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Autore: JeanNott    11/08/2020    1 recensioni
"Credi che i seguaci di Grindelwald e i Mangiamorte siano stati i soli criminali ad avere alle spalle un'organizzazione? E se ti dicessi che è esistita, e io credo fermamente esista ancora, un'organizzazione criminale ancora più complessa nella struttura, ancora più efficace e segreta di tutte le altre? I babbani la chiamerebbero 'mafia'. E forse sarebbe il termine giusto, se non fosse che, in questa particolare mafia, non ci sono né pistole né bombe, ma bacchette magiche e incantesimi nuovi, misteriosi e oscuri."
Questa è la storia di un mondo magico visto da una nuova prospettiva, politica, economica e teorica.
È la storia di James Nott, fratello dimenticato di Theodore Nott, di Sheila Graves, la strega più prodigiosa del suo tempo, e di una legione organizzata di terroristi.
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Corvonero, Minerva McGranitt, Nuova generazione di streghe e maghi, Theodore Nott
Note: Otherverse | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nuova generazione, Più contesti
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L'uomo sul tetto

 

James sedeva con la schiena affondata nella poltroncina del treno. Tra le mani reggeva un libro mal rilegato, le cui pagine gialle mostravano i segni di un inchiostro scolorito. Lo aveva trovato a casa, sotto il letto, tra un paio di scarpe e alcune matite lasciate lì a prender polvere. Le lettere della copertina riportavano a caratteri cubitali il titolo: 'La fisica del nucleo magico - Dalle leggi di Waffling alle nuove scoperte'. Era un libro molto vecchio, e quelle 'nuove scoperte' in realtà si riferivano a leggi fisiche scartate da tempo dalla comunità di scienze della magia. Eppure, James credeva che tra quelle pagine si nascondesse chissà quale formula non rivelata, qualcosa di accantonato, o ignorato che doveva essere riportato alla luce. La sua ricerca era assidua. Leggeva libri su libri, riviste e articoli specializzati, prendeva parte alle più importanti conferenze sulla magia e partecipava attivamente al dibattito teorico. Aveva addirittura dato vita a complesse e innovative teorie sull'interflusso magico tra corpi, ma non aveva mai deciso di ufficializzarle, visto che lui stesso stentava a credere nella loro veridicità. A suo vedere, dovevano per prima cosa essere verificate sperimentalmente - cosa che lui, per mancanza di tempo e mezzi, non era riuscito a fare -. Non era facile conciliare l'insegnamento alla ricerca. Ma d'altra parte, non era forse stata una sua scelta? Insomma, nessuno lo aveva obbligato a prendere una cattedra ad Hogwarts.
 
I colleghi erano seduti nel suo stesso scompartimento, tutti intenti a sogghignare e a parlare del nuovo anno scolastico, dei nuovi e dei vecchi studenti combina guai. Alcuni di loro azzardavano un accenno ai fatti del giorno, mostrando una sincera perplessità sui nuovi provvedimenti ministeriali. Fu proprio a questo proposito che, suo malgrado, decisero di interpellarlo. 
"Lei cosa ne pensa, professor Nott?" chiese la nuova insegnante di Babbanologia, Doris Irvine. 
"Uhm?" rispose confuso, alzando gli occhi dal libro. 
"Cosa ne pensa del nuovo decreto?" gli ribadì lei. Aveva un'aria sinceramente incuriosita. Portava i capelli legati alla buona e alcuni ciuffi le sventolavano sugli occhi. La prima cosa che James notò, però, fu una macchia marroncina sulla sua gonna gialla, piccola, impercettibile e sicuramente fresca. James alzò lo sguardo sul portabagagli. Da una valigia trasudava chiaramente un liquido nerastro, non bene identificabile. Il bagaglio era sicuramente quello della donna, sia per l'aspetto, evidentemente trasandato, che per la posizione che occupava. Ci vollero pochi secondi per capire che ciò che stava colando era caffè, il resto seguì naturalmente.
"Le sta cadendo il caffè dal termos di metallo. Deve averlo chiuso male. Badi, il caffè può essere incredibilmente caldo, quindi le conviene spostarsi prima che il treno svolti bruscamente a destra e faccia cambiare traiettoria a quella goccia, se non vuole che questa le finisca dritta dritta nell'occhio." 
Le parole gli uscirono dalla bocca senza controllo, veloci e precise. Tutti guardarono in alto. La professoressa di Babbanologia si scansò subito e la grossa goccia si riversò tra le pieghe del sedile. Seguirono alcuni istanti di quiete, intervallati dal cicaleccio degli studenti. Subito dopo, la donna si alzò di scatto e, bacchetta alla mano, riparò al danno. 
"Oh oh oh, beh..." ridacchiò lei. Avevano tutti un'aria piuttosto divertita. Tutti tranne James, che continuò a conservare la sua espressione disinteressata. Nella sua testa stava ancora ragionando sulla formula dei quattro nuclei. Era decisamente difficile distrarlo dalle sue letture. "La ringrazio, professor Nott. Chissà cosa sarebbe successo se il caffè mi fosse finito nell'occhio!" continuò lei, ironicamente. A questo punto, un po' tutti presero a ridere, persino James accennò a un sorriso. 
"Allora, questa opinione? Ha già dimenticato la domanda?" lo incalzò scherzosamente Doris. Poi si mise di nuovo a sedere, mostrandogli ancora una volta il suo sguardo incuriosito e impaziente. 
James non sapeva come rispondere. Non è che non avesse delle opinioni al riguardo, anzi. Ma tra queste, quale sarebbe stata la più accettabile, alle orecchie degli altri? Decise di dare una veloce occhiata ai presenti, per cercare di fare chiarezza. 
Lumacorno era seduto dal suo lato dallo scomparto, stretto tra lui e un'altra insegnante, con la sua faccia rubiconda e il sorriso sornione. Non sembrava mostrare il benché minimo interesse per l'argomento. Dopotutto, era solo lì di passaggio. Questione di qualche minuto, infatti, e avrebbe sloggiato dall'uggiosa cerchia degli insegnanti per sedersi tra i suoi tanto amati e vispi studenti. 
Alla destra di Horace, era seduta Aurora Sinistra, che, a differenza di quest'ultimo, aveva sempre riservato uno sguardo attento alla faccenda, mostrando un certo interesse. Non era chiaro quale fosse la sua opinione in merito, ma James non riusciva a vederla come estrema, tanto era dolce e assertiva la sua indole. 
Davanti a sé, invece, a fissarlo v'era lo sguardo di gran lunga più acceso e accigliato di Vitious. Il suo doveva essere un punto di vista piuttosto radicale, ma in quale senso? 
E infine, Doris Irvine, la nuova insegnante, che aveva mostrato fino a quel momento una personalità solare e socievole e una forte propensione al dibattito. Con lei si andava sul sicuro, perché la sua idea stava certamente nel mezzo. 
 
