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Autore: _Lady di inchiostro_    17/08/2020    1 recensioni
[Fugou Keiji Balance: Unlimited]
«Sei scappato da casa ancora una volta?»
Daisuke era davanti a lui, vestito con giacca e cravatta, come sempre, e con i capelli pettinati verso lo stesso lato.
Aveva un sacchetto della spesa in mano e questo stupì Haru.
«Ho comprato da mangiare» disse, con il suo solito tono apatico.
«Questo lo vedo.» Haru gli fece spazio. «Vuoi entrare?»
Daisuke si tolse le scarpe, dirigendosi verso la cucina.
«Allora, mi dici perché sei qui?»
[...]
«Sono qui per ricambiare il favore» rispose infine Daisuke.

~
«Sono davanti all’ospedale» disse, con esitazione.
Haru tremò.
«Non vuoi venire a trovarlo?»

~
[Fugou Keiji Balance: Unlimited] [Angst with an happy ending]
Genere: Angst, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ciao.
Sono una scrittrice semplice: mi piace inserire la mia OTP in un contesto in cui uno dei due è in coma e l’altro si dispera.
Troppi episodi di Castle, probabilmente.
Per il resto, che dire, se mi avete già visto sono qui, sono tornata con una storia decisamente meno erotica della precedente, ma con molto più angst; in caso contrario, ben arrivati dentro quest’antro di follia!
Possibilmente continuerò a scrivere su questi due, lo show mi ha preso veramente tanto e non vedo l’ora di conoscere altri succulenti dettagli su loro due.
Le recensioni sono ben aperte, così come le critiche sulla caratterizzazione dei personaggi o altro.
Potete trovarmi su tutti i social che ci sono nella mia pagina bio!
Bene, ho detto tutto. Buona lettura e grazie ancora per aver aperto la mia storia!



But I wonder where were you when I was at my worst, down on my knees,
and you said you had my back

 
[tratto da "Maps" dei Maroon 5]
 




Haru tenne la testa reclinata, incontrando il freddo muro alle spalle del divanetto rosso chiaro.
Il caffè che Saeki gli aveva portato quella mattina – impacciata e stretta nel suo pullover celeste – si era ormai freddato sul tavolino.
Aveva la bocca schiusa e gli occhi, cerchiati da due ombre violacee, fissi su una macchina di umido sul tetto.
Qualcuno l’hai mai notata? Qualcuno si è mai premurato di porvi rimedio?, si chiedeva.
Non sarebbe voluto venire in ufficio, quella mattina.
Non sapeva se sarebbe riuscito a reggere gli sguardi colmi di pietà dei suoi colleghi, che fingevano di prestare attenzione alle loro faccende quando in realtà si scambiavano lunghi sguardi e lo indicavano di sottecchi.
Come se non vi avessi visti, si diceva ogni volta.
Persino Hoshino, fermatosi nel bel mezzo del corridoio una volta che si erano incrociati, aveva provato a dire qualcosa, ma dalla sua bocca non uscì nulla. Se ne andò con i pugni chiusi, mentre Haru lo fissava, stanco e ricurvo su se stesso.
Si passò una mano sul viso, producendo un verso di frustrazione.
Alla fine, non era andata tanto male.
Il lavoro era quasi una distrazione che gli permetteva di non stare dentro le quattro mura di casa sua.
Anche se sapeva che, a fine giornata, sarebbe dovuto tornare lì e che i ricordi sarebbero riaffiorati senza che riuscisse ad avere un controllo su di essi.
Si alzò, prendendo la giacca lasciata sulla propria sedia, sotto l’espressione confusa di Kamei.
«Esco prima» disse, secco, richiudendosi la porta alle spalle, senza dare il tempo al proprio capo di replicare.
Non lo avrebbe fatto comunque.
Uscì con le mani dentro le tasche e il freddo che gli invadeva la pelle.
Prima sarebbe riuscito a tornare a casa, prima avrebbe potuto nascondersi sotto le sue coperte e prima avrebbe messo fine a quella tortura.
 
