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Autore: Rosye    06/08/2020    0 recensioni
In quel momento, nel sentire le sue parole, avrei solo voluto stringerla forte tra le mie braccia e rassicurarla, dirle di non preoccuparsi, di non piangere, perché stavo bene ed ero qui accanto a lei e avrei fatto di tutto per mantenere la mia promessa... ma anche questo mi era impossibile.
- Tratto dal Prologo.
Genere: Guerra, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Fugaku Uchiha, Jiraya, Mikoto Uchiha, Sakumo Hatake, Tsunade | Coppie: Minato/Kushina
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Prima dell'inizio
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Lotteremo Contro il Nostro Destino!
Capitolo 4












Sarutobi



Osservai per parecchio tempo il punto in cui prima si trovava il mio allievo, amareggiato con me stesso per non essere stato stato in grado di aiutarlo ad uscire da quell'incubo in cui era precipitato.
La sua, d’altronde, non era una situazione facile da affrontare e il suo continuo rifiutarsi di accettare ciò che era successo, di certo, non l’aiutava per niente.
Stava ancora scappando dal suo dolore e questo, non gli permetteva di superare il trauma patito quella maledetta notte.
Scossi la testa, sospirando amaramente.
Tutto, in parte, era accaduto anche per colpa mia.
Se solo avessi calcolato meglio i rischi nascosti dietro quella “semplice missione di spionaggio”, allora, forse, avrei potuto evitare che le cose andassero in quel modo insensato.
Colpevole, abbassai lo sguardo a terra, sentendo pulsare al centro esatto del petto quel bruciante senso di colpa che ogni giorno mi faceva pentire della mia stupida e gigantesca ingenuità.
I fatti accaduti quella notte, erano stati per tutti noi un’importante lezione di vita che poi, Jiraiya, aveva tramutato in una delle sue regole principali e l’aveva inculcata pure nelle giovani menti dei suoi allievi: “Mai, e poi mai, sottovalutare il proprio nemico”.
Purtroppo però, il mio povero Jiraiya non comprendeva che alle volte, il “nemico” poteva facilmente nascondersi sotto la maschera di un “buon amico”. Ed era quella senza ombra di dubbio, rispetto a tutte, la prova più difficile da dover affrontare; perché chiunque, infatti, poteva lottare senza nessuna riserva contro colui che riteneva un nemico giurato ma, combattere contro un caro e vecchio amico – e compagno di mille e più battaglie – sfortunatamente, era tutt'altra cosa da dover accettare. Il ché, mi riportava con la mente a ciò che avrei dovuto fare di lì a qualche minuto e, in cuor mio, desiderai davvero poter tornare ai miei tempi d’oro, quando, simili verità, non mi sfioravano nemmeno lontanamente.
Sospirai mestamente, consapevole di non poter più rimandare quel maledetto incontro che fino a quel momento avevo semplicemente, e volutamente, ignorato.
«Tetsuya!» chiamai a gran voce, spingendo lontano da me quei pensieri dolorosi per concentrarmi sui miei doveri di Hokage.
Non potevo cambiare il passato – lo sapevo bene – però, potevo certamente impedire a quell’uomo di causare altri danni.
«Sandaime-sama, mi ha chiamato?» rispose prontamente una delle mie guardie speciali, materializzandosi davanti a me in un rispettoso inchino, in attesa dei miei ordini.
«Ho bisogno di un favore.» gli dissi, avvicinandomi a lui di qualche passo. «E solo tu mi puoi aiutare.»
Non riuscii a leggere la sua espressione per via della maschera che indossava ma, quando mi rispose, la sua voce risuonò alle mie orecchie seria e decisa: «Sono al suo completo servizio, signore.»



 
Minato



 
Chi diavolo era quello?



Un nemico.
Un altro shinobi della Nuvola inviato per farle ancora del male.
Fu questo il primo pensiero che mi attraversò la mente quando, aprendo quella benedetta porta, vidi quell’uomo piegato su Kushina, mentre lei, era ancora placidamente addormentata ed ignara di tutto.
Ripeto – fu questo il mio primo pensiero e purtroppo, l’impulso di reagire al pericolo partì ancora prima di chiedermi se quel ninja fosse davvero un nemico oppure no.