James si decise a parlare. Posò definitivamente il libro e si spinse un po' in avanti col busto, verso Doris. "Io non credo che sia stato fatto un buon lavoro. Se si dimezzano - sì, perché è giusto che si parli di un netto dimezzo - i fondi destinati all'Ufficio Applicazione della Legge sulla Magia per una 'più equilibrata distribuzione dei servizi' si perdono importanti risorse sulla sicurezza che non possono essere negate, né a noi maghi, né ai babbani. Pensiamo alla notevole importanza che ha il controllo e la regolazione di posti affollati come King's Cross. Sapete quanti babbani circolano tra i binari e quanti maghi sono lì, diciamo sotto copertura, sia oggi, primo settembre, che tutti gli altri giorni? Credo lo sappiate, sono innumerevoli. Per la precisione, nel weekend, sono circa centomila nell'arco della giornata. Oggi saranno stati... centotremila o giù di lì, certamente. E gli Auror? Quanti ce ne erano oggi e quanti ce ne sono stati dopo il nuovo decreto? Li avete contati? Io sì, oggi sì. Uno. Non è stato difficile avvistarlo tra la folla, lo conosco: Craig Thompson. Era all'entrata della stazione. Io credo che, in giorni meno affollati, di Auror non ce ne sia nessuno. Di norma, per questione di mera sicurezza e prevenzione, in luoghi affollati in cui la circolazione di maghi sia o superi il dieci per cento in sessanta minuti sulla somma totale dei civili, deve esserci un Auror ogni cento persone. Ora, questa regola resta invariata, ma calano i fondi e non c'è modo di rispettarla? Ridicolo. A me non sembra una cosa accettabile. Per non parlare del fatto che, a mio parere, questa presunta redistribuzione non è che un pretesto per arricchire gli uffici interni, almeno del..." si fermò riflettere, "sì, ecco, dell'uno per cento in più rispetto agli scorsi anni. Direi che non c'è molto da dire, al riguardo: pessima mossa." 
Alla fine, si era deciso a dire la sua sincera opinione. Anche se, ne avesse avuto l'occasione, avrebbe preferito elencare tutti i casi più eclatanti di negligenza ministeriale, tenendo il conto, tra questi, di quelli legati alla sicurezza. E avrebbe potuto, senza ombra di dubbio, fare un breve calcolo e risalire alla percentuale di incidenti annui in funzione dei fondi stanziati al dipartimento Auror. Lo aveva fatto? No. Ci aveva pensato? Solo lontanamente: ma non era proprio il caso. Tuttalpiù, si era limitato a concludere, chiaro e conciso, giusto per riportare il discorso sulla retta via, quella bramata segretamente da tutti i suoi colleghi, quella a cui tutti speravano sarebbe arrivato, la più egoista, il vero motivo per cui gli avevano chiesto la sua opinione: 
"E comunque, per inciso, a me non dispiace essere qui obbligatoriamente e gratuitamente in funzione di Auror, tanto ci sarei salito comunque, sul treno. Mi turba solo il motivo per cui io debba esserci per forza: la negligenza, il non essersi presi neanche la briga di assicurare un Auror al binario nove e tre quarti. Ecco, questo. Questo mi dà terribilmente noia."
Aveva parlato per così tanto tempo e in maniera così specifica, che probabilmente molti avevano perso il filo del discorso e non sapevano come replicare. O almeno, così credeva. Perché quando finì di parlare, a sorpresa, ogni professore sembrava coinvolto. Lumacorno, addirittura, rimase lì appositamente per partecipare alla disquisizione. 
James non se n'era reso conto, ma era sempre stato un ottimo oratore. Lui credeva di essere tedioso, troppo matematico, in un certo senso anche pedante. In verità, quando parlava sinceramente, di argomenti a lui cari e di cui era appassionato, la voce gli si modellava di forti ed eccitati toni, quasi teatrali, che riuscivano a catturare l'attenzione anche del più disattento degli ascoltatori. Questa era la chiave, a lui sconosciuta, del suo successo da insegnante. 
 