 
«Sei scappato da casa ancora una volta?»
Daisuke era davanti a lui, vestito con giacca e cravatta, come sempre, e con i capelli pettinati verso lo stesso lato.
Aveva un sacchetto della spesa in mano e questo stupì Haru.
«Ho comprato da mangiare» disse, con il suo solito tono apatico.
«Questo lo vedo.» Haru gli fece spazio. «Vuoi entrare?»
Daisuke si tolse le scarpe, dirigendosi verso la cucina.
«Allora, mi dici perché sei qui?»
Non rispose per un po’, tirando fuori quello che aveva comprato dal sacchetto. Haru si accorse che erano alimenti di marca e che non se li sarebbe potuti permettere nemmeno tra quarant’anni con lo stipendio che possedeva.
«Sono qui per ricambiare il favore» rispose infine Daisuke. «La mia famiglia è al corrente di dove mi trovi al momento. Gli ho chiesto di non spiarci.»
Haru sussultò. «Ci hanno spiati?»
«Solo quando eravamo in giro, non in casa. Ma, per prevenzione, gli ho chiesto di non controllarmi.» Si girò verso il detective. «In ogni caso, non vedrebbero niente di compromettente, giusto?»
Haru si sentì avvampare.
Che cosa intende dire con questa affermazione?, si chiese.
Non potevano esserci secondi fini, la sua espressione era quella di sempre. Semplicemente, Daisuke aveva questa brutta abitudine di non sapere come esprimersi.
Era sicuramente questo il motivo. Doveva essere questo.
«Giusto…»
«Bene, allora» e Daisuke tornò a quello che stava facendo. «Preparo io la cena, qualcosa che sicuramente tu non hai mangiato.»
Non sapeva se dovesse apparire come una constatazione o un insulto, ma in ogni caso, Haru non disse niente. Era più impegnato a chiedersi perché Daisuke non avesse con sé un ricambio.
«Non dormi qui?»
Sembrava quasi dispiaciuto dal tono con cui lo disse e si diede subito dello stupido.
Daisuke non lo guardò nemmeno. «Dormo qui.»
«Non hai un ricambio…»
Daisuke non rispose subito, come sempre, spostandosi verso il lavello e facendo scorrere l’acqua.
«Mi piace l’odore del tuo ammorbidente.»
Haru, per la seconda volta, avvampò.
Come può dire una cosa del genere con così tanta leggerezza, si disse.
Era rimasto stoico, come se ammettere che gli piacesse indossare i suoi vestiti, ma soprattutto che gli piacesse il suo profumo, non fosse di per sé una cosa imbarazzante.
Tuttavia, Haru non si limitò a dire un semplice «oh» e a voltarsi verso il bagno, sentendo il repellente bisogno di infilare la testa dentro l’acqua.
 
 
Aprì gli occhi a stento, un raggio di luce che filtrava dalla finestra e gli finiva direttamente sugli occhi.
Si voltò verso l’alto lato, raggomitolandosi ancora di più.
Era tornato a casa, passando prima dal supermercato per comprare una cassa di liquore, e aveva finito per scolarsi quasi tutte le bottiglie, guardando il suo sceneggiato preferito.
Il mio fegato ringrazierà dopo, pensò.
Strinse gli occhi, ricordando sprazzi di quello che aveva fatto la sera prima, così come quasi tutte le sere precedenti da un mese e mezzo.
Haru si era oramai abituato a trovare Daisuke davanti la porta di casa sua e aveva sempre qualcosa da mangiare in frigo e dei vestiti di ricambio per lui.
Finivano sempre per mangiare, bere e guardare lo sceneggiato per cui Haru, ogni santa volta, piangeva, decantando le lodi del detective protagonista, mentre Daisuke cercava di non addormentarsi in piedi.
Rimaneva a dormire lì, anche se il più delle volte si nascondeva dentro la vasca da bagno, e Haru ci aveva messo un po’ per convincerlo a dormire almeno vicino a lui, a terra.
Era stato imbarazzante, ma alla fine Daisuke aveva ceduto.
Per due sere alla settimana erano lì, insieme, mentre Daisuke indossava le felpe di Haru, i capelli appiccicati al viso.
Una sera, da ubriaco, Haru gli aveva persino detto che sembrava carino. Peccato se lo ricordasse e l’indomani non era stato in grado di spiccicare parola.
Daisuke aveva riso e Haru non sapeva se prendere a pugni lui o se stesso.
Sospirò, rendendosi conto che le cose che aveva preso per lui erano in frigo da un mese e mezzo e, probabilmente, stavano andando a male.
Si chiuse ancora di più a chioccia, sentendo il desiderio di mollare tutto e di non andare a lavoro, ma quelle quattro mura di casa gli ricordavano lui.
Non riusciva a indossare più le sue felpe senza pensare che avessero il suo odore addosso e non più quello dell’ammorbidente che a Daisuke tanto piaceva.
Il telefono cellulare sul tavolino squillò e Haru voleva lasciare perdere, voleva sparire e smettere di ricordare quello che era successo.
Alla fine, dopo la quarta chiamata che riceveva, decise di rispondere.
Era Kamei.
«Ehi…» disse, piatto, come se non sapesse come continuare.
«Ehi» rispose Haru con la stessa intonazione.
«Sono davanti all’ospedale» disse, con esitazione.
Haru tremò.
«Non vuoi venire a trovarlo?»
Andare a trovarlo? E ricevere in cambio il giudizio della famiglia Kambe? Di Suzue? No, non ce la faccio, avrebbe voluto dire.
Ma, invece, non disse niente.
Rimase impassibile per trenta secondi buoni, fissando il tetto, con una macchia simile a quella del suo ufficio.
«Haru…?»
«Sono lì tra una quindicina di minuti. Aspettami.»
 
