il più bello e il più importante, quello al quale teneva di più. Il suo unico e meraviglioso figlio di cui andava dannatamente fiera, oltre e nonostante tutto. Un ambiente sereno ed intimo, violato.
La vivacità delle fotografie in movimento che ne tappezzavano le pareti, delineate da cornici che urlavano eleganza, era stata eclissata dall’ombra di quell’uomo che la terrorizzava, e dei suoi scagnozzi.
Non si era sentita orgogliosa di ospitare nel maniero quelle persone. Quella persona.
Le uniche cose che vedevano le genti al suo passeggio, erano due dei nomi meno rispettabili, e l’ombra di una donna ferita e provata, ma sollevata, finalmente.

Sollevò il cappuccio del mantello da viaggio, e sua sorella glielo impedì.
-‘Cammina a testa alta, ‘Cissa. Lo sai, che è anche merito tuo se siamo vive, se Harry è arrivato lì vivo, vero?’-
-‘Loro non lo sanno.’-
-‘Loro non sanno un bel niente.’-
-‘Sanno che non sono un’eroina come te. Non ci dovrei mettere piede in questo posto.’-
-‘Hai fatto la cosa giusta. Essere eroi significa sacrificare sé stessi per gli altri. Io mi sono rifiutata di sposarmi, tu hai mentito in faccia a quel demone. Avresti fatto una fine peggiore della mia. E io sono così orgogliosa di te. E lo è anche la mia bambina.’-

Narcissa posò nuovamente gli occhi sul riconoscimento ai Lupin.
Con tutta sé stessa, non riusciva a guardarli, non era in grado di prestarsi a un saluto decente. Loro due non si erano mai separate davvero.
In seguito all’incenerimento della secondogenita dal loro stendardo raffigurante l’albero genealogico, in segreto, non avevano smesso di vedersi. Esattamente come con Sirius, ma di rado nel caso della bionda.  
In luoghi isolati, lontano da occhi indiscreti, in tempi meticolosamente programmati e in assoluta sicurezza. Senza rivelare mai niente a nessuno, neanche ai rispettivi mariti.
Erano state partecipi di tutti i momenti della loro vita, anche se in casi molto restrittivi, avevano trovato uno sbocco di libertà durante gli anni prima del ritorno.
Lei aveva visto nascere Ninfadora, ‘Meda aveva fatto la medesima cosa con Draco.
Per quello, adesso che tutto era finito, quasi non riusciva a guardare in faccia sua sorella.
Lei aveva ancora un figlio, ed un marito, anche se lontano e sofferente, a marcire in una prigione in Germania.
Entrambe avevano però perso una sorella.
Era da lei che si stavano dirigendo.


Second things second, don't you tell me what you thing that I can be,
I'm the one at the sail, I'm the master of my sea.



Il fogliame ancora smeraldino sotto le suole dei loro stivali non scricchiolava, era un lucido e liscio tappeto che accompagnava la loro lenta e faticata camminata verso un luogo assai più tetro e meno intriso di passione, che fosse questa influenzata da ambo i lati della sfera sentimentale umana, che racchiudeva la pace o il tormento.

Camminarono senza sosta per chilometri senza sentire la stanchezza né l’età, in quella sorta di via crucis, fino a che non scorsero in lontananza l’entrata di un altro cimitero, più modesto, più piccolo, meno curato.
Quasi abbandonato a sé stesso, dimenticato.
Ogni vittima, tutte quante, avevano diritto ad una sepoltura. Bruciare i corpi era immorale, gettarli in una fossa era un atto deplorevole, e non potevano di certo farli evanescere con il rischio che apparissero altrove.
Tutte le lapidi erano uguali. Nel peso, nella forma, nella dimensione. Dalla terra fuoriuscivano a distanza di un metro le une dalle altre le stele, nessuna era diversa dall’altra.
Il Ministero della Magia, con una squadra speciale apposita, aveva dato il permesso di raccogliere i cadaveri di coloro che erano stati sconfitti, di quelli schierati dalla parte del male, e conservarli in eterno nei loro paesi d’origine.
Non c’erano stati riti funebri tradizionali, li avevano semplicemente seppelliti in un campo benedetto, a darsi guerra con l’oltretomba.
Malgrado battesse il sole, e la struttura era stata adibita solo una settimana dopo la battaglia finale, quel luogo pareva abbandonato da anni.
Non vi era un fiore.
Solo tanta terra e blocchi di marmo impoverito, sulla quale qualche croce in legno o in ferro battuto era apportata, a chi si era degnato di passarvi a metterla.
Anche gli alberi sembravano non voler germogliare più di così, le loro radici erano inghiottite dalla stessa terra che ospitava quelle persone, ed il veleno che le aveva putrefatte molto più di quanto avrebbe mai fatto la decomposizione biologica, ancora si disperdeva nel campo da sottoterra, e chissà se mai si sarebbe smaltito nel corso del tempo e dei cambiamenti ambientali. Le radici erano troppo vicine alle tombe, e si nutrivano degli effetti di quel campo contaminato da odio e rancore.
Tom Marvolo Riddle era seppellito in ultima fila, la venticinquesima, esattamente al centro. Andromeda e Narcissa oltrepassarono tutti i Mangiamorte o sostenitori del Signore Oscuro che venivano dall’Inghilterra, come lui stesso, sino a raggiungere quella lapide.
La sua sinistra era completamente vacante, quella fila ospitava soltanto lui, ed una costruzione in pietra identica, a destra.
Il posto che era stato suo in vita lo era anche nella morte.

Ci avevano appena posato gli occhi entrambe per la prima volta. Avevano dovuto raccogliere parecchio del coraggio che a due Serpeverdi mancava davanti a una perdita tanto toccante, prima di recarsi insieme a trovarla.
La pietra tombale che rivestiva il suo posto, dall’alto, risultava molto piccola.
Poteva quasi essere paragonata alla culletta che l’aveva vista nei primi mesi di vita.
Un occhio attento come quello delle due donne nella quale Bellatrix ancora e sempre abitava, poteva scorgerla figurativamente come se la vista attraversasse la terra, col viso sereno. Rilassato, più pallido del solito ed incorniciato dal grumo informe di ricci corvini, fasciata nelle sue vesti ebano, elegante e fiera come se dormisse tranquilla con le braccia al petto. Un letto bianco che la custodiva. L’ultimo, che come il primo, la sua culla infantile, era stato in grado di tenerla a bada, ferma, e in silenzio.
Il solo pensiero che sotto metri di terreno ci fosse la loro sorella maggiore in carne ed ossa, inerme e senza vita, scosse gli animi delle due tanto da costringerle a sedersi sul marmo rialzato per qualche centimetro che copriva tutta la lunghezza della bara sottostante, in cui ci sarebbero dovuti essere dei lumi, delle composizioni floreali, e dove invece non vi era niente. Soltanto un nome. E una data.
 
Bellatrix Althea Black -in Lestrange-
18 Novembre 1951 – 2 Maggio 1998


Era una sensazione difficile da sostenere. Il loro stesso corpo non le apparteneva più, era privo di sostegno, le indusse a crollare come bambole di pezza senza possibilità di appoggio al suolo. Potevano adesso soltanto comprendere come mai si fosse sentita lei in balia dei Dissennatori. In balia di neanche un solo moto di felicità, circondata da un alone nero di depressione costante, che le mordeva lo stomaco. Per anni, ed anni, senza crollare.
Potevano solo allora rendersi conto di quanta potenza disponesse la loro sorella andata.
Si chiesero per la prima volta, come mai sarebbe stato il mondo se avesse adoperato quella prestanza nella luce, se fosse stata ancora viva.
Nessuna delle due sapeva esattamente che fare, cosa dire.
Entrambe avevano un disperato bisogno di consolazione, di lenire un dolore incommensurabile, e allo stesso tempo sapevano che era doveroso dar conforto all’altra che necessitava di più di vicinanza, della loro compostezza.

Narcissa che aveva sempre vissuto con lei, in sua stretta compagnia, aveva il dovere di confortare Andromeda, che non la vedeva da quasi trent’anni. Più di tutte secondo la bionda, lei ne avvertiva la mancanza, ed aveva bisogno di una spalla su cui piangere.

Andromeda che aveva impresso solo in una onirica ottica il suono della sua voce, sapeva di dovere il suo sostegno a Narcissa, che era quella che l’aveva perduta sul serio, che l’aveva vissuta di più.

Nessuna delle due, nelle loro menti, poteva permettersi di piangere, e mostrarsi triste davanti all’altra sorella che soffriva molto più di loro quell’assenza incolmabile. Era d’obbligo secondo le due, mantenere decenza e calma.
La verità era che nessuna ci riusciva.
Come era possibile, umanamente parlando per due che di sentimenti ornavano ogni istante delle loro giornate, restare flemmatiche dinanzi ad un evento, ad una circostanza del genere. Come se qualcosa le avesse spezzate dall’interno, portato via un pezzo di loro che non avrebbero riavuto mai più, quel qualcosa che le rendeva completamente quelle che erano, e che ora era scomparso con Bellatrix.
In tutti i libri del mondo, da anni e da lì in eterno il nome della primogenita del loro trio sarebbe stato riportato come l’ottica, la concretizzazione di distruzione e morte.
Per loro, era la persona che le aveva benvolute più di tutto il resto.
Non era solo un’assassina. Non era solo la peggiore, o migliore a seconda di chi ne giudicava l’operato, Mangiamorte mai esistita. Era prima di tutto sangue del loro sangue.