 Il resto del pomeriggio passò velocemente. James alternava delle brevi visite agli altri vagoni del treno, a intense sezioni di lettura e studio, concedendosi qua e là qualche chiacchierata con i colleghi, la cui compagnia trovava tutto sommato piacevole. 
Il discorso sui provvedimenti ministeriali si era andato spegnendo man mano. A questo, si erano sostituiti argomenti più leggeri come il Quidditch e il torneo nazionale degli Scacchi dei Maghi, il cui dibattito non aveva visto James un granché coinvolto. Quando si finì per parlare di musica, però, James non solo decise di non partecipare al discorso, ma cercò in tutti i modi possibili un pretesto per sgattaiolarsene via. Non è che la musica non gli piacesse, anzi. Ma era facile prevedere cosa sarebbe accaduto, e lui non avrebbe mai acconsentito a suona- 
"James, ragazzo, l'hai portata la chitarra?" chiese improvvisamente Lumacorno. 
Ecco qua, proprio come aveva previsto. Certo che l'aveva portata, la chitarra. Era nel bagaglio sopra la sua testa, lucidata e accordata, pronta per essere suonata. Ma non poteva farlo lì, non sul treno. Bensì nella sua stanzetta, ad Hogwarts, tra le solide e impenetrabili pareti di pietra del castello, dove nessuno avrebbe potuto sentirlo. 
"Ehm... Allora..." borbottò James, cercando di prendere tempo. Forse poteva provare a mentire - qualsiasi cosa, pur di non suonare davanti a tutti -, ma Lumacorno non gli avrebbe mai creduto. In verità, l'unico modo per evitare la cosa era di non avercelo proprio, lo strumento. 
Purtroppo quella mattina, quasi istintivamente, l'aveva rimpicciolito e messo in valigia. Da studente lo faceva sempre, proprio per evitare di andarsene in giro con un'enorme custodia a forma di chitarra. Da professore, ogni volta che decideva di salire sull'espresso, quel gesto banale di ridurre le dimensioni dello strumento prima della partenza, gli era rimasto come vizio.
Ed ecco spiegato il motivo della fatale distrazione: la maledetta abitudine. 
"Professor Lumacorno, vede... io ce l'ho. L'ho portata, ma..." 
Non fece in tempo a pensare cosa dire per cercare di salvare il salvabile che, senza alcun preavviso, la professoressa di Babbanologia balzò in piedi, quasi urlando: "Lei ha una chitarra?!" 
James sorrise, più imbarazzato che altro. C'era da aspettarselo, ma santo cielo: che reazione!
"Oh, ma certo che ce l'ha!" rispose al suo posto Lumacorno, dandogli una forte pacca sulla spalla. "Quante volte, quando ancora sedeva nel vagone dei Corvonero, ha suonato per me e i suoi compagni, allietando il viaggio!" 
"In realtà pochissime..." commentò James, tra sé e sé. Nessuno sembrò farci caso. 
Doris Irvine prese di nuovo posto, nel tentativo di contenersi, ma era palese fremesse dalla curiosità. Poi chiese, forse solo per formalità: "Come mai suona questo strumento? È un nato babbano, forse?" 
Era una domanda piuttosto ingenua. Il cognome Nott non era quello di una normalissima famiglia di babbani. 
"No, no. Non lo sono", questa volta, l'imbarazzo era palese. Si sentiva la guance ardere dalla vergogna. Come era possibile non aver mai sentito parlare del cognome Nott? Eppure era convinto che in quel vagone lo conoscessero tutti. Per generazioni e generazioni, la sua famiglia non aveva mancato di far parlare di sé, e non di certo per motivi di cui andare fieri. Solo due anni fa, o giù di lì, suo fratello era stato arrestato. Anche se, bastava dare una scorsa all'elenco mal stilato (guarda caso da un certo Nott) sulle famiglie Purosangue, per leggere il suo cognome. Evidentemente la Babbanologia doveva essere l'unica vocazione di Doris. 
"Lo chiedo perché è curioso trovare un mago che sappia suonare la chitarra e che ne possegga una! Sicuramente uno dei suoi genitori deve averle insegnato a..." 
A quel punto fu James ad alzarsi di scatto. 
"Ma perché non gliela faccio vedere direttamente, questa chitarra?" 
L'istante a seguire, dopo aver preso con una velocità spiazzante la chitarra dalla valigia, James era seduto, con la cassa armonica dello strumento appoggiata sulle cosce. Gli occhi di Doris Irvine presero a luccicare come stelle: "Ma è bellissima!"
Inutile dire che, finite le domande incalzanti della professoressa Irvine sulla fattura, la marca, la qualità, l'anno d'acquisto della chitarra e delle sue corde, a James fu chiesto di scegliere un brano a suo piacimento e suonarlo. Quando accettò, ormai rassegnato, tutto lo scompartimento emise un gridolino di gioia. L'unica sua speranza, ora, era di non attirare troppo l'attenzione degli studenti. 
Posò le dita della mano destra (era mancino) sui tasti della chitarra e pizzicò lievemente con l'anulare sinistro il Mi cantino. Fece lo stesso con le altre corde, accertandosi che fossero intonate. Tutti erano impazienti e fremevano dalla voglia di sentirlo. James, tuttavia, non sapeva cosa suonare. Un po' come accadde per il discorso sui provvedimenti ministeriali: era pieno di idee, ma quale scegliere? Poi, qualcosa gli balenò in testa. Qualcosa che gli fece piegare le labbra in un sorriso, ma che lo riempì, allo stesso tempo, di tristezza e malinconia. 
Erano passati dieci anni, da quella notte maledetta. Quel giorno, sul quel treno, doveva esserci una persona per cui avrebbe intonato volentieri quella melodia. E forse era per questo che, quella mattina, ingenuamente, aveva preso la chitarra: per dedicare una canzone a chi non c'era. 
Il primo accordo, in tonalità minore, vibrò nel legno mogano della chitarra. E poi la voce, un po' rauca, ma intonata e greve, uscì dalla sua gola, come un soffio. 
 
