DISCLAIMER:
Tutti i personaggi qui presenti non mi appartengono.
La
storia è stata scritta senza alcun scopo di lucro.
♦ Storia
partecipante al contest “Favole di Oggi”
indetto da Fiore di Cenere sul forum di EFP
I
Can’t Sleep (Until I Feel Your Touch)
I
♦ La Tua Grazia Trepida Guidava a Te…
Quella sera, la
luna era
immersa in una quiete che non apparteneva ai mortali — di
certo, non a quelli
che l’osservavano trasognati dalle grandi vetrate del palazzo
o le lanciavano
solamente un fuggevole sguardo tra una chiacchiera e l’altra,
e si confondevano,
respiravano e lasciavano correre il tempo in mezzo alla variopinta
folla. La
sua luce era debole, come se fosse stata immersa nell’acqua e
questa le avesse
diluito il colore fino a renderla un’opaca macchia bianca,
mentre le stelle che
la circondavano erano innumerevoli e brillavano con forza: forse erano
state
loro a derubarla di tutto lo splendore, o lei stessa a cederlo.
Un simile spettacolo non
era comune a Yokohama, là dove solitamente erano ben altri i
colori che
pulsavano tra le vie e sui palazzi e la notte fuggiva via quasi
inosservata; ma
a quell’altezza niente poteva competere con la bellezza della
volta e i
riflessi che l’oceano intrappolava, uno specchio che solo in
parte rifletteva
la frenesia di quelle ore.
«Uff… sono al limite, grande
luna, pieno come te. Ho forse esagerato?»
Chi può sapere se la prima
Musa dei poeti ascolta gli uomini, a volte, quando il buio è
immobile e nulla
giunge a farle compagnia; forse quella notte lo fece, chiamata dai
vividi occhi
verdi che s’impressero su di lei e nonostante il caos che li
circondava.
Distante da quella
medesima ridda di persone e parole, Ranpo lasciò andare un
secondo sbuffo e si
appoggiò con la schiena all’elegante balaustra che
cingeva la terrazza dove si
era rifugiato, rovesciando la testa in modo che cielo e acqua si
scambiassero
di posto e la città pendesse dall’alto come un
lampadario: la prima cosa
interessante della serata — dopo
l’enorme buffet a cui aveva reso onore,
ovviamente.
Raramente partecipava a eventi
del genere; tuttavia, quella era un’occasione speciale.
Neanche una settimana
prima, infatti, aveva risolto un delicato caso di tentata rapina
culminata con
un omicidio, dove tutte le prove sembravano incriminare un caro amico
del Presidente;
ma era bastato molto poco per portare alla luce la verità,
rovesciare le
evidenze e impedire un processo ingiusto, mentre Yosano e Kunikida
avevano fatto
in modo che il vero colpevole non ripetesse la sua vergognosa impresa.
Come ringraziamento, l’innocente
aveva invitato Fukuzawa e i suoi tre salvatori alla mostra personale
che
solamente grazie a loro era riuscito a portare a termine e presentare
al
pubblico; così Edogawa si era ritrovato nel cuore della
festa, culmine
dell’evento, quasi senza accorgersene, con il Presidente
completamente preso
dal suo amico, una Yosano divenuta ben presto alticcia e fin troppo
sorridente e
il povero Kunikida fatto prigioniero dal medico e trascinato in una
baraonda
tutta al femminile, capace di soffocare le più disperate
grida del biondo.
E lui, dopo aver gironzolato
per l’intero edificio, essersi trattenuto il più
possibile al tavolo del buffet
e averlo derubato di tutti i dolci che offriva, aver assistito
impotente alla resa
di Doppo e aver rischiato una discussione infinita con
l’incauta giovane che
aveva provato a prendere l’ultima bottiglia di ramune[1]
rimasta,
alla fine non aveva trovato occupazione migliore che mettersi sotto la
protezione
della notte e magari farsi un pisolino sulla quieta terrazza, in attesa
della
chiusura dei festeggiamenti o almeno fino a quando il mondo non si
sarebbe
calmato un poco.
La brezza che saliva dall’oceano
sembrava respingere tutte le voci lontano da lui e questo gli era
gradito
perché lo aiutava a pensare e rilassarsi, così da
farlo concentrare su quello
che gli importava; e tra le tante sensazioni che si affacciarono sotto
la luna,
improvvisamente ne arrivò una che gli colpì i
sensi e prevaricò le altre.