E il sangue marciva, ribolliva, si masticava, si rinnegava alle volte.
Ma non si sputava, mai.

Non era solo colei che ad ogni passo, alla sola vista, al solo sentire la sua voce, le strade divenivano deserte e senza un solo individuo disposto ad incrociare i suoi occhi neri. Quegli stessi occhi che le avevano guardate con affetto, in un modo in cui non avevano guardato mai niente e nessuno replicando la pienezza che vi era nelle iridi, al solo posarle sulle sue adorate sorelle.
Il suo sorriso che sapeva di morte certa.
Che rivolto a loro, era accostabile all’abbraccio più sicuro nel quale potevano crogiolarsi.
Restarono in quel modo, le mani giunte e tanto strette da sbiancare le nocche, capo contro capo, lasciando che le lacrime cadessero copiosamente in religioso silenzio, ognuna di loro parlava internamente con l’anima della defunta sorella, sperando che non fosse tanto persa, tanto lontana da non ascoltare le loro preghiere, le loro parole.

La tomba di Bellatrix aveva un non so che’ di diverso dalle altre.
Ci si sarebbe scottati probabilmente se al di sopra del marmo ci si poggiava una mano nuda. Emanava ancora tutta l’energia che l’aveva tenuta in piedi in vita, tutto il calore della strega, della donna che era stata.

Instabile da qualunque punto di vista, tranne quello della sua fedeltà.
Ognuna di loro era stata fedele a qualcosa. A qualcuno.
Andromeda, a sé stessa.
Narcissa, alla sua famiglia.
E Bellatrix, all’amore della sua vita.

Si avvertiva fortemente la sua presenza, fluttuava tra loro, sulle loro teste.
Temibile, e pericolosa. Spietata, sadica oltremodo, ma forte. Molto, molto forte.
In grado di superare qualsiasi avversità, vincere ogni ostacolo. Un esempio di tenacia e determinazione, di quanto in una sola persona potesse albergare tutta la forza di volontà del mondo, che l’aveva portata a subire, accettare, a prestarsi a tutto pur di raggiungere ciò per cui era nata e vissuta.
L’unica cosa del quale la bionda si pentiva, e del quale la mora conservava il rimorso, era non aver mai provato davvero ad affrontarla nelle sue follie.
Aveva un temperamento che aveva sempre eclissato il resto dei suoi pari, inferiori e superiori, e mai nessuno aveva compreso come prenderla sul serio.
Era impossibile prenderla. Era lei a scegliere di concedersi, per fare avere a terzi un minimo di accesso alla sua mente, alla sua anima.
A cercare di affiancarla sul serio, capire quando mentiva per proteggerle e perché, accompagnarla ogni qualvolta spariva dalla circolazione senza dire niente a nessuno, scoprire le sue ragioni, cercare di aprirle un altro mondo, un’altra via.
Chiederle se stesse bene, cosa le servisse, se avesse bisogno di loro, di qualcosa, invece di cercare sempre e solo conforto e aiuto nelle braccia della sorella maggiore.
Perché per quanto aggressiva, dissociata dalla loro realtà, apparentemente priva di emozioni, era un essere umano, e alle volte era fragile. E in quei momenti non aveva avuto nessuno, perché troppo incapace di ammettere debolezza, troppo ostinata per condividerla con qualcuno, per lasciarla uscire senza trasformarla in cruda violenza, perché si premurava sempre di non lasciare i suoi timori sulle spalle delle sorelle.
Si assicurava che vivessero bene, distanti dai suoi problemi che non avrebbero comunque capito. Dava loro un pensiero in meno, e si prendeva i loro, e tutto inevitabilmente le aveva agevolato l’annerirsi dell’anima.
Bellatrix era una figura, e lo era sempre stata, fin troppo distante da loro.
In tutto e per tutto.
Troppo esagerata, troppo solitaria, troppo ambiziosa, troppo famelica.
Troppo brava, e troppo innamorata per ascoltare le persone che la circondavano.

-‘Quand’è che l’abbiamo persa, ‘Meda?’-
-‘Lei non è mai stata qui. Prendere un’onda sarebbe stato più facile che comprendere lei.’-



I was broken from a young age, taking my soul into the masses, writing my poems for the few;


Abiti candidi che non le appartenevano.
Parole che non si sentiva addosso.
Un rango che le rendeva la vita un vantaggio, e una noia assurda.
Aveva tutto, e sentiva che qualcosa le mancasse, qualcosa che nessuno poteva darle, che non poteva comprare.
Costantemente lo sentiva, fin da quando aveva aperto gli occhi a sei anni, e aveva fissato tra i vagiti di Narcissa e il mugugnare di Andromeda un foglio di pergamena abbandonato in terra la sera prima con il quale si stava esercitando a scrivere, a qualche metro dal proprio letto.
E nell’osservare le parole che ne sporcavano il colore della sabbia di cui era fatto, si era chiesta quale fosse il suo posto nel mondo.
Nata per che, per cosa.
Destinata a comprendere, intendere, volere, a quale scopo.
Per cosa camminava, respirava, imparava.
Per quale motivo traeva l’energia della magia da qualunque cosa la circondasse, perché si sentisse così potente a contatto con ogni elemento naturale che toccava, che alimentava la Traccia magica che aveva addosso, che la rendeva parte integrande della sua comunità.
Chi aveva deciso il suo nome, cosa le affibbiasse il suo significato nel suo disegno, chi era e perché le era stata data la luce della vita.
Da quel momento in poi era cresciuta, e niente le era bastato.
Tutti i suoi soldi. Tutti i suoi comodi. Una famiglia grande che le voleva bene, e che l’aveva venduta per la preservazione del sangue ad un bambino che l’avrebbe sposata da adulta, proprio perché le voleva garantire la purezza eterna intorno a lei alla quale avrebbe contribuito, o avrebbe dovuto farlo.
Crebbe convinta di non essere parte della statistica comportamentale che contraddistingueva le donne e la gente della sua scala sociale, che nella vita fosse destinata ad altro, che nessuno dei mestieri del mondo faceva per lei.
Perché mai, neanche a sei anni come a quattordici, quando studiava a scuola da ormai tanto tempo e aveva preso confidenza ferrea con le materie a sua disposizione, era stata d’accordo sul crescere sotto l’ala economica di chi l’avrebbe sposata, chiunque esso fosse stato, e di imparare quello che le veniva imposto.
Non insisteva quando le veniva negata una cosa.
Se la andava a prendere incurante delle conseguenze.
L’importante era sapere di poterlo fare. Di averne le capacità.
E si era sviluppata da sola, interessandosi per conto proprio di ciò che secondo lei aveva valore, e valeva la pena del proprio tempo.
Lei non era come gli altri studenti, come gli altri ragazzi, aveva bisogno di più.
Libera e indipendente era destinata a essere, e avrebbe sistemato a modo suo chiunque le avrebbe impedito di raggiungere quella posizione, quelle curiosità.
Lo sapeva di essere differente, e ostentavano il termine sbagliata con lei, perché quando le chiedevano di accavallare le gambe sulla poltrona e non tenerle divaricate, quando le chiedevano di legarsi i capelli e adornarli con nastri e forcine si infastidiva. Quando le porgevano bambole o animali di stoffa con cui giocare, cercava i rami dal giardino più appuntiti e ne apriva la stoffa, preferendo non distrarsi con niente ed annoiarsi tutto il giorno che accettare i giochi destinati alle signorine, al posto di quelli che chiedeva apertamente quando camminavano per le vie della Londra magica.
In realtà, non si annoiava. Pensava molto, il cervello non era mai al riposo tanto che alle volte, il mal di testa era il suo unico vero compagno, fino a quando Andromeda non ebbe imparato a parlare fluentemente.
Quando le dicevano di non parlare addosso agli altri sentiva la rabbia crescere, aveva bisogno di lasciare andare la voce ogni volta che aveva qualcosa da dire, e pretendeva di essere ascoltata.
Esigeva che le si desse la dovuta importanza.
E non importava quante volte tentassero di insegnarle l’educazione, punendola, promettendole premi nel caso di successo agli insegnamenti che le davano.
Lei decideva da sola chi rispettare e chi no, quando tacere e quando urlare, quando rivelare un segreto, quando tenerne uno.
Agiva da sempre di testa propria.
Quando le negavano di partecipare a pranzi o riunioni assieme alla famiglia, e la lasciavano in casa con le sorelle infanti e gli elfi che avrebbero badato a loro, apriva la cristalliera e distruggeva ogni cimelio, ogni pezzo del corredo di casa.
Non piangeva, o faceva capricci quando si sentiva ferita, oltraggiata, dai genitori o da chiunque altro.
Meditava la giusta vendetta, a costo di prendersi il proprio tornaconto a distanza di mesi, solo quando aveva pianificato e si era figurata nella mente la peggiore reazione, quella che la soddisfaceva di più, che avrebbe potuto avere il malcapitato sotto le sue grinfie.