"Se potessi far qualcosa, 
la notte non sarebbe così nera 
e il cielo si fermerebbe alla sera. 
E della tempesta rumorosa, 
che tanto strilla e tanto fa macello, 
ti arriverebbe solo il canto dell'augello. 
 
Se fossi io il prescelto, non ci sarebbe più il male 
e il bene non potrebbe più scappare. 
E il mostro sotto il letto, 
che tanto è grosso, che tanto ti spaventa, 
andrebbe via a luce spenta. 
 
Ma questo io non posso 
E questo io non sono. 
È il solo, il mio unico rimorso. 
 
Ma questo io non posso, 
e questo io non sono. 
È il solo, il mio unico rimorso. 
 
Se potessi io col vento, 
tornerei indietro con te nel tempo 
A scoprire un nuovo mondo, un nuovo regno. 
E questo mio canto,
la ninna nanna, senza pianto, 
suonerebbe ancora, di tanto in tanto. 
 
Se fossi ancora lì presente, 
tra le mie braccia, strette strette, 
ci staresti tu, stella ridente. 
E la vita quella persa, tra uno scoglio e una pietra, tornerebbe indietro anche quella. 
Tornerebbe anche quella. 
 
Ma questo io non posso, 
e questo io non sono. 
È il solo il mio unico rimorso. 
 
Ma questo io non posso, 
e questo io non sono.
È il solo, il mio più grande rimorso. 
 
Ma se ancora tu ricordi, 
e se ancora tu mi sogni, 
sappi che questo posso, 
sappi che questo sono. 
 
Sappi che questo posso, 
sappi che questo sono." 
 
La canzone andò a sfumare piano piano, con una breve successione di accordi. Tutti applaudirono. 
Lumacorno stava piangendo come una fontana e Vitious si stava soffiando il nasino con un grosso fazzoletto. Sinistra sembrava volesse stringerlo in un caldo abbraccio. Quanto alla nuova professoressa di Babbanologia, lei era commossa solo dal prestigio tecnico. "Ma è meraviglioso, meraviglioso!" continuava a ripetere, scuotendo il capo in segno di stupore. 
James era ancora tutto assorto dalla canzone. Non riusciva a smettere di pensare all'uomo che l'aveva scritta, alla fine terribile che aveva fatto e alla persona a cui più spesso la cantava. 
Fuori dalla porta, intanto, si erano raggruppati una decina di studenti, richiamati dal suono della canzone. Molti si sporgevano, cercando di vedere. Ma spaventati dall'occhiataccia severa che il professor Nott gli aveva lanciato - vedendoli lì, tutti in piedi, che si facevano beffe del buonsenso -, decisero di allontanarsi, mogi mogi. Rimase solo una ragazzina, mingherlina e bassa, con il viso smunto la carnagione pallida e due occhi celesti, fissi su quelli di Nott. 
James non mosse un muscolo e rimase lì, a fissarla anche lui: c'era qualcosa di magnetico, nel suo sguardo. Quando lei si allontanò, a lui venne da pensare che fosse del primo anno, perché non l'aveva mai vista. 
 