D’istinto, senza nemmeno pensarci due volte, estrassi subito dalla borsa – che tenevo sempre legata alla coscia destra – un kunai, pronto per ogni evenienza; ma quell’uomo si accorse della mia presenza e fu più veloce di me.
Con uno scatto rapidissimo, si portò dietro la mia schiena e con un solo movimento, senza darmi neppure il tempo di voltarmi, mi disarmò e mi scaraventò a terra, immobilizzandomi del tutto.
«Ehi, marmocchio...» mi sussurrò a pochi centimetri dall’orecchio con una voce roca e severa. «...all’Accademia non ti hanno insegnato a non giocare con le armi?»
Alla sua domanda retorica, avvertii la sua presa sul mio polso farsi sempre più forte fino a quando, dalle mie labbra, non scappò un gemito di dolore.
Confuso e del tutto disorientato, cercai di divincolarmi, ma la sua presa era così vigorosa da inchiodarmi al duro pavimento senza darmi nessuna via di scampo. Da sopra di me, lo sentii ridacchiare, divertito dai miei vani tentativi di liberarmi.
«Che cosa ti succede?» mi chiese dopo un po’, con tono dannatamente provocatorio. «Non dirmi che non riesci più a muoverti.»
Digrignai i denti, arrabbiato con me stesso per essere stato catturato così facilmente da quel tizio che, adesso, si stava chiaramente prendendo gioco di me, convinto, ormai, di avermi messo nel sacco e di avermi completamente alla sua mercé.
E accidenti a lui, se non aveva ragione a pensarla così!
Infatti, entrambi sapevamo molto bene qual era l’unico modo per liberarsi da una presa del genere e gli svantaggi che ne sarebbe susseguiti.
Del tutto inerme, mi ritrovai a masticare una serie di imprecazioni poco carine sia per la situazione poco felice in cui mi ero andato a cacciare, sia per il dolore alla spalla che – per via della scomoda posizione in cui mi trovavo – aveva iniziato a protestare sonoramente.
Se solo fossi stato un po’ più attento, non gli avrei mai permesso di mettermi così tanto in difficoltà.
Diedi un altro strattone nella speranza di fargli mollare la presa sul mio polso, ma era del tutto inutile. Le sue dita sembravano delle tenaglie, mi avevano arpionato e non volevano più lasciarmi andare.
«Ehi, ehi, marmocchio. Sta’ attento...» mi disse ancora, con un sorrisetto sghembo sulle labbra e un tono fintamente preoccupato, stringendo maggiormente la presa per non farmi muovere. «...se continui così, ti farai solo del male. E noi non vogliamo che ciò succeda, giusto?» mi sfotté, certo e sicuro della sua vittoria su di me.
Cosa che, diciamocelo, mi fece andare completamente in bestia.
«Non sottovalutarmi, idiota!» gli sibilai contro, stringendo i denti e preparandomi mentalmente al contrattacco, pronto a dar battaglia con tutte le mie forze e a non arrendermi.
Sapevo che da lì a qualche momento, la spalla, mi avrebbe fatto un male cane ma, a questo punto non m’importava più. Dovevo liberarmi – e dovevo farlo pure alla svelta.
Il mio avversario sembrò intuire le mie intenzioni, tuttavia, fu troppo tardi per lui: «Non dirmi che–?!» fece allarmato, ma non gli diedi altro tempo per capire cosa stava succedendo.
Legai la mia caviglia alla sua per fargli perdere l’equilibrio e con un poderoso colpo di reni, mi spinsi verso l’alto, disarcionandolo dalla mia schiena e liberandomi dalla sua presa d’acciaio. Lo sentii mormorare qualcosa, ma concentrato per com’ero, non ci badai e, con una piccola evoluzione, mi frapposi tra di lui e il letto di Kushina. Infine, afferrai in entrambe le mani un kunai e mi misi in posizione di difesa, pronto ad ogni sua possibile mossa; però, stranamente, questa volta non sembrava intenzionato ad attaccare.
Rimase solo fermo, immobile, ad osservarmi.
Il suo sguardo era simile a quello di un vecchio cane diffidente di fronte a uno sconosciuto: era curioso, sì, ma anche vigile.
Tremendamente vigile.
Mi scrutava con insistenza, studiandomi nei minimi particolari.
Ciononostante, non ci feci molto caso – anche perché anch’io feci lo stesso con lui.
