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Autore: QueenOfEvil    15/08/2020    0 recensioni
Prima che Aa perdesse due dei suoi tre occhi. Prima dell'ultimo verobuio. Prima della Profezia.
Mia era senza alcun dubbio "una ragazza con una storia da raccontare".
Ma, vedete, gentili amici, quella definizione poteva benissimo valere anche per i suoi genitori.
"Julius non aveva mai visto qualcuno morire quando, a sei anni non ancora compiuti, Atticus aveva deciso che era il momento per lui di assistere al suo primo venatus magnii. Non conosceva l’odore ferroso del sangue, né il modo in cui la sabbia cambiava colore, mentre dai corpi caduti sbocciavano fiori vermigli. Non conosceva le urla estasiate della folla adorante, né tantomeno quelle agonizzanti degli schiavi che trovavano la morte per l’altrui divertimento.
Dopo averli conosciuti, non era riuscito a dormire per settimane.
La seconda volta, quando di anni ne aveva otto, era andata meglio: si era limitato a rimettere il suo ultimopasto, l’illuminotte seguente.
La terza, l’unica reazione che quello spettacolo gli aveva procurato era stata uno sbadiglio."
Genere: Avventura, Fantasy, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash | Personaggi: Alinne Corvere, Altri, Julius Scaeva, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Neh diis lus'a, lus diis'a'
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In (illumi)nocte consilium





 

Nessuno di loro disse una parola per l’intera durata del tragitto. Neanche Alinne, che si limitò a dare le indicazioni necessarie con un cenno del capo o un puntando un dito. Lucius, con la testa china, la camicia di buona fattura sporca di sangue e la sua ombra scura due volte il normale, sembrava stare attingendo a proprie nascoste riserve di energia anche solo per continuare a mettere un piede davanti all’altro. Nelle loro condizioni, Julius aveva temuto -con la poca lucidità ancora rimastagli- che avrebbero attirato attenzioni indesiderate, ma sembrava che l’illuminotte fosse ormai prossima e che la maggior parte degli abitanti di quelle zone avessero di meglio da fare che perdere tempo con tre ragazzini malmessi e chiaramente senza un soldo.
Così, avevano arrancato, nel fango e con il morale a terra, nel più completo silenzio.
E Julius, malgrado i suoi stessi sforzi per mantenere la mente vuota, aveva iniziato a pensare.
Aveva ucciso un uomo.
Sentiva ancora le dita appiccicose del suo sangue, incrostato sui polpastrelli e sotto le unghie.
Aveva ucciso un uomo.
Ricordava lo schiocco umido della carne e la sensazione provata quando aveva affondato il pugnale nel suo stomaco, ancora e ancora, mosso dalla disperazione e dal puro istinto.
Aveva ucciso un uomo.
E la cosa più strana era che, anche se Sussurro non stava bevendo la sua paura, non riusciva a provare rimpianto, né pena, né simpatia per il morto.
Se non avesse fatto quello che aveva fatto -quello che a mente fredda chiunque avrebbe riconosciuto andava fatto- le conseguenze non sarebbero state piacevoli, per nessuno di loro: il loro inseguitore si sarebbe tolto la soddisfazione di disegnargli la faccia con il suo coltello e, una volta tornato abbastanza in sé per ragionare, si sarebbe di certo reso conto di non poter lasciare dei testimoni che lo potessero identificare. La soluzione alternativa sarebbe stata provare a fuggire, ma con Alinne in quelle condizioni e Lucius in stato semi-catatonico non sarebbero andati lontano. 
Anthlem aveva provato a vendicarsi e aveva avuto sfortuna: non era la cosa peggiore che fosse capitata, sotto gli occhi del Semprevigile, e a Julius riusciva difficile fingere rimorsi che non provava nei riguardi di una persona che lo avrebbe sfregiato senza dargli il beneficio del dubbio, come risarcimento spicciolo per un’offesa.
No, quello che lo destabilizzava non era tanto che Anthlem fosse morto, o che fosse stato ucciso, quanto piuttosto che ad ucciderlo fosse stato lui. In tutta onestà, pur negli anni in cui aveva bevuto i rari insegnamenti di Atticus come un viaggiatore delle Frusciaride avrebbe fatto con un’inaspettata sorgente, suo padre si era sempre limitato a predicare un cinismo moderato, che consisteva più nel ‘non farsi fregare’ che nel ‘fregare il prossimo’: forse per una questione disponibilità economica, o forse per una semplice mancanza di carattere, aveva indirizzato il suo pupillo verso una strategia che gli permettesse di schivare i colpi, più che di infliggerli a sua volta. C’erano dei limiti -non detti, ma lasciati sottintendere- oltre i quali Atticus non si era spinto e Julius sapeva, lo aveva saputo a pelle, pur senza domandare nulla, e lo sapeva ancora meglio dopo quel cambio, che il proprio genitore non aveva mai tolto la vita a un altro essere umano.
Anche lui stesso aveva avuto dubbi sulla sua capacità di uccidere, e su quello che ne sarebbe conseguito se lo avesse fatto. Eppure si accorgeva, con sgomento, che la differenza tra il prima e il dopo l’evento era tutto tranne che netta: Itreya non sarebbe crollata perché un solo uomo -uno schiavo, per di più- si era ritrovato un coltello piantato nello stomaco. Aa e le sue quattro Figlie non si sarebbero indignati, scegliendo di sottrarre la loro discutibile benevolenza alle donne e uomini che li pregavano. E lui, lui non avrebbe subito alcuna conseguenza per l’accaduto.
Non era cambiato niente.
E l’improvvisa consapevolezza di quanto la vita umana avesse un valore relativo -spendibile, sfruttabile, sacrificabile-, incisa sulla pelle non da pure riflessioni teoriche ma dall’esperienza, era qualcosa che Julius non sapeva ancora bene come adoperare.
Perché non era un concetto, quello, da riporre in un cassetto della memoria e lasciare dimenticato.
Non riuscì però ad andare avanti nel proprio ragionamento, portato avanti con lentezza da una mente sempre più stanca: con una voce arrochita dalla fatica che lo sorprese -e che riuscì a far aggrottare la fronte a Lucius-, Alinne indicò una vecchia baracca traballante alta due piani ed annunciò che erano arrivati. Poi, senza dare altre spiegazioni, si staccò dalla spalla di Julius -che ne fu silenziosamente grato- e saltellò senza aiuto fino alla porta: sempre tenendosi in equilibrio su un piede solo, bussò quattro volte di fila, contò fino a cinque e bussò nuovamente altre due.
Per un lungo, terrificante momento non accadde nulla.
Infine, però, si udì uno cigolio di legno sotto dei passi pesanti e i cardini ruotarono, rivelando sulla soglia lo stesso individuo che Julius aveva già incontrato alla villa, l’illuminotte in cui avevano fatto sparire il cadavere di Bert. L’amante di Jonnen di cui ancora non conosceva il nome.
Aveva senso, dopotutto.
E spiegava anche perché Alinne si fosse dimostrata così reticente a proporre tale soluzione: quello era per lei a tutti gli effetti l’ultimo posto sicuro in tutta Elai. Fosse stato in lei, anche lui avrebbe avuto più di un ripensamento nel condividerlo.
Rimase qualche passo indietro, insieme a Lucius, in attesa dell’inevitabile richiesta di spiegazioni, ma l’uomo si limitò a lanciare loro una lunga, lenta occhiata, esaminandoli dai capelli fino alla punta dei piedi, per poi farsi da parte, senza dire neanche una parola. Julius afferrò il polso suo compagno -che, chiuso nel suo silenzio, non aveva ancora dato mostra di comprendere quanto avvenuto- e si accodò ad Alinne, fissando negli occhi il loro ospite senza abbassare lo sguardo. Avrebbe voluto mostrarsi sulla difensiva -quella era la stessa persona che non aveva battuto ciglio quando la sorella del suo amante gli aveva chiesto di occuparsi di un cadavere sconosciuto. Dargli la propria fiducia senza farsi domande sembrava l’equivalente di sedersi a gambe incrociate davanti a un Rigurgitante e cantargli una ninna-nanna-, ma si sentiva troppo esausto anche per quello: voleva solo un posto su cui stendersi e dormire, non gli interessava nient’altro.