 Sheila fece ritorno nel suo compartimento. 
"Dove sei stata?" le chiese il ragazzino che aveva di fianco, quando si fu seduta. 
"C'era un professore che suonava, non l'hai sentito?" 
"No, non ho sentito niente, con questi qua che facevano casino", bofonchiò lui sottovoce, visibilmente irritato. Davanti a Sheila e a Louis, sedevano due ragazzi molto più rumorosi e molto più grandi di loro. Stavano giocando ad un gioco con le biglie, che sembravano prendere poco seriamente. 
"Ma non vedi quello che fai?" 
"Cosa? Sei tu lo scemo che tiri dal lato sbagliato." 
"Sì, e tu potresti anche evitare di muovere il tuo culo e farle cadere dal sedile." 
"Ora la scusa è il mio bellissimo fondoschiena, per il tuo pessimo gioco? La prossima volta cosa sarà? Il mio ca-" "Zitto! Ci sono i bambini, deficiente." 
I due eruttarono in una risata fragorosa, alternata da alcuni "Scusate! Scusate!" decisamente ironici. 
"Di che anno avete detto che siete?" chiese infine, dopo essersi ripreso, quello più alto e con i capelli biondi. 
"Del primo anno", rispose Sheila. 
Louis, l'altro ragazzino del primo, era così timido da non riuscire neanche a guardarli in faccia. 
"Oh, no. Carl, sono troppo piccoli anche per la parola culo!" disse l'altro. E i due ripresero a ridere come matti, rotolandosi sulle poltroncine. 
 
 Passarono alcuni minuti, prima che si ristabilisse il silenzio. Nel frattempo, Sheila si era messa a sfogliare il testo di Pozioni del primo anno. Gli aveva dato una letta generale durante l'estate, quando poteva, e aveva trovato parecchio interessante il vasto mondo di ingredienti magici e il vasto utilizzo che se ne poteva fare. Anche se, da quello che le era sembrato di capire, la materia era simile a quella babbana, la Chimica. Ma, in fondo, non c'era niente di babbano in quel mondo, forse non avrebbe dovuto preoccuparsi. 
La realtà babbana era noiosa, ottusa, monotona. I comuni mortali erano banali, ripetitivi, beceri e grigi. 
'Grigi' era il termine giusto. Il mondo, senza la magia, era grigio. Lei sapeva dell'alternativa, conosceva quell'universo colorato, fatto di incantesimi e creature magiche. Era tutto dentro di lei. Eppure, non le era mai stato concesso di esprimerlo, di liberarlo dalle catene in cui era costretto. Avevano sempre cercato di farla affogare in quella monotonia, in quel grigiume, cercando di spegnerla, di soffocarla, fino all'esasperazione e alla rassegnazione, e c'erano riusciti. Le avevano promesso l'arcobaleno, un giorno, in cambio di un piccolo sacrificio, quello di rinunciare, fino agli undici anni, di dare sfogo alla sua magia. Le avevano detto che, un giorno, a partire dal momento in cui avrebbe messo piede su quel treno, avrebbe avuto modo e occasione di indirizzare tutto ciò che aveva represso, di controllarlo, dominarlo in libertà. Dominazione e libertà, due termini completamente opposti che aveva imparato ad accettare, ma che la lasciavano ancora parecchio perplessa. 
Louis, a differenza sua, non sembrava altrettanto felice di essere lì. Quando Sheila gli chiese, durante le prime ore del viaggio, quale fosse la materia che più desiderava studiare ad Hogwarts, Louis le rispose con voce neutra, quasi come se si fosse preparato la risposta a casa, per svolgere il compitino. Aveva detto: "Penso sia Incantesimi". La quale era, effettivamente, una delle risposte più banali e scontate che si potessero dare, soprattutto se pronunciata con quel tono di voce e con la luce spenta negli occhi.
Era come se Louis fosse incapace di meravigliarsi del mondo magico, come se non ne fosse coinvolto in prima persona. La sua era una famiglia Mezzosangue, madre strega e padre mago. Non c'erano paragoni, perciò, tra lui, che aveva sempre vissuto in quel mondo, e lei, che invece ne era sempre stata allontanata. Tuttavia, come si poteva negare che quella realtà, oscura anche agli occhi di chi la conosceva meglio, non fosse tanto vasta, tanto eclettica e affascinante da affamare il più sazio tra i sazi, meravigliare il più saggio dei saggi? Quella vastità di cose, quel mistero mai svelato, agli occhi di un qualsiasi studente del primo anno, doveva essere tanto impressionante quanto lo era per lei. 
Ma non era il caso di Louis. A lui pareva mancasse qualcosa. Forse una motivazione, forse un sogno o un'ambizione. Oppure, c'era qualcosa che lo turbava; qualcosa che lo turbava profondamente e che gli impediva di guardare con occhi di ammirazione il mondo magico. 
 