Lo osservai attentamente, soffermandomi maggiormente sul suo volto dai bellissimi lineamenti aristocratici e dai penetranti occhi color ebano che, grazie alla carnagione chiara della sua pelle, risplendevano come due gemme preziose.
La sua lunga chioma era talmente scintillante da poter essere paragonata soltanto all’argento liquido. Teneva i capelli legati dietro la testa, in una bassa e disordinata coda, mentre la frangia, gli ricadeva in modo sbarazzino sulla fronte larga e marcata – ed era solo per il suo copri-fronte se, i capelli, non gli ricadevano sugli occhi – donandogli un aspetto da “bello e dannato” allo stesso tempo. Il suo corpo, inoltre, era alto e slanciato. E le sue spalle erano larghe e robuste, segno dei molti allenamenti a cui si era sottoposto fin dalla sua infanzia e delle innumerevoli battaglie che aveva combattuto.
Nel complesso, era un uomo dall’aspetto molto attraente che non dimostrava più di una ventina d’anni, anche se – ero pronto a scommetterci – in realtà, ne nascondesse molti di più, se non addirittura il doppio.
Stavo giusto valutando questo piccolo dettaglio quando, con un pizzico d’imbarazzo, mi accorsi dello stemma della foglia inciso sul suo copri-fronte: anche lui era un ninja di Konoha.
E a giudicare dalla sua divisa, doveva pure trattarsi di un Jōnin.
Tuttavia, anche se quell’uomo era un membro della Foglia, non potevo ugualmente fidarmi di lui. Non dopo tutto quello che era accaduto nell’arco di quelle poche ore e soprattutto, non dopo il chiaro avvertimento con cui Tsunade si era premurata di mettermi in guardia appena fuori dall’ufficio dell’Hokage.
Non dovevo dimenticarlo, chiunque poteva essere coinvolto in questo “incidente”. Nessuno doveva essere escluso dalla rosa dei sospetti, nemmeno il più stimato e fidato membro del villaggio. E poi, se proprio dovevi dirla tutta, quell’uomo non mi ispirava molta fiducia.
L’avevo sorpreso fin troppo vicino al letto di Kushina per i miei gusti e questo, non mi piaceva.
Non mi piaceva per nulla.
In fondo, chi diavolo era per permettersi di entrare dentro la sua camera mentre lei era ancora priva di sensi e per giunta, completamente indifesa?
Una piccola e fastidiosa vocina nella mia testa mi fece presente che pure io, proprio come lui, non avevo nessun diritto di trovarmi lì, ma la ignorai bellamente; cercando invece di giustificarmi con me stesso che io, a differenza di quel platinato, avevo almeno contribuito nel suo salvataggio e questo, anche se in minima parte, doveva pur contare qualcosa.
Avevo il diritto di andare da lei per accettarmi della sua salute, no?
Dandomi mentalmente dello sciocco, scacciai subito quei pensieri frivoli e molesti per non permettere alle mie incertezze di prendere il sopravvento su di me e di distrarmi dal mio avversario. In un momento come quello, non potevo permettermi il lusso di pensare a simili sciocchezze.
Non potevo; non se chi avevo di fronte, era un avversario temibile come quello shinobi dalla capigliatura argentata.
Qualcosa infatti, mi urlava a gran voce di non sottovalutarlo e – come sempre del resto – non avevo nessuna intenzione di ignorare il mio istinto.
Conscio di questo, strinsi la presa sul mio kunai e, assottigliando gli occhi, mi rivolsi a lui con un tono tutt’altro che amichevole: «Chi sei?» gli chiesi. «Che cosa vuoi da lei?»
Lui per tutta risposta, mi lanciò un’occhiata perplessa come se, considerasse ridicolo anche solo il fatto di dover spiegare a qualcuno il motivo della sua presenza lì. «Questo, se permetti, dovrei chiederlo io.» borbottò, parecchio offeso. «Che cosa sei venuto a cercare qui?»
Il suo tono era strafottente, quasi non gli interessasse davvero ricevere una risposta ma, il suo sguardo febbrile sul mio kunai, lo tradiva.
Era ovvio che vedermi così vicino a Kushina, per di più con delle armi affilate in mano, lo rendesse particolarmente nervoso.
Possibile che fosse davvero preoccupato per lei?
Stavo giusto riflettendo su ciò quando, un piccolo movimento della sua mano, attirò la mia attenzione e mi fece scattare sulla difensiva.