Dopo un dialogo con il loro ospite, di cui Julius non riuscì a cogliere che qualche parola, ma che gli sembrò un elenco di dettagli logistici a cui non aveva la forza fisica per pensare mescolati a una buona dose di preoccupazione per il morso di Shiih al suo braccio, Alinne li condusse su per la rampa di scale, attaccandosi al mancorrente sbilenco per controbilanciare la caviglia ancora inutilizzabile, e mostrò loro, con un muto cenno della mano, la stanza in cui avrebbero dormito. Julius si guardò attorno, senza lasciare la presa sul polso di Lucius, che aveva continuato a mantenere lo stesso sguardo basso e fisso da quando avevano lasciato suo padre in quella pozza di sangue, e notò con un sollievo indolente che, anche se non c’erano sotterranei e la camera era piccola, le finestre erano coperte da spessi drappi scuri e non avevano vetri per bloccare i venti. Era impossibile dire che l’atmosfera fosse fresca, ma, rispetto al caldo soffocante che aveva dovuto patire alla villa, era già un enorme passo avanti. Non c’erano dei veri e propri letti, solo delle stuoie ruvide e polverose che sembravano non venire usate da anni, e una cassettiera mezza mangiata dai tarli, con uno specchio che poteva essere stato d’argento in tempi migliori, ma che ormai era talmente annerito da risultare nulla di più che un ovale di metallo, su cui si riflettevano immagini sfocate. Per il resto, a parte le travi di legno che sorreggevano il soffitto e la botola da cui erano saliti, la stanza era completamente vuota.
A Julius come sistemazione non dispiacque.
“Ha detto di togliervi i vestiti,” disse poi la ragazzina, sempre con la stessa voce roca di poco prima “sono troppo sporchi”
Julius alzò solo un sopracciglio in risposta. Per quanto stanco, dormire senza nulla addosso non gli sembrava un’opzione accettabile.
Alinne alzò gli occhi al cielo -Julius poteva leggerle in viso le esatte parole che stava pensando in quel momento: ‘Stupido midollano viziato’, o qualche variante più colorita- e si diresse verso la cassettiera, tirandone fuori tre casacche piuttosto malconce. Dovevano essere camicie normali per il loro proprietario, alto più di sei piedi, ma indossate da loro avrebbero svolto la funzione di quelle vesti da camera che Julius aveva visto addosso alla sua matrigna ogni illuminotte, prima di coricarsi. La qualità del tessuto e l’odore, pensò però lui, una volta che ebbe la sua, erano piuttosto diversi.
Alinne lo guardò rigirarsela tra le mani e sbuffò, tirandosi i capelli dietro le orecchie: “Non azzardarti a dirgli che te l’ho data”
Si cambiarono tutti e tre senza dire un’altra parola, ognuno in un angolo della stanza, dando la schiena agli altri, e poi -dopo che Alinne fece avere i vestiti macchiati di terra e sangue a Distillaluce con un lancio ben mirato dalla botola- si stesero l’uno di fianco all’altro, sulle stuoie.
Nessuno dei tre ebbe il tempo di scambiare neanche una parola con gli altri, prima di addormentarsi.


 

❊❊❊



Julius si svegliò di soprassalto, il cuore che gli batteva nel petto così forte da somigliare ad un rullo di tamburi, e quando si tirò su, fronte sudata e respiro corto, si rese conto che le due botte in testa del cambio precedente avevano lasciato il loro segno: sentì un dolore acuto diffondersi dall’attaccatura del collo fino alle tempie, intrappolandolo in una morsa soffocante. Vide buio e chiuse gli occhi, fino a che non gli sembrò che le fitte si fossero affievolite: quando risollevò le palpebre, la stanza ondeggiava, come se si trovassero in una nave, ma si sentì abbastanza stabile per mettersi seduto, a gambe raccolte, ed osservare l’ambiente attorno a sé.
Alinne dormiva sulla pancia, braccia incrociate sotto la sua testa nella pessima imitazione di un cuscino, e Julius notò che il cipiglio che la contraddistingueva da sveglia non si era dissolto neanche adesso che dormiva: si chiese se dipendesse dai recenti avvenimenti, oppure dalla preoccupazione per la sorte del fratello, o ancora se quello fosse semplicemente il suo volto -fronte aggrottata e labbra strette in un’espressione sprezzante-. In ogni caso, non credeva che ella avrebbe apprezzato se glielo avesse chiesto. 
Lucius, invece, era raggomitolato su un lato, viso rivolto nella direzione di Julius, nell’evidente intenzione di occupare meno spazio possibile: perfino nei sogni, e perfino con un’ombra scura due volte il normale, il ragazzino manteneva il suo atteggiamento dubbioso e vagamente recalcitrante. Almeno, però, sembrava rilassato: Sussurro si stava prendendo cura del suo sonno, fagocitando gli incubi indesiderati prima che potessero turbarlo, e garantendogli almeno qualche ora di tranquillità. Julius lo invidiò, in quel momento, perché i sogni che lo avevano colto, una volta chiuso gli occhi, erano stati tutto tranne che piacevoli.
Atticus, che perdeva lentamente la vista nella Pietra Filosofale, fino a non riconoscere neanche più suo figlio.
Il loro appartamento nelle Costole, ormai privo di tutto ciò che gli aveva fatto guadagnare l’appellativo di ‘casa’ in primo luogo, abitata dai nuovi padroni e dai fantasmi di tutti gli antenati che Julius non aveva mai conosciuto.
Bert, con il suo viso sfigurato dai pestaggi, che lo incolpava dalla tomba per averlo ucciso.
Hëloise, che lo costringeva seduto su una sedia mentre un estraneo gli imprimeva sulla guancia il segno che la sua vita non gli sarebbe più appartenuta per un tempo infinito.
E infine il cadavere di Anthlem, rosso come rosso era il sangue ancora raggrumato sotto le sue unghie, che lo fissava con i suoi occhi pieni di rabbia.
Nessuno di loro aveva il diritto di giudicarlo, men che meno di rimproverarlo, e se avesse dovuto parlare onestamente Julius avrebbe detto che non rimpiangeva nessuna delle sue scelte da quando era giunto ad Elai -perché era quello che andava fatto, perché non c’era altra scelta, perché se avesse agito altrimenti sarebbe stato debole e sciocco e la sua strada si sarebbe tramutata in un vicolo cieco, perché perché perché-, eppure continuava a non riuscire a riposare.
Forse era la questione dei documenti, la grande faccenda in sospeso che ancora restava da chiarire tra lui ed Alinne, o forse era solo il futuro che sentiva ancora come incerto e confuso.
Qualunque fosse la causa di quella sensazione, avrebbe dato tutto ciò che possedeva -che poi non era molto- per potersela strappare dal petto.
Gettò un’occhiata a Lucius, che continuava a dormire nella stessa maniera placida e tranquilla, e provò l’impulso di richiamare Sussurro nella propria ombra e godere anche lui di qualche ora di riposo: durante la sua permanenza forzata all’interno della locanda, l’ombravipera gli era mancata più di quanto fosse disposto ad ammettere -come se una parte di lui si fosse allontanata troppo e desiderasse essere ricongiunta al corpo principale- e anche se continuava a provare irritazione al pensiero di esserle così affezionato, era un’irritazione già in gran parte rassegnata. Il pensiero di doverla condividere, cedere, a qualcun altro, anche solo temporaneamente, gli procurava delle fitte al petto molto simili alla gelosia. Però, poi, riconsiderò il modo in cui Lucius aveva reagito, di fronte al cadavere del padre, alle accuse che gli aveva rivolto, al cambiamento nel suo sguardo non appena Sussurro aveva toccato la sua ombra, e scosse la testa: aveva bisogno che il suo compagno fosse collaborativo, e abbastanza lucido da capire che le scelte fatte erano anche per il suo bene. Tenere a bada il dolore sarebbe già stato difficile, anche senza la paura, ma credeva che qualche parola ben calibrata e un po’ di solidarietà sarebbero bastate per non fargli commettere sciocchezze.
E poi, considerando la situazione, era bene che Lucius avesse una qualche fonte di conforto, seppur provvisoria. Le prossime ore non sarebbero state facili, per lui. Né i prossimi cambi.
Ormai era chiaro che non sarebbe riuscito a riaddormentarsi, e non aveva senso rimanere lì, seduto, fino a che gli altri non si fossero svegliati, perciò riprese con sé la borsa a tracolla -che aveva usato come cuscino, sia per una questione di comodità che di sicurezza- e andò alle finestre, ignorando il mondo che gli oscillava attorno e minacciava di fargli perdere l’equilibrio.
Scostata la tenda nera, Julius incrociò le braccia sopra il davanzale, strizzando gli occhi per abituarli alla soliluce e allungando il collo: la casa si affacciava su uno spiazzo non lastricato, che erbacce e massi avevano reclamato come loro proprietà da anni, ormai, e subito oltre ricominciavano a spuntare le abitazioni, quasi tutte costruite nella stessa precaria maniera. Sembrava che i costruttori avessero preso un piano di costruzione disegnato da un ubriaco, per poi decidere di abbandonarlo a metà strada, seguendo un’estetica dal dubbio buon gusto. Il lato positivo, però, era che nessun edificio aveva la stessa altezza, permettendo ad uno spettatore fortunato di avere un’ottima vista della città, pur non abitando in una torre, o in un palazzo nobiliare sopraelevato. 