Il viaggio stava per giungere al termine. Louis e Sheila, un po' assonnati, avevano abbandonato la testa lui sullo schienale del sedile, lei sul freddo vetro del finestrino. I ragazzi del quinto anno, invece, non sembravano affatto provati dalle lunghe ore passate a urlare e giocare, ma avevano comunque deciso di riporre le biglie e di prepararsi per l'arrivo al castello. Per fortuna, ora si erano messi chiacchierare un volume di voce decisamente sopportabile. Stavano discutendo di un certo esame che si sarebbe tenuto durante il loro anno e per cui Greg, quello più basso e dai capelli scuri, diceva di essere già pronto e di non avere paura. Entrambi indossavano delle casacche nere, ma Sheila notò, senza difficoltà, che erano diverse. Carl, ad esempio, ne indossava una dalle rifiniture gialle, mentre quelle di Greg erano rosse. Carl aveva cucito sul petto un simbolo giallo raffigurante un piccolo tasso, Greg ne aveva uno raffigurante un'appariscente creatura dorata, che pareva un leone. 
Sheila, che spesso non sapeva resistere alla sua prepotente curiosità, decise di chiedere loro a cosa fossero dovute quelle evidenti differenze. I due quasi non la sentirono, ed erano più che pronti ad ignorarla bellamente. Poi Carl, a sorpresa, facendo segno a Greg di tacere un attimo, decise di risponderle. 
"Sono diverse perché dipende dalla Casa in cui ti mettono, no?" 
"Quale Casa?" rispose Sheila, sentendosi stupida. Eppure era convinta di sapere tutto sulla scuola. 
"Ma non eri figlia di maghi, tu?" 
Sheila preferì non rispondere. 
"Allora, ci sono solo due Case," intervenne Greg, "le più belle, Grifondoro e Tassorosso. Sono la mia e quella di Carl, praticamente." 
"Greg, stai zitto..." 
"Pooooi ci sono due, come si potrebbe definirle...? Sottocase! Ci sono due Sottocase. Serpezecche e Corvoèmo. Ci vanno tutti i sottomaghi, insomma, i meno abili..." 
Carl stava cercando di contenere le risate, ma non avrebbe resistito a lungo. 
"Greg, no!" 
"Zitto! Poi, se proprio siete tardi e incapaci, finite nella Casa degli elfi domestici a fare gli inservienti e a pulire i cessi. Ecco." 
I due presero di nuovo a ridere come matti, ma, fortunatamente, questa volta durarono poco. Forse, in fondo, erano stanchi anche loro. 
"Lasciate perdere Greg," disse Carl con le lacrime agli occhi, "purtroppo è scemo." 
Greg prese a sogghignare. 
"Stavo dicendo, prima che venissi interrotto, che ci sono quattro Case. Grifondoro, Tassorosso, Corvonero e Serpeverde. Ci finite in base alle vostre caratteristiche caratteriali, non in base alle vostre abilità da maghi. Ti mettono in testa un cappello, il Cappello Parlante, e quello fa la sua scelta. E, per rispondere alla tua domanda, ogni Casa ha un suo colore e un suo simbolo, quindi ci sono quattro diverse uniformi per Casa." 
Era un concetto semplice. Perché nessuno glielo aveva spiegato prima? Forse non lo avevano ritenuto importante. 
Louis, ovviamente, non sembrò minimamente colpito dal discorso di Carl. Probabilmente sapeva già tutto e forse aveva anche in mente in quale Casa sarebbe finito. Sheila no, lei non ne aveva idea. Anche se, a giudicare dal carattere di Carl e Greg, vi erano poche probabilità che il Cappello la mettesse in Grifondoro o in Tassorosso. 
"Tu e il tuo amichetto, secondo me, siete o Serpeverde o Corvonero. È chiaro!" concluse poi Carl. 
Sheila non poteva che asserire, almeno per quanto la riguardava. Ma non poteva parlare per Louis, il quale, se fosse esistita, probabilmente avrebbe scelto di entrare nella Casa degli elfi. In più, non lo conosceva affatto. Si erano incontrati per la prima volta sul treno e, entrambi, avevano preferito starsene sulle loro, senza chiacchierare troppo. 
 