Simile a un fumo
indistinto e sottile che s’insinuava nel corpo e nei
pensieri, appena accennato
ma presente, spinse il moro a girarsi, sporgersi oltre la balaustra e
guardare
verso il basso per cercare la fonte dell’impulso; e qualcosa
di più intenso
iniziò a raggiungerlo, resistendo qualche attimo prima di
svanire completamente
come se mai fosse esistito. Eppure non poteva essere stata solamente
un’impressione, no, aveva davvero percepito…
«Hey, attento! Ranpo-kun,
è un bel salto se si cade da qui.»
Dopo un istante
d’immobilità scaturito dalla sorpresa, Ranpo
rialzò il viso e guardò nella
direzione da dove proveniva la voce; ci mise solamente un secondo a
riconoscere
la figura con le mani protese verso di lui e l’aria
preoccupata, ma impiegò
ancor meno tempo ad aprirsi in un sorriso, raddrizzarsi e assumere una
posizione più sicura, per poi allargare le braccia con
entusiasmo. «Che
sorpresa, Poe-kun!»
Questi accennò un timido
sorriso, quindi ritornò serio e si avvicinò di
più al giovane. «… Che cosa
volevi fare? Saresti potuto precipitare da un momento
all’altro.»
«Era tutto sotto
controllo! E poi non posso morire così, è da
stupidi! E parlando di te, che
cosa ci fai qui? Sei stato invitato anche tu? … Hai qualcosa
per me, magari un
nuovo romanzo?»
Edgar sorrise nuovamente
sotto quella sfilza di domande, un moto di orgoglio che gli colorava le
guance.
«È stato un bene saper del tuo invito alla mostra,
così te l’ho potuto portare
appena finito», mormorò allungando il bel volume
dalla copertina nera che aveva
tenuto in mano fino a quel momento, aumentando l’interesse e
l’allegria di Edogawa.
«Non mi lasci molto tempo per annoiarmi, Poe-kun!
Hai fatto in fretta,
l’ultimo me l’hai dato solamente quattro giorni
fa!»
«È breve, sì, ma questa
volta sono sicuro di aver fatto del mio meglio.»
«Diventi sempre più bravo
— non al mio livello, certo, ma scopriamo che cosa mi hai
riservato…» Il moro
si bloccò, per poi allungarsi verso Poe e indicare un libro
che compariva da
sotto il mantello. «Io vedo un altro volume,
però.»
«Oh, questo non
credo che t’interesserebbe. Non ci sono misteri qui dentro,
è solamente una storia
di fantasia che devo ancora finire… mi mancano poche
frasi.»
«Non
sai proprio
staccarti dai libri.»
«Eeeh? Che cosa vuol
dire?»
Ranpo rise nello scorgere
l’espressione stupita del ragazzo e con uno scatto lo
afferrò per la falda del
mantello, iniziando a trascinarlo verso la sala più vicina.
«Mi è ritornata
fame, e non c’è niente di meglio che mangiare
qualcosa mentre si legge! Andiamo!»
«Pi-piano, Ranpo-kun,
non tirare così, non riesco a respirare! … E poi,
e poi io odio trovarmi in
mezzo alla confusione… e ci tengo a questo
mantello…»
«Che esagerazione, non
sto tirando così tanto! Ah, mi è venuta anche
sete… hey, giù le mani da quei botamochi[2],
li ho visti prima io! Poe-kun, di’
qualcosa anche tu, è un’ingiustizia!»
Di certo sarebbe stata
una delle migliori serate che entrambi avrebbero vissuto, sicuramente
le ore
sarebbero passate ignorate, distanti dalla loro mente; ma
all’improvviso le
luci si abbassarono e allarmi antincendio iniziarono a suonare ovunque,
rompendo
l’atmosfera distesa e cristallizzando i gesti nella sorpresa.
I due giovani si
azzittirono e alzarono lo sguardo al soffitto, confusi, ma Ranpo fu il
primo a
riaversi: la sensazione che aveva percepito sulla terrazza era
ritornata, questa
volta fortissima e ben più persistente. Non era simile
a fumo, ma fumo reale:
aveva colto il principio di un pericolo che, per qualche motivo, si era
affievolito solo per riprendere forza in un secondo tempo e divenire
fuori
controllo.
Maledizione.