Julius emise un sospiro di sollievo, sentendo il vento accarezzargli viso e capelli, e si sporse oltre il balcone, osservando con la coda dell’occhio i due soli che splendevano nel cielo: gli occhi del Semprevigile, silenti osservatori della vita mortale. 
Chissà come doveva essere, avere il controllo su un intero continente solo in virtù del proprio potere divino.
Piacevole, di sicuro.
Spostò lo sguardo dalle case e lo rivolse all’orizzonte -o almeno, a quel poco di orizzonte visibile dalla tale posizione-: da qualche parte in quella direzione, se il suo senso dell’orientamento non lo ingannava, doveva esserci il mare. 
Il mare, con i suoi flutti e le sue navi e il riflesso bluastro di Saai che doveva avere già iniziato a fare capolino nel cielo. Tra poco sarebbe stata veraluce. E al di là di quell’immensa distesa d’acqua, a miglia e miglia da dove lui si trovava, a Godsgrave -la città di ponti ed ossa che lo aveva cresciuto e che ormai disperava di poter rivedere presto- si sarebbe tenuto il prossimo venatus magnii. Julius non provava particolare interesse per quel genere di divertimento -che dopo la terza volta era diventato, ai suoi occhi, niente di più che un indolente passatempo per gente che non aveva nulla di meglio da fare, o che voleva mettersi in mostra-, ma due anni e mezzo prima, quando Atticus lo aveva fatto sedere sul palco accanto a lui, quello che lo aveva colpito di più era stato il momento della premiazione. E non perché il vincitore del venatus -di cui non ricordava né viso né tantomeno il nome- stava per riacquistare il suo status di uomo libero. Quello che lo aveva interessato davvero, e aveva acceso la sua immaginazione con una fiamma che il tempo non era riuscito a sopire, era stato il momento di consegna dell’alloro, quando il Gran Cardinale e i due consoli -i due consoli- si erano presentati al pubblico, per benedire e festeggiare il fortunato che in quell’arena aveva trovato la speranza di una nuova vita, invece della morte. Di quella sequela di istanti, Julius ricordava ogni dettaglio.
Il boato della folla.
Il calore della soliluce.
Il sorriso che spaccava il viso di entrambi gli uomini più potenti della Repubblica mentre frenavano l’entusiasmo generale con un cenno della mano, chiedendo un diritto di parola che era già loro in partenza.
Gli uomini più potenti della Repubblica.
Tali ricordi, che Julius riscopriva intatti a distanza di mesi, assumevano una consistenza e un sapore molto diversi alla luce delle recenti scoperte: il fascino che quegli individui vestiti di porpora avevano esercitato su di lui -la consapevolezza della loro influenza e posizione e della scalata politica che avevano dovuto affrontare per conquistarle- perdeva di brillantezza se confrontato con il potere di un dio che, ormai ne era certo, presiedeva e dominava i cieli.
Governare la Repubblica d’Itreya -essere al vertice di quell’enorme macchina e poterne controllare arti e propaggini- doveva essere un’esperienza esaltante. Intossicante, quasi. Ed eppure, eppure, cos’erano due anni e mezzo in confronto all’eternità? Julius faticava a ricordare i nomi dei consoli che erano stati eletti cinque anni prima -uomini mediocri portatori di ideali altrettanto mediocri, eletti più per un gioco di alleanze politiche, così gli era parso di capire dalle spicciole parole di Atticus, che per reali capacità personale- e non dubitava che nessuno di loro avrebbe lasciato la minima traccia di sé nei secoli a venire, se non forse in una di quelle lunghe liste di nomi in annali polverosi che nessuno aveva davvero interesse a leggere fino in fondo.
Faticare una vita intera per arrivare alla vetta della propria carriera solo per essere costretti ad abbandonarla dopo un lasso di tempo irrisorio, consapevoli della propria ininfluenza nel grande schema delle cose, e a vivere il resto degli anni nel ricordo di cambi più gloriosi, il tutto sotto il triplice sguardo di un’entità infinitamente più potente: osservato da questo punto di vista, il consolato perdeva tutta la sua attrattiva.
Julius sbuffò, frustrato, ed appoggiò i gomiti sul bordo della finestra, reggendosi la testa con le mani: i ragionamenti filosofici di solito lo infastidivano -troppo contorti, dispersivi e, spesso, campati per aria-, ma in quella situazione di immobilità erano l’unico strumento in suo possesso per smettere di arrovellarsi sui problemi pressanti che avrebbe dovuto affrontare, di lì a poche ore.
E se non riusciva a dormire, forse distrarre la mente avrebbe potuto comunque aiutar…
“Anche tu sveglio?”
La voce di Alinne, alle sue spalle, lo fece sobbalzare e la sua mano destra andò, d’istinto, alla tracolla appoggiata sulla spalla: lei dovette notarlo -e nei suoi occhi comparve un guizzo divertito ed irritato al tempo stesso-, ma non commentò. Invece si tirò su dalla propria stuoia e lo raggiunse, zoppicando, davanti alla finestra, invitandolo con una leggera gomitata a lasciarle un po’ di spazio.
“Come va la caviglia? E il braccio?”
Alinne gettò un’occhiata verso il basso, poi alzò una manica della casacca e gli mostrò una benda  rudimentale chiazzata di sangue. Fece una smorfia: “Potrebbe andare meglio”
“Più o meno come la maggior parte di questa faccenda”
Lei scrollò le spalle, e spostò lo sguardo verso l’esterno: “Ieri siamo stati piuttosto fortunati, in realtà”
Julius ripensò al cadavere di Oonan riverso nel fango, ai suoi occhi sbarrati mentre lo lasciavano per strada, pronto per essere trovato -e depredato- dal primo passante abbastanza svelto e furbo: “Suppongo di sì, se vogliamo vedere il lato positivo”
Nessuno dei due aggiunse altro, anche se Julius poteva immaginare quello che stava passando per la testa della sua compagna: una volta che gli altri abitanti della casa di fossero svegliati, il mondo avrebbe ripreso contorni definiti e anche i problemi irrisolti che in quel momento apparivano lontani -irreali e intangibili come i venti che rinfrescavano le case ad ogni illuminotte- avrebbero riacquistato consistenza. Avrebbero dovuto discutere dei documenti nella sacca, del loro futuro utilizzo, ed elaborare una bugia credibile per spiegare non solo l’assenza di Julius per un cambio intero, ma anche quella di Oonan: Lucius avrebbe dovuto dare loro un grande aiuto, ma contare sulle sue capacità di bugiardo era un azzardo, anche con Sussurro nella sua ombra. E se non fossero riusciti a convincere Hëloise, avrebbero potuto passare un brutto quarto d’ora.
Ma né lui né tantomeno Alinne sembravano ansiosi di intavolare quella conversazione. La tregua, che Julius aveva silenziosamente chiesto e che lei aveva altrettanto silenziosamente accettato, era ancora in vigore: e dopo tutti gli eventi del cambio precedente, un po’ di pace, seppur provvisoria, era preferibile ad un nuovo litigio.
“A che stavi pensando?” gli chiese Alinne con un bisbiglio, per non svegliare il loro compagno. 
Julius considerò di non rispondere, o di rispondere con una bugia, ma concluse che con tutta probabilità non ne sarebbe valsa la pena: “A Godsgrave” E poi, dopo una pausa “E a quando potrò tornarci”
“Non hai idea di quanto ancora tua zia ti farà lavorare per lei?”
“Ho provato a chiederglielo, una volta, ma ha fatto finta di non sentirmi: non credo che darmi rassicurazioni in proposito sia la sua priorità. Detto questo,” alzò le spalle “le sue priorità mi interessano poco. Riuscirò ad andarmene di qui, prima o poi” Più prima che poi, mi auguro, aggiunse tra sé e sé.
“Io non ci sono mai stata, a ‘Grave intendo,” Alinne si issò sulla finestra, dando la schiena al vuoto e mordicchiandosi il labbro inferiore “E Jonnen ha visto solo il porto, quindi non ha mai saputo dirmi molto in proposito. Tu vivevi nelle Costole, giusto?”
Julius annuì: “Nella terza, a un passo dagli appartamenti consolari”
“Com’è?”
