Libri > Good Omens
Segui la storia  |      
Autore: sunonthesea    11/08/2020    0 recensioni
Ogni cosa deve avere una fine.
La pioggia, il giorno, le pagine di un libro. La vita delle persone ha un inizio e una conclusione, la vita è una corsa contro il tempo prima di arrivare alla morte, l'ultima pagina, i titoli di coda.
Ma per alcune persone, al mondo, non è così che funziona. Per loro il concetto di "fine" è inutile, senza un significato. Per loro, dopo ogni vespro c'è un'immediata aurora, la morte sancisce il ritorno alla vita.
Queste persone vengono chiamate Immortali, e hanno molto lavoro da fare.
(Questa storia è un crossover con il film e fumetto The Old Guard, non sono proprietaria né dei personaggi né del contesto in cui si muovono).
Genere: Angst, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Adam Young, Aziraphale/Azraphel, Crowley, Newton Pulsifer
Note: AU, Cross-over, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Aveva sognato quel mostro.

Ancora una volta.

La luce delle candele attorno al Crocifisso gli ricordavano l’ambrato degli occhi di quel demonio, impressi nella sua mente come delle marchiature a fuoco. C’era odore di incenso nell’aria, nonostante a compieta non si usasse, che gli entrava nelle narici come una serpe orribile.

Qualcuno stava cercando di punirlo. Era palese. E lui lo sapeva benissimo chi era. Era il Signore. Era lui che lo stava punendo in quel modo. Non avrebbe dovuto sopravvivere, quella volta. Avrebbe dovuto morire.

Era stato il demonio, quella notte. Non c’erano altre spiegazioni.

Osservava il Crocifisso con reverenza, senza nemmeno osare di respirare troppo rumorosamente. Non voleva infastidire il suo sonno.

Tracciava movimenti leggeri sul palco in legno grezzo, adatto ai monaci come lui, mentre le pareti attorno gli davano un senso claustrofobico. Erano spoglie, come ogni altra cosa in quella chiesa. Le pietre ben scoperte, niente dipinti. Niente di niente. Ogni cosa in quella chiesa era stata appositamente costruita per entrare in comunione con Dio, per avvicinarsi a Lui.

Si sentiva ancora più distante da lui, in ogni secondo che stava passando lì dentro.

Il saio gli faceva prudere le gambe e le braccia strette al legno anche lui nudo come un neonato, sentiva la carne lacerarsi ogni secondo di più, ma lui accoglieva il tutto con un flebile sorriso rivolto alle volte spoglie.

Era lì per un motivo, e lo stava adempiendo.

Mormorò vagamente delle parole, preghiere che lui si ricordava a memoria per qualche oscura ragione. Era sempre stato bravo ad imparare cose a memoria: frasi, canzoni, preghiere. Anche e più complesse. Anche quelle in lingue sconosciute, antiche e dimenticate. Le sapeva tutte, le preghiere.

Ma solo rare volte aveva il coraggio di dirle, solo per non sentirsi in colpa.

Mormorava quelle parole socchiudendo gli occhi, e nel mentre immagini iniziavano a correre all’interno del suo cervello. Un ragazzo era davanti ai suoi occhi, alto poco più di lui. Aveva il volto di un fanciullo, le gote rosate nonostante fosse sporco di terra e di una cosa rossa, con molta probabilità sangue, e le labbra pallide digrignate in una smorfia angosciata. I capelli erano da strega: vermigli come una ferita aperta, che scendevano sulle spalle magre e coperte soltanto da una blusa stracciata, non molto dissimile da quelle dei poveri contadini che lavoravano nei pressi dell’abbazia.

Ma sicuramente, la cosa che lo rendeva più inquieto erano quelle due palle ambrate che si ritrovava al posto degli occhi, di un colore così intenso da sembrare fuoco.

Era lì che si diceva che le streghe e gli stregoni tenessero il loro potere. Perché quello era sicuramente uno stregone, i capelli dicevano tutto.

Aveva imparato da piccolo a riconoscere le streghe: i capelli rossi erano il principale segno. Poi c’erano gli occhi. E poi, solo le streghe riuscivano ad apparire nei suoi sogni.

Improvvisamente, il sogni diventò ricordo.