«Vieni,
dobbiamo trovare
gli altri!», gridò il giovane a Poe, infilandosi
con lui in mezzo alla folla
che iniziava a fuggire dalla sala e cercando di guadagnare
l’uscita.
I corridoi che si
trovarono davanti si erano trasformati e da luminosi e risuonanti di
voci erano
divenuti bui e soffocanti, mentre non più persone ma volute
nere e danzanti
ombre rossastre risalivano le scale di marmo come fantasmi; gli
ambienti che si
conoscevano bene si allungavano fino a risultare interminabili e si
tramutavano
in trappole, mentre il ruggito del fuoco si faceva sentire sempre
più forte via
via che l’incendio allungava le mani su tutto ciò
che trovava.
Correndo il più veloce possibile
e badando sempre che Edgar fosse almeno vicino a
lui, Edogawa cercò di
filtrare gli stimoli che giungevano da ogni parte — richiami,
boati,
scricchiolii, sensazioni che si mischiavano nella testa e che
rischiavano di
rimanere senza una razionalizzazione — mentre le sale
diventavano tutte uguali
e i minuti a disposizione si riducevano. Non essere rimasto insieme
agli altri,
o almeno a portata d’occhio, improvvisamente gli sembrava un
errore tanto grave
da poterselo difficilmente perdonare, e tanto lo prese il pensiero che
si
accorse di aver incrociato Kunikida solamente quando stava per
superarlo. Fu
infatti l’altro ad afferrarlo per un braccio e trattenerlo,
per poi scuoterlo e
dire qualcosa che lui non comprese subito: era riuscito a trovare il
Presidente
ma era stato diviso da Yosano, che aveva aiutato delle persone a
scappare e si
era persa nella folla.
A rimarcare quelle
parole, Fukuzawa comparve alle sue spalle e, accertandosi che tutti i
presenti stessero
bene, li spinse a lasciare il piano dove erano ormai rimasti i soli.
L’indomabilità del fuoco
era ormai palese nel bollore che percorreva i muri, nella densa
caligine che
occupava ogni spazio e negli scoppi e crolli improvvisi che si
rincorrevano di
struttura in struttura, ostruendo uscite e stravolgendo i percorsi: in
almeno
un paio di casi solamente la prontezza di uno del gruppo
riuscì a evitare che
qualcun altro finisse ustionato dalla caduta di materiale infuocato,
mentre
lentamente i piani diminuivano e l’uscita era sempre
più vicina.
Con l’approssimarsi di
questa, tuttavia, aumentava anche la gente che lì si
accalcava: alcune porte
erano state danneggiate dal calore e non riuscivano ad aprirsi
completamente,
costringendo così a rallentare l’esodo e
aumentando la paura.
Il crepitare delle fiamme
e urla di panico, mille e più voci, spinte e scene che
nessuno dovrebbe mai
vedere li investirono, e per un attimo Ranpo perse la cognizione del
tempo:
destabilizzato, incapace di appigliarsi a qualcosa perché
immerso in un caos
ribollente, cercò almeno di rimanere vicino ai compagni, ma
anche in quello
fallì; infatti, quando si volse intorno, vide che era solo,
senza gli altri al suo fianco. Tuttavia, con la coda
dell’occhio riuscì a
scorgere la figura di Edgar qualche metro dietro di sé,
rivolta verso l’ombra
di Fukuzawa, e allora fece per retrocedere fino a raggiungerli e
accertarsi di
quale fosse la situazione; prima di questo, la voce di Yosano
incontrò la sua
attenzione.
«Ranpo-san! Ranpo-san,
sono qui!»
Un attimo dopo il medico comparve
a poca distanza, ostacolata dalla massa di gente che li divideva, e lui
si
voltò nuovamente per avvertire il gruppo; ma stavolta vide
solamente un enorme
sbuffo di fumo che si allargava nella sua direzione, seguito da un
frastuono e
da una spaventosa vampata di calore che lo costrinsero a tapparsi le
orecchie e
gridare. Udì la voce di Kunikida urlare qualcosa a sua
volta, ma non riuscì a
capire da quale direzione provenisse: sembrava essere davanti, accanto
e dietro
di lui al medesimo tempo, indefinibile.
È
spaventoso, tutto
questo è orrendo. Quando finisce, quando finisce?