La sua non era ancora cattiveria, era spirito di sopravvivenza, era la legge naturale delle cose.
Se non mangi, ti mangiano.
E lei aveva molta, parecchia fame, e le piaceva giocare col cibo.

Apatica e passiva nelle situazioni nel quale chiunque altro sarebbe impazzito, era lei a fare ammattire chi ci avesse a che fare.
Le uniche, sole volte nel quale lo spirito animale che era affossato sotto la sua pelle usciva allo scoperto con il solo e unico intento di sbranare a sangue freddo, non era quando qualcuno tentava di colpire lei.
Ma quando cercava di arrecare danno anche a parole ad una delle sue sorelle.
Allora sì, che Bellatrix faceva paura sin da piccola.

Aveva trascorso gli anni scrivendo, appuntando nel proprio diario, nel diario della pupilla che sarebbe diventata, tutto ciò che le passava per la mente.
Parole pericolose che nessuno avrebbe dovuto leggere mai.
Erano parole per pochi, per qualcuno che fosse nato apposta per leggerle, qualcuno che non era ancora arrivato a dare un senso alle sue ambizioni.
Le scriveva e dava loro fuoco, per togliersele dalla mente e affidarle al vento, alle fiamme che avrebbero posseduto anche lei, fino a quando non avrebbe trovato quel qualcosa, quel fuoco in cui avrebbe sentito il desiderio di gettarsi.
Cercava stimoli, cercava risposte, le desiderava, non si sarebbe fermata fino a quando non le avrebbe avute.
Non le era sembrato tutto fuori dalle sue corde, era lei che si sentiva al di fuori del mondo che vedevano gli altri, che avevano costruito e nel quale era costretta ad abitare, del suo mondo che nessuno scorgeva.
E allora, aveva atteso.

                                   * * *

Narcissa allungò una mano nella manica opposta, e tirò fuori la propria bacchetta.
Andromeda la imitò, ed entrambe puntarono le estremità ai lati della lapide.
Dal terreno, nacquero due roseti.
Fiori accesi di rosa, i preferiti di Andromeda a destra, e fiori bianchi, i preferiti di Narcissa a sinistra, per omaggiarla in eterno dei loro ultimi regali, delle scuse che non le avevano mai fatto, dei ringraziamenti che non le avevano mai rivolto.
Dell’ascesa nel delirio che non le avevano mai impedito.


That look at me, took at me, shook at me, feel at me,
singing from heartache to the pain,



Aveva provato e sperimentato tante cose che l’avevano colpita a tal punto da toglierle il sonno. Che fosse un’emozione tanto colossale in positivo o in negativo, un male fisico, uno stato di confusione inverosimile.
Ma niente, niente, le aveva fatto quell’effetto.
Si era finalmente sentita realizzata, consapevole, indirizzata a qualcosa.
Niente l’aveva travolta tanto quanto uno sguardo, un paio di rubini incastonati nella sua anima fin dal primo accenno di contatto tra i loro occhi, sembrava aver visto esattamente ciò che cercava da anni, piombatole addosso così, dal nulla, come una benedizione maledetta. Le sembrò di fluttuare, e allo stesso tempo non si era mai sentita così con i pidi piantati in terra.
Per quindici anni aveva vissuto lasciando che il pianeta girasse a vuoto, senza una precisa motivazione, e adesso sapeva come muoversi, cosa fare, malgrado non aveva ancora spiccicato parola.
La voce di quell’uomo, il più misterioso e affascinante che avesse mai visto le si era insinuata sotto la pelle, lambendole ogni molecola corporea.
Il suo timbro, la sua finezza, il portamento quasi nobile, il tono ammaliante con il quale le aveva parlato, quasi sussurrato l’aveva attratta come la voce di una sirena per un comune mortale, al quale non aveva potuto resistere.
A nulla erano servite le urla dei suoi genitori, le restrizioni, le minacce, gli insulti venuti fuori dalla pura e semplice preoccupazione, dal terrore di sapere la loro prima figlia nelle grinfie di un demonio come Lord Voldemort.
Non si era certo aspettato di entrare nella casa dei Black per reclutare una quindicenne, ma quella ragazzina non aveva niente a che fare con le entità che aveva incrociato in quarant’anni. Nessuno al mondo gli aveva imposto così tanto materiale da plasmare, da far sì che divenisse una delle sue principali perdine, e addirittura, la migliore.
Da quella notte nel proprio maniero, non aveva fatto altro che pensare a lui.
Lo aveva desiderato dal principio, moralmente, fisicamente, desiderava fare parte del suo piano, tenersi con lui, fare tutto quello che lui voleva da lei.
A modo suo, per la prima volta, desiderava ricevere ordini, bramava eseguirli.
Grazie a lui, che aveva visto dietro il dipinto sociale a cui era sottoposta un mare di talento e potenziale da alimentare e accrescere, una mente giovane da costruire, una voglia di fare sconfinata, aveva trovato il suo posto.
Non si era mai curata di prendere in considerazione le avvertenze di chiunque la circondasse, nonostante le parole di allarme erano le medesime da chiunque avesse conosciuto quell’uomo prima del suo esilio.
Erano già consci della sua pericolosità, ed ora che perfino la sua sola presenza appesantiva l’aria rendendola irrespirabile, il guardarsi le spalle era doveroso, ma non per lei.
Si era sentita di assoluta proprietà di quell’uomo, avvertiva la necessità di stare ai suoi comandi, di compiacerlo, servirlo, prestare la sua disposizione a vita per qualunque cosa, sentiva fosse giusto.
Aveva infranto le regole basilari della vita e della civiltà, era andata contro ogni umano ideale già inculcatole sin da bambina ma solo in chiave di credenza, si era scoperta parecchio attinente al tenore che le volontà del suo proibito oggetto di ossessione dettava.
Aveva eseguito le sue istruzioni sin da dentro la scuola in cui si era istruita, sotto gli occhi di tutti, professori e studenti.
Aveva lavorato per il più grande mago Oscuro al mondo, senza sentire mai il bisogno di vantarsi con qualcuno, di dirlo in giro, di ostentarsi. Era rimasta nel silenzio facendo le sue volontà, con una bravura che non si sarebbe aspettata da una ragazzina. Era strisciata nelle sue grazie, ed era nell’ombra che il Signore Oscuro si aggirava,
Aveva imparato da lui stesso le Arti Oscure e la loro padronanza, aveva torturato, ucciso, ingannato, mentito, senza pentirsi mai, egregia nello svolgimento di quelle atrocità.
Si era fatta impartire disciplina, aveva patito la sua bestiale ira, provato sulla sua pelle cosa volesse dire essere sua da ogni punto di vista.
Lo sapeva, quante possibilità aveva di schiantarsi in una fine orribile.
Ma non le era mai importato. Tutto ciò che voleva, era vivere per lui.
Per il suo scopo.
Era nata per quello.


Taking my message from the pain,
Speaking my lessons from the brain,
Seeing the beauty through the..
Pain.



Le notti nel quale la luna era invisibile, ed il manto etereo si confondeva col mare all’orizzonte, e nessuno era in grado di distinguerne la linea che li separava.
Le notti in cui era solita rispecchiarsi in quella definizione, la sua ombra e quella del suo amato si confondevano, si mescolavano, portavano la loro oscurità ancor più nera del normale a compiere orribili grandezze.
Quelle notti ora non avevano quasi più un significato.
Portava catene alle caviglie, alla vita, dovunque. Le solcavano la pelle, le si arrugginivano addosso, le rendevano i movimenti strazianti, dolevano costantemente.
Le stesse catene dell’anima, troppo grossa e potente per poter essere rinchiusa e contenuta forzatamente in una cella tanto piccola, troppo stretta.
Restava in vita perché in quelle notti nel quale tutto pareva perduto, lei aveva osato concedersi di sperare, la speranza le dava gioia. Era una preda ambita.
Per ore, giorni, settimane, mesi, anni. Aveva ascoltato le urla dei dannati terrestri, aveva udito i loro corpo sbattere alle pareti delle celle circostanti, nei sette piani come i sette gironi infernali che rappresentava la loro prigione. Li sentiva piangere, disperarsi, picchiare le mura, supplicare le creature orribili che li sorvegliavano e li tenevano a bada, perché li baciassero.
Tra le voci martoriate dalle spine del male di vivere che sentivano ridotti in quel modo, certe volte riconosceva quella di suo marito.
Non era mai in vita sua stata persona da parole di conforto, e non lo era neanche in un frangente tanto drastico quanto quello che stavano vivendo. Ma le accendeva un moto d’orgoglio, sentirlo ancora lì, propenso come lo era stato a seguirla, a mostrare tanta fedeltà a ciò che avevano giurato di seguire sempre e comunque.
In quei momenti, si trascinava strisciando di peso fino alla finestra sbarrata di cui disponeva, e con una forza immane, sovrastando periodi interminabili di silenzio voluto, gli intimava a pieni polmoni di fare silenzio, di tacere. Era il suo personale modo per dirgli che era lì, che lo ascoltava, gli era vicino, e non sopportava la debolezza. Parlare le bruciava tremendamente le pareti interne della gola, era uno sforzo immane, anche respirare o inghiottire la sua stessa saliva era come ingoiare una pietra bollente dopo, ma glielo doveva, ne era certa.
Riconosceva che in parte, per la maggiore in realtà, quei tormenti che lo stavano dilaniando erano colpa sua. Ed era un dovere come un diritto, stargli accanto.
Facevano così, i detenuti, quando ormai completamente privi di pensieri lieti.
Lei ne aveva collezionati troppi, per potere essere prosciugata di essi in soli quattordici anni dell’uomo che le aveva segnato l’esistenza, per la quale stava sopportando quelle pene atroci e inumane. Gli occhi del colore dei rubini non le scemavano dalle memorie, e inevitabilmente la portavano ad essere invasa dalla speranza che potessero un giorno rivedersi, la sensazione di essere tra le sue grazie, al suo fianco, ancora una volta come lo era stata per anni, le provocavano un’esplosione di felicità incontrollata.
Era in quel momento che i Dissennatori quasi entravano all’interno di Azkaban.

