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Autore: TheDoctor1002    24/08/2020    5 recensioni
Questa storia partecipa a Il Contest dei Destini Incrociati indetto da Il Club dell'Inchiostro su Wattpad.
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Cesare e Atlas sono amici fin dall'infanzia. Sono cresciuti insieme e uno conosce l'altro come nessuno al mondo. La vita ha scelto per loro dei percorsi inattesi, ma sempre intrecciati. Questo fa sì che nessuna bugia possa durare, nemmeno una grande quanto un'intera esistenza.

Se dovessi pensare a un colore che possa descrivere l'altra metà del mio Contratto, sarebbe
di certo l'oro.
Non per la patina di ombretto che sparge sulle sue palpebre o per i pendenti e i grandi anelli che indossa, nè tantomeno per i suoi lunghi capelli biondi.
Semplicemente, lui è oro allo stesso modo in cui il Sole è luce e calore.
Lo emana in ogni aspetto del suo essere senza mai forzarlo, assorbe e amplifica ogni brandello di luce si posi su di sé.
Che sia per somigliargli, godere della sua fama riflessa o distruggerlo, è come se nessuna creatura senziente possa ignorarlo.
Come se fosse impossibile non avere un'opinione su Atlas Fowley.
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia partecipa al Contest dei Destini Incrociati indetto da Il Club dell'Inchiostro su Wattpad.
Prompt: l'Appeso (meditazione/devozione), il Sole (vanità/egocentrismo), la Temperanza (empatia/interiorità)
Lunghezza: 3279 parole



Se dovessi pensare a un colore che possa descrivere l'altra metà del mio Contratto, sarebbe di certo l'oro. 
Non per la patina di ombretto che sparge sulle sue palpebre o per i pendenti e i grandi anelli che indossa, nè tantomeno per i suoi lunghi capelli biondi.
Semplicemente, lui è oro allo stesso modo in cui il Sole è luce e calore. 
Lo emana in ogni aspetto del suo essere senza mai forzarlo, assorbe e amplifica ogni brandello di luce si posi su di sé. 
E, oltretutto, sembra trarre un sadico divertimento nell'osservare gli sforzi di chi cerca di raggiungerlo. 
Che sia per somigliargli, godere della sua fama riflessa o distruggerlo, è come se nessuna creatura senziente possa ignorarlo. 
Come se fosse impossibile non avere un'opinione su Atlas Fowley.

C'è dell'oro nella musicalità della sua voce quando mi sospira un "Dai, Cesare, muoviti!" attraverso la luce arancio di Piazza Vittorio, con un mezzo sorriso dipinto sulle labbra sottili e il fantasma di quel suo accento scot attorcigliato alla lingua.
Oro è nelle pagliuzze dei suoi occhi verdi, quando avanza attraverso il popolo fatato raccolto sul Lungo Po come se ne fosse il padrone. 
Oro nella sua magia, negli incanti che solo il Maestro di Arti Illusorie sa creare. 
Tralicci di luce seguono le punte affusolate delle sue unghie chiare. 
Lucciole e farfalle luminose sciàmano da sotto il drappeggio del suo mantello e fanno sbocciare fiori esotici dai mille colori ovunque si posino. 
Atlas avanza nel più generale stupore, anche se questo spettacolo lo ripete ogni volta venga invitato. 
Io stesso, però, non posso che rimanerne puntualmente incantato. 
Un'ultima piroetta, un ultimo tocco di fiamma per illuminare i visi rapiti degli ospiti della Corte, poi giunge con un inchino di fronte al trono della Regina Seelie in persona. 
Ha una calla in mano e un sorriso ad arricciargli il rossetto borgogna sul labbro superiore.
Dopo la sua spettacolare entrée, la forma si scioglie e lui confabula fitto con la signora di quella notte.
Discorrono affabili e informali, come fossero amici di lungo corso, mentre io me ne resto ad un angolo del bar, rigirando il ghiaccio di un Gin Lemon.