Percorso
da un brivido,
il giovane aprì la bocca per dire qualcosa; e in
quell’attimo una nube grigia
gli penetrò dritta in gola, facendolo tossire via via
più forte e respirare
sempre meno. Gli occhi presero a lacrimare e le gambe a cedere, mentre
la gola ardeva:
doveva uscire immediatamente o avrebbe avuto un collasso.
Quando
finisce? Basta,
basta!
Appena
si liberò, Yosano
fu svelta a raggiungerlo e stringerlo a sé, mettendogli il
proprio scialle davanti
alla bocca. «Non ti staccare da me per nulla al mondo,
intesi? Piegati, così»,
gli sussurrò mentre gli premeva gentilmente il capo verso il
basso e quasi
sollevava il suo corpo da terra.
Non erano passati che
pochi attimi — o almeno, così sembrò a
lui — che un soffio d’aria fredda
schiaffeggiò entrambi non appena si lasciarono alle spalle
l’inferno; la notte
li abbracciò e si trovarono a rotolare a terra,
boccheggiando come pesci e
sentendo la pelle bruciare in ogni dove, i sensi inebetiti e il cuore
che
avrebbe potuto benissimo spezzare il petto tanto batteva
forte… ma salvi.
E
gli altri? Gli altri…
Senza
perdere tempo, Akiko
prese una delle bottiglie d’acqua che era riuscita ad
afferrare in fretta e
furia e gliene rovesciò una buona metà sul viso,
quindi lo fece bere finché non
annuì. Solo allora ebbe il coraggio di parlare:
«… Ho perso Kunikida-san nella
folla, e… e non l’ho più trovato.
L’hai visto, per caso? E il Presidente?»
Ranpo deglutì, prese una nuova
boccata d’aria e fissò il palazzo a poca distanza.
Ormai le fiamme erano
ovunque, si dimenavano fuori dalle finestre e ruggivano fin sul tetto;
se
qualcuno era rimasto là dentro…
«Sì, li ho incontrati. L’ultima volta
che li ho
visti erano dietro di me, con Poe-kun.»
Una pausa, intessuta di
pesantissima tensione, e lo sguardo che cercava tra i visi terrorizzati
che li
circondavano. «Nessuno di loro è qui.»
«Non c’erano quando ti ho
trovato… sei sicuro che ti abbiano seguito?»
«Sicuro? Sicurissimo!
Poe-kun era proprio alle mie spalle! Stava dicendo
qualcosa al
Presidente, e poi… poi c’eri tu, e il fumo
tutt’intorno.» Il ragazzo si bloccò,
quindi si alzò con un’espressione seria e
irremovibile a scurirgli gli occhi
smeraldini. Avanzò di qualche passo verso il rogo, ma la
mora lo afferrò per un
polso e lo costrinse a fermarsi, per poi fissarlo così
intensamente da uncinargli
l’anima. «Non perdere la testa e respira, respira:
vedrai che stanno bene, non
li abbiamo ancora visti ma sicuramente sono usciti anche loro, lascia
che tutto
si calmi e—»
«Siamo qui.»
I due giovani si
voltarono all’unisono quando udirono quella voce ferma,
sorpresi, e
immediatamente lasciarono andare tutto il fiato che avevano trattenuto
in
quegli istanti.
Con il volto annerito dal
fumo, la pelle arrossata in più punti a causa del contatto
ravvicinato con il
fuoco e gli abiti bisognosi di una bella pulita — e, nel caso
del Presidente,
un’ustione non grave sul braccio destro — e
aiutandosi a vicenda nel camminare,
Kunikida e Fukuzawa si unirono a loro e subito si sedettero al suolo,
le forze
ormai mancanti. Edgar era distante di qualche passo ma ben
distinguibile, la
sua ombra che scivolava verso il gruppo come una tremolante presenza.
«State tutti bene, vero?
Che cos’è successo?»
Kunikida bevve un lungo
sorso dalla bottiglia che Yosano gli aveva appena porto, quindi prese
un grosso
respiro e corrugò la fronte, parlando lentamente per
scegliere con cura le
parole: «Appena abbiamo raggiunto il corridoio del primo
piano, io e il
Presidente siamo stati fermati dal crollo di alcune travi: ci sono
piombate addosso
e bloccato le gambe, e il fumo ha iniziato a soffocarci. “La
fine è ormai qui”,
così abbiamo pensato… e poi… ecco, non
so come spiegarlo, ma tutto si è fermato
e siamo entrati in una sorta di sogno: niente più fiamme
né fumo, ma un luogo
aperto e immerso nel silenzio, uno scenario incredibile… chi
può sapere che
allucinazione ci ha colto.»