Ma lei non urlava.
Se ne stava in silenzio, rannicchiata alla parete coperta da sporchi stracci, con le ginocchia al petto, rammentando. Teneva la testa tra di esse, concentrandosi per tenersi stretti quei meravigliosi ricordi. I giorni nel quale era libera, e non scontava la punizione per aver servito ed amato.
Non avrebbe permesso a quelle creature bestiali di succhiarle via l’unica cosa che le era rimasta del suo Signore, l’unica al quale poteva aggrapparsi oltre a quella ormai informe e confusa macchia grigia che non brillava più, era sbiadita con lei, e per quanto la toccasse, la sfiorasse con la lingua calda, il serpente non danzava.
Era sì, tosta. Ma era ancora un fragile essere umano, e la follia di quello stato le aveva pervaso la mente. Si graffiava, si mordeva, batteva il capo al muro. Tentava di ripristinarsi, risalire alla lucidità, ma gli occhi erano troppo vacui e si era totalmente persa in un mare di ricordi dal quale non voleva uscire, perdendo contatto con la realtà.
Cercava di tenersi a galla sforzandosi di tenere in moto la mente, ignorando al stanchezza, il dolore. Collocando un pensiero ad ogni genere di graffio, di macchia che riusciva a vedere intorno a sé, che coprivano ogni parte della stanza cosparse sulle pareti interne.
Guardava fuori, contava le stelle.
Il lercio che la ricopriva le rammentava il motivo per il quale era rinchiusa lì.
Era da quando aveva compreso di non poter reagire a quello strazio, che aveva iniziato ad adottare qualsiasi metodologia di sopravvivenza, fisica e mentale, e dopo tutto quel tempo, tutte le prove alla quale era stata sottoposta iniziavano a pesare.
La prigione stessa, come se fosse stata animata, sembrava essersi accorta della sua determinazione a restare sobria, a meditare sul futuro, sul momento in cui sarebbe riuscita ad andare via.
Priva forse di quasi tutto ciò che era, e molto più pericolosa di quando ci era entrata.
Aveva allora gravato su di lei, sul suo fisico ormai quasi scheletrico, si era impossessato della sua forza, gravava sui suoi capelli ora ridotti ad un groviglio di nodi grigiastri. Azkaban troppo spesso vinceva, e si portava via giorno dopo giorno qualcosa da lei. Il colore dell’epidermide, spento e quasi mortuario.
Non riusciva più a sorridere, a tenersi in piedi, a muovere un solo passo.
Chiacchierava con il Marchio Nero. Non proferiva parola, parlava con la sfumatura sulla pelle quasi giallognola come se fosse l’unica sua ragione di vita, l’unica cosa per il quale non si era arresa e combatteva ancora, e sopportava senza l’intenzione di cessare a farlo.
Sperava che un giorno tornasse a bruciarle, che tornasse vivido.
Insieme si erano come scaricati, ed insieme sarebbero tornati a brillare nella notte, nel mondo che necessitava di pulizia, del loro intervento.
Era andato tutto troppo in malora, per lasciare le cose in quel modo.
Tra tutti i prigionieri, lei era la più normale. Quella con ancora un chiaro disegno di vita.
Poteva sembrare all’apparenza una pazza squilibrata, che colloquiava con qualcosa di morto e inanimato come se potesse comprenderla, ma era molto di più.
Era ancora, dopo tutto quel tempo, colei da tenere maggiormente sott’occhio. Anche senza bacchetta, anche senza possibilità di evasione alcuna, infondeva timore perché non si accasciava sconfitta.
Traeva ancora energia dal fuoco che non le si era estinto nell’anima, che ridotto ad una tenue fiamma aspettava di essere ancora alimentato, la teneva in vita.
Le occhiate che lanciava alle guardie, agli Auror che passavano a renderle del cibo e una veloce visita di controllo, li faceva rabbrividire sin dalle viscere.
Sembrava una belva, un ibrido nato dall’incontro profano tra le due componenti della fauna più difficili da domare e tenere docilmente, come se da un momento all’altro di fosse alzata uccidendoli senza alcuna pietà. Quasi, dopo quelle occhiate, si pentivano di averla rinchiusa in quel modo. Temevano, stupidamente, per la loro incolumità.
Dava loro più sgradevoli sensazioni dei Dissennatori stessi, come se in qualche modo sapessero che la sua furia si era solo temporaneamente addormentata.


You made me a, you made me a believer..
Believer.



Era in procinto di scivolare, in un vortice nero di assoluta confusione che era preludio di perdita della sanità in ogni sua sfumatura, quando finalmente accadde.
Dopo tutti quegli anni di flagello spirituale.
Non aveva avuto ripari dal gelo, che racchiudeva costantemente il perimetro di Azkaban.
Non aveva ricevuto cure ai malanni minori, neanche per lenire almeno un po’ le sofferenze aggiuntive alla prova che gravava sulla sua schiena ingobbita dalla prigione.
Violazione della sua anima e della sua mente, trattamenti che le rendevano il beneficio del dubbio del non essere umana, reclusione, assenza di un letto, di una parola di conforto.
Dopo anni di tagli e malattie, depressione e sporcizia, lacrime e digiuno, condizioni estreme e disagio. Odio, forte e incontrollabile verso quella gente dal quale pregustava vendetta, che le aveva lasciato marcire ogni osso del corpo.
Il suo Marchio Nero era vivido, la ustionava.
La colse come una secchiata di acqua gelida, improvvisamente, svegliandola dal sonno che forse Salazar in persona le aveva gratificato, dormiva poco più di tre ore al giorno da anni.
Lord Voldemort era tornato.
E lei non era più stanca, svuotata, spossata e distrutta.
Come se avesse aperto gli occhi da un coma in cui tutto il dolore patito le appariva come la versione onirica di un sonno appena interrotto, trovò la forza di piangere di gioia.
I Dissennatori si accingevano ad accostarsi davanti alla sua cella uggiosa nel tentativo di appropriarsi delle emozioni che la stavano scuotendo fin dentro le viscere, si azzardavano ad allungare le loro scheletriche mani nere oltre le sbarre per raggiungerla, e Bellatrix non glielo permise. Si tenne stretta quella gioia ridendo piena della sua ossessione, azzardandosi ad alzarsi in piedi con una forza fuori dalla portata di chiunque.
La luce che le rischiarò le tenebre della stanza che l’aveva tenuta a bada per anni era forte, il riso echeggi tra le mura stridulo e tetro, una melodia che attendeva da un tempo immemore di ritrovare via d’uscita.
Nulla era più sfumato in lei, non doveva trarre il nettare dai ricordi lontani.
Non avrebbe permesso a nessuno di sottrarle la sensazione, la consapevolezza, di poter tornare finalmente ad essere.
Quell’accanimento allarmò gli Auror quando era ormai troppo tardi.
Erano fin troppo magre le sue gambe per permetterle di sorreggersi. Avanzò arrancando, mossa dai fili del proprio burattinaio che la reclamava, e sapeva che non poteva dirgli di no, non poteva lasciare prevalere anni di mancato movimento. Raggiunse la finestra dopo quella che parve un’eternità, e sentì più da vicino la frescura della pioggia. Il vento le soffiava indosso, le smuoveva le vesti troppo velocemente. I muscoli tenuti inerti a lungo dolevano fastidiosamente, la tradirono trascinandola in terra senza pietà, le ginocchia sbatterono sulla pietra, e nell’immediato un livido bluastro le adornò la zona. Era indebolita, era il fantasma di tutto ciò che era, che quel luogo si era preso da lei, tutto. Tranne, mai, la sua devozione. La sua passione. La fedeltà.
Il fuoco che aveva dentro, la sua forza inestinguibile.
-‘M..io Sign..ore.. è tornato..’-
Corde vocali quasi inesistenti ormai logorate dall’inutilizzo, ed il diaframma troppo sotto pressione avevano acconsentito alla voce di uscire, percepibile come una sorta di lamento inquietante e quasi infantile, come il modo che aveva ora di camminare.
Si aggrappò alle sbarre, sorreggendosi come poteva.
Guardava fuori in attesa, adorante.
Le gocce salmastre che lasciavano i suoi occhi lucidi e di nuovo colmi di colore e vivacità, erano indistinguibili dalla pioggia che le lavava via anni di patimento, di annullamento di se stessa, della strega che era, ristorandole anima e corpo.
-‘Sta venendo a prendermi..’-
Non si mosse da allora da quella posizione. Non dormì, batteva le palpebre solo per riflesso. Sentiva che era ora di sopportare per davvero, non importava come, né quanto, sapeva di poter attendere ancora le nubi nere all’orizzonte che l’avrebbero portata via di lì.  Tra non molto si sarebbe di nuovo congiunta a ciò che aveva di più caro al mondo, sarebbe tornata a splendere, a fare ciò per cui era nata.
Ci credeva.
Tutto ne era valso la pena.