A volte, ho la sensazione di non appartenergli. 
Sento che il contratto che ci ha legati come stregoni é ìmpari e io non sono che una zavorra per il suo talento. 
Il suo posto dovrebbe essere sempre qui, a illuminare il volto d'ebano della regina con storie e magie incredibili, non con uno squattrinato meccanico che, con anni di buona volontà buttata alle ortiche, non riesce ancora a fare più di qualche trucchetto. 
Ma nella folla riesco sempre a pescare il suo sguardo. 
Talvolta, distoglie gli occhi dalle iridi bianche della sua interlocutrice e cerca il nero delle mie. 
Mi rassicura che si libererà presto da quell'onorevole impiccio.
Allora gli sorrido tiepido, anche se la voce alle mie spalle é troppo chiassosa e maleducata per un evento del genere. 
"Uscito dalla tua tana di umani, Fowley? Pensavo che in un posto simile non ce li volessero, quelli come te." 
Vedo il suo volto oscurarsi per un istante, mentre la folla fa ala a due giovani uomini. 
Uno di questi, quello con il chiodo nero e i capelli ingellati sullo scalpo, è quello che ha avanzato l'accusa.
Attendendo la replica, ogni respiro viene sospeso. 
Perfino la musica é stata messa in standby e ora giace muta tra le braccia di un sottofondo di statica.
Con un teatrale giro del capo, assicurandosi che stia davvero parlando con lui, Atlas scende lentamente i gradini del piccolo palco su cui era appollaiato a chiaccherare e mi rivolge uno sguardo rassicurante.
Sa che scatterei come una bestia, se quell'idiota osasse dire mezza parola di troppo: non sarò un grande mago, ma in una rissa so incassare e, soprattutto, so picchiare forte.
"Quelli come me cosa, Ferraris?" domanda pacato, ma dedicandogli al contempo una superba smorfia di taglio.
L'interpellato sbuffa, come se gli desse fastidio che il suo nome sia finito per l'ennesima volta tanto esposto.
"Quelli a metà." rivela con strafottenza, spalleggiato da quel colosso di Boero "Un mezzo inglese, con un mezzo contratto con una mezza tacca, che fa finta di essere un mezzo uomo. Non mi stupisco che non partecipi alle battaglie magiche: io mi sotterrerei, se fossi in te."
Ecco, l'ha detto. 
Schifoso bastardo, se speri che tu e quel deficiente del tuo compare ne uscirete senza le ossa rotte... speri giusto.
Stavolta speri giusto, perché Atlas sospira, ruotando gli occhi che finiscono ancora una volta su di me, facendomi riportare il baricentro più verso lo schienale dello sgabello.
Lui e la sua dannata mania di fare da solo, tutto da solo, sempre da solo. 
Non é nemmeno una questione di magie, di talento o cazzate varie: é proprio fatto così. 
Lo é sempre stato, da quando ci spaccavamo la testa sui libri di matematica a quando rientravamo alle tre, schivando i rimproveri di sua madre assonnata. 
Nonostante tutta la gente di cui si é sempre circondato, Atlas é una delle persone più sole io conosca. 
Pur essendo pieno di amici, pur avendo sempre l'agenda stracolma e un sorriso affabile dipinto in volto, é come se sentisse il dovere di reggersi in piedi da sé per evitare di far collassare anche gli altri, quasi portasse davvero il peso del mondo sulla sua nuca. 
"Non partecipo alle tue penose battle perché mi è sempre pesato sparare sulla Croce Rossa, manica di scarsi." commenta con una naturalezza disarmante. "Ma una lezione non si nega a nessuno, no?"
Il piccolo nucleo di fate esclama un eccitato "Uuh!" che illumina il suo volto di bronzo e, con una rapidità che nessuno riesce a concepire, uno scintillio gli compare tra le dita ossute della mano destra.

