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Autore: QueenOfEvil    29/08/2020    0 recensioni
Prima che Aa perdesse due dei suoi tre occhi. Prima dell'ultimo verobuio. Prima della Profezia.
Mia era senza alcun dubbio "una ragazza con una storia da raccontare".
Ma, vedete, gentili amici, quella definizione poteva benissimo valere anche per i suoi genitori.
"Julius non aveva mai visto qualcuno morire quando, a sei anni non ancora compiuti, Atticus aveva deciso che era il momento per lui di assistere al suo primo venatus magnii. Non conosceva l’odore ferroso del sangue, né il modo in cui la sabbia cambiava colore, mentre dai corpi caduti sbocciavano fiori vermigli. Non conosceva le urla estasiate della folla adorante, né tantomeno quelle agonizzanti degli schiavi che trovavano la morte per l’altrui divertimento.
Dopo averli conosciuti, non era riuscito a dormire per settimane.
La seconda volta, quando di anni ne aveva otto, era andata meglio: si era limitato a rimettere il suo ultimopasto, l’illuminotte seguente.
La terza, l’unica reazione che quello spettacolo gli aveva procurato era stata uno sbadiglio."
Genere: Avventura, Fantasy, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash | Personaggi: Alinne Corvere, Altri, Julius Scaeva, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Neh diis lus'a, lus diis'a'
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Avviso: in fondo al capitolo, nelle solite note finali, darò indicazioni più precise circa quello che voglio fare una volta finita questa prima parte. Se volete avere un'idea più precisa di quello che succederà dopo il prossimo capitolo...


Altare spoliat, ut aliud operiat





 