 

Davanti ai suoi occhi, ora, c’era solo acqua. Tanta acqua. Acqua che lo copriva da ogni parte, che gli impediva di respirare, che gli bloccava ogni cosa.

l’acqua gli riempiva i polmoni come sabbia in un contenitore.

Muoveva le braccia e le gambe in modo da riprendere la luce che vedeva attraverso la superficie del lago agitato sopra di lui, era la luce della luna che splendeva alta nella notte.

Stava morendo. Lo sentiva. Aveva visto tante persone morire davanti a lui, nonostante i suoi sedici anni (l’ultima era stata sua sorella maggiore due mesi prima, era morta dando alla luce quello che sarebbe dovuto essere suo nipote), e sapeva bene anche cosa sarebbe successo dopo: avrebbero trovato il suo corpo grigiastro sulla riva il giorno dopo, o forse sarebbe stato divorato dai pesci quella notte stessa.

Non gli importava nemmeno più di molto. Vedeva le bolle farsi sempre più flebili sopra la sua testa, i capelli chiari che svolazzavano nell’acqua come i rimasugli di un sudario.

Il cuore stava smettendo di battere. Lo sentiva sempre più lento nelle sue orecchie. Nel suo corpo.

Stava morendo.

Era morto.

Non era certamente come se l’era sempre immaginato.

Niente luce al fondo quando chiuse gli occhi.

Niente di niente.

Difatti, dopo poco, si rimise a respirare come se nulla fosse successo.

Riuscì a risalire fino a vedere la luna, ritornò a casa.

E da lì, gli incubi iniziarono.

 

Si accorse di star facendo pensieri peccaminosi. Decise di alzarsi.

Una goccia solitaria di sudore stava scendendo lungo la schiena, nonostante non facesse nemmeno così tanto caldo nella chiesa.

Il vento primaverile proveniva dalla porta aperta sul cortile del monastero, il vento risuonava tra le antiche pietre che gli stavano facendo da casa in quel preciso istante.

Erano passati cinque anni, ma la sua mente continuava a ricordare. Era stata opera del demonio, ecco perché si trovava lì.

Doveva ancora espiare i suoi peccati, ma era sulla buona strada. Andava in chiesa tutte le notti, conosceva bene tutti i modi per scappare dalla propria cella senza essere udito o visto, e come scrivano non era niente male.

Scriveva tutti i giorni fino a non sentire più le dita attaccate al corpo.

Era un bravo monaco, ma allora perché continuava ad essere perseguitato da quel demonio?

Come tutte le sere si alzò con quella domanda che gli ronzava ancora in testa, diretto verso le cucine.

Pentirsi gli faceva sempre venire appetito.

 

La cucina era sempre silenziosa, la notte. La luna arrivava rapida ad illuminare i piani da lavoro pieni di ingredienti per i pasti e attrezzi affilati, dando loro un luccichio sinistro mentre il ragazzo camminava sul pavimento risonante. Nonostante i sandali, i passi risuonavano pesanti attorno a lui. Era una sua “tradizione”, scappare nella cucina. Più di quanto fosse lecito per un bravo monaco.

Diciamo che aveva i suoi contatti tra i figli dei famigli, quei figurini piccini e magri che a volte sgattaiolavano tra le pareti austere per inseguire i loro genitori, sempre impegnati assieme ai monaci.

Passava sottobanco delle barbabietole ai marmocchi che piagnucolavano per la fame, oppure aggiustava giocattoli sempre cercando di non farsi vedere dall’abate o da suoi confratelli, e i cambio otteneva il loro silenzio, le loro chiavi.

Era un patto equo. Non molto onesto, o vicino alla sacralità o alla bontà propria di un servo del Signore, ma era un patto equo.

Era quello che importava, alla fine.

Le cucine erano un grande edificio nella parte superiore del monastero, quella più vicina al muro di cinta che separava quella che si poteva oramai considerare una cittadella vera e propria dalle ampie brughiere di era soffice come un cuscino dove pascolavano le bestie e dove crescevano gli alberi con l’aiuto di monaci e famigli, le quattro pareti a formare un rettangolo perfetto.