Ranpo spalancò gli occhi.
«Un mondo completamente diverso? Paesaggi
fantastici?»
«Sì, qualcosa del genere;
e improvvisamente tutto è finito e ci siamo ritrovati qui, a
qualche passo da
voi, salvi. Personalmente non so davvero spiegarmelo, e so che sembra
che io sia
impazzito, ma…»
Il ragazzo rimase un
istante immobile, quindi sorrise e annuì. «No, non
sei diventato matto e una
spiegazione c’è», sussurrò,
per poi alzare la voce e avanzare di qualche passo,
«e per questo dobbiamo ringraziare solamente una
perso—»
«Ranpo.»
Edgar non presentava
ustioni, era annerito di fumo e aveva bisogno di un cambio
d’abiti come gli
altri; ma si teneva la testa con entrambe le mani e lo sguardo con cui
fissava
il rogo, dilatato in un’espressione d’orrore, era
semplicemente spaventoso.
Chinando la testa di lato
e senza mai smettere di guardarlo, Ranpo gli si avvicinò.
«È finita, calmati. Grazie
a te stiamo tutti bene.» Tese una mano, ma Poe
indietreggiò appena venne
sfiorato. Sulla sua pelle correva un brivido gelido che fece
retrocedere
l’altro a sua volta e gli trasmise un sospiro di paura,
com’era accaduto in
passato davanti a ciò che aveva trovato incomprensibile; ma
non era quello il
caso perché riusciva a sentire tutto e a capire che
qualcosa, nell’incubo di
pietra e vetro che avevano innanzi, aveva attaccato Edgar con tale
forza da
penetrargli il cuore.
Il fumo non aveva
soffocato tanto il corpo, quanto denudato una sinistra
realtà.
«Poe-kun… che
cos’è
successo? Parla, di’ qualcosa! Che cosa hai visto?»
Fu il silenzio a
rispondere.
In un moto impulsivo e
prima che uno degli altri lo potesse trattenere, Ranpo
scattò in avanti fino a
coprire i pochi metri che lo dividevano dal ragazzo e gli
afferrò i polsi,
scuotendolo con forza. «Dimmi che cos’è
successo, EDGAR!»
Quel gesto e il suono del
suo nome riscossero Poe, che abbassò gli occhi e li
ancorò in quelli di Edogawa.
Oltre a tutto ciò che questi aveva intuito, dentro di essi
si muoveva una
tristezza immensa, pulsante, e una richiesta di perdono.
Non
la sta implorando da
me… ma da sé stesso.
«Mi dispiace… mi dispiace
davvero.»
«Perché ti stai scusando,
che cosa hai visto? Rispondimi!»
Lentamente, scuotendo il
capo, Edgar si liberò dalla presa di Ranpo e
indietreggiò ancora. I riflessi
dell’incendio s’insinuarono tra loro per tutto il
tempo in cui silenziosamente
si guardarono, poi si moltiplicarono mentre Poe si voltava per
andarsene ed Edogawa
rimaneva fermo dov’era, la voglia di urlare e chiedere e
correre messa a tacere
dalla consapevolezza che niente sarebbe cambiato, che l’altro
non si sarebbe
girato né avrebbe smesso di allontanarsi da lì e
da lui.
Nell’eco dei passi via
via più distanti, un buio che nemmeno la danza del fuoco
sapeva rischiarare.
Ormai nessuno
avrebbe più
dormito dopo quegli eventi, e le ore successive non si prospettavano
meno
impegnative.
Raggiunta l’Agenzia, Yosano
visitò immediatamente sia Kunikida che Fukuzawa per
accertarsi della loro
situazione ed evitare spiacevoli sorprese o ricadute, e per tutto il
tempo Ranpo
rimase ad aspettare accanto a loro, senza rispondere a chi lo
interpellava
perché la sua mente era altrove, fissata sempre nello stesso
posto e momento. Si
animò un poco quando dovette spiegare al Presidente e a
Doppo chi e come li
avesse salvati da una fine orrenda, e per tutto il tempo in cui lo fece
tenne
lo sguardo fisso sul volume che Akiko aveva rinvenuto poco lontano dal
luogo
dove si erano ritrovati: il racconto di fantasia che Edgar aveva
ultimato con una
sola frase, ciò che li aveva strappati al fuoco. Pur nel
mezzo del disastro,
con le speranze ormai ridotte al limite, il ragazzo aveva impiegato le
sue
capacità per lottare contro le unghie della Morte, uscendone
vincitore; era
rimasto nell’incendio finché non aveva compiuto un
piccolo, grande miracolo e
tutti, tutti loro dovevano almeno dei ringraziamenti a Poe…
e Poe, qualunque
cosa avesse vissuto in quei minuti in cui si era trovato faccia a
faccia con il
tempo che correva spietato, non era lì ad ascoltarli.