Per un lungo istante, ci guardammo torvi, scrutandoci e studiandoci a vicenda; cercando entrambi di valutare con un semplice sguardo le capacità dell’altro e le possibili difficoltà che ne sarebbero sorte da uno scontro aperto tra noi due. E poi, mentre le nostre menti erano ancora concentrate a ragionare su ciò, i nostri occhi, come calamitati da una forza maggiore, si spostarono e si posarono in sincronia su Kushina: tutte e due, evidentemente preoccupati che lei, in qualche modo, potesse rimanere coinvolta nello scontro.
E fu proprio quello sguardo a parlare per noi; a mostrare i nostri sentimenti e le nostre priorità. E soprattutto, a farci capire che in fondo noi, non eravamo poi tanto diversi l’uno dall’altro. Entrambi ci trovavamo nello stesso lato della barricata e, cosa più importante di tutte, noi non eravamo nemici.
Perlomeno, non lo eravamo se il bene di Kushina veniva minacciato da qualcosa.
Non c’era bisogno di dire altro, quel pensiero mi bastò per abbassare le armi.
Certo, non sapevo ancora chi fosse quell’uomo o cosa stesse facendo in quella stanza prima del mio arrivo, ma sentivo che quello shinobi non era cattivo e – nonostante mi venisse difficile farlo – volevo comunque concedergli il beneficio del dubbio.
Per questo, con un movimento molto lento, lasciai scivolare le braccia lungo i fianchi, scoprendomi del tutto davanti a lui.
Volevo dimostrargli di non avere più nessuna intenzione di attaccarlo ma, il mio gesto, sembrò invece scatenare su di lui l’effetto contrario perché, di colpo, si fece più guardingo che mai: come se il mio, fosse soltanto un vile bluff per ingannarlo ed attaccarlo all’improvviso.
«E adesso cosa stai progettando di fare, marmocchio?» mi chiese, diffidente come una bestia selvatica.
Mi scappò quasi un sorriso di fronte al suo atteggiamento burbero e sospettoso: aveva un ché di famigliare con una certa rossa di mia conoscenza.
«Niente.» gli risposi, sempre più convinto di non dover temere nulla da lui – non in questo caso, almeno. «Volevo semplicemente parlare senza usare questi.» aggiunsi, sollevando leggermente la mano destra per indicargli il kunai che ancora tenevo. «Certo, sempre se per te non è un problema.»
«Non hai paura che ne approfitti per attaccarti?»
«No, perché non lo farai.»
Lui ridacchiò, quasi divertito dalla piega che stava prendendo la nostra conversazione, ma il suo sguardo era ancora vigile. Non si fidava ancora di me.
Tuttavia, non ci feci molto caso.
Era nella natura di ogni ninja diffidare di qualsiasi cosa e vivere nella costante vigilanza. Eravamo addestrati a questo fin dalla nostra prima infanzia e chi non imparava subito a farlo, purtroppo, non riusciva a vivere molto a lungo nel nostro mondo.
«Sentiamo un po’, illuminami. Che cosa ti dà tutta questa sicurezza?» fece sarcastico, incrociando le braccia al petto in quella che doveva essere una posa rilassata ma che, di rilassato, aveva davvero ben poco.
«In realtà, sei stato proprio tu a darmela.» replicai, mettendo via i kunai per dimostrargli di non avere davvero nessuna intenzione di attaccarlo di nuovo.
Lui non rispose, limitandosi soltanto ad alzare un sopracciglio e ad assumere un’espressione parecchio scettica.
Probabilmente, in quel momento, si stava domandando se le mie facoltà mentali fossero nella norma o meno; o se, magari, fosse il caso di accompagnarmi personalmente da qualche medico per farmi dare una controllatina: non sia mai che la botta di prima mi avesse causato qualche danno serio, eh!
Trattenni a stento una smorfia, conscio di non potergli dare neppure torto.
Ultimamente, persino io mi rendevo conto di dare in strani colpi di testa che, in passato, non mi sarebbero mai appartenuti; e la cosa seriamente preoccupante era che, non me ne importava proprio nulla.
D’altronde, chi poteva davvero ritenersi normale a questo mondo?
Tra noi passò un lungo e interminabile minuto di silenzio dove, nessuno dei due osò abbassare lo sguardo.