Lui la guardò con la coda dell’occhio, cercando di capire se la sua domanda fosse retorica, oppure se celasse un velo di ironia con cui si sarebbe presa gioco di lui non appena avesse aperto bocca: Godsgrave non era una materia su cui si sentiva in vena di scherzi. Ma con sua grande sorpresa tutto quello che riuscì a cogliere, nel viso della sua interlocutrice, fu una curiosità bruciante. Così, con circospezione, iniziò a raccontare: “Le stanze sono intagliate nel necrosso, tutte quante, e pareti e pavimenti sono ricoperti da arazzi e tappeti. Ai soffici pendono candelieri di cristallo, che luccicano quanto le posate e i piatti usati per mangiare e non vengono quasi mai accesi: a volte, quando c’è veraluce, sembra di vivere in un’enorme lanterna, ma senza il caldo asfissiante. E poi ovviamente ci sono l’oro, l’argento, i gioielli e le pietre preziose, i soprammobili a cui nessuno rivolge mai più di un’occhiata e che pure vengono spolverati ogni cambio dalla servitù: perfino nei momenti peggiori, a casa, perfino quando non avevamo quasi niente, una singola stanza valeva comunque più della vita di metà della popolazione di questa città,” Sospirò, poi scosse la testa “Però, vedi, a parte l’opulenza… a parte il denaro… quello che fa davvero la differenza è la consapevolezza di essere intoccabile. Che le leggi, per te, valgono solo fino a un certo punto. Ci sono dei limiti non scritti a cui prestare attenzione, ovviamente, e i limiti stessi sono definiti dal tuo peso sociale e politico, ma, in generale, quando un midollano si affaccia da una di quelle finestre e volge lo sguardo alla moltitudine nella piazza ha l’impressione che i suoi componenti -mercanti, contadini, mendicanti- non siano esseri umani. O, almeno, che lo siano in un modo completamente diverso da lui. Che non lo siano nel modo giusto. E, per quanto spiacevole possa essere da dire, è un pensiero che porta sollievo ed orgoglio al tempo stesso, perché giustifica il tuo disinteresse per il loro destino. Ti senti leggero, e hai un peso di meno sulle spalle”
Terminò la frase e poi si voltò verso Alinne, che aveva ascoltato ogni sua parola in completo silenzio: in quel momento, con i capelli scompigliati dal sonno appena interrotto e addosso solo una casacca dalle maniche troppo lunghe, gli parve più piccola di quanto non fosse. Poi, però, una familiare scintilla le accese gli occhi ed ella rivolse lo sguardo verso l’esterno, mento alzato e un’espressione pensosa: “‘Bisso e sangue, ucciderei per una vita del genere”
“Sì, beh, non saresti l’unica, né tantomeno la prima. A parte le dodici grandi familiae, la maggior parte dei senatori discende da nobili che hanno scalato la piramide sociale con ogni mezzo a loro disposizione,” Julius scrollò le spalle “Non c’è di che sorprendersi”
“Mio fratello mi ha sempre detto che uscire dal proprio tracciato non è mai una mossa saggia,” replicò lei, una frustrazione che il suo interlocutore conosceva bene nel tono di voce “che sopravvivere è la cosa più importante, e che dovrei badare a quello, senza perdere tempo in fantasticherie. E sarei più disposta ad ascoltare le sue prediche, devo ammetterlo, se non fosse così tredamen… che cosa ho detto di così divertente?”
Julius cercò di cancellare il sorriso che gli aveva incurvato le labbra, senza riuscirci del tutto: “Oh niente. È solo che anche il padre di Lucius mi aveva detto qualcosa di molto simile -riguardo al tema della sopravvivenza-, un paio di cambi fa, e non gli ha portato molta fortuna. Io non darei particolare peso a quel consiglio, se fossi in te”
Alinne non rispose subito. Invece, lo fissò, fronte corrucciata e sguardo pensoso, prima di replicare con un’altra domanda: “Cosa è successo, tra te e quell’uomo? Sembri odiarlo parecchio, senza un motivo particolare”
Quello non era un argomento di cui Julius volesse discutere.
I suoi trascorsi con Oonan, e il disgusto che sentiva ancora non appena immaginava la mano di quell’uomo sulla sua spalla, erano ormai fatti che stavano assumendo la consistenza del ricordo e non aveva senso ritornarci, rivangarli, in una conversazione che avrebbe potuto svantaggiarlo, in futuro. La sua sensibilità al simbolo del Semprevigile era un’informazione che avrebbe tenuto per sé: aveva sperimentato in modo fin troppo diretto cosa sarebbe potuto succedere, altrimenti.
Era felice che Oonan fosse morto, ed era ancora più felice che fosse morto in quella maniera -abbandonato nel fango, privo di dignità e di una tomba-, e non aveva problemi a farlo sapere ad Alinne, ma le motivazioni dietro quella sua contentezza erano e sarebbero rimaste affar suo.
“Credi che il tuo amico abbia qualcosa da mangiare?” le chiese quindi, ignorando deliberatamente la domanda “Non metto niente sotto i denti da ieri mattina e sto morendo di fame”
Lei lo fissò negli occhi, sorpresa, ma sembrò capire l’antifona: “Credo di sì,” disse, scendendo dalla finestra “ma c’è solo un modo per saperlo” E, senza un’altra parola, si calò dalla botola, non lasciando altra scelta a Julius che seguirla.
Alinne scese le scale quasi senza far rumore, con una leggerezza nei gesti che lo sorprese, soprattutto considerando la sua caviglia -ormai gonfia quasi due volte il normale, e su cui lei faceva attenzione a non poggiare il peso-. Una volta giunti al pianterreno, si mise un dito sulle labbra e gli fece segno di starle dietro, mentre entravano nell’unica altra stanza della casa, alla destra della porta principale: era di forma rettangolare, più grande di quella in cui avevano dormito, e presentava una finestra a su ciascuno dei suoi lati corti. Un tappeto dai colori sbiaditi copriva quasi tutto il pavimento, fermandosi solo ai piedi di un armadio di legno scuro, dalle ante sbilenche e mal fissate. Un focolare spento, sulle cui braci era posata una pentola di ferro annerita dal tempo e dall’uso, rendeva piuttosto chiaro che una delle funzioni della camera -con tutta probabilità quella principale- fosse di servire da cucina. L’amante di Jonnen dormiva in un letto a due piazze accostato alla parete sinistra, le cui coperte ingiallite coprivano a stento il suo corpo, muscoloso, possente e completamente nudo: Julius si chiese cosa avrebbe pensato se li avesse trovati lì, tutto meno che addormentati, mentre si aggiravano per la sua casa senza permesso. Non ne sarebbe stato felice, di sicuro.
Alinne non degnò neanche di un’occhiata il suo ospite -con cui, ormai era chiaro, non doveva avere un buon rapporto- e si inginocchiò invece sul pavimento, iniziando, con movimenti veloci e precisi, ad arrotolare il tappeto sotto di lei: Julius rimase sul momento confuso, ma seguì il suo esempio e la aiutò, guadagnandosi un’occhiata divertita come unica risposta alle sue mute domande. 
Il motivo di quello strano comportamento divenne evidente quasi subito: all’esatto centro della stanza, proprio sotto la trave portante del soffitto, c’era una botola simile a quella che portava al piano superiore. Alinne prese la maniglia tra le sue mani, tirandola senza molta convinzione: non sembrò sorpresa quando fu evidente che essa era chiusa a chiave, ma alzò gli occhi al cielo, irritata, e si rimise in piedi. Poi, trattenendo una smorfia di dolore nel poggiare la caviglia storta a terra, ma rifiutando qualsiasi tipo di assistenza da parte del suo compagno, si avvicinò al focolare, arrotolò le maniche della camicia fino al gomito e immerse la mano destra nelle braci spente, badando a non sporcare le bende che le fasciavano l’altro polso: rovistò lì dentro, in completo silenzio, per una manciata di minuti, mentre in Julius crescevano al contempo curiosità ed impazienza. Infine, la ragazzina si voltò verso di lui e gli mostrò una piccola chiave di ferro, annerita dal carbone e dalla sporcizia.
“Come sapevi dove trovarla?” le chiese lui, non appena si furono calanti all’interno della botola “Te l’ha detto lui? O tuo fratello?”
“Mio fratello non mi dice mai niente,” rispose lei, mentre armeggiava con un interruttore nascosto, accendendo una fievole luce arkemica, appena sufficiente per distinguere i contorni dell’ambiente “Ma passa talmente tanto tempo qui che in qualche modo ho preso confidenza con la casa”
Julius non fece altre domande, ma sorrise: conosceva abbastanza bene Alinne per avere una vaga idea di cosa avesse lasciato sottintendere, con quella frase. Si chiese, invece, se lei avesse girato per la villa di sua zia in quelle settimane, mentre tutti dormivano, e se fosse venuta a conoscenza di segreti che a lui erano sfuggiti. Ne dubitava, ma il sospetto persisteva.
La stanza segreta non era nulla di più che un piccolo quadrato, i cui pavimento e pareti erano a malapena visibili, nascoste dietro pile e pile di casse di legno, simili a quelle che venivano usate dai marinai per imballare le merci per i lunghi viaggi. Anzi, una volta che gli occhi si furono abituati alla penombra, Julius realizzò che erano proprio quel tipo di casse.