Un altare.
Delle scale.
Una firma.
C’erano tre colonne portanti nella pianta mentale dell’edificio che stava costruendo, tre nodi nella corda che avrebbe usato per raggiungere la libertà, propria e di suo padre, ed era importante che fossero disposte nell’ordine corretto, e non presentassero crepe né difetti di progettazione: la perfezione poteva non essere di questo mondo, ma costituiva anche la principale prerogativa perché tutto funzionasse. Ed eppure, eppure, se avesse dovuto descrivere il suo stato d’animo, quell’illuminotte -la quarta illuminotte della settimana-, Julius non avrebbe detto di sentirsi nervoso, o spaventato: anche senza la confortante presenza del proprio passeggero, pronto a cibarsi della sua paura al primo segno di debolezza, l’eccitazione per ciò che si apprestava a compiere avrebbe seppellito qualsiasi dubbio potesse ancora nutrire sulla buona riuscita del piano.
Ce l’avrebbe fatta. Senza spazio per i ‘se’ o i ‘ma’.
Non era stato facile aspettare. Dal momento in cui aveva preso la sua decisione, il momento in cui lui e Cassius si erano incontrati e aveva scoperto di non essere l’unico tenebris a camminare sul suolo della Repubblica, era passata più di una settimana, nove cambi in cui aveva dovuto lavorare sodo e quasi senza sosta, capo chino, sguardo basso e una completa obbedienza per nascondere il fuoco che gli bruciava le vene. Ma la pazienza era un’altra delle virtù che aveva imparato, nel suo soggiorno ad Elai, e né gli ordini bruschi di Forgiacatene, né il caldo e la sete che lo accompagnavano costantemente dall’inizio della veraluce, né tantomeno la conversazione che aveva origliato tra sua zia ed un administratii, avente ad oggetto una prossima marchiatura, lo avevano convinto ad affrettare i tempi: al contrario, aveva indulto nei propri compiti con un piacere sottile, pensando ad essi come a piccole gocce destinate a riempire un vaso già ricolmo d’acqua. Non mancava molto, ormai, prima che il recipiente traboccasse.
Ed infine, il suo momento era arrivato.
Inserì il passepartout nella serratura della biblioteca e spinse le porte con un movimento che aveva già osservato mesi prima, quando disperazione e sospetto gli avevano fatto seguire Hëloise in quella  stessa stanza: tante cose erano cambiate da allora, lui era cambiato, ma trattenne comunque il respiro quando passò oltre la soglia, lo sguardo subito catturato dalla moltitudine di libri e scaffali che riempivano le pareti. Fece scorrere le dita sui dorsi delle rilegature, perso nella contemplazione di uno spettacolo che gli procurava meraviglia ed invidia al tempo stesso, e si chiese quanti di quei volumi sua zia avesse davvero letto, e quanti invece tenesse perché parte del patrimonio e tradizione familiare: il mero collezionismo era un difetto che aveva contraddistinto anche Atticus, a suo tempo, e il denaro speso per le statue, e gli arazzi, e i dipinti di cui non si sapeva nulla tranne che erano preziosi era con facilità annoverabile tra le tante cause che lo avevano infine portato alla Pietra. Si chiese, anche, cosa sarebbe successo se suo padre fosse stato più oculato nell’amministrazione dei suoi averi. Se avesse badato più alla sostanza che all’apparenza. Se se se…
… Julius, non abbiamo molto tempo…
La voce di Sussurro lo riscosse dai suoi pensieri, strappandolo dal regno delle possibilità per riportarlo a quello del reale: l’ombravipera aveva ragione, le loro ore erano contate e sprecarle in sciocche fantasticherie era il modo migliore per far naufragare il progetto ancora prima di cominciare. Così, distolse gli occhi dai libri con la promessa di tornare ad occuparsene in futuro -un futuro molto prossimo- e li rivolse verso l’alto, identificando una scala di legno e le scanalature del soffitto dove essa doveva essere incastrata. Proprio accanto ad esse, talmente sottile da risultare quasi invisibile, si intravedeva una ringhiera, che accompagnava un passaggio largo ed alto abbastanza da permettere ad un adulto di camminarvi.
E alla fine di quel passaggio…
Julius aveva la gola secca, il viso in fiamme e la divisa che indossava -gli unici indumenti che possedeva, escludendo quelli con cui si era presentato alla villa tre mesi prima, ancora nascosti nella sua borsa ed ancora macchiati di sangue- gli rendeva difficile respirare, ed eppure sentì un brivido freddo insinuarsi tra le scapole. Ricordò il tocco di una mano sulla sua spalla, il dolore, e si preparò a quello che sarebbe seguito: un conto era sopportare una tortura inaspettata, ma sottoporvisi volontariamente…
Scosse la testa, allontanando pensieri che lo avrebbero solo rallentato, e si concentrò sulla scala, che risultò più difficile da spostare di quanto avesse sperato: Hëloise -un’adulta, che dormiva sei ore abbondanti al cambio e per la quale i tre occhi del Semprevigile non costituivano nulla di più di una fonte di luce- aveva faticato non poco per posizionarla e Julius rischiò, nei suoi primi tentativi, di farla cadere sopra la propria testa, producendo un frastuono che avrebbe senza dubbio risvegliato l’intera villa. Sussurro si muoveva tra le ombre del soffitto, dandogli le indicazioni necessarie -“… Un po’ più a destra… No, ora va’ indietro… Ci sei quasi, un ultimo sforzo…”- e anche così, quando finalmente si sentì uno scatto e la scala si stabilizzò nel modo desiderato, si ritrovò già zuppo di sudore: aveva deciso di non mangiare nulla, all’ultimopasto precedente, perché sapeva che quello che si apprestava a fare avrebbe reso impossibile tenere nello stomaco qualsiasi tipo di cibo, ma in quel momento rimpianse di non avere un po’ di forze in più. Gli sarebbero servite tutte.
… Stai bene…?
“Sì,” rispose, ed esitò un momento, prima di aggiungere “Per ora”
… Non sei obbligato a farlo…” Sussurro gli si arrotolò al collo, spostando il non-sguardo dal suo compagno alla loro destinazione “… E non so se potrò aiutarti, quando…
“Lo so,” posò il piede sul primo piolo “ma non sono buone ragioni per lasciar perdere”
Durante la lenta salita, Julius cercò di non concentrarsi su quello che sarebbe avvenuto di lì a poco. Invece, lasciando che la mente vagasse nei luoghi che più la attiravano, ripensò ad Oonan, e a quanto semplice sarebbe stato per lui orchestrare la stessa sceneggiata che egli stesso stava preparando in quel momento: aveva avuto gli elementi a disposizione per anni, e gli riusciva difficile credere che l’idea non lo avesse mai sfiorato -neanche per un momento, neanche mentre vedeva Hëloise muoversi nelle proprie ricchezze con la consapevolezza che a lui non sarebbero toccati che gli scarti-. Ma tra sua zia e il medico c’era troppo passato perché potessero ragionare lucidamente -lo spettro di una sorella e di un’amante a congelarli in una silenziosa danza in cui dimenticare era impossibile, e ricordare troppo doloroso-: Hëloise aveva votato la sua vita al culto del Semprevigile ed Oonan aveva ripiegato su un’altra divinità -la Sopravvivenza-, che venerava con la medesima convinzione. E Julius, che era stanco di sopravvivere e basta, che aveva aspettato e ricercato per mesi un’occasione che gli permettesse di prendere totale controllo la propria vita, non poteva che guardare ad entrambi con un misto di sufficienza e disprezzo che si concretizzavano in un’unica differenza: dove loro avevano sperato ed atteso, lui avrebbe agito.
Una scelta, quella, che lo inorgogliva ed inquietava al tempo stesso, perché aveva come risultato un cammino a senso unico.