La nostra, era molto simile a una lotta tra due Titani. Ci fronteggiavamo e ci sfidavamo solo con la forza dello sguardo per decidere chi tra noi, era colui che avrebbe prevalso sull’altro. E dalla determinazione presente nei suoi occhi, era chiaro come il sole quanto lui non volesse assolutamente perdere quello scontro.
Quel pensiero mi fece sorridere e lui sembrò notarlo.
«Sei un tipo piuttosto strano, lo sai, vero?» brontolò a un certo punto, gettando gli occhi al cielo e rilassando impercettibilmente le spalle.
Gesto che presi come un segno di silenziosa tregua tra noi.
Scrollai le spalle a mia volta, indifferente a quel commento: «Mi chiedo se a questo mondo ci sia davvero qualcosa di normale.»
«Già, effettivamente, su questo hai ragione.» concordò con me, stirando le sue labbra in un piccolo ghigno ironico.
E come se fino a qualche momento prima nessuno dei due avesse minimamente provato a fare la pelle altro, ci sorridemmo a vicenda, complici dei nostri stessi pensieri.
Dopo di ciò, mi venne vicino con una disinvoltura quasi irreale.
I suoi passi erano felpati e agili come quelli di un grande predatore e nella mia mente, tutto di lui, mi mise in guardia sulla sua pericolosità.
Non lo conoscevo, non avevo nemmeno la più pallida idea di chi fosse ma, senza ombra di dubbio, quell’uomo era uno shinobi formidabile e un avversario veramente spaventoso. E soltanto in quell’istante, mentre lo osservavo fermarsi con un sorriso beffardo a pochi centimetri da me, mi resi conto che durante il nostro “piccolo scontro” doveva essersi trattenuto parecchio per non farmi del male.
Una prova, lo era il mio braccio: per non spezzarmelo, aveva preferito mollare subito la presa e farsi disarcionare e scaraventare lontano.
Cosciente di questo nuovo dettaglio, gli rivolsi un’altra occhiata per provare a capire qualcosa in più su di lui, ma se ne accorse.
«Ti piace proprio scrutare le persone, eh?» mi chiese, con una luce ironica e furbesca negli occhi.
Un po’ in imbarazzo, gli rivolsi uno sguardo di scuse. «Mi dispiace. Stavo solo cercando di capire se potevo veramente fidarmi di te oppure no.»
Restò visibilmente colpito dalla sincerità della mia frase però, si ricompose in fretta. «Pensavo avessimo superato la fase della “diffidenza iniziale”»
«Ed è così.» confermai, sincero.
«Però non ti fidi abbastanza da abbassare la guardia.» concluse per me, con fare sbrigativo. «Beh, dopotutto, non posso biasimarti. La nostra conoscenza non è avvenuta… come dire, nel modo “migliore”.» aggiunse, mimando con le lunghe dita delle virgolette per sottolineare il concetto.
«No, direi proprio di no.» convenni con lui, memore della nostra piccola scaramuccia. «E poi, non vedo cosa ci sia di male in questo.» gli dissi, fingendo una noncuranza che non avevo. «In fondo, per me, abbassare le armi non vuol dire che mi fidi completamente. Per conquistare la mia fiducia, ci vuole molto di più di una piccola tregua. E credo che lo stesso valga pure per te.»
Sulle sue labbra, nacque un sorrisetto sghembo. «Mi correggo. Non sei soltanto un tipo strano; sei pure un buon osservatore: il ché, ti rende un avversario ancora più pericoloso.»
Inclinai un po’ la testa di lato, perplesso.
Contrariamente a ciò che lui aveva detto, non mi ritenevo un avversario pericoloso.
Certo, ero un buon combattente – inutile negarlo – ma ero ancora troppo inesperto per riuscire ad incutere un vero timore nei miei avversari e questo, lo sapevo molto bene.
C’erano ancora troppe cose che avevo bisogno di imparare e molte esperienze da dover vivere prima di raggiungere un livello anche solo paragonabile a quello del maestro Jiraiya e, fino a quel momento, non potevo permettermi il lusso di sopravvalutare le mie capacità.
«Perché fai quell’espressione scettica?» mi domandò curioso, osservandomi con attenzione.
Era come se dalla mia risposta stesse cercando di valutare qualcosa, quasi volesse studiarmi, conoscermi.
Per un attimo, pensai di non rispondergli ma alla fine optai per la sincerità: «Sono solo un ragazzo, non vedo come qualcuno del tuo calibro potrebbe prendermi davvero sul serio.»