Aveva letto da qualche parte che anche la geometria può essere precisa, se presa con un certo criterio: il cerchio rappresentava la perfezione divina quasi quanto il triangolo, niente angoli, solo superficie piana e perfetta come il Signore. il quadrato –o rettangolo- rappresentava la Terra, con i suoi spigoli e angoli così imperfetti e umani, in un certo senso.

Se il cerchio rappresentava i piaceri divini, quindi, il rettangolo rappresentava quelli terreni. E come lo faceva bene!

Il tavolo di preparazione pareva un serpente immenso che abbracciava tutta l’ampiezza dell’edificio. La frutta, la verdura e le altre delizie erano sparse esattamente come gli oggetti di preparazione, mentre i grandi occhi dei forni lo osservavano giudicanti e provi di fuoco. Alle pareti, spezie e salami erano appesi come impiccati, lanciando ombre oscure sulle pareti.

Una porta portava al refettorio dei monaci dove, a discapito delle apparenze, non facevano di certo la fame.

Il ragazzo prese un grande e soddisfatto respiro, quasi a togliersi un peso dall’anima. La chiesa gli dava sempre quel senso di impotenza, complice il Crocifisso che spesso e volentieri pareva giudicarlo dall’alto della sua croce e le pareti che lo facevano sentire una formica di fronte a tutto quello che lo inglobava, ma in cucina? Lui era l’abate della cucina. L’imperatore dei formaggi, il regnante dei salami.

Per pochi istanti, solo quando era in quel luogo, riusciva a dimenticare il demone dagli occhi ambrati, convincendosi che fosse solo un brutto scherzo della sua mente.

Fece qualche passo verso il piano da lavoro, quando sentì uno strano movimento d’aria. Dei passi striscianti e dei respiri pesanti provenire dall’angolo in ombra, quello vicino al forno.

Non era solo, e questo fatto gli fece gelare il sangue. Chi mai poteva essere? Sicuramente l’abate, o qualche famiglio.

Era fregato. Non poteva fuggire, sicuramente l’aveva visto. Cosa poteva fare? Scusarsi? Inventare una scusa? Ma cosa? Ma cosa? Era andato a fare due passi? Era sonnambulo? Era totalmente impazzito?

In tutti casi, l’avrebbero espulso dal monastero per aver disubbidito alle regole dell’abate e di Gesù stesso, o peggio.

Doveva pensare in fretta, inventarsi qualcosa. Doveva fare qualcosa, qualunque cosa. La persona si stava avvicinando, ma perché aveva quel respiro affannato? E perché non aveva ancora detto il suo nome? Tutti nel monastero conoscevano il suo nome.

Non sapendo cosa fare, decise di stare zitto, aspettando con trepidazione il suo destino.

A vederlo, pareva veramente un ragazzino spaventato: il saio più grande di lui che gli copriva totalmente i piedi, e spesso lo faceva inciampare rovinosamente, mentre il volto incorniciato da capelli candidi come la neve era rosso dalla vergogna e dal terrore.

Tremava. Non sapeva cosa fare.

-Aziraphale- la voce che aveva pronunciato il suo nome non era conosciuta alle sue orecchie, ma non meno terrificante.

Era peggio di tutto quello che aveva immaginato in quei pochi secondi: uno sconosciuto non solo era entrato nelle cucine del monastero in piena notte, ma sapeva anche il suo nome. E probabilmente sapeva anche che sarebbe andato lì.

Aziraphale perse otto battiti in un colpo solo, ingoiando saliva a vuoto.

-Chi sei?- cercò di avere un tono calmo mentre sbarrava gli occhi, cercando di scavare nei ricordi per vedere se qualcuno in passato gli aveva detto cosa fare.

Gli venne in mente sua madre, quando aveva spiegato a lui e ai suoi fratelli cosa fare nel caso di assalto nemico: prendere un’arma e tenerla ben alta, nessuno è così idiota da non temere una persona che ha un’arma in mano e che soprattutto non ha la minima idea su come usarla.

Mentre individuava un grosso coltello da macellaio che aveva notato sul tavolo a pochi centimetri da lui, gli passò per la testa l’idea di chiamare l’abate, ma probabilmente era un’idea stupida.

Come avrebbe fatto a spiegare tutto il resto?