Arrivò in cima alla scala -solo un passo a separarlo dal corridoio che avrebbe dovuto percorrere- e l’ombra attorno a lui si gonfiò, mentre Sussurro si occupava della paura che, adesso sì, aveva iniziato a scavare un tunnel nel suo stomaco.
Venti metri lo separavano dal suo obiettivo.
Venti metri, e tre cerchi dorati.
Non si sarebbe tirato indietro.
Inspirò ed espirò profondamente, assaporando l’aria che entrava ed usciva dai suoi polmoni: era ben conscio che per i prossimi minuti quel piacere gli sarebbe stato negato. Infine, mettendo fine ad un’immobilità che rischiava di protrarsi in eterno, si issò sulla piattaforma sopra di lui.
E si ritrovò davanti alla Trinità.
Per quanto avesse creduto di essere pronto, per quanto tempo avesse passato cercando di abituarsi all’idea di quello che lo avrebbe atteso, Julius scoprì che nulla -e di certo non un ricordo sbiadito- poteva essere paragonabile allo strazio che avvertì subito percorrere ogni fibra del suo corpo. Ogni proposito immediatamente abbandonato, si raggomitolò a terra, testa tra le mani ed occhi serrati: gli sembrava di bruciare e di soffocare al tempo stesso, e si rese presto conto, pur con il cervello in fiamme e la vista appannata dalle lacrime, che quello che stava provando non era solo il proprio dolore -la propria paura-, ma anche quello di Sussurro. Che il suo compagno, come aveva temuto sin dall’inizio, reagiva al simbolo del Semprevigile come e forse peggio di lui.
… Fa… Fa male…” L’ombravipera si stava contorcendo al suo fianco “… Fa… Fa così male…
No, non faceva male. Descrivere il potere della Trinità come ‘fare male’ equivaleva a definire l’universo come ‘grande’: non rendeva affatto l’idea.
Julius aprì la bocca per rispondergli, ma tremava troppo per articolare una frase compiuta. Provò a cambiare posizione, sdraiandosi per terra e rivolgendo il capo verso l’altra estremità del passaggio e ci riuscì, pagandone però il prezzo con un’ulteriore scarica di dolore. I muscoli si rifiutarono di contrarsi ancora, anche solo per strisciare.
basta basta per favore basta
Quei venti metri che lo separavano dall’altare gli parvero all’improvviso una distanza immensa. Impossibile. L’odio di Aa lo teneva bloccato al suolo, e lo comprimeva, bruciava, asfissiava con tanta forza che doveva fare appello a tutto se stesso anche solo per rimanere cosciente. Era stato arrogante a pensare di poterlo sfidare. Di poter competere con un essere più antico della Storia stessa, ed infinitamente più potente di un uomo. C’erano dei limiti che non potevano essere superati: lo stava imparando a sue spese.
Gettò uno sguardo alla scala, subito sotto di lui: era vicina. Di sicuro più vicina dell’altare. E se si fosse sforzato, se avesse usato tutte le sue energie per calarsi giù da quei gradini, forse avrebbe potuto farcela. 
Spostò una mano in quella direzione, gemendo di dolore.
Mettersi al riparo dalla Trinità. 
Allungò un braccio.
Tornare nella sua camera e dormire qualche ora prima del successivo turno di lavoro.
Si trascinò più vicino.
Venire marchiato.
Fu quel pensiero a fermarlo, quando già era sul punto di afferrare il primo piolo della scala. Perché se avesse rinunciato, se fosse tornato sui suoi passi, quello era il destino che lo attendeva. Un cerchio arkemico sulla guancia destra, calli alle mani e sguardo basso per gli anni a venire, nella vana speranza di ripagare un debito di cui non sapeva l’entità. Non avrebbe più rivisto Godsgrave, e le sale di necrosso, la piazza centrale, il Senato sarebbero diventati per lui sogni fumosi di un’epoca passata, un vago ricordo di chi era e non sarebbe mai più stato.
Il suo accento gli sarebbe diventato estraneo.
Il suo nome non sarebbe più stato quello di un uomo libero.
E anche quando -se- fosse riuscito a soddisfare sua zia e ricomprare la sua libertà, con un’educazione incompleta e sbiadita il massimo a cui avrebbe potuto aspirare sarebbe stata una vita mediocre. Anonima.
La sua unica alternativa sarebbe stata scappare, ma questo avrebbe voluto dire trovarsi senza un tetto sopra la testa, costretto a mendicare e rubare per mantenersi in vita.
Mera sopravvivenza.
E tutto perché un dio che non aveva mai offeso aveva deciso di odiarlo senza ragione.
Tutto, perché un’entità ignota si era data un nome, una natura divina e aveva preteso obbedienza e sottomissione, senza concedere nulla in cambio che pochi doni.
Ma Julius non voleva sopravvivere.
La fame che sentiva corroderlo dall’interno, che lo divorava per mancanza di altro di cui nutrirsi, non si sarebbe certo saziata con briciole.
Ed era stanco -stanco ed arrabbiato- che altri credessero di poter dirigere e limitare la sua vita, perché nessuno tranne lui doveva arrogarsi quel diritto.
Neanche un dio.
Soprattutto un dio.
E così, malgrado ogni fibra del suo corpo stesse andando a fuoco, malgrado le sue guance fossero bagnate di lacrime e le sue gambe rifiutassero di reggerlo, Julius rispose alla condanna di Aa con altrettanto astio. Con altrettanto odio.
Il suo cervello iniziò ad elaborare una strategia.
Alzarsi non era un’opzione: anche se ci fosse riuscito, ed era un grande ‘se’, percorrere quei venti metri in piedi avrebbe richiesto una forza e una resistenza che ancora non possedeva. Camminare, però, non era essenziale. Ignorò il lamento del proprio corpo e quello di Sussurro, li rinchiuse nel medesimo scompartimento in cui aveva sigillato sensi di colpa e dubbi, e lentamente, dolorosamente, iniziò a trascinarsi verso la sua meta.
Più si avvicinava, più lo strazio cresceva di intensità. Annegava, bruciava, veniva fatto a pezzi, ricomposto e smembrato di nuovo.
Ma non demorse.
Le ombre della stanza iniziarono ad agitarsi anche loro, rispondendo alla violenza che veniva loro fatta con altrettanta violenza. Julius sentì confusamente dei tonfi sordi tutt’attorno a lui, mentre procedeva, ma non si fermò a verificarne la causa.
Il suo obiettivo era arrivare in fondo, ed in fondo sarebbe arrivato.
Quando le sue dita sfiorarono il legno laccato dell’altare, Julius provò una gioia feroce, assoluta, che gli fece momentaneamente dimenticare anche il proprio dolore: ce l’aveva quasi fatta. Mancava solo un ultimo sforzo, anche se tutt’altro che piccolo. Non c’era speranza che lui riuscisse a raggiungere il suo obiettivo con la Trinità ancora visibile e scintillante nella stanza: doveva sbarazzarsene. Ma per sbarazzarsene avrebbe dovuto toccarla.
Lentamente, talmente lentamente da risultare quasi impercettibile, Julius spostò il proprio peso sulle mani. Raccolse le gambe. Afferrò la ringhiera accanto. Cercò di tirarsi su.
Il primo tentativo non dette risultati. Al secondo, riuscì a sollevarsi di qualche pollice, prima di ricadere nella precedente posizione. E così anche il terzo, il quarto e il quinto. Le sue mani erano scivolose per il sudore, e nella gola sentiva il familiare sapore del vomito. Non aveva quasi più forze, i contorni delle cose si facevano sempre più sfocate e sapeva che se non avesse fatto in fretta sarebbe svenuto, come già gli era capitato, ma con un’importante differenza: nessuno lo avrebbe trovato, non per molte altre ore. Un tenebris poteva morire per un’eccessiva esposizione alla Trinità? Preferiva non scoprirlo sperimentando in prima persona.
I tre soli continuavano a bruciare, nei cieli come nella stanza e il loro potere non accennava a diminuire di intensità. Julius non sapeva quanti altri tentativi gli sarebbero stati concessi, ma non potevano essere molti. Così, traendo il respiro più profondo che poteva in quelle condizioni, attinse ad ogni sua energia e senza badare al dolore e alla fatica provò