“Tutta questa roba…”
“Diciamo che mio fratello non è l’unico a raggranellare qualche soldo con il contrabbando,” Alinne batté due colpi sullo scatolone più vicino “Distillaluce di solito trasporta cibo, ma questo vuol dire utilizzare quantità spropositate di sale e ghiaccio per la sua conservazione, e a Jonnen non è mai piaciuta l’idea di scommettere su una merce che può andare a male solo per un ritardo di qualche cambio. Puoi dire quello che vuoi sul Deliquio, ma di certo non fa la muffa facilmente”
“E cosa c’è qui dentro?”
“Dipende dalle volte. Frutta, verdura, un po’ di carne, se siamo fortunati: è inizio settimana, quindi abbiamo il pacchetto completo”
Julius aveva utilizzato la fame come scusa per far cadere il discorso su Oonan, ma, non appena sentì il profumo familiare del cibo, si accorse di quanto veramente avesse bisogno di mangiare: né lui né Alinne toccarono la merce più preziosa -pesci pregiati e verdure rare coltivate solo in determinate regioni di Vaan: c’erano persone che avevano pagato profumatamente per ciascuno di quei pezzi, e non avevano intenzione di causare ulteriori problemi facendoli arrabbiare-, ma riuscirono comunque a sfamarsi con delle forme di pane e della carne secca1. Julius ne prese un po’ anche per Lucius, pensando che gli avrebbe fatto piacere trovare qualcosa da mettere sotto i denti, quando si fosse svegliato.
Consumarono il pasto lentamente, schiena appoggiata contro gli scatoloni, così vicini che le loro spalle quasi si toccavano. Anche dopo aver finito, nessuno dei due accennò a muoversi: rimasero a lungo in quella posizione, senza parlare, assorti nei loro pensieri e circondati solo dal lieve suono del proprio respiro e di quello dell’altro. Forse sarebbe stato il momento giusto per ricominciare a parlare dei documenti -erano svegli, avevano mangiato, ed erano soli: le condizioni erano ottimali, per una discussione seria-, ma l’argomento non venne neanche sfiorato. Julius lo accarezzò con la mente solo per un attimo, addentando un pezzo di carne secca, e riflettendo: se qualcosa fosse andato storto, se il suo progetto non avesse funzionato… come avrebbe potuto liberarsi e liberare suo padre? Aveva passato talmente tanto tempo a ragionare sui dettagli di quel piano, da non soffermarsi ad elaborarne uno di riserva, nel caso i suoi calcoli si fossero rivelati errati.
Un’idea dai contorni sfocati gli aleggiò davanti agli occhi, una serie di immagini a tinte fosche che promettevano una risposta più facile di quella a cui lui stesso aveva pensato. La ricacciò indietro, anche se con difficoltà: sarebbe stato un azzardo ancora più grande e non avrebbe mai potuto fare una cosa simile.
Non avrebbe voluto.
O forse si sbagliava?
Fu Alinne a parlare, strappando entrambi dal silenzioso limbo in cui la penombra della stanza sembrava averli intrappolati: “Dovremmo tornare di sopra,” disse, svogliata “Distillaluce potrebbe svegliarsi e, per quanto io sia la sorella del suo amante, non credo gli farebbe piacere sapere che ho approfittato della situazione per rovistare tra le sue provviste”
“Soprattutto considerando che in teoria non dovresti neanche sapere della loro esistenza”
Alinne sollevò un angolo della bocca, in risposta: “Già, soprattutto per quello”
Julius si alzò per primo, per poi tendere una mano alla sua compagna, in un gesto spontaneo che sorprese entrambi: ella esitò, sospettosa e restia, ma alla fine accettò l’aiuto. Erano quasi sul punto di uscire, quando Julius, rivolgendo un’ultima occhiata alla cantina, notò un luccichio tra due pile di scatoloni sulla sinistra. Aggrottando la fronte, e facendo segno ad Alinne di aspettare, ridiscese le scale e gli andò vicino, per scoprire che l’oggetto in questione era un anello d’argento.
Un anello d’argento che ritraeva due spade incrociate, avvolte da un fascio d’edera rampicante.
Le ombre attorno a loro si torsero e si allungarono, mentre Julius sentiva una ben nota scarica di paura fargli tremare le gambe: “‘Bisso e sangue…” mormorò, facendo un passo indietro e andando a sbattere contro Alinne.
“Che c’è? Che hai trovato?”
Julius le mostrò il gioiello, incapace di parlare.
“Quattro Figlie, sembra roba preziosa!” La ragazzina aggrottò la fronte, perplessa “Non capisco però che ci faccia qui: Distillaluce non può pagarsi un nuovo paio di pantaloni, figuriamoci gioielleria di questo tipo. Potrebbe averlo rubato, però… ehi, va tutto bene? Sembra che tu abbia visto un pulvispettro”
Julius scosse la testa: “Sì… cioè no. Proprio per niente,” sospirò “Quello è lo stemma del dominus che ho… abbiamo derubato, ieri”
Il viso di Alinne perse colore: “No, non è…” e poi, con tono accusatorio “Come fai a dirlo con così tanta sicurezza?”
“Ieri, quando sono entrato in casa sua, ho visto altri gioielli identici a questo. Avevano tutti lo stesso simbolo impresso”
“Ma non ha senso! Perché l’amante di mio fratello dovrebbe avere…” Lasciò cadere la frase e Julius osservò la stessa consapevolezza che lo aveva colpito alla vista del gioiello farsi strada anche dentro di lei, occhi sgranati e labbra serrate mentre tentava di negare un’evidenza fin troppo schiacciante.
“Non… non può…”
“Hai detto tu stessa che i due servitori hanno visto un uomo di discendenza Dweymeri ricevere un anello dalle mani del dominus. E adesso Distillaluce ha questo stesso anello in casa sua. Anche se credessi alle coincidenze, questa è un po’ troppo grossa per essere credibile”
Alinne aggrottò la fronte ed abbassò il viso, ragionando: “Continuo a non capire perché avrebbe dovuto farlo”
“Per soldi, magari? Voglio dire, guardati attorno: non vive esattamente in una reggia”
Lei gli scoccò un’occhiata irritata: “Quell’anello è stato tutto il suo compenso. Hai ragione, vale più di tutta questa casa messa insieme, ma perché avrebbe dovuto gettarlo qui dentro per settimane, invece che scambiarlo con del denaro sonante?”
“Magari lo ha perso”
“E magari Niah in persona gli è apparsa in sogno dicendogli di dedicare la sua vita alla contemplazione ascetica. Mi sembrano entrambe improbabili, come opzioni”
Alinne aveva ragione, ovviamente. Ma quale altra opzione poteva esserci se non quella? Trovare la prova del suo coinvolgimento nell’omicidio in quel modo poteva solo indicare un’estrema disattenzione, oppure…
“Oppure non gli importava dell’anello né del compenso,” articolò la fine del pensiero a voce alta, sentendolo acquisire forma e consistenza ad ogni sillaba che pronunciava.
“Intendi dire che la sua motivazione non era il denaro?” Alinne soppesò l’idea, tirandosi i capelli dietro le orecchie “Ma allora quale? I due non si erano mai visti, non si conoscevano neppure di nome: insomma, non è che Distillaluce avesse conti in sospeso con quell’uomo…”
Quell’ultima frase sembrò accendere una luce nella mente di Julius: “Le statuette di cristallo…”
“Come, scusa?”
“Sussurro mi ha detto che il morto era un collezionista,” iniziò a spiegare, sentendo la propria mente ricomporre i pezzi del rompicapo a velocità sempre maggiore “e che collezionava in particolar modo statuette di cristallo. Cristallo Dweymeri. E sei stata tu a dirmi che l’amante di tuo fratello, prima di darsi al mercato nero, aveva una…”
“Una bottega,” completò la frase lei, con voce strozzata “una bottega che uno stronzo ricco aveva raso al suolo perché Distillaluce si era rifiutato di vendergliela”
Silenzio.
“‘Bisso e fottuto sangue…” Alinne respirò profondamente, prima di dare la schiena a Julius e iniziare a camminare in tondo, nel poco spazio disponibile “Quel figlio di puttana sapeva quello che era successo tra me e il tizio morto: Jonnen aveva passato parecchie illuminotti qui con lui, da quel cambio. Deve aver pensato che sarebbe stato il movente perfetto: nessuno in quella familia si sarebbe fatto domande”
“Ma perché portare i documenti con sé e darli ad altri? Perché non lasciarli lì e basta?”
