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Autore: Made of Snow and Dreams    15/08/2020    4 recensioni
Dal testo: 'Lui non aveva perso tempo. Afferrata la pistola, l'aveva puntata contro la sua schiena e lì l'aveva colpita alle spalle, in nome di un dovere superiore. Lei si era accasciata al suolo. '
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un giorno, al Coffee Monday




 

A Carpenter Street vigeva una solida ed inespugnabile regola sociale: a dispetto di quanto fossero importanti le tue commissioni, era inconcepibile iniziare la giornata senza sfilare lungo il corridoio affollato ed invitante del Coffee Monday.Quel baretto minuto e marginale, situato nella periferia di quella negligente e logora - nonchè perennemente maleodorante - via secondaria, aveva aperto una ventina di anni addietro per merito di Joffree Monday, un minuscolo imprenditore con gli occhietti vispi da falco incorniciati dietro due grossi fondi di bottiglia. Fisico ingombrante permettendo, i passanti di quella stradina avevano trovato conferma della sua incrollabile pazienza assistendo, giorno dopo giorno, alla costruzione di quel locale modesto ma promettente. Era una graziosa novità che, nel giro di qualche mese, aveva fatto breccia negli spiriti stanchi e annoiati degli abitanti che soggiornavano nei casermoni popolari, un addensato di volgarità e criminalità di bassa lega.
Ma l'odore penetrante del caffè mattutino concentrato nelle tazzine azzurrine, che aleggiava come una sottile nebbiolina strisciante lungo il bancone del bar, del cappuccino finemente decorato con ritagli di schiuma spumeggiante ai bordi e dei pasticcini glassati aveva avuto sufficientemente influenza su quel serpente brulicante di persone da esser diventato, in breve tempo, anche il punto d'incontro tra le due differenti realtà sociali che dominavano la zona. Le Berline laccate e le antiquate Fiat, ammaccate sulla fiancata, potevano finalmente sostare insieme sul medesimo marciapiede, non più separate da metri di forzata e sofferta tolleranza dei rispettivi proprietari. Anzi, con quei propositi le basi per impostare una pacifica convivenza erano praticamente assicurate.
C'erano tre tipologie di individui che si potevano incontrare al Coffee Monday: le signore impellicciate con il carlino al guinzaglio, gli operai in canotta grigia e le ascelle che necessitavano di una rasatura impellente, e coloro che erano stati ribattezzati da ambo le categorie come i Transitori, fantasmi che sarebbero apparsi una sola volta per non tornare mai più – per lo più turisti nivei in calzoncini e sandali di cuoio o avvocati in giacca e cravatta.
Paul Martin Lee apparteneva a quest'ultima specie, ma non era né un turista nè un avvocato. Era semplicemente uno scrittore, uno di quelli il cui nome sporge timidamente negli ultimi scaffali delle librerie dedicati ai romanzetti rosa o di fantascienza. Non era dotato di particolare talento, non si definiva un Dante o un Hemingway. Semplicemente, amava scrivere.
E in quel momento, in quell'angolino del Coffee Monday riparato da sguardi indiscreti da una coloratissima tendina in cotone, era in cerca del finale perfetto.

 

- Questa volta è finita, Jack. Me ne vado. Saluta la mamma da parte mia.
Indossava una camicetta bianca, le maniche a sbuffo ottocentesche a caderle flosce sui polsi scheletrici. Ma non era una semplice camicia in flanella, quella: era un lembo di stoffa che componeva il corpetto inamidato e sinuoso dell'abito da sposa della mamma, nel giorno del suo matrimonio.
- Tornerai mai, un giorno o l'altro?
La sua voce risuonava come sfilacciata, strascicata. Come un vecchio costretto ad artigliare il muro per riuscire a compiere quei due, tre passi atti a coprire la distanza tra lui e la sedia a dondolo, il suo nido perfetto. E aveva pure registrato passivamente la sua mano avanzare di qualche centimetro verso di lei, troppo distante per essere raggiunta, quasi un miraggio.
- Probabile... no. In realtà non lo so. Forse un giorno tornerò sui miei passi, quando ognuno di voi mi avrà dimenticata.
- Speranza vana.
Avevano entrambi sorriso. Un sorriso appena accennato, amaro, uno di quelli che vogliono comunicare tante cose non dette. Poi lei si era finalmente voltata. Lui non aveva perso tempo. Afferrata la pistola, l'aveva puntata contro la sua schiena e lì l'aveva colpita alle spalle, in nome di un dovere superiore. Lei si era accasciata al suolo.