ad alzarsi

in piedi

una sesta volta.
Quell’illuminotte, in quel preciso istante, la volontà del Semprevigile si scontrò con quella di un ragazzino di tredici anni.
E perse.
Le gambe gli tremavano troppo per reggerlo e Julius perse subito l’equilibrio, andando a cadere sopra l’altare ed afferrandone i bordi per sostenersi. Tese il braccio verso i soli, denti stretti e sguardo dritto davanti a sé, e quando le dita si serrarono sulla cordicella che teneva la Trinità sospesa sopra l’altare le sue labbra si spaccarono in un silenzioso grido di dolore -male male male male male-, ma non lasciò la presa. Delineando il piano, nei cambi precedenti, aveva pensato di lanciare il simbolo giù dalla ringhiera, ed occuparsene dopo essere ridisceso -dopo aver fatto quello per cui si era recato in biblioteca in primo luogo-, ma un’improvvisa ispirazione gli consigliò altro: con le mani che gli tremavano, usò lo spago come collana, indossando la Trinità e lasciandola scivolare all’interno dei suoi abiti.
E, proprio come era iniziato, il dolore finì.
Un sollievo inimmaginabile lo colse, mentre cadeva nuovamente carponi e respirava a pieni polmoni l’aria calda -ma non più arroventata, non più bollente- della stanza. Vomitò quel po’ di bile che ancora gli era rimasta nello stomaco e pensò, distrattamente, come se stesse osservando la scena dal punto di vista di uno spettatore esterno, che avrebbe dovuto trovare un modo per pulire, ma anche che quella non rientrava tra le sue immediate priorità.
Ce l’aveva fatta.
Si era scontrato con l’ira di un dio e ne era uscito vincitore.
Da solo.
La gioia feroce che lo aveva assalito poco prima ritornò -amplificata da una soddisfazione pura e cristallina-, paura e dubbio si dissolsero come bolle di sapone e, guardandosi attorno, gli sembrò che l’intera scena fosse assolutamente esilarante.
Scoppiò a ridere, per la prima volta dopo più di tre mesi.
Il pensiero del simbolo del Semprevigile ridotto ad impotenza, penzolante dal collo della stessa persona da lui odiata, era assolutamente delizioso.
Scoppiò a ridere e, una volta iniziato, scoprì di non riuscire a fermarsi.
… Julius… Stai bene…?” Sussurro gli scivolò accanto, attorcigliandosi ai suoi piedi e frenando il suo scoppio di ilarità.
“Sì,” replicò, riprendendo fiato e asciugandosi le lacrime dagli occhi “tu?”
… Anche…” L’ombravipera sibilò, rabbia e sconcerto nella sua voce: “… Mi avevi detto che era doloroso, ma non pensavo…
“Già. Ma almeno,” si toccò la camicia nel punto in cui il ciondolo era nascosto, a diretto contatto con la sua pelle, le sue labbra distese in un sorriso sottile: “non dovremo più preoccuparcene. Non nell’immediato, almeno”
Sussurro spostò lo sguardo dal suo compagno alla stanza, e poi di nuovo al suo compagno: “…  Non voglio metterti fretta, ma riesci ad alzarti…? Ho paura che non abbiamo molto tempo…
“Credo di sì,” Le gambe ancora tremavano, e la testa gli girava, ma senza la Trinità a splendere sopra di lui ogni suo movimento era più facile e leggero. Non fu complicato rimettersi in piedi, viso rivolto in direzione dell’altare: “La parte più ardua è finita. Da adesso in poi, dovrebbe essere tutto in discesa. Mi domando,” aggiunse, dopo un momento di pausa “come la prenderebbe Oonan, se sapesse che questo mio intero progetto si basa solamente sulle sue rivelazioni”
Il medico aveva parlato parecchio durante i loro colloqui, quando non gli faceva domande sui suoi poteri o lo minacciava attraverso la Trinità, ma c’erano due frasi che avevano colpito Julius e che gli erano tornate in mente l’illuminotte passata da Distillaluce, quando ancora il sangue sotto le sue unghie era fresco e i due cadaveri abbandonati per strada caldi.
La prima riguardava un’abitudine di Hëloise, da ricollegare al suo amore per la divinità.
Julius lanciò un’occhiata al mobile davanti a lui e storse il naso: a parte ninnoli e oggetti di culto -un libro di preghiere, un vaso pieno di fiori secchi, un’effigie raffigurante il Semprevigile e le sue quattro Figlie- non c’era nulla degno di nota appoggiato su di esso. Per fortuna, le sue speranze non confidavano in quello che avrebbe trovato sopra.
Mi ha confidato, una volta, di tenere tutti i suoi documenti più importanti proprio in un cassetto all’interno dell’altarino, come se la fede bastasse a tenere alla larga i malintenzionati*.
Si inginocchiò davanti all’altare come avrebbe fatto un fedele, memore degli insegnamenti impartitigli dal padre spirituale della zia: gomiti poggiati sugli angoli, dita delle mani intrecciate e sguardo basso. Aveva pensato a lungo a come individuare il cassetto, che di sicuro non poteva essere in bella vista, e alla fine era giunto alla conclusione che, se sua zia voleva che la fede proteggesse i suoi averi più preziosi, allora ella doveva essersi assicurata che solo un credente potesse accedervi. E non vi era modo migliore per dimostrare il proprio zelo che pregare.
La sua ipotesi si rivelò corretta: il peso di entrambi i gomiti nella posizione corretta fece scattare qualcosa, nella parte inferiore del mobile, qualcosa che solo uno sguardo basso -prosternato ed umile- avrebbe potuto notare. Una piccola scanalatura nel legno, un appiglio.
Sussurro emise un sibilo di approvazione e si accostò ulteriormente all’altare, mentre Julius si sedeva a gambe incrociate davanti ad esso e si apprestava ad aprire il cassetto nascosto.
Sì, la prima rivelazione di Oonan era stata accurata, ma da sola non gli sarebbe servita a molto.
La seconda, invece…
Non c’era molto, in quel cassetto. L’atto di proprietà della villa, vecchie lettere ingiallite firmate da persone con tutta probabilità morte da anni, quello che aveva tutta l’aria di essere un documento vergato da un Gran Cardinale in cui benediceva Hëloise e la sua discendenza. E infine, nell’angolo in fondo a sinistra, ripiegato con cura ed inserito in una busta di carta accuratamente chiusa, per proteggerlo dalle intemperie e dal trascorrere del tempo…
Hëloise ha fatto testamento, anni fa, scritto di suo pugno e sigillato con uno dei suoi timbri, e sono quasi del tutto certo che abbia lasciato le sue intere sostanze alla Chiesa**.
Julius staccò il sigillo di ceralacca con uno scatto deciso del polso e posò la busta sull’altare, mentre leggeva il contenuto del testamento; una volta finito, arricciò le labbra in una smorfia di disprezzo. Oonan aveva previsto giusto, riguardo le intenzioni di sua zia: non aveva lasciato nulla a lui, né a suo figlio. Ogni cosa, tutto il suo patrimonio, sarebbe stato devoluto alla Chiesa.
Che spreco.
Non era la prima volta che vedeva un documento mortis causa e sapeva a grandi linee il suo contenuto, quello che andava scritto perché esso fosse valido, i suoi prerequisiti essenziali: vivendo in una città come Godsgrave, morti, sospette e non, erano all’ordine del cambio ed era importante, per la familia e per il proprio stesso bene, conoscere diritti e clausole che avrebbero potuto permettere o impedire un passaggio ereditario. Di questo, almeno, Atticus era a conoscenza e aveva fatto in modo che anche il figlio non fosse del tutto all’oscuro dell’argomento.
Julius rilesse con attenzione il foglio una, due, tre, quattro volte di più, imprimendosi bene lo stile di scrittura della zia, il modo in cui ella pensava le frasi e le articolava sulla pagina, fino a che non fu soddisfatto. E poi, con un movimento secco delle mani, lo strappò in due.
“Direi che qui abbiamo finito,” disse, mentre Sussurro gli si arrotolava al collo “sarà meglio scendere e tornare in camera, prima che anche gli altri si sveglino”
Una volta ridiscese le scale, trovò uno spettacolo insolito ad attenderlo: più di un libro era caduto dagli scaffali, finendo sul pavimento sotto di essi, ed altrettanti giacevano in posizioni scomposte l’uno sopra l’altro, come se un terremoto avesse scosso le fondamenta della stanza. Julius ripensò ai tonfi che aveva sentito, poco prima, mentre la sua ombra e quelle attorno reagivano per il dolore inflittogli dalla Trinità, e soddisfazione e meraviglia gli illuminarono il viso: l’ordine compulsivo in cui l’ambiente era stato congelato per anni -forse decenni- sembrava essersi rotto, una volta e per sempre. E non sarebbe stata l’unica cosa a rompersi, quel cambio.
Julius richiuse silenziosamente la porta della biblioteca alle sue spalle, in una mano ancora i pezzi del testamento strappato e al collo il simbolo del Semprevigile, e si diresse verso la propria camera, per prepararsi a quello che sarebbe seguito.
La prima colonna era stata costruita.
Ne mancavano due.