 La conversazione sarebbe potuta finire là. Mancavano venti minuti all'arrivo e nessuno aveva intenzione di allungare il brodo per far passare il tempo. Però, Sheila aveva ancora una domanda. Era una domanda forse ancora più stupida e ingenua della precedente, ma che non la lasciava in pace da giorni. Magari, quei due ragazzi le avrebbero saputo rispondere. Approfittò del silenzio che si era creato e chiese, molto imbarazzata: "Scusate ma... ma perché anche ad Hogwarts sono obbligatorie le bacchette?" 
Questa volta, i due non risero. La domanda era davvero così strampalata che nessuno, neanche Louis, sapeva che faccia fare. 
"Scusa, puoi ripetere?" chiese Greg, credendo di non aver capito. 
"Perché ho dovuto acquistare per forza una bacchetta? Mi hanno detto che è obbligatoria, ad Hogwarts." 
Neanche un Nato Babbano avrebbe posto una domanda del genere. E persino i babbani lo sapevano: i maghi fanno le magie con le bacchette magiche. La risposta non tardò ad arrivare. 
Carl e Greg parlarono quasi all'unisono: "Ma scusa, come si fa a fare magia senza?" 
Louis aveva preso a guardarla, tutto accigliato. Forse la credeva scema. 
"Ah," esclamò stupita, "perché, non si può?" 
"Eh, no. No che non puoi," disse Louis, diligentemente, "come fai? Non puoi lanciare gli incantesimi, altrimenti. Quando i ragazzini come noi fanno magia, prima di Hogwarts, non riescono a controllarsi. È, come dire, tutto casuale. Sono incantesimi casuali, come delle esplosioni improvvise di magia. Per questo si viene ad Hogwarts, proprio per imparare ad evitare questi eccessi, a controllare il potere magico e a indirizzarlo nella bacchetta. Solo pochi, pochissimi maghi, stregoni molto vecchi e molto esperti, possono farne a meno." 
Gli altri convenirono con un cenno del capo, ma Sheila non sembrava affatto convinta. Quindi, continuò, imperterrita: "Mi sembra strano. Voi non riuscite proprio a lanciare incantesimi, senza bacchetta?" 
"Ma certo che no!" risposero Carl e Greg, questa volta davvero all'unisono. 
A quel punto, Sheila si alzò. Tirò giù la sua valigetta, ne trasse fuori un libro e si rimise a sedere. Tutti seguirono i suoi movimenti con gli occhi. Il libro, in realtà, si rivelò essere una specie di agenda, da cui la ragazza decise, senza problemi, di strappare una pagina vuota. 
"Ora vi faccio capire cosa intendo, quando vi dico che mi sembra strano." 
Nessuno sapeva cosa aspettarsi. Magari, sul foglio c'era scritto qualcosa che non si riusciva bene a leggere. Qualcosa, qualche teoria che li avrebbe smentiti. O forse il foglietto non c'entrava niente e, chi lo sa, Sheila voleva mostrare loro un'immagine che non riusciva trovare. O, più semplicemente, quella ragazzina, forse un po' tonta, stava per mostrare qualcosa di stupido. Forse era solo uno scherzo. Ci si poteva immaginare di tutto, ma non che quel foglietto, sospinto da non si sa quale forza invisibile, iniziasse a levitare. Ma che dico - levitare? - a volare! Per tutto lo scompartimento, in basso, in alto, a destra e a sinistra. Il foglietto roteava, faceva la trottola, era a festa! mentre gli occhi di Sheila, tutti concentrati, lo seguivano, o meglio... No, non era possibile, pensarono. Non era possibile che fosse lei, che fosse proprio lei, con il movimento dei suoi occhi azzurro intenso, a guidarlo, a far fare quelle cose a quel pezzo di carta. 
"Tu dici che non si può controllare la magia senza bacchetta, Louis. Ma vedi? Certo che si può!" 
Dette quelle parole, Sheila fece un vistoso segno con la mano e il foglio si bloccò, improvvisamente, davanti agli sguardi attoniti di Carl, Greg e Louis. Poi, sempre seguendo la sua mano, se ne ritornò volteggiando tra le pagine dell'agenda. Nessuno riusciva a credere ai proprio occhi. 
Sheila continuò parlare, spiegando che fin da piccola, quando era a casa di qualche mago, non si faceva problemi a usare la magia. Certo, doveva sempre farlo di nascosto, visto che non le era permesso, ma non era un grosso ostacolo. Di solito chiedeva di andare in bagno o approfittava di una stanza vuota, quando tutti erano usciti. A quel punto, senza bacchetta e niente, faceva volare qualche oggetto, lo rompeva e lo aggiustava, lo rimpiccioliva e lo ingrandiva, lo attraeva e lo allontanava da sé. Di solito, se tutto andava come doveva andare, non la notava anima viva. 
E poi, aggiunse, a lei non era certamente mancato di far caso all'uso incessante che i maghi facevano della loro bacchetta, ma si chiedeva, appunto, se non fosse solo un'abitudine, o una specie di legge, quella di usare solo ed esclusivamente quella. 
"Sinceramente," disse infine, "quando sono venuta a sapere che anche ad Hogwarts era indispensabile portarsi una bacchetta, ci sono rimasta un po' male. Anche perché, se devo dirla tutta, con quell'arnese non riesco a fare nessuna magia." 
I tre ragazzi non avevano spiccicato parola per tutto il tempo. Louis aveva il volto contratto in una smorfia di stupore. Carl e Greg, invece, sembravano più spaventati che altro. 
"S-cusa... Ma sai almeno c-che incantesimo è, quello che hai l-lanciato?" balbettò Carl, facendosi coraggio. Ovviamente, Sheila non lo sapeva e rispose di no. Non conosceva l'incantesimo Wingardium Leviosa e, a dirla tutta, non aveva neanche idea di come si pronunciasse "Wingardium Leviosa". Non conosceva Accio e Depulso, né tantomeno gli altri incantesimi, Reducio e Engorgio. E non credeva servissero ben due formule magiche per rompere un oggetto e per ripararlo. Sheila sembrava completamente all'oscuro di tutto e allo stesso tempo capace di qualsiasi cosa. Ignorante e colta. Babbana e strega. Nero e bianco. Mancavano dieci minuti e il treno si sarebbe fermato, ma le menti di Carl, Greg e Louis erano completamente in subbuglio, pronte per un nuovo viaggio.
 