 

Fu quando assaporò le prime gocce del suo caffè arabica concentrato, l'aroma forte e pungente e castano ad invadergli le narici, che si accorse di quanto in realtà fosse sbagliato. Dubitava che il pubblico avrebbe gradito. Sospirò, e nell'attimo in cui cacciò via l'aria dai polmoni riafferrò la stilografica con rinnovata veemenza, come se con quella dovesse pugnalare qualcuno.

 

Si era voltata fiduciosa. Le spalle magre ed eleganti ritraevano una femminile parentesi graffa. Lui le vedeva la schiena arcuata. Linda, pallida, giovane. L'arma sembrava brillare tra le sue mani tremolanti, seducendolo. Fu quando la impugnò saldamente, così forte da sbiancarsi le nocche della mano destra, che realizzò di avere il viso imperlato di sudore.
Fu un colpo devastante. A lei non restò il tempo materiale di gracchiare – Allora vad... - che era già collassata lungo lo stipite della porta. Uno sbuffo rosso macchiava la carta da parati rosa. Lui non proferì parola. Si raggomitolò sulla poltrona reclinabile mentre fissava con occhi assenti ciò che restava della sorella. Gli sembrò che fosse più simile a ciò che resta di una zanzara spiaccicata sul muro. Si versò da bere, in un ostinato ed impenetrabile silenzio.

 

Si fermò. La stilografica sgusciò via dalla sua mano per scivolare sulla superficie lucida del tavolo, dispettosa. A lui non restò altro che maledirsi silenziosamente, l'ispirazione ormai sostituita da un grigio torpore traboccante di remora, un treno guasto ad arrancare su binari sbriciolati.
Si presentò l'irresistibile impulso di fumare, di violentare i suoi polmoni con sbuffi lenti e corposi di quell'aria putrescente che gli avrebbe disteso i muscoli, scacciato la tensione, attirato a sè quella dea sfuggevole e imperfetta; fece per allungare il braccio verso la tasca scucita dei suoi jeans scoloriti per afferrare senza troppa delicatezza il pacchetto di sigarette, quando il suo sguardo intercettò quello severo e duro della cameriera: l'ombra del rimprovero ad aleggiarle negli occhi semichiusi, celati dalla luce filtrante della finestra, una minuscola cicatrice a forma di punto esclamativo a decorarle il braccio destro, la divisa nera che lasciava intravedere la delicata curva delle natiche.
Leggiadra. Femminile.

 

-Jack, io devo andare... la pistola, perchè hai la pistola del babbo? Cosa vuoi farmi?
-Mi dispiace. Ci rivedremo all'inferno, sorella.
Le sparò.

 

Un finale anoressico, disossato. Andava scartato. Si accorse che la cameriera era ancora lì ad osservarlo, una fedele e silenziosa spettatrice. Si era rifugiata dietro il bancone per lavare i bicchieri in vetro, ma percepiva ugualmente il suo sguardo trapassargli la schiena da parte a parte, come una freccia. Si voltò, e gli sfuggì un sorriso. Forse l'ispirazione era tornata, o forse non se n'era mai andata, incarnata nel corpo di un altro essere umano. Ruotò il busto di novanta gradi, le membra a sporgere pigramente dalla sedia, il bagliore della sfacciataggine a brillargli negli occhi. La guardò e lei guardò lui, l'imbarazzo celato dalla scusa del lavoro.
D'improvviso la stilografica sembrò richiamarlo, fonte di rinnovata potenza, e lui ne percorse la superficie con la punta dell'indice, saggiando l'esterno liscio e lucido con la stessa scioltezza con cui avrebbe carezzato il corpo di una donna, magari quella donna. Con un gesto strappò via il foglio, lasciando traspirare il successivo.