 

❊❊❊

 

Se, appena arrivato alla villa di sua zia, qualcuno gli avesse detto che sarebbe riuscito ad uscire da quella situazione rompendo un vaso, Julius lo avrebbe con tutta probabilità preso per pazzo: aggiungere debiti alla sua lista sembrava una pessima, pessima idea per ripagare quelli di suo padre. Ed eppure, dopo un attento vaglio delle possibilità, la sopracitata soluzione era risultata essere la migliore.
Il quinto cambio della settimana era arrivato e, in un inaspettato colpo di fortuna, a Julius era stata assegnata la pulizia dell’atrio: avrebbe trovato comunque un modo per essere in quel posto a quell’ora precisa, inventare scuse non gli era mai riuscito troppo difficile, ma esservi assegnato rendeva il tutto ancora più facile. Non avrebbero dovuto esservi sospetti di alcun tipo sul suo conto, né nell’immediato futuro, né mai.
Aveva passato l’intera mattinata a spazzare il pavimento, osservando con occhio critico e attento il resto della servitù che insaponava energicamente le scale e poi iniziava ad occuparsi delle finestre, e aveva sentito il suo mal di testa ritornare più forte di prima, peggiorato dalla grande quantità di veraluce che filtrava dalle finestre; aveva creduto, il cambio in cui era giunto alla villa, che il caldo al suo interno, e soprattutto in quella stanza, non potesse peggiorare: vedeva, con il senno di poi, che aveva sbagliato i suoi calcoli. Ma, se fosse andato tutto come sperava, non avrebbe dovuto sopportare i tre occhi del Semprevigile e il loro riverbero sulle bianche pareti della casa ancora per molto.
Si apprestò ad alzarsi dalla sua posizione, con la scusa di andare a prendere altra acqua per gli stracci, e la sua ombra vibrò debolmente, in anticipazione di quello che sarebbe seguito nei prossimi minuti: i soli lo indebolivano, era vero, ed era altrettanto vero che la sua presa sulle tenebre era più difficoltosa che in precedenza, ma la sensazione metallica della Trinità a contatto con il suo petto era uno sprone ed una rassicurazione ancor più efficace della presenza di Sussurro.
La sua volontà si era dimostrata più forte di quella di un dio: non si sarebbe di certo arreso di fronte ad un banale trucco con le ombre.
Forgiacatene entrò dal corridoio di sinistra, braccia incrociate sul petto e camminata sicura, pronta ad osservare e giudicare ogni loro gesto: Julius si era fatto l’idea -un’idea che non ebbe mai la possibilità di verificare e che quindi rimase nulla di più di un sospetto- che quella donna, marchiata sulla guancia destra al pari di tutti gli altri, provasse un piacere ruvido nel comandare i propri sottoposti con inflessibilità e rigore militari, quasi a compenso della libertà perduta. Era una dinamica che gli sembrava familiare, ormai: per quanto corto fosse il raggio d’azione di un individuo, questi trovava la sua consolazione nell’esercitare il proprio potere sui gradini inferiori della scala sociale. O, più semplicemente, su coloro che sapeva non avevano gli strumenti per ribellarsi.
L’impotenza ottenebrava le menti ed inacidiva gli animi.
In quel caso particolare, gli sarebbe tornata utile.
Prese in mano la scopa, con un movimento abbastanza veloce da attirare l’attenzione della donna, e si diresse verso l’imbocco del corridoio di destra, a fianco del quale vi era una piccola mensola: Julius l’aveva notata, nei suoi primi cambi al servizio della zia, perché sembrava l’unico tipo di arredo laico ammesso in quegli ambienti. Ad un secondo sguardo, però, si era dovuto ricredere: le immagini che lo decoravano erano senza alcun dubbio pitture sacre. Le Quattro Figlie, affiancate l’una all’altra, nell’atto di proteggere il dominio che era stato loro assegnato dalla benevolenza paterna, tutto sotto il triplice sguardo del Semprevigile. Julius non si intendeva particolarmente di storia dell’arte -un’altra delle lacune della sua educazione, dovuta al poco interesse di Atticus prima e alla mancanza di denaro poi-, ma gli era piuttosto chiaro che il valore di un oggetto simile, antico e di ottima fattura, lo rendeva un elemento prezioso e custodito con cura: una sua eventuale rottura sarebbe stata sufficiente per mettere in moto la catena di eventi sperata. Così, rivolgendo silenziose scuse al creatore di quell’artefatto, Julius finse di inciampare e usò la scopa per dargli una spinta decisa.
Il vaso scivolò, rimase per un interminabile istante in bilico sul bordo della mensola, ed infine precipitò al suolo, infrangendosi in mille pezzi sotto lo sguardo inorridito degli altri schiavi. E, soprattutto, di Forgiacatene.
La sua reazione non si fece attendere.
Julius si sentì afferrare da dietro per il colletto della camicia da una mano grande e forte e il suo sguardo incontrò quello della donna Dweymeri, scintillante d’ira: “Tu, piccolo… hai la minima idea di cosa hai fatto?”
“Dovete scusarmi, magistra, davvero, io non…” scosse la testa, occhi bassi e voce tremante “… non l’ho fatto apposta! Il pavimento era scivoloso e stavo cercando di fare in fretta e sono caduto e…”
“Le tue scuse non hanno valore. Tu non hai valore.” Il modo in cui Forgiacatene rafforzò la sua stretta su di lui pronunciando quelle parole gli ricordò, seppur indirettamente, Oonan e la mano dell’uomo sulla sua spalla. Strinse i denti e si sforzò di sopportarlo: “Quello che hai appena rotto, invece, ne aveva uno ben preciso”
“Vi supplico, non… magistra, perdonatemi, è stato un attimo di disattenzione, un incidente, non si ripeterà più, ve lo assicuro, sui tre occhi del Sem-” Non riuscì a completare la frase, perché la sua interlocutrice lasciò la presa sulla sua giacca e lo spinse a terra. I cocci del vaso gli tagliarono il palmo e il dorso delle mani e si andarono a conficcare nella sua camicia, strappandogli un gemito di dolore.
“Finisci quella frase e mi assicurerò che tu non possa più spergiurare per il resto della tua vita,” Forgiacatene lo guardò dall’alto in basso, sfidandolo ad alzarsi. Julius non si mosse, sguardo fisso sul sangue che stava gocciolando dalle sue mani, imbrattando di rosso il pavimento e il vaso in frantumi: “E non spetta a me decidere della tua punizione. Hai danneggiato una proprietà della domina, e la domina avrà l’ultima parola a riguardo”
“No, vi prego, non chiamatela, troverò il modo di sistemare tutto, di ripararlo, di…”
“Silenzio!” La donna gli puntò un dito contro, minacciosa abbastanza da far fare un passo indietro agli altri schiavi, radunatisi attorno a loro per non perdersi lo spettacolo: “Non dirai un’altra parola fino a che la padrona non sarà qui, oppure mi assicurerò personalmente che tu te ne penta. Sono stata chiara?”
Julius annuì, sguardo basso e labbra strette.
“Eccellente. Tu!” Forgiacatene si rivolse a uno dei servitori, un uomo anonimo, di discendenza itreyana, di cui Julius non si era neanche mai dato la pena di imparare il nome: “Va’ di sopra ad avvertire la domina e vedi di sbrigarti!”
Lo schiavo obbedì all’ordine senza fiatare, correndo su per le scale e rischiando di scivolare sui gradini ancora bagnati: i suoi passi riecheggiarono nell’atrio, sempre più di stanti, diretti con tutta probabilità verso lo studio di Hëloise. Poi, sulla scena scese il silenzio.
Aspettando l’arrivo della zia, Julius non alzò lo sguardo da terra neanche una volta, perché già sapeva cosa avrebbe visto: Forgiacatene davanti a lui, in attesa che commettesse un passo falso che le desse l’autorizzazione ad intervenire -un atto di insubordinazione, una mancanza di rispetto-, e il resto dei servitori, la maggior parte dei quali non erano per lui che macchie anonime, con gli occhi sgranati e sollievo nel cuore perché no, non era capitato a loro, non sarebbero stati loro a venire puniti. A nessuno in quella stanza interessava di lui, il che era perfettamente giusto, perché neanche a Julius importava nulla di loro: sconosciuti che dividevano un tetto e un impiego, una condizione sociale, presto non sarebbero stati neanche quello. Presto, per lui non sarebbero stati che un guadagno.
Perciò rimase al suo posto, capo chino e occhi fissi al suolo, osservando il proprio riflesso sul pavimento e prestando orecchio al lieve gocciolio del proprio sangue sul pavimento, che seguivano un ritmo molto simile -plic plic plic- a quello del suo cuore. Le dita, appoggiate palmo a terra sul pavimento di marmo, iniziarono a saggiare le ombre attorno a lui e a prendere confidenza con la loro non-consistenza: quando quella di Hëloise fosse arrivata, sarebbe stato pronto.
Ed infine, dopo un tempo che gli sembrò eterno, li sentì: due diversi rumori di passi che si accavallavano l’uno sull’altro. Il respiro affannato del servitore. La voce di sua zia che, imperiosa, chiedeva delle spiegazioni.
Era arrivato il suo momento.
Aveva smesso di avere dubbi sul suo proposito da cambi, ormai, e non aveva paura, o timore, per quello che sarebbe potuto succedere dopo ed eppure, eppure, quando si rese conto che mancavano solo pochi istanti -che stava per succedere. Che lui stava per farlo succedere-, per meno di un battito di ciglia si chiese se non si stesse spingendo troppo in là. Se quella fosse davvero la strada che voleva intraprendere. Se fosse ancora in tempo per tirarsi indietro.
Ripensò al corpo di Bert, abbandonato chissà dove a marcire. A quelli di Anthlem e di Oonan, seppelliti da nulla tranne che dal fango, anonimi nella morte quanto lo erano stati in vita. Sarebbe stato semplice, semplice e terribile, fare la loro stessa fine.
Hëloise era in cima alla scalinata, ormai, lo sguardo rivolto al servitore che l’aveva accompagnata e che le stava indicando Forgiacatene, in piedi vicino al corridoio alla sua sinistra: alla luce dei soli, il bianco del suo vestito, in contrasto con il nero dei suoi capelli, la faceva apparire quasi come un fantasma, un’allucinazione visiva di un occhio troppo stanco.
Julius alzò lo sguardo verso di lei, verso la donna che in pochi cambi l’avrebbe marchiato, riducendolo ad un anonimo servitore alle sue dipendenze, e ricordò quello che aveva appreso sulla vita umana, più di una settimana prima.
E così, proprio mentre ella iniziava la sua discesa, diresse i propri poteri nella sua direzione,

spendibile

arrivò sotto i suoi piedi

sfruttabile

e ancorò la sua ombra al suolo.

sacrificabile
I momenti successivi si susseguirono in un’atmosfera sospesa, come se con il suo gesto Julius avesse strappato i contorni stessi della realtà e avesse dato inizio ad un sogno, sorprendentemente elaborato e coerente.
Hëloise si inclinò in avanti e mosse le braccia con violenza, nel tentativo di recuperare l’equilibrio perduto: vista così, schiena inarcata, lunghe maniche svolazzanti al suo fianco e capelli sugli occhi, sembrava una marionetta che si stesse inchinando davanti al suo pubblico, sul palcoscenico, per annunciare la fine di uno spettacolo.
Rimase in quella posizione per uno, due, tre istanti.
E poi cadde.
Julius la guardò rotolare giù dalle scale -quelle scale così ripide che ogni quinto cambio della settimana venivano lavate ed insaponate e sui cui era così facile scivolare- con la stessa partecipazione emotiva con cui si osserva un tappeto venire srotolato e pulito con il battipanni, attento agli scrocchi e ai lamenti che potevano indicare il raggiungimento del suo obiettivo. Non provava paura, solo trepidazione: se neanche quello fosse bastato, se sua zia non avesse riportato che qualche osso rotto…
C’erano rimedi più drastici, certo, ma non altrettanto puliti.
Forgiacatene fu la prima a reagire, anche in quel caso: dimentica del dramma in corso fino a un momento prima e seguita a ruota dagli altri servitori, scattò nella direzione della sua padrona, accasciata in fondo alle scale. Julius si alzò e fece altrettanto, stando però due passi indietro rispetto agli altri.
Mea dominamea domina, state bene? Riuscite ad alzarvi?”
Hëloise giaceva prona sul pavimento, un braccio piegato all’indietro e i piedi ancora sui gradini da cui era appena caduta. Con una scintilla di esultanza, a Julius sembrò che il suo collo fosse torto in una posizione tutto tranne che naturale.
“State indietro! Tutti quanti, state indietro!” Forgiacatene si inginocchiò davanti alla donna e protese una mano verso di lei, senza però osare toccarla “Mea domina? Mi sentite?”
Il silenzio dell’interpellata sembrò fornire alla donna lo sprone necessario per vincere la sua reticenza: mormorando delle scuse incoerenti e sommesse, ella prese la padrona per le spalle e la girò, scoprendole il viso dai capelli; non appena il suo sguardo incontrò quello di Hëloise, urlò e scattò all’indietro. Julius spostò lo sguardo da lei -labbra spaccate in una smorfia spaventata, mani serrate in pugni impotenti- ad Hëloise e sollievo gli inondò petto, mentre modellava il proprio volto a specchio dell’orrore degli altri presenti: gli occhi della zia, scuri quasi quanto i suoi, fissavano il soffitto, senza vita.
“Vorrei poter dire che mi dispiace,” pensò, nella scioccata immobilità generale, ma si corresse quasi subito. Non aveva senso mentire, specialmente a se stesso: non provava rimorso -o cordoglio-, né desiderava che simili emozioni lo intaccassero. Sua zia aveva tentato di portargli via la libertà, e lui l’aveva ripagata privandola della vita: gli sembrava che ci fosse un qualche tipo di giustizia -deforme e contorta, sì, ma pur sempre giustizia- in tutto ciò; la sensazione di soddisfatta calma che gli riempiva i polmoni, rendendogli quasi difficile respirare, era quanto di più lontano dai sensi di colpa potesse concepire.
… E quindi anche questa è fatta…” Un sibilo gli giunse all’orecchio, udibile a lui solo. Julius non rispose -troppe persone attorno a loro, troppe persone che avrebbero potuto sentire-, ma non dubitava che Sussurro sapesse con esattezza quello che gli avrebbe detto, se avesse potuto.
I primi due, grandi passi verso il suo obiettivo erano stati compiuti.
Ora, tutto quello che gli rimaneva, era convincere chi di dovere a portare avanti il terzo.
E, conoscendo la persona in questione, non credeva che sarebbe stato un compito troppo gravoso.