 
Tutto si sarebbe aspettato, meno che Daisuke – un tipo a cui piaceva bere whisky nel pomeriggio – non sapesse reggere l’alcool in grandi dosi.
Lo immaginava un tipo che cambiava locale ogni sera e si portava a letto una signorina diversa ogni notte.
Invece era molto più… morbido di così.
Non sapeva spiegarselo. Gli dava la sensazione di essere qualcuno che doveva abbracciare e proteggere ad ogni costo.
Era diverso dall’uomo che camminava sulla scena di un crimine, composto e cinico.
Haru spense la televisione, alzandosi e barcollando un po’.
«Allora, dormiamo come sempre?» chiese, la voce roca per via del liquore. «Io a letto e tu per terra? O vuoi fare al contrario per oggi?»
Daisuke aprì gli occhi impastati di sonno e fissò prima davanti a sé e poi, con estrema lentezza, si girò verso Haru.
«Posso dormire con te?»
Haru sentì la sua faccia andare a fuoco, non sapeva se per via del liquido che aveva in corpo o per quello che aveva appena detto Daisuke.
La sua espressione era sempre la stessa, fredda, eppure i suoi occhi sembravano così colmi di aspettativa che Haru avrebbe voluto scoprire che cosa gli ronzasse dentro la testa.
Sospirò. «D’accordo. Basta che non ti muovi.»
Daisuke annuì e si infilò subito dentro le coperte, mentre Haru spegneva le luci e faceva lo stesso.
«Haru?» disse, dopo minuti di silenzio.
«Sì?»
«Sono omosessuale.»
Haru sussultò.
Non sapeva perché gli stesse confidando qualcosa di così tanto personale, eppure non ne sembrava così stupito. Daisuke sembrava quel tipo di persona che avrebbe potuto ottenere chiunque e non sarebbe mai stato soddisfatto, uomo o donna che fosse.
Chissà, forse un giorno gli avrebbe raccontato di come avesse scoperto la sua sessualità andando a letto con diverse donne, rendendosi conto che era più soddisfacente con un uomo.
Ma il suo problema più grande, in quel momento, non era questo, ma il suo cuore che batteva forte nel suo petto, colmo di aspettativa.
Aspettativa? Che aspettativa?, si domandava, anche se conosceva già la risposta.
Fingere che, in quelle settimane passate insieme, non avesse cominciato a maturare qualcosa per Daisuke, che non avesse cominciato a chiedersi chi fosse veramente, sarebbe stato da sciocchi.
Haru era arrivato oramai da tempo alla conclusione che a lui non piacevano gli uomini, ma Daisuke sì.
E questo perché Daisuke era… beh, Daisuke.
Ed era davvero strano da dire, ma era questo il vero motivo.
Si girò verso di lui, serio. «E allora?»
Anche se era buio pesto, Haru riuscì a immaginarselo mentre batteva le palpebre. «Non ti da fastidio dormire con un omosessuale?»
«No. Perché dovrebbe?»
Daisuke non rispose alla sua domanda. Semplicemente, si mise comodo, aspettando che il sonno prendesse il sopravvento.
«Daisuke.» La voce di Haru tremò e si chiese perché lo stesse facendo, se fosse colpa dell’alcool o di qualcos’altro. «Tu mi piaci…»
Non ottenne risposta.
Direttamente, le labbra di Daisuke furono sulle sue.
 