You made me a, you made me a believer..
Believer.



Era ricominciato, tutto da capo, e quella volta doveva essere impeccabile. Ma lei non era impreparata, conosceva esattamente le maniere in cui muoversi, in cui parlare, in cui operare. Non c’erano stati dubbi fin da quando tutto era stato ripristinato, pronto all’avvio.
La grossa tavola che ospitava le riunioni della cerchia, conservava ancora a lei soltanto il posto a cui tutti avevano ambito e ancora bramavano. Ma era suo, le apparteneva, e non aveva intenzione di condividerlo, di giocarselo.
Una donna non può aspirare a tanto, con le sue sole forze. Erano le parole colme di invidia e rabbia di chi a morte si lanciava in atti immondi, cercando di guadagnarsi approvazione.
Una donna non può pensare di sovrastare un’orda di uomini, di prendere il loro posto, di essere valorizzata in mezzo a loro, a meno che non vi fosse un fine del tutto diverso.
Una donna non sarà mai abbastanza all’altezza di un ruolo del genere. Le manca il fegato, le manca la fermezza, le mancano gli attributi.
Una donna può stare dietro, a qualche passo di distanza. Regredita a operazioni di controllo, lineari.
E obbedire, a chiunque del sesso opposto le dia un comando.
Ubbidire a suo padre, a suo marito, come era stato scritto per lei, e come aveva fatto, ma ai suoi soli scopi.

Bellatrix aveva reso a mille e più pezzi ognuno di quei concetti.
Aveva lasciato nell’illusione qualsiasi uomo che la circondasse la convinzione di star prendendo le redini della sua vita, e prima ancora che loro pensassero, lei aveva già agito, ed era stato sempre troppo tardi per loro quando se ne erano resi conto, tutti quanti.
Odiata perché più avanti, perché dotata di un cervello pensante e del coraggio di connetterlo alla lingua perché i pensieri diventassero parole, che non si teneva neanche sotto tortura.
Disprezzata perché diversa dalle sue simili. Pungente, diretta, senza mezze misure, indelicata e al contempo, vulcano di femminilità.
Condannata verbalmente perché lontana dall’idea di partorire, di sottostare al coniuge, perché priva di sogni rosei.
Nei suoi sogni vi erano corvi e tetre urla di terrore, di cui lei ne era artefice.
Schernita come la meretrice del capo.
Era più una degna amante, ma non era quello il motivo per il quale sedeva dove stava.
All’alba dei suoi venticinque anni, era diventata la sua diletta, per un semplice, chiaro, concettuale motivo, che a nessuno era mai entrato veramente.
Lei lo serviva perché lo voleva.
Era una sostenitrice della sua persona, prima ancora che del suo idealismo.
Mai l’aveva sfiorata l’idea del potere personale, lei si distingueva tra tutti perché desiderava ardentemente, sul serio, che fosse lui a salire. E non operava per avere riguardi, provvigioni, meriti, per la notorietà.
Mai si era affacciata alla sua posizione, pensando che fosse bello trovarsi al posto suo. Lei aveva qualcosa che gli altri non possedevano, l’interesse personale. Non aveva mai desiderato avere di più. Come era nelle corde di un uomo, che più facilmente si lasciava accecare dal senso di potere.
Lo sfruttamento poteva essere messo in atto in mille modi, e tutti i Mangiamorte all’infuori di lei, erano quel che erano per un motivo.
Chi era lì per vendicarsi di qualcuno, per ribellarsi.
Chi per i privilegi che la posizione garantiva.
Chi per dare importanza al proprio nome, chi per divertimento, chi per fare delle proprie possibilità un facile e sicuro mezzo.
Chi per la ricchezza, chi per incombere e sovrastare i nemici, gli stessi compagni.
Ognuno, usava il proprio Marchio, il proprio padrone per qualcosa.
E questo gli dava modo di sfruttare loro a sua volta. Creatura manipolabili facilmente, vittime della loro stessa smania e avidità, un’orda di bestie che al suo comando, si sarebbero sbranate tra loro pur di spiccare.
Bellatrix, no.
Lei avrebbe anche passato l’intera vita nell’ombra, servendolo sotto copertura, rintanata in una casa senza contatti esterni, avrebbe fatto di tutto perché pazza di lui, solo della sua ascesa al potere, non le importava che renderlo chi era destinato ad essere.
Non aveva paura di lui, di guardarlo in volto, di rispondergli, di farlo entrare.
Non avrebbe mai cercato di apprendere i suoi segreti e usarli contro di lui, non avrebbe mai cercato di affiancarlo per sottrargli il posto, per usare le sue armi contro di lui, non lo avrebbe mai tradito, non vi era il minimo rischio di una sola di queste circostanze.
Bellatrix era arrivata dov’era perché in lei vi era qualcosa che negli altri mancava.
Di lei poteva fidarsi.
Poteva stremarla, punirla, portarla al limite. Non si sarebbe mai sottratta, non gli avrebbe mai voltato le spalle, avrebbe sempre lavorato per lui, esattamente come lui voleva che fosse fatto.
E poteva prendersi, tutto ciò che gli veniva offerto con tanta sfacciataggine.
E lei credeva in lui.



Third things third, send a prayer to the ones up above,
All the hate that you heard has turned your spirit to a dove.
Your spirit up above.