 

❊❊❊

 

Il terzo passo era al contempo il più semplice e il più incerto. Il più semplice, perché non avrebbe richiesto grandi sforzi da parte di nessuno -una penna intinta nel calamaio e un paio di parole scritte su carta, nulla di più-. Il più incerto, perché esso dipendeva solo in minima parte da ciò che Julius avrebbe fatto: c'era un altro elemento, nell’equazione, che avrebbe dovuto dare i suo contributo. L’idea di coinvolgerlo, in realtà, non aveva entusiasmato Julius né quando gli era venuta in mente per la prima volta -fantasticando ancora ad occhi aperti su un’eventualità che sentiva come distante ed irreale- né nei momenti successivi -rendendosi conto che se davvero voleva andare sino in fondo quel tassello non poteva essere saltato-. Era una necessità amara, a cui non si sarebbe prestato se avesse avuto altra scelta, e anche Sussurro aveva condiviso i suoi dubbi in merito, all’inizio, ma, mentre saliva le scale della villa e si dirigeva verso il suo obiettivo, poteva dire di sentirsi quasi fiducioso: se c’era una cosa che gli eventi passati avevano dimostrato, erano le sue doti di persuasione.
Erano passate solo poche ore dalla morte di Hëloise -o meglio, da quando un medico chiamato in tutta fretta da Forgiacatene aveva ufficialmente dichiarato il suo trapasso- e l’atmosfera della villa poteva essere paragonata a quella in un armadio chiuso a chiave da sei o sette verobui: asfissiante. Julius aveva fatto delle ipotesi su come i servitori avrebbero potuto reagire, dopo aver visto la loro domina rompersi il collo scivolando sul sapone: qualcuno di loro avrebbe colto l’occasione per scappare, forse, defilandosi nelle strade di Elai e salendo poi su una carovana diretta all’interno. Per assicurarsi che gli schiavi non fuggissero, a nessuno di loro era permesso affittare un cavallo o salire su una nave senza esplicita autorizzazione del padrone, che a sua volta doveva provare la sua identità con un documento specifico consegnato dagli administratii, ma c’era sempre qualcuno disposto a correre un rischio, pur di guadagnare qualche mendicante in più. E in una villa incustodita non mancavano certo i soldi necessari. Con suo grande stupore, però, nessuno aveva voluto approfittare dell’opportunità: anzi, la cura e la dedizione riservata al corpo della domina -portato nel suo letto, lavato e rivestito in attesa della veglia funebre- gli erano sembrati genuini.
Aveva scoperto il motivo di questa sollecitudine origliando una conversazione tra due servitrici, dopo aver congedato il medico: Hëloise, qualche anno prima, aveva promesso loro che in caso di sua morte prematura le disposizioni contenute nel testamento avrebbero dato la libertà a ciascuno di loro, a patto che si prendessero cura della casa e di ciò che essa conteneva fino all’avvenuta successione dei beni1; aveva addirittura mostrato loro il punto nel documento in cui metteva per iscritto tale decisione, e ciò li aveva rassicurati. Julius, che aveva letto il testamento per intero e non vi aveva trovato nulla del genere, aveva dovuto riconoscere che il trucco era ingegnoso: convincere i propri sottoposti a non ribellarsi -ed anzi, a lavorare attivamente contro un cambiamento che avrebbe potuto favorirli- con la promessa di ottenere un vantaggio in un indefinito futuro. Il bastone e la carota, solo che la carota era un secondo bastone dipinto di arancione.
E così, non si era neanche dovuto preoccupare che qualcuno di loro fuggisse, riducendo in tal modo il valore totale della proprietà.
Era quasi illuminotte, ormai, e il notaio chiamato dal medico per amministrare la villa non sarebbe arrivato che l’indomani mattina: aveva tutto il tempo per discutere con chi di dovere, convincerlo e portare finalmente a termine il tutto, ma preferiva sbrigarsi in fretta; prima si fosse potuto togliere di dosso i panni del servitore -letteralmente e metaforicamente-, meglio sarebbe stato. Con la maggior parte degli abitanti della casa già nelle proprie stanze e con la padrona distesa nel suo letto, il suo corpo ormai freddo quanto ella si era sforzata di apparire in vita, il corridoio era silenzioso, animato solo dal fioco eco dei suoi passi, e si sorprese di quanto poco quel luogo gli apparisse familiare: ci era stato un’unica altra volta, in un’occasione molto -troppo- simile, per chiedere un altro favore alla medesima persona, ed eppure i contorni del presente faticavano ad allinearsi con i ricordi passati. O forse era solo lui a vedere le cose sotto una luce diversa, ora.
C’era uno specchio attaccato alla parete, quello stesso specchio in cui si era già riflesso, settimane prima, scoprendo che un estraneo ricambiava il suo sguardo, e anche se ricordava l’episodio fin troppo bene -era uno dei pochi su cui preferiva non soffermarsi troppo, uno dei pochi a cui ancora cercava di non pensare- non perse neanche un istante a ripetere l’esperimento: chiedere il silenzioso parere di uno specchio era un sentimentalismo inutile. Sapeva chi era. Non aveva bisogno di nessuno, o di nulla, che glielo ricordasse.
Arrivò davanti alla porta desiderata e fece un respiro profondo: c’era più di un motivo a renderlo quasi reticente, a farlo sentire quasi a disagio per le sue prossime azioni, ma né la reticenza né il disagio erano abbastanza forti da poterlo fermare. D’altronde, non ci era riuscito un dio.
Bussò. Knock, knock, knock. E attese.
“Chi è?”
“Sono io,” la sua voce suonò incerta, carica di una paura che la sua ombra gli rendeva impossibile provare “posso?”
Una pausa. Una pausa talmente lunga da sembrare eterna.
Ma, infine, la risposta: “Sì. Sì, ma certo: vieni pure”
Così, girò la maniglia, spinse ed entrò in camera di Lucius.
Nei cambi passati, Julius aveva cercato di passare più tempo possibile con il compagno, attento a non esagerare e faccende domestiche permettendo: senza la rassicurante presenza del genitore nella stanza a fianco, Lucius faceva fatica ad addormentarsi, aveva spesso gli incubi e, per quanto cercasse di nasconderlo, detestava essere lasciato solo. Julius gli aveva portato il cibo in camera quando l’altro non voleva scendere nella mensa, si era assicurato che mangiasse qualcosa ad ogni pasto ed era spesso rimasto con lui per lunghe ore, durante le illuminotti, per assicurarsi che riuscisse a prendere sonno. Aveva ricercato una soluzione alternativa a quelle attenzioni, ma senza trovarla: Sussurro si era opposto all’idea di tornare nella sua ombra e tranquillizzarlo, argomentando che senza la sua paura il ragazzino vaaniano avrebbe potuto compiere gesti inconsulti di cui poi si sarebbero tutti pentiti, e Julius aveva dovuto dargli ragione, seppur a malincuore. Se era molto facile per lui provare gioia al pensiero della scomparsa di Oonan, un po’ di quell’euforia scompariva ogni volta che posava lo sguardo troppo a lungo sugli occhi cerchiati di pianto di Lucius, o quando lo trovava steso sul letto del genitore, raggomitolato sotto le coperte malgrado il caldo. Era una sensazione che poteva e doveva ignorare, per il suo stesso bene, lo sapeva, ma nel caso specifico seguire i suoi stessi consigli gli risultava difficile: sapeva quanto pesante potesse essere la solitudine, soprattutto per qualcuno che non vi era abituato.
Aveva consigliato a Lucius di scrivere una lettera a sua madre, dicendole quanto capitato -o meglio, una rivisitazione degli eventi abbastanza credibile e meno preoccupante- e avvisandola che si sarebbe tornato da lei il prima possibile: il sollievo provato, quando il compagno aveva fatto mostra di accettare il suo suggerimento, era stato enorme.
Ma ovviamente, per quanto sincera potesse essere la sua preoccupazione per lo stato fisico e mentale di Lucius, c’era stato anche un lato meno altruistico a guidare le sue azioni.
Non gli era difficile immaginare che, in luce dei recenti avvenimenti, il rapporto tra loro si fosse incrinato. Che ci fosse una fessura, una crepa, nello sguardo fiducioso con cui Lucius lo aveva sempre osservato dal cambio in cui si erano incontrati. Ed era un atteggiamento, per quanto  in parte giustificato, pericoloso da incoraggiare: perché il piano funzionasse, perché il proprio disegno venisse tracciato con esattezza, Julius aveva bisogno di assoluto sostegno ed assoluta collaborazione. Aveva bisogno, dunque, di qualcuno che lo considerasse suo amico senza riserve.
Ed era cosciente che la legge dei favori stabilisse il do ut des come precetto generale.
“Come stai?” gli chiese, ancora in piedi davanti alla porta, lo sguardo che si spostava dalla finestra -con le tende tirate al punto che solo pochi raggi di veraluce riuscivano ad entrare nella stanza- al letto, su cui Lucius era seduto, schiena appoggiata al muro e gambe raccolte.
“Abbastanza,” rispose l’altro, con una scrollata di spalle. Dalla morte del padre, sembrava che tutte le sue energie fossero state prosciugate, lasciandolo in uno stato di catatonica indifferenza da cui sembrava riscuotersi solo nelle illuminotti passate in solitudine. Julius non credeva di averlo più visto sorridere, da allora.
Si sedette sul letto al suo fianco, mani sotto le gambe e sguardo basso: doveva arrivare all’argomento con delicatezza.
“Hai già ricevuto una risposta da tua madre?”
“No,” Lucius scosse la testa, senza alzare lo sguardo “ma non è insolito: non è passata neanche una settimana da quando le ho scritto”
“Spero che arrivi in fretta,” Julius corrugò la fronte e spostò il peso da una parte all’altra, dondolando “vista la situazione attuale”
Lucius lo fissò, interrogativo: “Che situazione?”
“Non sei uscito da qui, oggi?”
Il suo compagno arrossì, scuotendo la testa: “No, io non…” sospirò “mi sentivo pesante. Troppo pesante per fare qualsiasi cosa, in realtà”