 

Erano giunti alla stazione, il treno possente come un grosso felino pronto a balzare in avanti. Lei era bellissima, avvolta nel suo cappotto foderato di pelliccia sintetica e i tacchi neri a risuonare dolcemente sull'asfalto come una costante melodia.
Si fermarono, l'uno di fronte all'altra, senza dire una parola.
-Immagino che la storia finisca qui. - disse la donna con un mezzo sorriso.
-Ti sbagli, - replicò lui, scuotendo leggermente la testa, - non finirà, perchè io ti aspetterò, ovunque tu vada -.
Gli occhi della sorella si colmarono lentamente di lacrime, come una cisterna dalle pareti di vetro che viene riempita d'acqua.
-Davvero mi aspetterai? - balbettò, le labbra tremolanti.
Lo sguardo del ragazzo si canalizzò sulla minuscola cicatrice a forma di punto esclamativo sul dorso della mano di lei, quella di cui si era sempre vergognata e che lui, invece, trovava dannatamente adorabile. Prendendo quella mano con la massima delicatezza possibile, baciò quella cicatrice, tracciando il contorno rugoso con le labbra. La sentì sussultare, un miscuglio di imbarazzo e rimprovero che le colorava le gote.
-Sempre...



Sorrise, l'ultima parola a scivolare fluidamente sulla carta livida d'inchiostro come se quello fosse sempre stato il suo posto naturale, e bevve il caffè dalla tazza. Aveva trovato il suo finale perfetto sotto il riflettore che era il sorriso smagliante della cameriera - che sembrava avesse capito tutto sin dal principio, e l'ultimo sorso di caffè. Paul Martin Lee si diresse verso il bancone a guance contratte, l'euforia ad impossessarsi del suo essere come una droga e la tazza stretta in mano, fino a ritrovarsi ad un palmo dal volto ammiccante della sua ammiratrice.
'Dimmi, come ti chiami? ' chiese, senza un briciolo di vergogna.
'Claudia. Claudia Grayson. ' rispose lei prontamente, come se già si aspettasse quella domanda.
'Grazie di tutto. ' rispose lui, e la baciò.

 

 

 

 

Erano giunti alla stazione, il treno possente come un grosso felino pronto a balzare in avanti. Lei era bellissima, avvolta nel suo cappotto foderato di pelliccia sintetica e i tacchi neri a risuonare dolcemente sull'asfalto come una costante melodia.
Si fermarono, l'uno di fronte all'altra, senza dire una parola.
-Immagino che la storia finisca qui. - disse la donna con un mezzo sorriso.
-Ti sbagli, - replicò lui, scuotendo leggermente la testa, - non finirà, perchè io ti aspetterò, ovunque tu vada -.
Gli occhi della sorella si colmarono lentamente di lacrime, come una cisterna dalle pareti di vetro che viene riempita d'acqua.
-Davvero mi aspetterai? - balbettò, le labbra tremolanti.
Lo sguardo del ragazzo si canalizzò sulla minuscola cicatrice a forma di punto esclamativo sul dorso della mano di lei, quella di cui si era sempre vergognata e che lui, invece, trovava dannatamente adorabile. Prendendo quella mano con la massima delicatezza possibile, baciò quella cicatrice, tracciando il contorno rugoso con le labbra. La sentì sussultare, un miscuglio di imbarazzo e rimprovero che le colorava le gote.
-Sempre, Claudia.

 

 

  
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