 
Riuscì a reggere gli sguardi della famiglia Kambe, compreso quello di Suzue, senza scoppiare a piangere, e questo lo definì un grande traguardo.
Kamei rimase con lui per tutto il tempo, tenendogli una mano sulla spalla, forse preoccupato che avesse un attacco di panico. Si allontanò solo quando furono davanti alla porta, usando come scusa quella di aver fame e di voler prendere uno snack alla macchinetta.
Haru sorrise e mentalmente gli fu grato per aver capito che voleva restare da solo.
La stanza aveva le finestre spalancate e, per questa ragione, era gelida.
Haru andò subito a chiuderle, già pronto a fare una ramanzina alle infermiere, quando si girò e vide Daisuke.
Era ben coperto, per fortuna.
Il colorito della sua pelle era più pallido del solito e i capelli appiccicati sulla faccia, proprio come quando usciva dalla doccia di casa sua.
Sorrise teneramente, anche se sentiva le lacrime scendere ad ogni secondo che si avvicinava al suo lettino.
I macchinari segnavano delle cose che Haru non sapeva, probabilmente parametri vitali, ma non ne era sicuro.
Gli prese la mano. Era tiepida.
«Ciao» mormorò. «Scusa se ci ho messo tanto a venire. Non era sicuro di riuscire a reggere davanti alla tua famiglia.»
Si morse il labbro inferiore, abbassando appena il capo e tornando a rialzarlo subito dopo, come se stesse cercando di nascondere la sua debolezza a Daisuke.
«E avevo anche paura di vedere in che condizioni ti avrei trovato» disse, la voce flebile. «Ma sembra che tu stia migliorando, mh? Hai proprio la pellaccia dura!»
Fece un risata amara, la vista offuscata dalle lacrime.
Avvicinò il dorso della mano alle sue labbra, lasciandogli un lieve bacio e chiudendo gli occhi, l’immagini della missione ancora davanti.
Se l’aver sparato a quella povera donna lo aveva costretto a doversi ritirare dal suo posto nella Prima Divisione, l’aver rischiato la vita di Daisuke per sparare a un criminale lo aveva mandato in paranoia.
Per giorni non faceva che vederlo lì, per terra e ricolmo del suo stesso sangue, mentre cercava di respirare. E Haru gridava, gridava fino a perdere la voce, piangeva, perché voleva riaverlo lì, voleva riavere il suo Daisuke con lui.
Due lacrime scesero silenziose sul suo viso.
«Mi dispiace» biascicò. «Mi prendo tutta la colpa. Non sono riuscito a proteggerti come avevo promesso.»
Guardò per bene il suo viso e sembrava proprio simile alla persona che aveva baciato quella notte e quelle avvenire, fino a farci l’amore.
Abbassò di nuovo la testa, ma questa volta perché i singhiozzi si erano fatti troppo forti.
«Non so se riuscirai a perdonarmi mai, Daisuke. Non ti biasimo e non biasimo la tua famiglia per questo… ma ti prego, cerca… cerca di tornare da me. Intesi?»
Ovviamente, non si aspettava una risposta, anche se i suoi occhi erano colmi di aspettativa, esattamente come quelli di Daisuke quando gli aveva chiesto di dormire insieme.
«L’ufficio è vuoto senza di te. Casa mia è vuota senza di te. La mia vita è vuota senza di te.»
Mai avrebbe pensato di poter dire delle parole del genere a Kambe Daisuke la prima volta che l’aveva visto. Pensava che avrebbe passato il resto della sua vita a desiderare di picchiarlo.
E invece era lì, a pregare che la persona di cui si era innamorato si risvegliasse.
Si alzò, lasciando solo all’ultimo la mano.
«Ciao Dai. Ci vediamo domani.»
Uscì dalla stanza, lanciandogli un’ultima occhiata.
Provò a sorridere.
 