Altro oro, ma stavolta è diverso. 
È aggressivo, rabbioso, animalesco.
È una coltellata dritta alla trachea che sporca di sangue il suo bell'abito blu notte e sbarra gli occhi di Ferraris. 
Nessuno sembra avere il tempo di processarlo, sembra una specie di macabro scherzo. 
I primi a capire urlano, non possono fare altro, mentre la vittima si accascia tra le braccia del suo Contratto.
Atlas è di una calma disarmante, immobile davanti ai fiotti del suo avversario che ancora lo inondano. 
"Sei impazzito?!" gli urla contro Boero accucciato ai suoi piedi, mentre impone le mani sulla ferita che non accenna a rimarginarsi. "Cazzo, sei impazzito?! L'hai ucciso!" 
Lui scuote le spalle, lancia in aria la lama a serramanico che ha usato per compiere il delitto e questa si dissolve in una manciata di polvere. 
La ferita e il sangue spariscono del tutto, lasciando solo Ferraris svenuto al suolo, con un'espressione di shock rivolta al cielo stellato.
La Regina si alza dal suo trono, rivolgendosi al pubblico: "Il Maestro Fowley, signore e signori!" annuncia entusiasta, seguita da uno scroscio di applausi "Se non ci lascia a bocca aperta, non può dirsi contento, mi sbaglio?" 
La musica riprende mentre Atlas sorride sorione alla sua ospite e Ferraris viene trascinato a bordo della pista, su una panchina.
"Okay, okay: fermo immagine. Guarda come faccio: lo faccio sembrare facile!" Sento canticchiare il mio amico, per poi suggerire al barista: "Fai un'acqua e zucchero a quel poveretto: tra un'ora ti torna in piedi come nuovo. E mettici anche un Frozen Daiquiri." Quasi si dimentica di me: ha l'aria vagamente persa, mentre attende che il barman faccia scivolare verso di lui un drink di un rosa improponibile. 
"Funziona ogni volta, eh?" commento con una bonaria gomitata, sperando di attirare la sua attenzione. 
"Già, incredibile" ride appena, cercando di darmi corda. Tuttavia non può nascondere il respiro ancora irregolare e i muscoli della mano tesi.
Non beve quasi niente, ma dà un'occhiata al mio bicchiere ormai vuoto.
"Sai che c'è?" fa all'improvviso, scendendo con un piccolo slancio dallo sgabello che si era scelto "É una brutta serata. Che ne dici se torniamo da me? Un Jack e Cola te lo rimedio." 
Scuoto le spalle: perché no? Dopotutto, é uno dei baristi più generosi al mondo. 
"Va a occhio", sostiene, ma in realtà non ha assolutamente idea delle dosi e potrebbe rendere troppo carica anche un'acqua tonica.
"Ma sì, dai." Lo assecondo, seguendolo verso le frange più esterne della pista da ballo.
Lui fa un rapido cenno di saluto alla Regina Seelie, levandosi un cappello immaginario, e ci allontaniamo dalla festa non appena lei ricambia, liberandoci dal suo vincolo.


Di quel Jack e Cola, in tutta franchezza, non ho ricordi.
Mi risveglio sul pouf della sua mansarda in San Salvario e, dall'odore presente nel modesto salotto, qualche drink deve esserci stato. 
Lascio che la luce tiepida che filtra dal lucernario mi scaldi la barba rada delle guance.
Il sole di una domenica mattina di fine maggio bussa impertinente alle mie palpebre, ma ho un gran mal di testa e nessuna voglia di aprirle. 
Cambiando posizione, mi accorgo che l'orlo dei miei jeans é pesante e si muove in una materia densa. 
La stessa sensazione risale lungo le gambe e la pancia, fino a circa l'altezza dello stomaco.
"Cazzo, non di nuovo!", è il mio primo pensiero. 
Mi sveglio di soprassalto e l'intera stanza è invasa da circa un metro d'acqua scura, in rapida crescita. 
Atlas, gettato sul divano al capo opposto della sala, galleggia a faccia in giù sul pelo di quel mare che pare voler ingoiare l'appartamento. 
Avanzo attraverso l'inondazione, che dal bacino sta raggiungendo il petto, proseguendo come un profugo verso la sagoma riversa del mio amico. 
Cercando di voltarlo, mi tremano le mani e la voce: il suo viso é dello stesso color carta da zucchero delle tende e del tappeto, completamente zuppi. 
"Svegliati Atlas!" lo chiamo, reggendogli il capo sul petto per impedire che ricada giù.
Il suo corpo esile viene trascinato dall'acqua, che usa la stoffa del suo abito per beffarsi di Archimede e inghiottirlo. 
Non è un mare comune: la fisica qui è solo un abuso di notazione e le sole leggi che valgano sono quelle dettate dal suo subconscio. 
Le stesse leggi che tante volte l'hanno dichiarato colpevole e condannato, senza che la realtà potesse avere diritto di parola.
"È solo un'illusione" tento di rassicurarlo, accarezzandogli il volto mentre le sue ciocche bionde si stringono come tentacoli sui miei avambracci "È solo un sogno, hai potere su tutto questo. Respira. Ti prego, respira."