Lui aggrottò la fronte, di nuovo vigile. «Cosa intendi dire?»
Mi scappò un piccolo sbuffo di fronte alla sua recita, sicuro che invece, avesse capito perfettamente cosa intendessi dire. «Davvero credi che non me ne sia accorto?» gli feci notare, sfidandolo con lo sguardo a negare l’evidenza. «Eppure, è così ovvio.»
Il suo viso sembrò oscurarsi di colpo e i suoi occhi si fecero più attenti che mai, abbandonando ogni traccia di ironia o sarcasmo. «Che cos’è ovvio?» mi chiese, con un tono così neutro da sorprendermi parecchio, ma non per questo, mi tirai indietro.
Gli mostrai il mio braccio e gli indicai il mio polso. «Parlo di questo.» gli spiegai, stanco di quel giochetto. «Parlo del fatto che se prima tu non mi avessi lasciato andare, mi sarei spezzato un braccio e soprattutto, mi riferisco al fatto che tu non mi hai mai voluto combattere davvero. Siamo sinceri, prima stavi solo giocando con me.»
Una volta svuotato il sacco, non sapevo cosa mi sarei dovuto aspettare da lui, ma la sua reazione mi lasciò senza parole.
Scoppiò a ridere come un pazzo, quasi piegato in due per le risate. «Ti stavi riferendo a questo?» sghignazzò tra una risata e l’altra, senza fiato.
Sconcertato dalla sua reazione, non potei fare altro che guardarlo, indeciso su cosa fare o che cosa dire; però poi, preferii semplicemente lasciar correre e gli rivolsi quella domanda che tanto mi premeva sapere: «Adesso che abbiamo deciso di non ammazzarci più a vicenda, potrei finalmente sapere chi sei?» gli domandai, avido di scoprire il più possibile su di lui.
Lui smise finalmente di ridere e annuì, portandosi una mano alla nuca con fare leggermente imbarazzato. Con un piccolo sorriso accondiscendente sulle labbra, si presentò: «Hai ragione, non mi sono ancora presentato. Il mio nome è Sakumo Hatake, piacere di conoscerti.»
L’espressione di Hatake, adesso, era calma – pacifica – aperta in un lieve sorriso bonario che su chiunque, avrebbe scatenato un senso di fiducia e sicurezza. Eppure, sotto quel sorriso, c’era qualcosa che mi fece dubitare di lui.
Era come se nella mia mente fosse scattato un campanellino d’allarme per avvisarmi di dover stare attento; di non fidarmi, perché quell’uomo nonostante non fosse una persona cattiva, mi stava nascondendo qualcosa di molto importante.
Qualcosa di estremamente prezioso che avrei dovuto assolutamente sapere e che invece, preferiva nascondermi.
Chiamatelo intuito, o paranoia – se proprio volete.
Eppure qualcosa mi suggeriva che Hatake non fosse del tutto sincero con me.
Che c’era dell’altro e che – in qualche modo a me incomprensibile – io, di quel segreto, non ne fossi nemmeno all’oscuro.
Era un po’ simile alla sensazione provata con Tsunade quella stessa mattina quando, i suoi occhi, mi avevano scatenato quello strano senso di disagio.
Aggrottai le sopracciglia, contrariato dalle mie stesse sensazioni ma, non gli permisi di vedere altro dalla mia espressione.
“Hatake, eh?” pensai tra me e me, distogliendo lo sguardo dalla sua figura alta e slanciata per farlo vagare in giro per la stanza.
In quei giorni di ‘riposo forzato’ avrei sicuramente condotto delle ricerche per accettarmi di chi in realtà fosse quell’uomo e se, potevo davvero fidarmi di lui oppure no.
Ero così preso dalle mie elucubrazioni mentali che quando lui parlò, quasi mi prese un colpo per il tono con cui lo fece: «Che vuoi fare, ragazzo?» mi chiese.
La sua voce si era fatta talmente seria e profonda da attirare subito i miei occhi su di lui e quando incontrai i suoi così scuri e penetranti, mi sentii sprofondare al loro interno.
L’occhiata che mi rivolse era un qualcosa di indecifrabile, magnetico e del tutto sconvolgente.