 
La vita in ufficio era diventata una tortura, soprattutto adesso che i mesi erano diventati tre.
Haru sembrava più rilassato, ma la situazione non era poi cambiata di molto.
Andava trovare Daisuke due volte al giorno, la mattina prima di andare in ufficio e la sera prima di tornare a casa. A volte, passava la sera lì con lui e altre, quando non doveva andare a lavorare, l’intera giornata.
Tuttavia, non era ancora riuscito a guardare in faccia la famiglia di Daisuke, soprattutto Suzue, che aveva tentato di parlargli, ma senza alcun successo.
E, in ufficio, era la stessa storia. Non gli facevano fare quasi nulla, se non compilare qualche scartoffia, giusto per tenerlo occupato. Per il resto, passava il suo tempo seduto sul divanetto, neanche fosse un detective prossimo alla pensione.
Haru, comunque, gli era grato, alla Prima Divisione lo avrebbero messo in congedo perenne.
Si alzò dal divanetto e prese la giacca, già pronto ad uscire.
«Vai da lui?» gli chiese Kamei.
«Sì» disse, sistemandosi il colletto. «Prima però passo dal supermercato.»
Il collega annuì, sorridendogli e dandogli una pacca sulla spalla.
Non impiegò troppo tempo e arrivò all’ospedale una mezz’ora dopo.
La famiglia Kambe non c’era, tranne qualche guardia del corpo vicino alla stanza, che Haru salutò con un cenno del capo, ricambiato. Probabilmente avevano qualche impegno d’affari improrogabile.
Aveva comprato del ramen istantaneo. Non il pasto migliore, ma l’unico che poteva preparare se voleva stare con Daisuke tutta la notte.
Stava guardando il solito sceneggiato, gli spaghetti ancora in bocca, quando il personaggio principale – anche lui detective – chiese alla donna di cui era innamorato di uscire.
Haru si ritrovò, suo malgrado, a sorridere.
«Sai, io non avrei mai potuto invitarti ad un appuntamento, Dai» disse, guardando i resti del suo ramen. «Non avrei mai potuto portarti in un ristorante di lusso o comprato un orologio costoso, perché sono cose che puoi permetterti.»
Reclinò la testa.
Era diventata un abitudine fissare il tetto e cercare delle macchie di umidità. Per esempio, in quella stanza ve ne erano tre vicino al lampadario.
«Eppure, sai, negli ultimi giorni ho cominciato a pensare a dove potrei portarti per un primo appuntamento. Vorrei fare le cose per bene.» Rise, ma tornò serio subito. «Ammesso che…»
Non lo disse. Non riusciva neanche a pensare all’evenienza e una parte di lui non voleva.
Si stava per alzare e posare il ramen finito, quando sentì qualcosa muoversi.
Si irrigidì, così come era stato abituato da anni e anni di allenamento in polizia.
«Punto primo: smettila di chiamarmi Dai. Punto secondo: chi ti ha detto che voglio andare ad un primo appuntamento con te?»
Haru si voltò immediatamente verso il volto di Daisuke, trovandolo con i suoi occhi blu cobalto aperti e che lo guardavano, un ghigno sulle labbra.
Haru avrebbe voluto picchiarlo, come sempre del resto, ma tutto quello che fece fu avvicinare il viso al suo e tirare su con il naso.
«Dai… Dai… Dai…» mormorò, la voce rotta dal pianto.
«Ti ho detto di non chiamarmi così» disse Daisuke, cercando di apparire serio, ma fallendo miseramente.
Haru si allontanò un attimo dal suo viso, studiandolo, per poi sorridere. «Quindi non vuoi andare ad un primo appuntamento con me?»
«No.»
«Nemmeno se si tratta di un luna park?»
Daisuke finse di pensarci. «Non mi piacciono i luna park.»
«Ottimo» disse Haru. «Disneyland?»
Daisuke rise ed era la risata più sincera e cristallina che gli avesse mai sentito uscire dalle sue labbra. «Sei impossibile.»
«Credevo che quello fossi tu.»
Daisuke sorrise e gli scostò una ciocca castano grigia dalla fronte. «Forse lo siamo entrambi.»
E Haru gli diede completamente ragione.
  
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