Alla luce della luna, apparve la figura, e in quel momento Aziraphale credette di essere morto e di essere arrivato direttamente all’inferno: era il demonio dei suoi incubi, sicuramente. I capelli, sotto la luna, sembravano davvero sangue raffermo, mentre gli occhi, quegli stupidi e dannatissimo occhi, erano ancora più brillanti, più simili a quelli di un serpente che a quelli di un essere umano.

Il biondo si sentì svenire per qualche istante, per poi allungare il braccio e prendere il coltello con le dita paffute. Se doveva morire, sarebbe morto combattendo contro un demonio, esattamente come un santo o un beato.

Quella prospettiva non sembrava troppo male, essere ricordato come un santo combattente, ma forse non era il suo caso. Era il momento di essere faccia a faccia con i suoi peccati, letteralmente.

Tuttavia, lo stregone in questione non sembrava avere niente di così demoniaco. La veste stracciata lo faceva sembrare più ad un orfanello che ad un servo del Diavolo. E i suoi movimenti fluidi ma allo stesso tempo cauti lo facevano assomigliare più ad un prete che ad una figura malvagia.

Non sembrava intimorito dal coltello, per nulla.

-Non devi temere, Aziraphale- nel cercare di stirare le labbra secche in un sorriso cordiale, mostrò una fila di denti brillanti come gioielli d’argento, terrorizzando ancora di più l’altro. -So tutto di te, so della storia del lago. Puoi fidarti di me, devi solo….-

-Taci, servo del male- sussurrò strozzato l’altro in risposta, cercando di mantenere un tono il più possibile basso. Non aveva proprio voglia di svegliare tutti i suoi confratelli. -Non c’è posto per te qui, in questo suolo sacro-.

Il sorriso del rosso si trasformò presto in una smorfia annoiata, come se ogni suo piano si fosse magicamente rovinato con quelle poche, semplici parole. -Senti, ragazzino- la sua voce adesso sembrava più un ringhio sommesso, e soprattutto il biondo non riusciva a cogliere quel “ragazzino” di mezzo. Insomma, parevano avere la stessa età!

-Non sono un ragazzino! Tu al massimo, cosa dovresti essere?!-

-Un persona, mi sembra abbastanza ovvio-

-Allora sei uno stregone!-

-Quella roba non fa proprio per me-

-Allora con quei capelli sei sicuramente un dolciniano!-

-Un dolci cosa?-

-Non ho paura di te, brutto mostro!-

Il rosso emise uno sbuffo decisamente spazientito, incrociando le braccia. -Io di ragazzini impertinenti come te posso giurarti che non ne ho mai conosciuti- borbottò, portandosi dietro le orecchie una ciocca di quel mare purpureo.

-Io non sono un ragazzino!- Aziraphale come risposta scandì bene quelle parole, come a coprire il disagio che stava provando.

Di quella situazione non gli stava piacendo nulla.

-Oh sì che lo sei- la risata dell’altro gli suonò come un gongolio irritato, il latrato di un vecchio cane a cui è stato rubato l’osso improvvisamente. - Sei un ragazzino piccolo e spaventato. Non hai una vera e propria paura di morire, solo...- lo squadrò da cima a fondo, lo sguardo giudicante. -Più che altro hai paura di svegliare le altre persone in questo posto. Insomma, un monaco che viene beccato in piena notte in cucina...-

-Taci-

-Mi ricorda quando sei caduto in quel lago, un po’ di anni fa…-

- Taci-

-Stavi cercando di scappare dalla bottega del salumiere perché stavi rubacchiando, vero?-

Aziraphale non poteva più tollerare. Era troppo. Era ora di reagire. Avanzò di un passo, brandendo il coltello alto sulla sua testa, pronto per colpire l’altro.

Il quale, stranamente, non sembrava affatto spaventato. Anzi. Era sereno, la lama sopra la sua testa a cui lui puntava come fosse incantato. Non era sorpreso. Sembrava abituato.

-Se uccidermi ti farà stare meglio, fallo- scrollò le spalle, allontanando la punta del coltello con il dito. - Seriamente, fallo- il suo sorriso quasi malato era brillante alla luce della luna –il coltello nella mia carne sarà come l’acqua nei tuoi polmoni, Azira- le sue parole diventarono un singhiozzo strozzato, mente la lama insanguinata usciva dalla sua pancia.