Alinne strinse le labbra: “Come doppia assicurazione, immagino. Un secondo movente, ed un secondo colpevole, nel caso il primo fosse sembrato sospetto. I due non si sopportavano, era una cosa risaputa, e uno non avrebbe potuto che essere soddisfatto dalla dipartita dell’altro. Ancora di più, se fosse venuto in possesso di qualcosa di suo, qualcosa a cui il morto teneva a tal punto da portarsi con sé. Non è uno sciocco: ha fatto bene i suoi calcoli, e tratto altrettanto bene le sue conclusioni” E poi, ancora, dopo un momento di pausa, a voce più alta: “Quello stronzo ha anche avuto la faccia tosta di dirmi che era in debito con mio fratello! Che mi avrebbe aiutato se glielo avessi chiesto! Ha usato me e Jonnen come un cazzo di capro espiatorio e poi ha anche cercato di fare la figura del…” si interruppe, e Julius poté intravedere, malgrado la fioca luce arkemica, che i suoi occhi erano lucidi. 
Ella dovette rendersene conto, perché sbatté le palpebre fino a che il suo sguardo non tornò asciutto. Poi, riprese a parlare: “Non la passerà liscia. Dovesse essere l’ultima cosa che faccio, non la passerà liscia”
Qualcosa nel modo in cui lo disse fece preoccupare Julius ancora più di quanto già non fosse: “Che intendi fare?” E poi, sussurrando, quando vide che ella non sembrava volergli rispondere: “Non vorrai…”
“Cosa? Ucciderlo?” la voce di Alinne fu percorsa da un tremito, ma la sua espressione si indurì: “Non mi sembri la persona giusta per giudicare, visto quanto è successo ieri”
Il coltello nelle sue mani.
Il sangue sotto le sue unghie.
Spendibile, sfruttabile, sacrificabile.
“Non ti sto giudicando, infatti,” replicò, ignorando il modo in cui il proprio stomaco aveva iniziato a contorcersi, al ricordo “Dico solo che sarebbe una sciocchezza. Con lui morto, perderesti la tua unica possibilità di liberare tuo fratello”
“E a te perché importa?” sbottò lei “Il tuo problema sono i soldi che potresti fare vendendo quei documenti, giusto? Per tirare fuori dalla merda tuo padre. Niente di tutto questo è affar tuo”
Erano cambi che Julius riusciva a respingere il pensiero di Atticus - del modo in cui lo aveva venduto ad Hëloise, di quello che doveva stare passando nella Pietra Filosofale, al buio, al freddo, nello sporco di celle mai visitate da un raggio di soliluce- e tenerlo lontano dalla propria mente, ma quell’unica allusione gli rigettò addosso ogni sua preoccupazione. Tutto quello che aveva da perdere, se non avesse trovato una soluzione in fretta.
E lui invece era lì, a convincere Alinne a non commettere una sciocchezza, per… quale motivo?
Quella ragazzina neanche gli piaceva, dopotutto. Farle da coscienza non rientrava nelle sue responsabilità, né nei suoi interessi.
“Hai ragione, non mi importa,” replicò quindi, freddo, lanciandole uno sguardo tagliente mentre la spingeva di lato e iniziava a salire le scale “Né di tuo fratello, né, tantomeno e soprattutto, di te. Fa’ come vuoi, ma non cercare di coinvolgermi anche in questa storia. E per quanto riguarda i documenti,” aggiunse, prima di aprire la botola “quando ne vuoi parlare, sai dove trovarmi”
Per quanto lo riguardava, la tregua era ufficialmente terminata.


 

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Alinne non era sicura se nei mesi precedenti avesse in qualche modo offeso il Semprevigile e le sue quattro Figlie e quella fosse una punizione per i suoi misfatti, oppure se semplicemente il cielo avesse deciso di assegnarle una dose addizionale di sfortuna. Fatto stava che, dopo gli avvenimenti del cambio precedente, la situazione sembrava essere ulteriormente peggiorata.
Aveva dormito male, quell’illuminotte: la vista dei due uomini distesi a terra, di tutto quel sangue, aveva continuato a farle visita nei sogni, accompagnata dal suono delle manette che si sarebbero chiuse attorno ai polsi di Jonnen, se non avesse trovato il modo di liberarlo in fretta. E poi, al risveglio, si era aggiunta la consapevolezza di avere chiesto aiuto proprio alla persona responsabile del suo arresto.
Se c’era qualche tipo di perverso senso dell’umorismo, nascosto in quella situazione, faticava a trovarlo divertente.
Era seduta sul patio, in quel momento, la gamba destra accavallata su quella sinistra nel tentativo di poggiarvi il peso il meno possibile e un fastidioso bruciore al braccio sinistro, e si stava rigirando tra le dita l’anello trovato in cantina, passando i polpastrelli sulle incisioni delle spade e dell’edera rampicante: non aveva mai osservato un gioiello simile a distanza così ravvicinata e scoprì che il modo in cui rifletteva la soliluce -scintillando nel palmo della sua mano- aveva un carattere quasi ipnotico, tanto che sarebbe rimasta ad osservarlo per ore. Sapeva, ovviamente, che quell’oggetto apparteneva a nulla di più che un nobile di provincia, e che quello che a lei sembrava una meraviglia doveva apparire rozzo e sciatto se messo a confronto con la ricchezza racchiusa a Godsgrave, eppure quel piccolo cerchio d’argento le sembrava il simbolo della vita che aveva sempre voluto. Che suo fratello le aveva spesso fatto capire, talvolta con allusioni, talvolta in maniera più diretta, non avrebbe mai potuto avere.
Quello che fa davvero la differenza è la consapevolezza di essere intoccabile. Che le leggi, per te, valgono solo fino a un certo punto.
Le parole di Julius le tornarono in mente, causandole un moto di fastidio: l’essere riuscita ad avere una conversazione civile con lui, appena sveglia, le sembrava già un miracolo che difficilmente si sarebbe replicato. Non che le importasse, ovviamente. D’altronde, erano alleati temporanei, che perseguivano uno stesso obiettivo con scopi del tutto diversi, e prima o poi gli interessi singoli di ciascuno avrebbero preso il sopravvento in ogni caso: lui aveva già cercato di fregarla, appena un cambio prima, e lei avrebbe fatto lo stesso, se non si fosse ritrovata con una caviglia gonfia due volte il normale. Purtroppo, la loro discussione di poco prima lo aveva rimesso sulla difensiva: sarebbe stato più facile sottrargli la borsa, se avesse avuto la guardia abbassata.
E il fatto che Julius avesse detto una cosa sensata, riguardo Distillaluce -pugnalarlo nel sonno, o anche solo ferirlo, come ripicca era una pessima, pessima idea e non avrebbe portato a nulla di buono- non aiutava a metterla di buon umore. Quel ragazzino aveva l’innata capacità di darle sui nervi, sia che avesse torto sia, e soprattutto, che avesse ragione.
Quando le loro strade si fossero separate, sarebbe stato sempre e comunque troppo tardi.
Sentì dei passi alle sue spalle e si irrigidì, una volta capito a chi appartenessero: si era sempre vantata di essere una buona bugiarda, ma non sapeva se sarebbe riuscita a reggere una conversazione con…
“I vestiti si stanno asciugando sul retro,” Distillaluce si appoggiò al muro, aggrottando la fronte alla vista della sua casacca usata come camicia da notte “Tra poco dovrebbero essere pronti”
Alinne annuì, labbra strette ed espressione neutra, ma non rispose. La mano sinistra scivolò a lato del vestito, trattenendo un sospiro deluso quando si ricordò che il pugnale di necrosso era rimasto dove lo aveva nascosto la sera prima, sotto la cassettiera al piano superiore. Non credeva di correre rischi, ma l’idea di essere indifesa non le piaceva comunque.
“So che non sono affari miei, ma… cosa è successo di preciso, ieri? Sembravi un fantasma, quando hai bussato alla porta”
“Hai ragione,” gli lanciò uno sguardo in tralice “non sono affari tuoi”
“Riguarda Jonnen?”
A quella domanda, Alinne scattò di lato, il tono della sua voce più basso di un’ottava: “E a te che importa?”
L’uomo sospirò, poi si sedette al suo fianco. Alinne dovette fare appello a tutta se stessa per trovare la forza di non scostarsi: “So che non scorre buon sangue tra di noi. Che a te io non sono mai piaciuto. Ma devi credermi quando dico che tengo a tuo fratello più di quanto immagini, Alinne”
La ragazzina strinse i pugni sotto le maniche: come osava quell’uomo prendersi gioco di lei così platealmente? Affermare di amare Jonnen dopo averlo consegnato ai Luminatii quasi con le sue mani? Farle credere di avere una spalla su cui piangere, quando era stato lui stesso a farle versare lacrime? Si domandò, con un accenno di voluttà, come avrebbe reagito se d’improvviso lei lo avesse pugnalato alla gola, recidendogli la giugulare con un colpo secco e guardando il sangue zampillare dalla ferita aperta. Si domandò cosa si provasse, ad uccidere un uomo.
Lo avrebbe potuto chiedere a Julius, se le cose fra loro fossero state diverse.