Quell’insulso ragazzo.
Il motivo per il quale era stata separata così a lungo dal Signore Oscuro.
La ragione per la quale avevano messo sottosopra mari e monti, per la quale erano nati tutti i problemi.
Adesso, era tempo di estinguerli tutti.
Il motivo per il quale aveva ricevuto il dolore più grande della sua esistenza, diciassette anni addietro. Un dolore che aveva trasformato abilmente e nocivamente in una forza del tutto nuova, mossa solo dalla completa voglia di salire al vertice, imparando una lezione che più avrebbe dimenticato, avrebbe fatto sì che non di ripetesse più con ogni mezzo.
Non avrebbe più commesso gli stessi errori.
Era tornata anch’ella, ed il mondo aveva tremato.
Era stato qualcosa che le aveva segnato l’essenza che la componeva in ogni sua parte, in un arco temporale interminabile passato nel luogo più lugubre che esista sulla faccia di quel pianeta, in balia di mostri succhia anima. Luogo dal quale pochi ne uscivano sani e con una rinnovata voglia di vivere, pieni dell’amore della libertà, capaci di ritornare a stare bene.
Pochi si addormentavano senza essere invasi dai più neri incubi, accompagnati costantemente dalla sensazione di terrore, dalla paura di morire, pochi non contemplavano il suicidio una volta usciti da quel luogo. Pochi riuscivano a porre fine a quelle sofferenze.
Il solo nominarlo appesantiva il petto d’angoscia, la sola idea di trascorrerci del tempo o anche solo poche ore, era impensabile e per niente accettabile da chiunque.
Anche entrarci per far visita, fuori dalla portata delle ferree restrizioni, era un’esperienza orribile e irripetibile se ci fosse stata possibilità di scelta.
Una condizione che l’aveva trasformata in tutto e per tutto. Non aveva fatto che incrementare il suo potere, il suo odio verso le persone da togliere di mezzo.
Aveva covato risentimento e avversione, povere le disgraziate anime chiuse in un corpo mortale che adesso, incrociavano la sua figura anche solo di sfuggita.
Era la sua aura ad essere cangiata, neanche più l’ombra di pietà, di calma.
Emanava distruzione, sadismo, spietata strafottenza verso chi secondo lei valeva meno di zero. Chiunque, nessuno escluso.
La sua priorità veniva prima di tutto il resto, non era più ferma ai tempi in cui il viso era fresco e le spalle dritte, in cui i suoi trent’anni l’avevano vista nella sua forma migliore, quando il sadismo che attuava ancora la divertiva.
Adesso, non c’era tempo per godere della libertà, per prendersi i suoi privilegi. Non vi era tempo per abbassare la guardia, prendersi un solo minuto di tregua.
C’erano quasi, non poteva permettersi di guardarsi indietro.
Poteva solo spingersi in avanti, ghermire il potere, appropriarsene a oltranza.
Niente al mondo avrebbe più messo angoscia, agitazione e preoccupazione nel Signore Oscuro, come si era azzardato a fare quel mago adolescente graziato troppe volte. La sua fortuna sfacciata non gli avrebbe salvato di nuovo la vita, avrebbero fatto a pezzi fino all’ultima delle persone che lo coprivano, che lo aiutavano.
Lui era l’unico impedimento ai traguardi che per tanto a lungo avevano lavorato insieme, perdendo volontariamente e non il suo sudore e il suo sangue puro senza rinnegare niente, pur di riuscire nelle imprese che il Mago più potente di tutti i tempi le aveva assegnato, le aveva affidato, dandole piena fiducia.
Nella sua persona, nella sua bravura.
Lei lo aveva promesso, avrebbe ucciso a sangue freddo chiunque si sarebbe messo tra il suo padrone e la sua felicità, il suo potere, il coronamento dei suoi obiettivi di cui le era parte, nel quale nel nuovo mondo lo avrebbe affiancato ancora e sempre in tutto e per tutto.
O quantomeno, in quel caso in cui poteva solo ferirlo e lasciare a lui il compito di mozzargli la vita come non era riuscito a fare quand’era in fasce, avrebbe ugualmente fatto di tutto purché ciò avvenisse.
Avrebbe distrutto fino all’ultima pietra, raso al suolo qualunque cosa, senza risparmiare niente. Nessuno. Neanche un alito di vento l’avrebbe più separata da Lord Voldemort.
Si era spesa con tutte le forze, riprendendosi sin da subito dall’evasione da Azkaban. Aveva ricreato lo stesso caos di un tempo, era arrivata a sfiorare l’emblema della crudeltà più pura, arrecando permanenti danni psicofisici anche a semplici ragazzi indifesi. Purché ricevesse ciò per cui viveva.
Tutto, per il suo Signore, per la sua supremazia, per le promesse volte alla conquista che avrebbero concretizzato. Per il letto che più volte avevano sfatto e rotto, come i segreti che si portavano dietro.
Per ciò che in qualche strano e assurdo modo li legava.
Per il suo incomputabile amore ad un solo senso, sconfinato e impossibile da spegnere.
Le condizioni devastanti con il quale era tornata a casa non erano sufficienti a giustificare la mancanza di servigi, e lei in primo luogo non si era mai fatta attendere. Si era rimessa in ordine, in gioco dal primo istante.
Tutte le torture e le punizioni subite erano oltremodo insignificanti davanti alla prospettiva che finalmente, si palesava tangibile.
Il ragazzo era stato messo alle strette.
Odioso, spregevole e fin troppo stupido da sfidare ciò che di più grande di lui e di ogni altro c’era, era perito nei suoi stessi tentativi vani di interrompere quel che era destino che fosse.
La battaglia imperversava cruenta, alla destra del Signore Oscuro camminava fiera, conscia di ciò che stavano per compiere.
Come una calamità naturale si sarebbero abbattuti sui loro nemici, una schiera di avvoltoi neri come la notte di cui lei era guida, sotto l’ala del capo indiscusso.
Non guardava in faccia nessuno, aveva occhi solo per il padrone, e nella sua visuale lui era già salito come era suo diritto, come sarebbe dovuto essere anche prima.
Con fervore, con tutta se stessa, aveva messo in ginocchio Hogwarts e la gran parte dei suoi sostenitori. Aveva ucciso, aveva torturato, aveva compiuto la sua opera più bella.
Avevano lottato, avevano imprecato, si erano quasi spezzati, ma la dolcezza della fine, dopo un’ora di attesa che era l’unico velo da oltrepassare, l’unico ostacolo, tanto piccolo e importante, un solo scorcio di bagliore verdastro tra loro e la vittoria.
Harry Potter era morto.
Avevano vinto.
Non seppe spiegare a parole il moto di soddisfazione che le aggrovigliò l’anima quando non solo vide, ma ne ebbe la conferma del corpo esanime di quel mago, portato via da quel mondo, dai genitori che invano gli avevano spianato una strada senza uscita. Una maledizione, malgrado sfiorasse soltanto, restava maledetta per chi la subiva.
Non ci sarebbe stato scampo per nessuno, L'Oscuro Signore aveva avuto ciò che bramava, sconfiggendo la morte che lo aveva ingannato e indebolito, e vendicando infine sé stesso da uno sbaglio che quasi gli era costato tutto ciò che aveva. Il suo potere, i suoi Mangiamorte intenti ad assisterlo come mai avevano fatto.
Insieme a loro, insieme a lei, una volta terminato tutto avrebbe innalzato un nuovo regno a suo nome, alle proprie regole, in cui soltanto lui ne era a capo. Sarebbe divenuto onnipotente, circondato da servitori in ogni dove.
Stava per governare l’intero mondo magico come desiderava, a lui sarebbe andato l’assoluto potere. Bellatrix non seppe resistere alle lacrime, al lancio di incantesimi al cielo, a levare grida, saltare urlando e acclamando il suo Signore, il suo maestro.
Incurante degli sguardi degli uomini che dopo un po’ l’avevano seguita, compiaceva ed elogiava a gran voce la sua persona, la sua immensa potenza, il suo impatto su di lei.
Non conteneva l’emozione.
Plaudiva con le mani gettandosi ai suoi piedi, sproloquiando la sua adorazione sfacciata, la sua fedeltà, lo lodava complimentandosi e esprimendogli tutto il suo orgoglio, la sua stima con occhi gonfi di ammirazione, di puro innamoramento.
Non le importava neanche sapere se provasse fastidio o appagamento, non le interessavano parole e pensieri altrui.
Voleva solo farglielo sapere, che aveva trascorso tutta la vita aspirando a quel momento senza pensare mai una sola volta di eguagliarlo o sovrastarlo rubandogli sapienza e tecniche per usarle contro di lui. Tutti dovevano avere nota di quanto fosse rimasta infine come nel suo lungo percorso, appagata lavorando per quella circostanza, per vederlo contento, per coronare il momento.
Restava solo e ormai da esibire il concetto come il più ambito dei trofei raggiunti, e togliere di mezzo i poveri illusi che ancora speravano di poter ottenere qualcosa in resistenza e opposizione alla sua richiesta di unione.
La morte era appostata lì ed attendeva paziente che altre persone salissero a lei affilando la sua falce, appollaiata sulle loro teste.

                                                 * * *

Il cantar vittoria aveva provocato uno scenario se non confusionario, assolutamente privo di senso, di significato. Non avevano saputo dire perché, come mai fosse possibile, che fosse ancora vivo.
Tutto quel che sapevano era che non era ancora finita, e non sarebbe bastato un anatea, malgrado fosse il peggiore. Avrebbero dovuto assicurare e accertare la sua dipartita in ben altri modi. Il combattimento non era concluso, adesso iniziava la vera battaglia, ad armi pari, tutti contro tutti, nessuna pietà.
I morti già persi solcavano le vie dell’oltretomba, dettavano e spianavano la strada ai poveri innocenti e non che a breve li avrebbero raggiunti, l’incognita non aveva mai fatto così paura, il terrore di non sapere chi di loro a quel punto avrebbe goduto della terra, e del regime politico che l’avrebbe governata. Temevano tutti per qualcosa.
L'Oscuro Signore, nell’ampia sala che attraversava la scuola e significava ritrovo per tutti gli studenti, in momenti memorabili come solo un banchetto collettivo sapeva essere, malgrado fosse concentrato sul proprio scontro osservava l'andamento degli altri duelli senza lasciarsi scappare nulla.
Si promise in quel luogo, l’unico che aveva chiamato casa e che stava crollando pietra dopo pietra per mano della feccia e dei traditori del proprio sangue, di un ragazzo che si rifiutava sapere di avere la possibilità di sconfiggerlo, lo avrebbe ricostruito pezzo per pezzo. Ne avrebbe fatto un Castello enorme e meraviglioso, secondo i propri criteri. Quella scuola non avrebbe mai avuto una guida tanto esemplare quanto lo sarebbe stato lui. E così anche l’intera loro comunità. Avrebbe reso fieri ed orgogliosi i propri avi, avrebbe preso comando e proprietà della scuola di magia più potente al mondo, come sarebbe dovuto essere per il proprio antenato, abbastanza intelligente anche allora da comprendere che i suoi colleghi non facevano altro che spezzargli le ali.
Avrebbe fatto insegnare a chi ritenesse in grado tramandando a tutte le generazioni presenti e future la storia di quel ventennio, le terribili, maestose e soprattutto grandi cose che era riuscito a fare.
E con la carica che i progetti futuri lontani solo un palmo da lui, combatté agguerrito.