Di fronte a quella preghiera, eccolo accettare di nuovo ossigeno nei suoi polmoni e aprire gli occhi. 
Mi sfugge un sospiro dalle labbra; suona come la parola "Finalmente.
Sul suo viso affilato ci sono le stesse sensazioni di Ferraris. 
Le ho imparate a conoscere e riconoscere, in questi anni. 
Le conto, una per una: paura, confusione, una sorta di reset e poi pura percezione. 
Vedo i suoi occhi registrare la carta da parati ocra, il soffitto spiovente, la luce del sole e il mio viso preoccupato.
Abbozza il mio nome tra un corto respiro e l'altro, lo pronuncia come se si fosse appena svegliato da un incubo. "Cesare."
Mi riconosce e allunga febbrilmente le braccia all'indietro. 
Mi tasta il volto e i capelli come se fossero il suo unico appiglio alla vita. 
Ogni istante di contatto é puro sollievo che si irradia attraverso il mio corpo.
"Certo che sono io, scemo di guerra." gli sorrido rincuorato sotto i mustacchi scuri.
Le mani gli cadono sul viso e, in un battito di ciglia, la stanza torna normale. 
Ci siamo solo noi, io a gambe incrociate sul tappeto e Atlas con la testa posata sui miei stinchi. 
Lo stesso sole di maggio a scaldarci, lo stesso mal di testa da sbronza a stringerci le tempie. Due file mute di lacrime gli attraversano gli zigomi sotto le dita ossute, per qualche tempo non dice nulla.
Aspetto con pazienza che la sua mente e il suo corpo si riallineino, mentre lego pigramente le punte dei suoi capelli in molle treccioline. 
Il costo dei suoi poteri viene riscattato in quei lunghi minuti. 
Una volta gli ho chiesto cosa facesse, con gli occhi serrati e in perfetto silenzio, sdraiato sulla prima superficie disponibile talvolta anche per mezz'ore intere.
Mi ha risposto che convince il suo cervello di cosa sia vero. 
Conta cinque cose: una che può vedere, una che può toccare, un suono che può ascoltare, un profumo che può odorare e un gusto che può assaporare.
Cinque sensazioni, cinque picchetti per ancorarsi alla realtà.
Finita quella diatriba con la sua mente, lo vedo contarli sulla punta delle dita e cercarli con gli occhi.
Cerca il mio viso e le cuciture ruvide del binder sotto il tessuto elastico della sua camicia.
Sente il cinguettio delle rondini, l'ammorbidente che usa sui suoi vestiti e il vago aroma di Jack Daniel's che ancora non gli abbandona la bocca.
Prende un respiro e schiude lentamente le palpebre.
"Bentornato a casa" lo accolgo, rasserenato.
"Non l'ho ucciso, vero?" chiede conferma Atlas, con ancora la voce incerta.
"No, Ferraris sta bene" lo rassicuro "se n'è andato poco prima di noi, imprecando. Eri troppo distratto dal tuo ghiaccio per notarlo."
I muscoli del suo viso si rilassano in una smorfia di sollievo.
"Grazie al cielo" sospira "cosa farei senza di te?" 
"Andresti ad accoltellare stronzi che ti chiamano mezzo uomo" dichiaro con aria pragmatica, alzandomi dal pavimento e trascinandomi fino al cucinino. 
La moka del pomeriggio precedente giace ancora nel lavabo, con pochi gesti automatici ne preparo una nuova.
"Non é stato quello a farmi innervosire "mi rivela, ora più serio. "É che nessuno ti chiama mezza tacca." 
"Non fare l'avvocato del diavolo, adesso" lo rimprovero "Non é un mistero che io non sia tutta sta gran cima di stregone. Quelli che dicono che ti spetterebbe un Contratto migliore non hanno torto. Che ti sto simpatico, poi, é un altro conto." 
"Dicono solo puttanate" decreta, azzardando perfino un termine scurrile. 
Deve pensarlo davvero, se non ha scelto giri di parole. "Tu sei l'unico a non volermi solo per quello che so fare. Sei l'unico che sappia riportarmi alla realtà, anche quando il mondo vero ha così poco senso. A volte, vorrei perdermi per sempre, crearmi un mondo tutto mio e non tornare mai più. Però non voglio perdere te: sei tutto ciò che mi tiene qui." 
Seduto sul pavimento, ha la stessa faccia bambina e spaurita di quando ci siamo scelti.

Il suo rito era una pura formalità, roba da famiglie antiche. 
Era un richiamo a quando quei voti eterni si usavano per combattere, per giurarsi protezione e devozione reciproca. 
Ma in questi tempi di pace, in cui il peggio che può capitare è una rissa da bar, solo chi ha tempo da perdere a bisticciare sul sangue li fa ancora. 
Talvolta, due metà di un Contratto non si rivedono per il resto della vita, se non a ingessati eventi ufficiali.
Per Atlas non è mai stato così, ci ha sempre tenuto a queste cose. 
Sua madre aveva scelto con premura una metà adatta a lui, scandagliando tutti i figli in età adeguata delle altre famiglie degne di nota, ma senza mai interpellarlo.
Quando lui lo scoprì, corse via come una furia. 
Lo cercammo in lungo e in largo per tutta la città, setacciandola palmo a palmo, finché non lo ritrovai che fissava le punte dei suoi piedi sospesi sopra l'acqua del fiume, in un molo mezzo nascosto al Valentino. 