“Sì, beh, anche se te lo dicessi non cambierebbe le cose,” si alzò in piedi, contorcendo il viso in una smorfia di dolore quando appoggiò il piede destro a terra “e abbiamo tutti di meglio da fare che rimanere fermi a chiacchierare”
“Sembra una brutta slogatura,” replicò lui, mentre lei già gli stava dando la schiena e si preparava ad entrare in casa “forse potrei darci un’occhiata. E la fasciatura al braccio deve essere cambiata, se non vuoi che si infetti”
Alinne si fermò sull’uscio, indecisa. Non voleva che quell’uomo la toccasse, non dopo quello che aveva fatto a lei e suo fratello. D’altra parte, era vero che aveva bisogno di aiuto con le sue ferite e Distillaluce era la persona più esperta tra loro -senza contare Lucius, d’accordo, ma Lucius non era nelle condizioni di aiutare loro in alcun modo-: se lui aveva sfruttato loro per procurarsi un alibi, lei avrebbe potuto sfruttare questa sua strana gentilezza per rimettersi in sesto.
“D’accordo, allora,” lo guardò negli occhi, stirando le labbra in quello che sperò potesse sembrare un sorriso convincente “le bende sono al solito posto, no?”


 

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Strinse i denti mentre Distillaluce le fasciava la caviglia e non fiatò neanche quando egli le rifece il bendaggio al braccio, aggiungendo un unguento particolare per prevenire infezioni. Fortunatamente, il morso del cane non aveva intaccato le ossa, e la ferita sembrava pulita: tempo qualche cambio, e non sarebbero rimaste che delle piccole cicatrici.
L’uomo aveva lavorato in silenzio, utilizzando una delicatezza impensata per delle mani così grandi e piene di calli, ed Alinne ricordò a se stessa, nello stupore, che dopotutto egli aveva posseduto per vari anni una bottega dove modellava cristalli, ed aveva anche acquistato una certa fama, nel campo: le sarebbe piaciuto vedere un mastro vetraio all’opera -e le isole Dweymeri le erano sempre apparse come un mondo lontano, malgrado fossero ben entro i confini della Repubblica- e provò una fitta di rimpianto al pensiero di quel piccolo edificio nel centro di Elai, ormai in stato di totale abbandono, dove Distillaluce aveva intrapreso la sua attività. Lo stesso suo nome, il nome che la Sacerdotessa gli aveva assegnato alla nascita, come anticipo di quello che sarebbe stato il suo destino, era indicativo di quanto portato egli fosse, per tale professione.
Una fitta di dolore le risalì la gamba, strappandola da considerazioni che, realizzò, erano al tempo stesso ridicole e controproducenti. Provare pietà, o empatia, per la persona responsabile della propria sventura era pericoloso, e solo gli sciocchi potevano permettersi di cedere al sentimentalismo. Eppure, eppure, mentre osservava quell’uomo forte e muscoloso adoperarsi per curarla, si chiese con crescente interesse per quale motivo non l’avesse ancora consegnata ai Luminatii. Sapeva che stava cercando di incastrare il vero responsabile dell’omicidio: Alinne stessa non ne aveva fatto segreto -una mossa che ella stessa oramai reputava stupida e insensata-, quando si era rifugiata in quella casa, settimane prima. Non avrebbe avuto difficoltà ad intrappolarla, con la forza o un tranello, e poi chiamare le guardie. E invece non solo l’aveva ospitata, ma l’aveva ripetutamente aiutata -con il servo, alla casa della zia di Julius, e di nuovo lì, in quel caso, dando loro un posto dove stare e prendendosi cura di lei-: non c’era una spiegazione logica a tutto questo, a meno che…
Alinne ripensò al modo in cui Distillaluce l’aveva guardata, quando le aveva chiesto informazioni su Jonnen, settimane prima. Alle sue parole, il cambio in cui il fratello era stato arrestato, quando le aveva detto di essere in debito con lui. A quello che le aveva detto sul portico -‘devi credermi quando dico che tengo a tuo fratello più di quanto immagini’-, in risposta al suo atteggiamento scontroso.
E la risposta le sembrò evidente e ridicola al tempo stesso.
Si sente in colpa.
Se fino a quel momento aveva provato solo odio e rabbia nei suoi confronti, dopo quella scoperta Alinne sentì il proprio animo bruciare per il disprezzo.
Quell’uomo aveva disposto le proprie carte per rovinare la vita a lei e a suo fratello, portando loro via anche la poca tranquillità che erano riusciti a ritagliarsi negli anni, e poi, con un parziale ripensamento, aveva cercato di ripulirsi la coscienza senza dirle la verità, ma con qualche gesto spicciolo di cura per cui era implicito che avrebbe dovuto sentirsi grata. Non avrebbe tirato fuori Jonnen dalle sbarre in cui l’aveva gettato, né avrebbe alzato un dito se sua sorella fosse stata catturata, ed eppure credeva di stare facendo qualcosa di buono fasciandole la ferita e dandole una pacca sulla spalla, come segno di incoraggiamento.
Non aveva avuto il coraggio né per andare fino in fondo con la sua vendetta, assicurandosi di rimanere impunito, né per confessare ed assumersi le sue responsabilità. Invece, si era crogiolato in stupidi rimorsi che non avrebbero aiutato nessuno degli interessati.
Patetico.
E debole.
Ma almeno le era stato utile.
E se credeva che lei avrebbe avuto anche solo un’esitazione, nel ripagarlo con la stessa moneta che aveva riservato a Jonnen, allora si era completamente sbagliato sul suo conto.
Nessuna gentilezza avrebbe potuto compensare la perdita di un fratello.
Neh diis lus'a, lus diis’a.
E c’erano tradimenti per cui era certa non potesse esistere perdono. Sperare in qualcosa di diverso equivaleva a credere nelle vecchie favole che venivano raccontate ai bambini prima di coricarsi.
Prese congedo da Distillaluce con un sorriso e un grazie che dovette cavarsi a forza dai denti, per poi chiedere indietro i propri vestiti e quelli degli altri: avrebbero lasciato la casa a breve, disse al suo interlocutore, con un’espressione che pregò potesse sembrare conciliante, e se tutto fosse andato come previsto non avrebbe più dovuto chiedere il suo aiuto per un lungo periodo di tempo. Mai più, corresse nella sua mente.
Poi, dandogli la schiena e saltellando su un piede solo, salì le scale diretta verso la stanza al piano di sopra, preparandosi a quella che sarebbe stata, con tutta probabilità, un’altra discussione spiacevole.
“Dovresti mangiare qualcosa”
“Io… no, non ho fame”
“Dovresti mangiare anche se non hai fame. Altrimenti non sarai abbastanza in forze per camminare, oggi”
“Ho detto di no”
Lucius si era svegliato, ma non si era mosso dalla sua posizione rannicchiata, sulla stuoia su cui si era coricato qualche ora prima. Julius, invece, era seduto al suo fianco, porgendogli con insistenza quel po’ di pane e carne che era riuscito a portare via dalla cantina: dalla sua postura, e dalle pieghe che gli decoravano la fronte, non era difficile capire che fosse preoccupato per le condizioni -fisiche ed emotive- dell’amico. 
Alinne li osservò da sotto la botola, ancora non vista, e considerò le sue opzioni: cercare di sottrarre i documenti senza farsi vedere non avrebbe prodotto dei buoni risultati, soprattutto dopo il loro ultimo litigio. Malgrado la sua attenzione fosse diretta altrove, Julius teneva sempre una mano sulla borsa di pelle, assicurandosi che nessuno potesse toccarla senza che se ne accorgesse: paranoico, avrebbe avuto la tentazione di commentare, non avesse saputo che lei si sarebbe comportata esattamente allo stesso modo, se ne avesse avuta l’occasione. E se fino a qualche ora prima l’idea di chiedere a Distillaluce di impadronirsi dei documenti per lei le era sembrata quantomeno plausibile, oramai il solo pensiero la ripugnava. Al tempo stesso, però, non poteva neanche fidarsi del suo compagno: l’ombra attorno a loro, scura due volte più del normale, bastava per ricordarle un altro motivo che rendeva quell’eventualità nulla di più che un miraggio. Quella cosa era ancora lì e, pur riconoscendo che stava facendo un ottimo lavoro a tenere Lucius sotto controllo, Alinne era ben decisa a starle il più lontano possibile.
No, se avesse voluto ottenere qualcosa da lui, dubitava che la forza -o l’astuzia- sarebbero servite a qualcosa. Per quanto il pensiero la irritasse, forse raggiungere un compromesso sarebbe potuta essere la soluzione migliore.
“I vestiti si sono asciugati,” disse, uscendo allo scoperto “credo che sia il caso di cambiarsi, prima che Distillaluce si accorga che avete addosso le sue camicie. Non mi è sembrato particolarmente felice, quando ci siamo incontrati, sul portico”
“Forse semplicemente non era felice di vederti,” ribatté Julius, piccato “è un’eventualità che dovresti prendere in considerazione”
“Neanche tu sei un belvedere,” sbottò lei “ti sei guardato allo specchio di recente?”