Bellatrix, era ben oltre la follia.
Ogni muscolo sembrava avere vita propria, muoversi personalmente, ogni input cerebrale sarebbe stato comunque troppo lento da recepire per lei, non aveva tanto tempo. Ogni arto era completamente distaccato dal corpo e dal motore principale a cui era attaccato, da cui era mosso. Anche se il bisogno di riprendere aria, di sciogliere l’indolenzimento che le stringeva le fibre corporee sottopelle chiamava, non avrebbe potuto né voluto assecondarlo. Narcissa era andata via, stava bene, era fuori pericolo. L’altra sua sorella era solo Salazar sapeva dove, e andava bene così.
Le era impossibile fermarsi. Erano in guerra. Ed era quella decisiva, quella definitiva. Urgeva un degno finale, doveva dare il meglio, il peggio di sé stessa.
 ‘La meta è vicina, Bellatrix, sai che Lord Voldemort ti vuole accanto a lui nel nuovo mondo, sai che ha per te un posto di riguardo, stai per essere premiata, per tutto ciò che hai fatto. Non ti fermare, sta per farcela.’
Nessuna esplosione, nessun urlo di qualsivoglia tipologia era in grado di sovrastare quei pensieri. Le davano forza, le trasmettevano la fiammata di cui necessitava, la motivavano come niente al mondo aveva fatto mai.
Ciò che più la estasiava, e le dava carica, era il combattere fianco a fianco insieme a lui.
Schiena contro schiena, affrontando tre avversari per volta senza avvertire difficoltà.
Lì, vi erano i frutti del loro allenamento.
L’intesa perfetta tra servo e padrone, quella che avrebbe potuto piegare qualsiasi schiena. Attacco e difesa come loro camminavano a braccetto.
Non aveva dimenticato niente, non aveva fatto che apprendere, nutrirsi degli insegnamenti di quello che per molto era stato un padrone, un capo, un amante. Un uomo che non l’aveva mai amata sentimentalmente, ma che dal principio aveva custodito il suo cuore.
Glielo aveva dato senza indugi, si era concessa, inginocchiata, incurante delle conseguenze, di cosa volesse dire davvero. La devozione con la quale si era prestata a vita era superiore a qualsiasi immaginazione, scelta tra tutti per stare alla sua destra, per essere la sua portavoce, per operare a suo nome e a quello dell’intera schiera, lei sopra gli altri._
Ciò le bastava, colmava tutto quello che dava.
Insieme avrebbero messo in ginocchio l’intera popolazione mondiale, nessun connubio era tanto esemplare, nessuno completava la metà che ogni anima aveva bisogno di affiancare come l’uno per l’altra. Due forze della natura, due uragani di vigore e ferocia.
Niente avrebbe mai scalfito quella letale unione, sinonimo di potenza e brutalità.
Loro due e nessun altro.
Il Signore Oscuro e il suo braccio destro.
Tutti gli altri Mangiamorte, erano da sempre e per sempre sarebbero stati, una bella ed elegante cornice.

Finché qualcosa accadde.
Situazioni più grandi li portarono ad allontanarsi.
I patetici tentativi di oppressione divennero tosti, per quanto abile potesse essere, aveva una sola bacchetta con sé, e due occhi che guardavano nella stessa direzione.
Fu costretta ad avanzare, muoversi, girarsi continuamente, aiutarsi con il corpo a schivare gli attacchi altrui, senza perdere il sorriso rassomigliante più ad un ghigno dipinto dal pennello di perfidia.
Era tempo di smetterla coi giochetti, e combattere per vincere.
L’Avada Kedavra, era alla portata di tutti. Donne, uomini, ragazzi.
Animatamente, e senza pietà.
La convinzione dell’avere tutto sotto controllo, malgrado non fosse il movente dell’abbassamento della guardia, spinse entrambi a non controllare l’andamento della battaglia, se non la rispettiva.
Troppo flemmatici, troppo sicuri dell’avere in pugno lo scacco matto.

Una piccola, minima distrazione. Un incantesimo scudo non riuscito, le energie in esaurimento, il caldo torrido, il sudore, la concentrazione scemata, per un solo, minimo, misero e fatale istante.
Venne colpita.


La paralisi era una condizione che detestava.
Non sopportava il senso figurato e pratico dell’impotenza.
L’impossibilità di muoversi, il non essere ascoltata.
Il petto doleva, faceva male.
Negli occhi della donna, leggeva qualcosa che lei conosceva bene. Era la sua più grande amica, confidente, colei al quale aveva affidato gran parte delle sue gesta.
La vendetta.
Per aver ucciso quasi tutta la sua famiglia, allora.
Per aver ridotto la cugina e suo marito alla follia più nera e orripilante, inumana.
Per aver quasi ucciso sua figlia.
Per personale tornaconto, per un odio che inevitabilmente covava verso di lei, verso quello che stava facendo, verso chi era.
Per la prima volta in vita sua, e per l’ultima provò qualcosa che mai l’aveva toccata.
La paura di morire.

Respirò, era l’unica cosa che riusciva ancora a fare. Si tenne stretta quella boccata d’ossigeno, imprimendosi nei polmoni ogni sua particella.
Nell’inalare quella fonte primaria di vita, che ora sapeva di distruzione e crollo roteò i bulbi oculari, posando le iridi scure come l’ombra che avvolgeva quel luogo sul suo padrone.


Combatteva ancora, preso dalla foga, cieco al suo stato di immobilità, a un passo dall’aldilà. Nel suo io interiore, credeva fosse meglio così. Che restasse nell’ignoranza. Avrebbe avuto un pensiero in meno, sarebbe stata un peso che lo avrebbe soltanto distratto inutilmente, e lei non voleva che cedesse a causa sua, che lo aveva sempre sostenuto alle altezze. Senza contare, che aveva timore di sapere che effettivamente di lei non gli importava assolutamente niente. Vederlo ipoteticamente girarsi e vederla, e proseguire senza fare nulla per salvarla, era molto più doloroso della morte imminente.
 
Soltanto per un attimo si amareggiò, ma bastò guardarlo lanciare un incantesimo per rasserenarsi. Era sofferente in apparenza, con la smorfia di delusione con la quale era stata paralizzata, ma se avesse potuto avrebbe sorriso.
'Mio Signore, sono così orgogliosa di voi.' 
Aveva raggiunto l’apice del suo successo.
Aveva vissuto per quello, per vederlo arrivare dove si erano prefissati che andasse, anche per merito suo. Il ragazzo era solo, erano faccia a faccia, e mai più di quella volta, Bellatrix era convinta che tutto stesse andando per il verso giusto. Dopotutto, il suo compito era stato svolto. Gli aveva spianato la strada, aveva tolto di mezzo la feccia che accompagnava il sopravvissuto venuto a morire, e adesso, era tutto in mano al suo padrone. Un padrone esigente e intransigente, che non avrebbe ammesso al suo fianco una guerriera che si era fatta tramortire in quel modo banale e prevedibile.
Non ammetteva chi sbagliava, nel mondo che avrebbe governato.
Dove lei, non c’entrava più niente.
E andava bene così.
L’importante era saperlo felice.
‘Non vi servo più.’
Non poteva piangere, ma ne aveva tutta l’intenzione. L’immagine del suo amore maledetto, proiettata in un futuro in cui l’immortalità e l’assoluto controllo erano alla sua completa portata la allietava tanto, da cullarla come fosse nelle sue braccia ancora una volta.
Ritornò al calore della loro pelle unita, a quel che avevano condiviso, e la soddisfazione della vita che aveva sempre desiderato, per cui era nata e per cui stava morendo, le riempì il petto.
Era fiera di sé stessa. Aveva fatto esattamente quello per cui era venuta al mondo, coerente, accolita, vestale.
Non seppe immaginarsi una morte più dolce.


Un lampo di luce verde illuminò la Sala, venne alle spalle del Signore Oscuro.
Il suo primo pensiero, la fonte del ghigno compiaciuto sul volto serpentesco, fu quello che ancora una volta, la sua Mangiamorte prediletta aveva colpito nel segno.
Ce la stavano facendo.
Lo scatto che allarmò il suo lato ancora umano, per una piccola e irrilevante parte, gli suggerì che non aveva mai in vita sua visto Bellatrix uccidere, senza prima godere dell’agonia delle vittime che si sceglieva.

Niente di quello che stava facendo parve contare molto. Il suo stesso istinto, la sua razionalità fredda e cruda gli dava del pazzo, quando incontrollabilmente si voltò a guardare. Il lato umano, si accese di una sensazione che neanche una volta prima, aveva conosciuto da vicino, o da lontano.
Urlò. E quell’urlo non sollazzò l’udito della strega.
Era disumano, penetrante, talmente esorbitante da fermare l’intera battaglia, attraversare ogni parete, gelare il sangue nelle vene di tutti i presenti.
Era di nuovo solo, veramente solo, l’aveva appena persa.

L’unica rimasta al suo fianco dall’inizio alla fine, la più fedele tra tutti.
L’unica rimasta a combattere, accanto a lui, nel tentativo di distruggere chiunque avesse anche solo tentato danneggiarlo, solo pensato di ferirlo.
Si destreggiava con incantesimi con una maestria immane, una tenacia incalcolabile. Aveva mantenuto la sua promessa dall’inizio alla fine, e non era riuscito a tenersela stretta per premiarla a dovere.
Una strega esemplare.
Una fiera purosangue.
Una donna invidiabile, l’unica tra tutti ad essere lì, sempre e comunque.
Quella che avrebbe dovuto restarci, ancora e ancora.