Il silenzio ritornò
insieme a tali pensieri, e quando Yosano ebbe visitato anche Ranpo,
nessuno fra
loro oppose resistenza appena il ragazzo afferrò il proprio
cappello e lasciò
l’Agenzia per scomparire in ciò che restava della
notte, diretto solo lui
sapeva dove.
Era appena sorta una
pallida alba quando il medico lo vide fare ritorno con
l’umore leggermente
mutato e lo sguardo percorso da una luce diversa da quella di poche ore
prima:
aveva qualcosa in mente, presto lo avrebbe mostrato.
«Non l’hai trovato, vero?»,
chiese la mora appena lo vide sedersi alla sua scrivania e rovesciare
la testa all’indietro.
In lontananza, oltre le distese di edifici, l’oceano si
animava sotto il sole.
«No, infatti: Poe-kun
non è uno stupido, non voleva essere trovato e ha fatto la
mossa più naturale
del caso, ovvero andarsene dalla città.»
«Così, dal nulla?»
«E non per un breve
viaggio. Sono andato a dare un’occhiata alla sua villa, ma
non c’è più nessuno:
stanotte vi è tornato il tempo necessario per prendere il
suo amico Karl e liberare
tutto lo studio — dalle finestre ho visto solo una stanza
completamente vuota.
È chiaro che non ha
intenzione di far ritorno tanto presto, altrimenti avrebbe lasciato la
scrivania pronta per quel momento. Non sono entrato in casa, ma sono
sicuro che
siano scomparsi anche i documenti che gli permetteranno di andare negli
unici
due posti che conosca bene: Boston e Richmond [3],
dov’è nato e
cresciuto.»
«Quindi ha fatto ritorno
in America…»
«A Richmond, decisamente.»
Kunikida lasciò il proprio posto e mostrò ad
Akiko dei documenti. «Ho appena
chiamato l’aeroporto: mi hanno confermato che nemmeno tre ore
fa il signor Edgar
Allan Poe si è imbarcato su un aereo diretto proprio
là.»
Yosano annuì, facendosi
più seria. «Ho saputo che ci sono state delle
vittime, ma nessuna di queste è
morta nel palazzo: i soccorritori hanno riferito di non aver trovato
alcuna
traccia di corpi o indizi che possano rimandare alla loro presenza.
È impossibile che Poe-san
abbia assistito a qualcosa tale da esserne traumatizzato…
quindi, che cosa l’ha
spinto a lasciare il Giappone?»
«Un motivo c’è»,
intervenne Ranpo, mettendosi seduto composto e spalancando gli occhi,
«è limpido
nella mia mente; mi mancano alcuni dettagli, certo, ma in queste ore ho
capito
che cosa sia accaduto. La prima domanda a cui devo dare risposta
è…» Una breve
pausa. «Come si prende un aereo?»
Kunikida e il medico
rimasero senza parole per qualche attimo, quindi si guardarono e poi
ritornarono a fissare Edogawa. Yosano, allora, fece un piccolo sorriso.
«Hai
intenzione di andare a prenderlo e sei ritornato qui per chiedere un
piccolo
aiuto…», mormorò, mentre Doppo
assottigliava gli occhi e rimaneva in silenzio.
«Ovviamente, e intendo
anche andare a fondo nel mistero. Ma Poe-kun si
è portato via una parte
della soluzione — o meglio, è in una delle due
città che la nasconde, a sua
insaputa.» Facendosi pensieroso, quasi le sue stesse parole
avessero illuminato
un angolo fino a quel momento oscuro, il moro trasse da sotto la
mantella i due
volumi di Edgar e li appoggiò sulla scrivania,
accarezzandone poi le splendide
copertine. Il sopralluogo alla villa gli aveva permesso di trovare una
pista da
seguire, pur senza alcuni tasselli, e ormai era alla fine; ma
nonostante ciò
continuava a provare sulla lingua un’amarezza pungente e
difficile da
tralasciare…
… Perché, quando aveva
detto “mi dispiace”, Poe si era sentito solo e sbagliato.