Non troppo pesante per scrivere, mi auguro, Julius pensò, sentendosi vagamente in colpa per quella riflessione. Solo vagamente, però.
“Però ho mangiato quello che mi hai lasciato, stamattina,” silenzio “Grazie”
Julius gli rispose con un breve sorriso, prima di tornare alle sue domande: “Quindi non hai sentito nulla? Non sai nulla?”
“Cosa dovrei sapere?”
Il fatto che Lucius non avesse messo piede fuori, che non fosse stato sulle scale, che non fosse neanche a conoscenza di quello che era capitato ad Hëloise era una fortuna inaspettata: con le emozioni ancora fresche, sarebbe stato più facile convincerlo a fargli quel piccolo -enorme- favore. Così, con il medesimo tono calmo e controllato di poco prima, iniziò a descrivergli quanto accaduto, tralasciando ovviamente la parte da lui avuta nella vicenda: mano a mano che raccontava, vide il suo interlocutore perdere quel poco di colore che ancora gli rimaneva sul viso e le sue labbra iniziare a tremare: era l’ennesima morte attorno a lui, in una serie che iniziava a sembrare una maledizione, e anche se non gli era mai importato molto della domina, né in bene né in male, sapere che la proprietaria dell’unico tetto sulla sua testa era appena passata a miglior vita non poteva che destabilizzarlo. Julius faticava a biasimarlo.
“E… e quindi?” Lucius riuscì a chiedere, dopo un lungo silenzio, voce strozzata ed occhi sgranati , mentre ricominciava con la sua vecchia abitudine di stropicciarsi il lembo inferiore della camicia: “Cosa succederà… cosa succederà adesso?”
“Credo che domani verrà il notaio a controllare il testamento,” Julius si morse il labbro inferiore “e poi procederà alle sue disposizioni.” E poi, apparentemente cambiando argomento: “Quanto credi che ci vorrà perché la lettera arrivi a tua madre? E quanto perché risponda?”
“La sua replica non potrà arrivare che tra almeno altri dieci cambi. Tra il viaggio, la difficoltà di trovare un messaggero capace e gli imprevisti… ma perché me lo chiedi?”
Lui non rispose.
“Julius?” C’era una traccia di panico nella voce dell’amico, un panico controllato -questo era vero-, ma pur sempre panico “perché me lo stai chiedendo?”
Julius rispose, con lentezza esasperata, come se pronunciare quelle parole gli costasse una fatica estenuante: “Perché io so cosa c’è scritto, in quel testamento. L’ho visto qualche settimana fa, mentre pulivo lo studio di mia zia.” Raccolse un ginocchio al petto e vi appoggiò il mento “Intende lasciare tutto alla Chiesa. Tutto. Soldi, servitù, libri… perfino questa casa. Tra un paio di cambi, nessuno potrà più abitare qui dentro”
Aveva calcato l’accento su quell’ultima frase -‘nessuno potrà più abitare qui dentro’- proprio per far risaltare quanto voleva lasciare sottinteso -né lui, né tantomeno Lucius- e si accorse con piacere che il suo silenzioso messaggio era stato recepito: quella che vedeva sul viso del suo compagno era pura, autentica paura. Non che spaventarlo gli procurasse piacere -tutto il contrario, in realtà-, ma lo considerava un piccolo prezzo da pagare, se avesse poi potuto garantire stabilità, un futuro, ad entrambi: la sincerità, in questo caso come in molti, non lo avrebbe ripagato.
“E non è tutto,” aggiunse, vedendo che il terrore aveva immobilizzato Lucius in una posa da cerbiatto ferito “tutto quello che abbiamo qui, tutto quello che possediamo, lo possediamo solo in funzione del compito che svolgevamo nella casa: tu come figlio del medico, io come servitore, ma ora che non c’è più bisogno dei nostri servigi…”
“… ci toglieranno ogni cosa” Lucius completò la frase per lui, volgendo lo sguardo alla propria stanza ed artigliando le lenzuola sotto di lui “Tutto quanto”
“A te non andrà così male,” disse Julius, fingendo di minimizzare “tuo padre aveva del denaro da parte: anche perdendo quello che hai qui, probabilmente riuscirai ad affittare una camera nella taverna qui vicino ed aspettare lì la lettera di tua madre, oppure potrai prendere una nave e farti portare da lei, io invece…”
“Tu potresti venire con me! Sono sicuro che mamma non si arrabbierà e ti darà un posto dove stare”
Julius distese le labbra in un sorriso amaro: “Dimentichi mio padre. Anche se volessi abbandonarlo al suo destino, cosa che non ho intenzione di fare, ‘Grave è piena dei suoi creditori: hanno lasciato in pace la mia matrigna perché donna, o almeno credo che l’abbiano lasciata in pace, ma se qualcuno di loro mi vedesse… non so quale potrebbe essere la loro reazione. No,” aggiunse, dopo una pausa “non posso tornare a ‘Grave senza un soldo bucato”
“E quindi cosa farai?”
Silenzio.
“Troverò un modo per sopravvivere. Come fanno tutti. Ma credo che tra pochi cambi le nostre strade si separeranno”
Julius appoggiò la schiena al muro, affiancandosi al compagno, e aspettò che le sue parole facessero effetto, le ombre attorno a loro che pulsavano piano, riflettendo la sua stessa impazienza. Voleva che fosse Lucius a prendere l’iniziativa. Che fosse Lucius ad offrirsi. Che fosse Lucius a realizzare di non poter perdere nessun altro, non un amico, non l’unica persona di cui poteva fidarsi nell’intera città. Che fosse Lucius a chiedergli…
“Vorrei così tanto poterti aiutare,” il ragazzino accanto a lui gli si avvicinò, testa inclinata ed occhi lucidi “Ma non so… non so proprio come…”
“Forse un modo c’è” Julius si voltò di scatto, incontrando lo sguardo limpido di Lucius con i suoi occhi neri come il verobuio: “Forse, se giochiamo bene le nostre carte”
“Quale?” Lucius era inclinato verso di lui, peso sulle mani e ginocchia incrociate, e lo osservava, in cerca di risposte: era giunto il momento.
“Mia zia è ricca, molto ricca: questa non è la sua unica proprietà, e so per certo che ha molto altro denaro, custodito da chi si occupa dei suoi affari. Se avesse voluto, avrebbe potuto pagare i debiti di mio padre senza battere ciglio: la sua fortuna non ne avrebbe sofferto. E se avesse deciso di includerci -mi- nel testamento, tutti i miei problemi si sarebbero risolti”
“Ma non lo ha fatto, giusto?”
“No,” nella penombra della stanza, l’espressione di Julius si indurì “ma possiamo fare in modo che sembri il contrario”
“Non… non ti seguo”
“Hëloise ha vergato quel testamento a mano, con nient’altro che una penna e della carta. Inchiostro e fogli non ci mancano, io so cosa bisogna inserire in un documento mortis causa per renderlo valido e per quanto riguarda la calligrafia…” abbozzò un sorriso “a quello potresti pensare tu”
La reazione di Lucius fu immediata. Alzatosi di scatto dal letto, mosse uno, due, tre passi indietro, fino quasi a sbattere contro la finestra: “No,” replicò, con lo sguardo lucido.
“Pensaci,” Julius non si aspettava che l’altro fosse subito d’accordo, e quella reazione era perfettamente in linea con quello che aveva previsto: gli si avvicinò con movimenti lenti e argomentando con voce pacata, ragionevole: “Questo risolverebbe tutti i nostri problemi: tu potrai rimanere qui sinché vorrai, senza avere paura che il messaggero recapitante la lettera di tua madre non ti trovi, e non dovrai rinunciare a nessuno degli oggetti a cui tieni. Io, invece, avrò abbastanza denaro per tirare fuori dai guai mio padre e ricominciare a vivere la mia vita a ‘Grave.”
Lucius scosse la testa, con veemenza: “Ci scopriranno”
“Non ci scoprirà nessuno. La tua imitazione della scrittura di mia zia è eccellente, nessuno ha mai avuto nulla da ridire a riguardo, altrimenti tu e tuo padre vi sareste già trovati nei guai, e il notaio non si stupirà più di tanto: una donna di mezza età che lascia le sue sostanze all’unico parente in vita? È all’ordine del cambio”
“E così tu vorresti…” Lucius si morse le labbra “… che ti intestassi tutto?”
“No,” Julius si passò una mano tra i capelli “vista la sua devozione alla Chiesa, sembrerebbe sospetto. Diciamo… metà e metà: i sacerdoti saranno soddisfatti nella loro venialità e io avrò quanto basta per riunire la mia familia
E non solo.
Lucius si strofinò il naso con l’indice, in un atteggiamento che tradiva reticenza e arrendevolezza insieme: “E gli altri schiavi? Che ne sarà di loro?”
“Allora mi aiuterai?”
“Rispondi alla domanda, prima. Dovremmo liberarli, per compiere una buona azione,” una lacrima gli scese lungo la guancia e, quando terminò la frase, la voce gli tremava “Sono sicuro… sono sicuro che il mio papà avrebbe fatto lo stesso”
Tuo padre avrebbe venduto quegli uomini e quelle donne senza mezzo ripensamento, pensò Julius, replicando invece: “Attirerebbe troppo l’attenzione. Non è costume diffuso rendere la libertà a così tanti servi tutti insieme, neanche dopo la morte2, ma ti do ragione: non sarebbe giusto non prendere provvedimenti, dato che ne abbiamo l’opportunità.” Si umettò le labbra con la lingua “Trasferisci a me la loro proprietà e poi io mi assicurerò che vengano liberati non appena potrò”
“Lo giuri?”
Julius si portò la mano destra al petto, mentre le ombre attorno a lui sfrigolavano senza emettere un suono: “Sul Semprevigile, sui suoi tre occhi e sulle sue Quattro Figlie” disse, in tono solenne.
Lucius lo osservò con attenzione, e molti istanti passarono senza che aprisse bocca, ma infine annuì, un sorriso flebile sulle labbra: “D’accordo, allora. Facciamolo”
Qualcosa di scuro e scintillante passò nello sguardo di Julius al sentire quelle parole, mentre anche l’ultima colonna veniva eretta e il suo progetto prendeva finalmente vita di fronte a lui, perfetto più di quanto avesse osato sperare.
E in quella camera fiocamente illuminata, con una mano sul cuore e una bugia tra i denti, la distanza tra il ragazzo che era e l’uomo che sarebbe diventato sembrò per un istante ridursi a nulla di più che uno schiocco di dita.