Con quell’unico e semplice sguardo, mi sembrò come se mi avesse perforato il centro esatto dell’anima e fosse riuscito a spogliarla di ogni sua protezione. Come se tutto – ogni pensiero, ogni ricordo, ogni ferita e ogni dolore – fosse stato scritto in un libro, nero su bianco e adesso lui ne stesse leggendo tranquillamente la storia, impadronendosi anche dei segreti più dolorosi e nascosti al suo interno.
Il tutto, durò solo pochi istanti, giusto il tempo di qualche battito di ciglia però, questo, non diminuì l’effetto che mi lasciò sotto la pelle.
Lo guardai sconvolto, quasi tremante da ciò che avevo provato sotto il suo sguardo da fenice. «Che–?» riuscii appena a biascicare, allucinato.
Non riuscivo a parlare, sentivo come se un doppio nodo mi avesse stretto la bocca dello stomaco. Boccheggiai come un pesce fuori dall’acqua in cerca di aria e anche di un briciolo di lucidità.
Lui distolse lo sguardo dal mio e lo puntò sulla finestra dietro le mie spalle, senza realmente vederla. Serrò con forza le mascelle, quasi volesse trattenersi dal dire qualcosa di troppo.
Nei suoi occhi, bruciava ancora quel fuoco dirompente che mi aveva turbato e solo quando sembrò attenuarsi un po’, riprese a parlare: «La tua faccia è divenuta di colpo molto seria, come se ti stessi preparando ad andare in guerra contro il mondo. Quindi, te lo chiedo ancora una volta. Che cosa hai in mente di fare?»
Lo osservai per un istante, cercando di mantenere un minimo di contegno davanti a lui, anche se, le sue parole mi avevano seriamente sconvolto.
Non riuscivo a credere che con un semplice sguardo, mi avesse letto dentro come nemmeno Jiraiya era mai riuscito a fare in tutti quegli anni.
Per la millesima volta, chi diavolo era quel tizio?
Come se mi avesse letto ancora una volta nei pensieri, vidi le sue labbra stirarsi in un muto sorriso, privo di qualsiasi malizia o ironia.
Fece un altro passo verso di me e con un movimento lento, si abbassò quel tanto da permettergli di portare il suo viso alla mia altezza e posò, con dolcezza, una delle sue grandi mani sulla mia testa: «Non preoccuparti, Minato.» mi disse, scompigliandomi con affetto i capelli. «Io non sono un tuo nemico.»
Dopo di ché, senza darmi neppure il tempo di metabolizzare le sue parole, il suo sguardo si spostò sul viso di Kushina. Nei suoi occhi, passò una luce carica di profonda preoccupazione per poi, tornare ad essere freddi e impenetrabili come il diamante. «L’affido a te, mi raccomando: prenditi cura di lei.»
«Che–?!» tentai di nuovo, completamente sconvolto; ma lui non aspettò neanche che terminassi la frase. Semplicemente, si girò e se ne andò via, lasciandomi del tutto scombussolato e con mille e più domande a ronzarmi per la testa.



 
Sakumo



Mi chiusi la porta alle spalle, senza dargli modo di concludere la sua domanda.
Non era ancora il momento per lui di sapere la verità o, se proprio dovevamo essere precisi, di ricordarla.
Ci sarebbe stato tempo per metterlo a conoscenza di ogni cosa.
Certo, dovevo ammettere che quel marmocchio era cresciuto parecchio in quegli ultimi anni ma, malgrado l’apparenza, restava pur sempre solo un ragazzo. E Jiraiya, questa volta, aveva perfettamente ragione: bisognava aspettare ancora un po’.
Comunque, non potevo fare a meno di notare – con una fitta di nostalgia – la sua incredibile somiglianza con il padre.
Se avesse potuto vederlo, pure lei ne sarebbe stata felice.
Il frutto del suo grande amore, così simile all’uomo che aveva tanto amato, l’avrebbe riempita di una gioia immensa. E invece, purtroppo, il destino le si era accanito contro e aveva giocato con lei una partita davvero crudele.
Scrollai le spalle per scuotermi quei tristi pensieri di dosso e mi diressi a passo spedito verso gli uffici dell’Hokage.
Non mi era sfuggito il cenno di Sarutobi quando la riunione con il Consiglio si era conclusa; sicuramente, aveva qualcosa da dirmi.
Tanto meglio, ne avrei approfittato per discutere con lui di alcune cose importanti.
   
 
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