“Basta, basta, per favore, basta!” Lucius gemette, rannicchiandosi contro il muro e premendosi le mani sulle orecchie “Voglio andare a casa” mormorò poi, così piano da risultare quasi inaudibile.
“Lo faremo presto, davvero,” disse Julius, con un tono conciliante che ad Alinne parve troppo calibrato per essere genuino “dobbiamo solo cambiarci d’abito e…”
“E Julius ed io dobbiamo parlare, prima”
“Di cosa?”
“Sai benissimo di cosa”
Lui alzò un sopracciglio: “E ti sembra il momento adatto?”
“Conoscendo entrambi sì, mi sento di dire di sì”
“Lucius?”
La tenebra sotto i suoi piedi vibrò, ma il ragazzino non sembrò accorgersene: “Fate come volete,” disse, qualcosa di duro nella voce che non sembrava appartenergli del tutto “Ma io non voglio saperne niente”
Tutti e tre si cambiarono e poi, una volta riposte le casacche nel medesimo cassetto da cui le avevano tirate fuori, Lucius scese le scale, diretto al cortile: la sua ombra, sempre troppo nera, sembrò indugiare per un attimo, prima di seguirlo. Alinne e Julius, invece, si sedettero per terra, uno davanti all’altra, in assetto da combattimento. La borsa era poggiata tra di loro, come barriera difensiva.
“Hai già dato un’occhiata?” gli chiese lei, una volta che furono rimasti soli.
“No”
“Beh, direi di iniziare da lì, allora,” si protese verso la borsa, ma Julius usò la tracolla per trascinarla più vicina a lui.
“Faccio io, se permetti”
“Non ti hanno insegnato le buone maniere, alle Costole? ‘Prima le signore’?”
“A me non sembra di vedere nessuna signora, qui” Julius rovesciò la sacca sul pavimento: ne uscì un plico di documenti mal rilegati, insieme ad un globo composto di un materiale molto simile all’oro massiccio, che rotolò dritto verso di lei.
“E quello cos’è?”
Julius alzò le spalle, poco interessato: “Un oggetto di culto, credo. Sorella Claudia lo ha usato come diversivo per farci entrare nella villa” con uno scatto, lo riprese e lo rimise nella borsa “Credo che lo abbia rubato in qualche santuario, o in una casa”
Alinne si chiese perché il ragazzino di fronte a lei non avesse abbandonato la faccenda dei documenti e non cercasse di ripagare i debiti di suo padre con la vendita di quella sfera d’oro: con un oggetto simile, loro sarebbero di sicuro riusciti a finire di pagare la nave per cui Jonnen aveva faticato e risparmiato tutti quegli anni. Certo, c’era la possibilità che non sapesse dove scambiarla -anche se i banchi dei pegni abbastanza spregiudicati da accettare anche soprammobili simili abbondavano, ad Elai-, oppure che temesse che qualcuno facesse domande scomode, vedendo un ragazzino della sua età con qualcosa di tanto prezioso tra le mani, ma quello che era più probabile -e fu un pensiero che la stupì ed impensierì al tempo stesso, era che Julius non pensasse che ne avrebbe ricavato abbastanza denaro.
Ma se un oggetto simile non era abbastanza per tirarlo fuori dai guai, a quanto potevano ammontare…?
Scosse la testa, allontanando quei pensieri: i problemi dell’altro non erano affar suo e non lo sarebbero diventati. Aveva già abbastanza pensieri per la testa.
Ed eppure, lanciando uno sguardo di sottecchi al suo compagno, seduto davanti a lei, che le rivolgeva uno sguardo interrogativo di attesa, si chiese quanto su quella storia egli avesse scelto di tenerle nascosto, e quanto davvero lei potesse dire di conoscerlo.
Si spostò un po’ più vicina a lui, osservando le pagine nelle sue mani mentre iniziava a sfogliarle, fronte aggrottata ed espressione pensosa.
La carta era stata riempita con una scrittura fitta ed elaborata, i cui svolazzi -quasi eccessivi- rendevano arduo anche solo comprendere le frasi elaborate dall’autore. O, almeno, questa fu la prima impressione che ebbe Alinne, prima di rendersi conto che il motivo per cui non riusciva a capire neanche una parola di quello che aveva davanti era che il testo era stato interamente vergato in una lingua a lei sconosciuta.
“Tu lo capisci?”
Julius scosse la testa, frustrato, e lei provò minuscolo moto di soddisfazione a sentirgli ammettere la propria ignoranza in quel campo: malgrado la sua educazione, i suoi precettori, i libri di testo su cui aveva studiato, almeno in quel frangente erano entrambi ad un punto morto. Non che questo li aiutasse, in realtà.
“Ed io che avevo sperato che capire cosa contenessero mi avrebbe fatto fare un passo avanti…”
“Non vedo come avrebbe potuto,” replicò Julius, con un’aria saccente che le fece venire voglia di tirargli un pugno “il dominusa cui li abbiamo sottratti non riusciva neanche a decifrarli. Forse il loro primo proprietario poteva avere di qualche informazione in più, ma quelle conoscenze sono morte con lui, e dubito che le abbia trasmesse alla sua familia, a parte qualche vago riferimento sulla loro importanza. Senza contare” aggiunse, tra sé e sé “che meno dettagli sappiamo su questa faccenda, più probabilità abbiamo di venire lasciati in pace, quando tutto sarà finito”
Alinne gli lanciò un’occhiata perplessa, di rimando, ma egli non la notò, o finse di non notarla.
“Quindi,” riprese lui, nel medesimo tono assorto “siamo al punto di partenza. Tu vuoi questi documenti per cercare di far scarcerare tuo fratello, e io per potermene andare da Elai: nessuno dei due vuole cedere. Immagino non ti sorprenderebbe sapere che, nel caso tu tentassi qualche sciocchezza, non mi troveresti impreparato” le ombre vibrarono nella stanza, in risposta a quell’affermazione, e Alinne si ritrovò a tirarsi indietro, tornando alla sua posizione precedente: non aveva ancora una idea ben chiara di cosa Julius potesse fare, servendosi della tenebra, e non aveva intenzione di scoprirlo.
Le sue ultime parole, però, l’avevano fatta riflettere. 
Era vero, entrambi volevano la stessa cosa per obiettivi diversi. Ed era altrettanto vero che darsi vicendevolmente fiducia era improponibile: non appena uno di loro si fosse distratto, l’altro non avrebbe esitato a cogliere l’occasione e perseguire il suo scopo, con poco riguardo per il destino altrui.
Ma, e questo era un grande ma, era anche evidente che la loro collaborazione, seppur forzata, aveva dato i suoi frutti ogni volta che si erano ritrovati a dover mettere in comune i loro sforzi, incuranti del risultato ultimo. E forse, se fossero riusciti anche in quel caso a trovare un’unica strada che li portasse, entrambi, nella direzione desiderata…
Ripensò a suo fratello, chiuso in una cella ad attendere un giudizio già deciso in partenza.
A quello che ne sarebbe stato di lei, se si fosse ritrovata da sola.
A Distillaluce, e al suo comportamento contraddittorio: lui poteva essersi dimostrato un debole, ma lei non lo era. Sarebbe andata fino in fondo, anche se questo avesse voluto dire tendere la mano alla persona che aveva tentato di fregarla, solo un cambio prima.
L’abbozzo di un piano stava iniziando a prendere forma nella sua testa.
Alinne sorrise, e si voltò verso Julius: “Ho un’idea. Un’ottima idea. E se, o meglio, quando funzionerà, credo che ci riterremo tutti e due molto soddisfatti”








[1] E se vi state chiedendo, gentili amici, chi comprerebbe mai del pane raffermo al mercato nero, è evidente che nessuno di voi ha mai davvero sofferto la fame.




Note finali: beh, innanzitutto buon ferragosto!! Questo è un capitolo un po' di passaggio, di cui non sono completamente soddisfatta a dire la verità -avrei potuto renderlo un po' più corto, credo-, ma spero che la rivelazione a metà vi sia piaciuta, e che il rapporto un po' conflittuale tra Alinne e Julius stia continuando ad interessarvi. Mancano solo più tre capitoli alla fine di questa prima parte e sperò vi farà sapere che sono già tutti scritti. Dalla prossima settimana inizierò a lavorare sulla seconda parte, ma vi dirò esattamente le tempistiche tra due settimane, nelle note del penultimo capitolo. Per il momento, spero che queste vacanze estive stiano andando bene, e a presto!
Ringrazio come al solito anche solo chi legge :)
QueenOfEvil

   
 
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