Il primo fu Greg, poi, a seguire, furono Carl e Louis. Le chiesero di rimpicciolire una valigia, di ingrandire una matita, di far cambiare colore ai loro libri, di far volare le caramelle direttamente nella loro bocca. Le chiesero ogni cosa possibile e immaginabile, cercando di trovare un limite in quello che Sheila sapeva fare, ma non lo trovarono. Solo quando Greg le chiese di fare apparire delle Cioccorane, Sheila fallì. Non che qualcuno si aspettasse il contrario: il cibo non poteva essere creato dal nulla. Era uno dei principi fondamentali della magia, le dissero. 
Dopo un po', vedendo che gli altri non davano segno di volersi fermare con le loro assurde richieste, Sheila troncò il tutto dicendo di essere esausta. E non stava mentendo. Era davvero distrutta, ma non tanto dall'intero viaggio, solo da quegli ultimissimi minuti. Si sentiva prosciugata di tutto il suo potere magico, come se, da quel momento in poi non sarebbe più stata in grado di lanciare un singolo incantesimo, come se si fosse trasformata, di punto in bianco, in una Magonò. Nessuno se la sentì di insistere. Ma a nessuno, in primo luogo, sarebbe mai venuto di chiedere a quella ragazzina tanto fragile di costituzione, tanto pallida in volto, di far ciò che pur aveva fatto, con tanta maestria da fare invidia al più abile degli stregoni. 
 
 Era questione di minuti e l'altisonante voce del capotreno avrebbe chiesto a tutti i passeggeri di lasciare le valigie nei portabagagli e di scendere. 
Le carrozze della locomotiva a vapore erano stranamente silenziose. Il forte cicaleccio del primo pomeriggio era stato sostituito da un più sommesso bisbiglio. Ogni studente fremeva dalla voglia di scendere, ma solo pochi trovavano le forze di dar voce al loro entusiasmo. 
Nel vagone dove sedevano anche i professori, non si sentiva volare una mosca. L'unico che ancora si ostinava a parlottare era Horace Lumacorno. 
In quella stessa carrozza, immersi in un silenzio quasi contemplativo, stavano un professore e una studentessa. Lui, grande esperto di teoria della magia, tutto immerso nella lettura delle ultime pagine di un libro sui nuclei delle bacchette. Lei, grande esperta forse solo della saga letteraria di Sherlock Holmes, e il suo piccolo, curioso talento, che contraddiceva tutto ciò che era mai stato detto sulla magia. Lui che aveva appena corretto a matita la frase scritta in inchiostro 'Il potere magico varia per qualità e non per quantità' nel suo contrario. Lei che aveva appena riscritto l'intero libro, semplicemente esistendo. Lui con la testa china sul saggio. Lei con la guancia premuta sul finestrino. 
A guardar bene ogni scompartimento di quella carrozza, nessuno aveva la testa china su un libro, se non James Nott. E nessuno aveva la guancia premuta sul finestrino, al di fuori di Sheila Graves. 
C'era qualcuno, invece, che non stava né dentro con gli altri, né fuori da solo. Ma all'insaputa di tutti, se ne stava sul tetto del treno, camminava sulle loro teste e saltava da un vagone all'altro. Da quanto tempo era lì? E chi poteva dirlo? Nessuno, perché nessuno sapeva che ci fosse. Ma soprattutto, nessuno era al corrente del fatto che, ad un certo punto, l'uomo si era fermato, aveva smesso di correre tra una carrozza e l'altra, aveva dato un colpetto con il legno della sua bacchetta al solido metallo della locomotiva, ed era sparito nel nulla. Eppure, benché tutti ne fossero totalmente ignari, non ci volle molto affinché qualcuno notasse gli effetti di quel piccolo gesto. 
L'orecchio sinistro di Sheila, direttamente premuto sul vetro della finestra, udì un forte crack. La ragazza balzò in piedi. Il vetro era completamente crepato, pronto a collassare su se stesso, dall'esterno all'interno. Questo fu per un istante così breve che né Carl, né Greg e né Louis fecero in tempo a notarlo. L'istante dopo il vetro si ruppe. Si sentì un rumore fortissimo e le schegge di vetro schizzarono come proiettili. Anche nello scompartimento dei professori era esploso il vetro della finestra. In realtà, a collassare erano state tutte le finestre della carrozza. Ma le schegge si erano fermate a mezz'aria, al momento giusto, nel punto giusto, senza ferire nessuno. O quasi. 
Quando Louis aprì gli occhi, sbirciando tra le dita delle mani con cui si era coperto la faccia, la prima cosa che vide fu l'infinità di pezzi di vetro sbrilluccicare alla luce del tramonto. Tutte le schegge, dalle più grandi alle più piccole, erano sospese per aria, immobili e feroci. A pochi centimetri di distanza dal varco della finestra, immobile come il vetro in aria, si ergeva Sheila, con le ginocchia un po' piegate e il braccio destro proteso in avanti. 
"S-Sheila?" balbettò il ragazzo. 
Ma Sheila non rispose. Era come pietrificata. Sicuramente era stata travolta dalle schegge. 
"Sheila, stai bene?" continuò Louis. 
Sheila non disse una parola. Poi, d'un tratto, le gambe le cedettero e lei cadde. Appena toccò il suolo, tutti i frammenti di finestra, nessuno escluso, precipitarono a terra, come pioggia.
   
 
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