Cadde sul pavimento con un tonfo sordo, una pozza scura sotto di lui.

Aziraphale aveva appena ucciso un uomo.

Indietreggiò, sentendo tutta l’adrenalina uscire dal suo corpo in un solo lampo. Aveva appena ucciso un uomo. In un monastero. Con un coltello. Nella cucina.

A notte fonda.

Cosa aveva fatto. Cosa doveva fare. Il rombo del suo cuore nel suo cranio non voleva lasciarlo stare, l’odore del sangue gli stava facendo venire il voltastomaco.

Il respiro era pesante, l’ultima frase che gli ronzava ancora nelle orecchie. Aveva ucciso un uomo. Aveva ucciso un ragazzo, che non solo sapeva il suo nome. Ma sapeva del lago.

Sapeva troppe cose. E lui l’aveva ucciso.

Se già era inorridito, il suono della campana dall’altro lato del cortile gli fece arrivare il cuore alla punta dei sandali.

Stavano per arrivare i suoi confratelli.

Era solo.

Aveva commesso un omicidio.

Era un peccatore. Era un omicida. Sarebbe stato portato al tribunale. Sarebbe finito su una pira. Sarebbe morto.

O forse no.

Forse no.

Era sopravvissuto all’acqua, perché non sopravvivere anche al fuoco?

Doveva pensare in modo razionale, cercare di nascondere sia lui sia il corpo. Doveva agire in fretta, non aveva molto tempo.

Si diede uno schiaffo, il dolore per aiutarlo a pensare in modo razionale, dopodiché si avvicinò titubante al corpo morto.

Era un ragazzo giovane, i capelli che andavano a fondersi con il sangue della ferita ancora aperta.

Aveva davvero ucciso un uomo a sangue freddo?

Aveva davvero ucciso il suo incubo?

Si spostò una ciocca di capelli dal volto, decidendo da quale parte fosse più furbo prenderlo per trascinarlo verso il forno prima di scappare.

Scelse le gambe, scheletriche e attraversate da grosse vene bluastre, quando nell’avvicinarsi percepì altro movimento.

Dei respiri leggeri.

Inorridì, abbandonando la gamba al suolo come uno straccio e avvicinandosi al piano da lavoro. Era stanco di sorprese, forse sarebbe stato meglio restare nella propria cella.

-Oh, andiamo!- con dei movimenti scattanti, il rosso si alzò e inarcò la schiena, come se si fosse appena alzato dal letto. La ferita non c’era più, il foro nell’abito mostrava la pelle pallida e pulita.

Era resuscitato.

Era resuscitato davanti ai suoi occhi.

-Quando ti avevo detto di uccidermi non pensavo che tu fossi davvero in grado di farlo!-.

Aziraphale si abbandonò ad un grido, sentendo poi i passi e le parole degli altri monaci farsi sempre più vicine.

-Come hai…come hai fatto a...nel senso, io ti avevo...-

- Tecnicamente mi hai ucciso, sì- anche il rosso aveva sentito i monaci farsi sempre più vicini, rimanendo in allerta come una sentinella sulle mura della sua città –ma ci sarà il tempo per parlarne. Lontano da qui-. In un movimento rapido gli porse la mano, lasciandogli però il tempo di pensare alle alternative.

Se non scappava, i suoi confratelli sarebbero arrivati, l’avrebbero trovato. Denunciato.

E lui sapeva bene cosa succedeva a chi veniva denunciato dai monaci.

Però, se accettava di fuggire, andava incontro all’ignoto.

Ma non aveva molte alternative, quindi decise di prendere quella mano.

Era morbida, al tatto.

-Posso solo sapere come ti chiami?- chiese, il tono innocente che tradiva l’agitazione. I famigli erano a pochi passi dalla porta.

-Mi chiamo Ofide da Tebe, per tua informazione- una smorfia soddisfatta si dipinse sul volto dell’altro, come se avesse finalmente portato a termine la sua missione. -Ma in giro mi conoscono come Crowley-.

 

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Good Omens / Vai alla pagina dell'autore: sunonthesea