[1] Certo, la padrona li aveva però avvisati che, nel caso le cause della sua morte fossero anche solo sembrate sospette, tutti loro sarebbero stati incarcerati e giustiziati senza processo, il che poteva spiegare perché nessuno si fosse mai preso la briga di tentare la via dell’omicidio.
[2] In realtà, era una pratica piuttosto diffusa. Ma Lucius aveva tredici anni, aveva vissuto ad Elai per la maggior parte della sua vita ed era ben lontano dal conoscere le procedure standard della -poca- giustizia itreyana.

*Capitolo 9
**Capitolo 16





Note finali: ed eccoci qui! Questa prima parte è *quasi* finita, nel senso che ormai all'appello manca solo l'epilogo, che pubblicherò ovviamente il prossimo sabatoSpero che questa conclusione vi sia sembrata appropriata e che il tutto si sia incastrato bene. Ho iniziato a scrivere questa cosa con solo una vaga idea di dove sarebbe andata e riguardando indietro ci sono dei pezzi che forse avrei potuto rimettere a posto, ma, onestamente, avessi dovuto anche revisionare il tutto non credo che sarei mai riuscita ad arrivare ad una conclusione. Detto questo, qualche particolare in più su cosa succederà adesso: ho intenzione di lasciare questa prima parte come 'completa' e iniziare una nuova storia poi quando pubblicherò la seconda parte. Cambierà anche di nome, perché Neh diis lus'a, lus diis'a è il nome dell'intera storia, non solo di questo pezzo, il che vuol dire che inserirò il tutto in una serie e vi dico già anche che il nome sarà 'Non c'è ombra senza luce' (prima delle tre parti del proverbio che Kristoff mette all'inizio di Nevernight). Farò questo cambiamento una volta cliccato su 'completa' il prossimo sabato. Per quanto riguarda i tempi di pubblicazione della seconda parte, sarò più chiara la prossima settimana (ma ci sto già lavorando).
Come sempre un grazie di cuore anche solo a chi legge,
QueenOfEvil

   
 
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