"Dice che non capisco niente perché ho solo tredici anni" si lamentò, con quel fare ancora bambino "È lei che non capisce niente: io non lo voglio il figlio dei Ferraris, è uno sconsiderato. Io me ne vado." 
"Andartene?!" ansimai, ancora col fiato corto per la corsa "E dove?! Con chi?! Sei ancora un moccioso, come pensi di sopravvivere?" 
"Non parlo di andarmene in qualche posto" spiegò, disegnando con cura le venature delle assi di legno del porticciolo "Ho letto che alcuni maghi scelgono di vivere in un mondo loro. Usano la magia illusoria per sistemare quello che non va." 
"Saresti una specie di zombie" realizzai, con una punta di preoccupazione.
Atlas scosse le spalle "Chi se ne frega."
"A me frega, scemo di guerra!" La voce mi tremò più di quanto avrei voluto. 
"Ma non a Ferraris!" replicò lui, con gli occhi umidi e un fare rabbioso che non gli avevo mai visto "Nè a mia madre, probabilmente. Non farò un contratto con quello solo per farla felice. Un Contratto si fa con qualcuno che proteggeresti. Con qualcuno per cui daresti la vita, uno che se lo meriti." 
"E sti cazzi!" Replicai, fregiandomi dei miei tre anni in più "Dare la vita è una cosa seria, Atlas! Per chi lo faresti, sentiamo? Per me?" 
Atlas alzò i grandi occhi verdi, colmi di una luce molle e umida, come se fosse appena stato accusato di un crimine. 
"Beh, che ci sarebbe di male? Tu sei l'unico che non mi guarda come se fossi strano." Riprese, spostando ancora lo sguardo "Per tutti gli altri, o sono forte o sono un mostro. Tu invece vedi le mie magie come se fossero un sogno. Se devo avere un Contratto, voglio che sia con te." 
"Ma non dire boiate!" l'avevo esortato "Chi credi che sia, io? Sono il figlio dell'autista, mica di una di quelle Contesse Viendalmare. Che pensi direbbe la gente?"
"La gente ha già tanto da dire."
Dispose sulle gambe il piccolo tesoro che si era stretto al petto fuggendo: un coltellino richiuso e il sacchetto di sale consacrato che aveva rubato a sua madre. 
Con fare determinato, sparse la polvere traslucida sulle assi di legno in un tremolante pentacolo e incise il palmo destro. 
So che gli fece male: ricordo bene il respiro irregolare che aveva e le lacrime che gli pungevano gli occhi, mentre mi tendeva la mano. 
Rimasi impietrito a fissare il sangue che gli scivolava pulsante tra le pieghe della pelle, radunandosi in una piccola pozza al centro della stella. 
"Non voglio nessun altro Contratto, se non sarai tu" singhiozzò Atlas "Non c'è nessun altro per cui darei la vita, in nessuna Grande Famiglia di questo stramaledetto mondo. E non me ne frega niente se mia madre ci resterà male: già l'ho delusa quando ho smesso di essere sua figlia. Sei il mio più grande amico, ciò che di meglio mi è rimasto: diventa il mio Contratto, dammi una ragione per restare."

Fu l'unica volta in cui presi qualcosa che non pensavo mi spettasse. 
Per uno come me, fu come ricevere un bacio in fronte dal Papa. 
Quando tagliai con un impulso rapido anche la mia pelle e strinsi quel patto, Atlas sorrise con una luce che non avrei mai immaginato di poter vedere. 
Quell'incredibile bagliore dorato mi aveva fatto sentire di essere importante per qualcuno. 
Senza le luci della sua fama, il suo oro é un metallo opaco e smorto. 
Cosa ne sa, la regina Seelie, dei demoni che lo inseguono? Delle colpe che si arroga?
Chissà se lo vorrebbe ancora con sé, se quell'aura di perfezione finisse incrinata.
Tra tutti i suoi amici patinati, nessuno ha mai visto il vero Atlas, quello che insegue disperato la musica delle feste e il vociare delle persone per tenere il cervello occupato e non farsi sommergere.
Gli tendo una mano per aiutarlo ad alzarsi: la sua pelle è fresca, gli occhi che mi rivolge sono circondati da un alone di rimmel bluastro sbavato. 
Lo osservo, così diverso dall'uomo che tutti conoscono. 
Col pollice asciugo i rimasugli di quel trucco ormai andato e gli scanso i capelli dal volto: finalmente lo riconosco di nuovo e istintivamente lo stringo in un abbraccio che sa finalmente di casa.
"Ci sarò sempre per riportarti qui."
Soffio tra respiri ormai tremuli, mentre l'aroma intenso del caffè si diffonde in tutta la stanza.
"Ma tu resta."
   
 
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