Nel giro di
pochi attimi, non appena il cuore aveva portato alla luce una
verità terribile,
il mondo gli era divenuto nemico e a sua volta lui
si era scoperto un
pericolo per gli altri, un maledetto; e si era visto solo, indifeso e
indifendibile, per una causa dalle radici profondissime, che unicamente
la sua
anima poteva sapere.
Il malessere di Edogawa
aveva più fonti: non solo la visione di una simile
sofferenza, ma anche il
riflesso di quel Ranpo di tredici anni prima[4]
— senza aiuto e
convinto di essere un tremendo errore, un mostro al quale la
felicità non
avrebbe mai sorriso — che le parole prive di speranza avevano
fatto riemergere.
Mi
dispiace. Anche io
avevo detto così…
Allora,
l’incontro con Fukuzawa
lo aveva salvato e, da quell’istante, con lui aveva protetto
e difeso chi non
ce l’avrebbe fatta con le proprie forze, portando alla luce
la verità e la
giustizia che in essa albergava; non aveva mai mancato di farlo. Poteva
allora
tirarsi indietro davanti a quello che stava accadendo, contando che era
coinvolto
non uno sconosciuto, ma qualcuno a lui vicino?
Mi
dispiace davvero.
«È
curioso: Poe-kun
si considera il mio rivale, ma da quando ci siamo ritrovati non ha
fatto altro
che essere al mio fianco come un amico; vi ha salvato la vita e non ha
temuto
di mettere a repentaglio la sua nel farlo.» Nessuno
merita di rimanere
smarrito; ognuno deve sapere di non essere solo. «Eeeeh
sì, ha davvero
bisogno di me.» Si alzò e raggiunse Yosano e
Kunikida, per poi prendere dalle
mani di questi i documenti che aveva stampato e guardarli con
attenzione.
«Nonostante lui stia andando a Richmond, io devo andare prima
a Boston. Sono lì
le risposte che mi servono.»
Doppo e Akiko assentirono
davanti alla determinazione che vedevano riflessa nel volto del
più grande detective
tra loro, contro il quale niente e nessuno avrebbe potuto resistere.
Edgar non
poteva saperlo, ma stava per arrivare un vento che avrebbe purificato
il suo
cielo: se Edogawa aveva una speranza, allora niente era perduto. Mai.
«Quindi hai già deciso
ogni cosa, Ranpo?»
Il ragazzo annuì a
Fukuzawa, apparso in quell’attimo sulla porta
dell’ufficio.
«Fai quello che è giusto,
allora. L’Agenzia saprà cavarsela»,
assentì a propria volta l’uomo, dopo averlo
osservato fin dentro l’anima.
«Non so per quanto ci
riuscirà, ma farò del mio meglio per ritornare
presto», rispose Edogawa, per
poi allargare le braccia, cambiare espressione e rivoluzionare tutta la
sede
nel giro di un secondo. «E quindi, chi di voi mi aiuta?
Andiamo, non abbiamo
tempo da perdere, devo partire immediatamente! Non posso più
aspettare!»
…
Probabilmente, Poe ultimò
il suo viaggio quando Ranpo iniziò il proprio. Mancavano
ancora parecchie ore
prima che la luna si sollevasse nuovamente sopra l’oceano,
eppure la sua ombra
era già visibile nell’angolo di cielo che il moro
poteva scorgere dal
finestrino dell’aereo; e lui ne fissò la forma
incompleta, in mutamento, fino a
quando le luci del giorno iniziarono a trasformarsi insieme a lei.
Seduto al suo fianco,
Kunikida non mancava di osservarlo e prestare attenzione a qualsiasi
cosa
dicesse. Fukuzawa non avrebbe potuto lasciare l’Agenzia,
così, mentre Yosano e
Ranpo si erano trovati impegnati a preparare il necessario per il
viaggio, aveva
chiesto a Doppo di accompagnare il giovane; richiesta immediatamente
accettata,
visto che così avrebbe potuto sdebitarsi per essere stato
salvato.