La prima e sola ad avere custodito una parte della sua anima.
La sua ultima, migliore luogotenente.
La sua Pupilla.
Bellatrix spirò il suo spirito, ed il mondo parve esorcizzarsi da un flagello mastodontico. Sconfiggere il Signore Oscuro, non era mai stato più facile.



Last things last, by the grace of the fire and the flames,
You're the face of the future, the blood in my veins.



I germogli fiorirono, un po’ di colore rese finalmente il cimitero meno suggestivo.
O almeno, la parte alla loro portata visiva.
Il sole stava calando, le ore passarono come il tempo non era mai scorso in quel periodo di terrore, in cui tutto sembrava essersi congelato ad un’eterna bolla di paura.
Rammentare quella strega in tanti piccoli aneddoti che erano davvero fin troppo lontani, era doloroso ma anche necessario. Tutto ciò che si erano sempre tenute nel petto aveva modo di uscire, di confessarsi.
-‘Sai, è lei che mi ha tenuta fuori da.. Mi disse.. che non le importava se era un ruolo di prestigio. Che erano problemi di mio marito se aveva deciso di farsi arrostire, perché lei non l’ha mai ritenuto capace. Disse che non era importante se.. se lei si era già scottata. Mi ha sempre proibito di lavorare per lui. Di seguire il suo esempio. Capisci, nonostante lo servisse a tal punto.’-
Narcissa portò il dorso di una falange sotto l’occhio azzurro, raccogliendo un ricordo.
-‘Ti ha sempre protetta, al di là di tutto. Come tu hai protetto me, noi. Lei ti amava.’-
-‘Amava anche te. Lo sai, quanto ha pianto quando te ne sei andata? Non l’avevo mai vista versare una lacrima.’-
-‘Azkaban deve averle fatto male. Io me la ricordo sulle tracce della mia famiglia. Però proprio non ce la faccio a dire che si meritava di morire..’-

Per quanto fosse pretenzioso e travolgente quell’abbraccio a due, entrambe avvertivano la mancanza di un tassello che non aveva reso più uguale quel tocco da molti anni.
Perché loro erano in tre, lo erano sempre state. le tre sorelle Black.
Tra i singhiozzi e il tirar su col naso, Andromeda parve riprendersi sotto il lene tocco della sorellina, intenta a sfregarle dolcemente e con tutto l’amore che aveva, l’intera lunghezza della schiena per poi cingerle le spalle in un abbraccio.
Le mancava, mancava anche a lei tremendamente.
Osservò la tomba su cui era seduta, battendoci sopra un pugno.
-‘Vorrei.. tirarla fuori di lì e.. riportarla qua..’-
Narcissa si aprì in un sincero sorriso. Tra tutte quelle lacrime, si piegò leggermente in avanti, ridacchiando con sbuffi e grugniti all’inizio flebili, con sempre più trasporto.
Le rughe intorno agli occhi e alla bocca si incresparono, e una sola e unica risata cristallina invase i canali uditivi di Andromeda che intanto la guardava stranita, ignara di quel che potesse essere passato per i meandri della mente della bionda, finché non fu lei stessa a illuminarle il dubbio.
-‘Vuoi che dia di matto, e ci urli addosso di farci i fatti nostri un’ultima volta? Vuoi riportarla indietro proprio adesso che sta esattamente là dove voleva stare, con lui, libera dalle forzature che aveva in vita? ..Sorelline, per Salazar che non v’ha strozzate da neonate, io e il mio Signore stavamo per sederci insieme al trono del diavolo al posto suo, perché non vi mettete quelle bacchette dove non vi batte il sole una buona volta, perché mi avete svegliata proprio adesso?!’-
A quell’imitazione per niente simile alla reale voce della riccia, Andromeda seguì la sorella in una innocente, pura e melodiosa risata, che non seppero trattenere ne fermare per un’indefinibile quantità di minuti. Si tenevano le mani spezzando il silenzio di un cimitero di rinnegati che a nessuno sarebbero dovuti mancare, tenendo vivo lo spirito della maggiore senza schernirsi di lei.
Della donna più strana, indomabile, inimitabile e incomprensibile che la faccia della terra avesse mai visto.
Di colei che era morta per il potere.

Gli spasmi del riso si affievolirono.
-‘Allora te la immagini all’inferno?’-
-‘Me la immagino al comando là sotto, ‘Meda. Ne sarebbe capace. Dovunque sia, spero sia felice.’-
-‘Lo sapremo. Dovunque sia, spero ci aspetti. Un giorno..’-

Andromeda raccolse la testa di una rosa tra le dita senza strapparla dal suo stelo, e ne accarezzò la setosità dei petali, mettendo una fine al tono di sospensione che aveva lasciato nell’ultima frase, sotto lo sguardo compassionevole e commosso di Narcissa.
-‘Ci rivedremo ancora.’-

You break me down, you build me up, believer.

Il prato pregno dell’umida rugiada del mattino ospitava a stretto contatto con gli steli gli esili corpi di tre bambine.
Nate a distanza di due anni l’una dall’altra, le tonalità con la quale il loro divino protettore le aveva dipinte erano tutte distinte l’una dall’altra, e andavano dal nero dei corvi al biondo dell’oro.
Il velo di bellezza che attraversava i loro tratti bambineschi era già definito perfettamente, malgrado le immature fattezze.
Le chiazze verdastre cozzavano sorprendentemente con i loro abiti da notte, del bianco più candido che poteva essere reperibile tra le stoffe più pregiate del loro mondo.
Ma a loro non importava.
Rotolarsi giù per la collinetta dietro il maniero che abitavano era una routine da anni ormai, che ci fosse un manto di neve, pozzanghere di terriccio e fanghiglia ancora annacquate, batuffoli di polline o un sole spaccapietre, ed il trentuno agosto di quell’anno che avrebbe messo fine a quel loro piccolo e intimo rituale era arrivato.
Si erano alzate molto presto quel mattino, l’alba era spuntata da poco.
L’unica tra loro, la maggiore, in grado di controllare la magia infantile accidentale, aveva aperto le porte della loro finestra, e munendosi di nodi ai lenzuoli dei tre letti che aveva poi ancorato alla spalliera del proprio, si erano calate giù.
Lei prima di tutte.
Perché le avrebbe prese al volo a costo di farsi spezzare un osso nell’attutire la loro caduta se fossero precipitate, per evitare che sentissero anche un minimo di dolore, di spavento.
Si sarebbe sempre spezzata per loro.

Erano corse via, sedendosi in cerchio oltre il perimetro circolare di un salice piangente, le quali fronde arrivavano a toccare il suolo, e nascondere nella loro area qualsiasi cosa ci fosse nella piccola radura che gli si formava internamente.
Era raro trovarlo in quei terreni, sembrava fosse nato e cresciuto lì apposta per ospitare i loro corpi, custodire i loro segreti fanciulleschi.
Era il loro ritrovo.
Il retrogusto di quella giornata non ancora iniziata era acre, velato di tristezza e malinconia. Le minori guardavano verso il basso, accarezzando le foglie e qualsiasi cosa fosse palpabile pur di non guardare gli occhi della loro sorella.
Fu quest’ultima a prendere tra le mani a coppa i loro volti, e accarezzarli spingendole a riversare fuori i loro tormenti.
Le aveva sempre incitate a parlare con lei, non voleva che nessuna inquietudine abitasse i loro cuori, tenendosi all’interno e permettendole di marcire.
Di portare i loro splendidi tratti caratteriali a perdersi, a mutare.
E soprattutto, non voleva che fossero affrante, mai.

-‘Domani vai via. Non ci rotoleremo più sul prato, Bellatrix?’-
-‘Certo che lo faremo. Non prendete la lontananza come un abbandono, non ci stiamo dicendo addio. Io torno, tornerò sempre da voi.’-
-‘Mamma dice che dovresti comportarti da persona matura e darci l’esempio. Non le piace che ci rotoliamo a terra.’-
-‘A te piace, Andromeda?’-
-‘Certo.’-
-‘Allora non ascoltare la mamma. Fai quello che ti piace, mamma non starà con te per sempre, tu sei l’unica che resterà con te, dall’inizio alla fine. Come ‘Cissy per lei, e io per me. Devi fare quello che vuoi tu.’-
-‘Ma io non voglio stare da sola con me, voglio che ci siate anche voi, che ci sia anche tu.’-
-‘Ci saremo, sempre, finché si potrà. E se non si può, lo faremo lo stesso.’-

Un abbraccio caldo quanto il sole di quel mattino, sancì un giuramento che in quel momento, alla soglia dei loro undici, nove e sette anni, sapeva di un per sempre.

Believer.



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Ucciderla per me è stato.. non so come definirlo. Non ho veramente più nulla da dire, oltre a ‘spero di aver rispettato il prompt’, mi sono finite le parole, sul serio, tutto quello che dovevo è scritto qui.
Il resto lo troverete nella long.
Grazie.


 
   
 
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