Le parole che Ranpo
riversava erano infinite, come suo solito, ma il biondo non
mancò di notare che
spesso il ragazzo abbassava la voce di qualche tono e il suo sguardo
diveniva
più profondo, quasi scorgesse la meta ogni istante
più chiaramente e si preparasse
di conseguenza. Edogawa era estremamente orgoglioso, sapeva essere
infantile e
non nascondeva di pensare in primo luogo a sé stesso; ma
questo non voleva dire
che non tenesse agli altri o non avesse un cuore.
Doppo accennò un sorriso,
lanciando un’altra occhiata al moro: quando questi era andato
a salutare
Fukuzawa, Yosano gli aveva riferito come Ranpo stimasse Poe e quanto la
vicenda
lo stesse coinvolgendo, nonostante ostentasse il comportamento di
sempre. Tra
quei due c’era un legame sorto anni prima tramite una
competizione, un rapporto
che si caricava e trasformava a ogni contatto e andava a mettere radice
in
entrambi, portando a un luogo che solo loro potevano scoprire: ma se
Edogawa
era salito su quell’aereo, se nulla nelle sue decisioni era
mai mutato e la
luce che gli ravvivava lo sguardo non aveva vacillato un attimo, questo
poteva
essere già un indizio sul percorso insieme. Edgar era stato
parecchio fortunato
ad aver incontrato una persona simile — e probabilmente la
fortuna era
vicendevole.
Kunikida lo aveva appena
pensato che fu Ranpo a sorridere, come se avesse letto nella mente del
compagno
e si fosse trovato d’accordo, quindi non parlò
più e mantenne il silenzio per
tutto il tempo in cui il buio scese e rimase nel mondo. Ora dopo ora,
un
respiro e un altro ancora, Boston si avvicinava pari a un’eco
che diveniva
lentamente viva voce, udibile solamente da Edogawa.
Consapevole di ciò, Doppo
non si stupì affatto di come, quando furono atterrati e
appena fuori
dall’aeroporto, il giovane sapesse già dove
andare; e la sua guida sicura
spinse entrambi a ignorare la città aperta per concentrarsi
sui fantasmi che
dormivano negli angoli dimenticati, là dove il tempo si era
fermato per non
fluire più.
Questo fu l’esatto
pensiero di Kunikida quando Ranpo imboccò
l’ennesima via più buia delle sue
sorelle e si bloccò davanti a un alto edificio che sembrava
sul punto di
scomparire, tanto era stretto tra le strutture adiacenti, e
così danneggiato e annerito che perfino il numero civico era
illeggibile. Era una zona a sé,
svincolata dalla certezza[5], e dalle sue
prossimità Edogawa non
accennava ad allontanarsi: taceva la sirena che aveva cantato per lui
fino a pochi
attimi prima, avendolo condotto a sé e quindi portato a
termine il proprio
compito.
«Spero che la casa riesca
a resistere ancora un po’», commentò
Kunikida mentre incrociava le braccia e fissava
lo sguardo sul tetto malandato.
«Resisterà», mormorò
l’altro
appena inforcò i suoi preziosi occhiali, per poi avvicinarsi
a ciò che rimaneva
della porta e guardare attraverso i pertugi che offriva,
«anche lei vuole che
questa storia abbia la fine che merita.»
NOTE
[1]
Il ramune è una bibita gassata dal
sapore di limone, venduta in una
caratteristica bottiglia di vetro che presenta sul tappo una biglia.
Nell’opera
si vede spesso Ranpo con questa bevanda, e la wikia
la riporta come una
delle sue preferite.
[2] Mochi
guarniti con pasta di fagioli rossi.
[3] Boston,
in Massachusetts, e Richmond, in Virginia, furono due città
importanti per il
reale Edgar Allan Poe: la prima è dove nacque e
pubblicò molte sue opere, la
seconda dove visse insieme alla famiglia adottiva e, per un certo
periodo, con
la moglie.
[4]
Riferimento alla light novel “The Untold
Origins of the Detective
Agency”, incentrata sul momento in cui Ranpo e Fukuzawa
s’incontrano per la
prima volta. Viene mostrato chiaramente come il ragazzino, dopo una
serie di
eventi di cui non farò spoiler, trovi il suo posto nel mondo
grazie a Fukuzawa
e smetta di sentirsi solo, abbandonato da tutti e rigettato da una
realtà che,
prima di conoscere l’uomo, non comprendeva.
[5] Riferimento
alla vera casa dei Poe, che ora non esiste più ma di cui si
conosce la
posizione.