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Autore: Ghirigoro1994    31/08/2020    2 recensioni
Dal testo:
La luce arancione di un lampione penetrava nell'abitacolo, tingendo i suoi capelli di un rosso ancor più caldo e acceso, e rendendo i suoi occhi quasi demoniaci.
“Quella è la tua casa?”
Mi abbassai per guardare l'edificio in legno: mi ricordava in modo impressionante alcune baite che avevo visto in Trentino.
“Casa dolce casa”, confermò. Poi il suo tono cambiò e si fece serio, quasi ostile, quando disse: “Ora scenderai da questo lato e correrai dietro di me fino a dentro. Non fermarti e non allontanarti da me o dalla luce dei lampioni, chiaro?”
Non sapevo come reagire... voglio dire, ma faceva sul serio?
A giudicare dallo sguardo, sembrava proprio di sì...
“Cosa?” mugugnai.
“I lupi escono di notte”, fu la sua risposta.
Cosa diavolo centrava la luce con i lupi? Non mi risultava ne fossero spaventati! Ebbi un brivido, immaginando che cose ben più oscure si muovessero fra gli alberi lì attorno.
---(Il rating potrebbe cambiare da arancione a rosso)---
Genere: Dark, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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II
Darktown



“Ci siamo quasi.”
La voce di Robin mi fece -letteralmente- saltare sul sedile: ero talmente esausta ed il calore talmente piacevole, che avevo finito per abbandonarmi ad uno stato di semi-incoscienza.
“Sei sempre così agitata, o è solo che hai avuto una giornata da, diciamo così, dimenticare?” La sua voce non tradiva emozioni, quindi non riuscii a capire se mi stesse accusando o se fosse semplicemente preoccupata per me. 
“Giornata da dimenticare”, gracchiai. Poi mi schiarii la gola in modo che le corde vocali vibrassero normalmente al suono di ciò che volevo dire. “Non sono stata molto educata prima...” mormorai, a mo' di scuse.
Ora mi sentivo leggermente più ricaricata ed ottimista; se poi fossi riuscita ad ottenere un bagno caldo e un letto morbido, be', diciamo che mi sarei mostrata ancor più amichevole.
Il sorriso si espanse e tornò gradevole come qualche ora prima, quando aveva fatto capolino nella mia povera Lancia. 
“Anche io sono stata un po' brusca. Neppure la mia giornata è stata leggera, quindi mi scuso e dichiaro di capirti.”
Il suo tono ora mi rilassava e la promessa -sempre più vicina- di un posto in cui passare la notte, mi fecero pensare di aver agito e pensato come una vera idiota, voglio dire: saltare giù dalla macchina? Andiamo, che stronzata!
“Se posso, a te cosa è capitato?” le chiesi, accoccolandomi diversamente sul sedile, in modo da poterla guardare senza sforzare o anche solo utilizzare alcun muscolo.
Il sorriso lasciò completamente il suo viso, come un'ombra illuminata dal sole. 
“Ero a un funerale.”
Forse fu una cosa un po' meschina, anche se non intenzionale, il primo pensiero che ebbi fu: outfit interessante, per un funerale.
“Mi dispiace... era qualcuno di... ahm, vicino?” 
Lei sembrò non sentirmi, o scelse di guadagnare qualche secondo.
“Era mia zia”, sussurrò, mentre i suoi occhi scattavano sui tronchi che non poteva catturare per più di qualche attimo.
In quel momento, guardando il suo viso di profilo, pensai che fosse straordinariamente bella e triste, è che fosse proprio la tristezza a renderla così affascinante ai miei occhi. Le si addiceva, le calzava con l'eleganza di un abito da sera antico. 
Volevo toccarla, ma allo stesso tempo esitavo persino a respirare per paura di rompere l'incanto del suo viso così maturo e ferito. 
Forse fu orribile da parte mia, ma almeno scelsi di essere onesta con me stessa: vederla soffrire mi diede piacere, il piacere del bello. Un piacere non dissimile da quello che provavo guardando un dipinto o un paesaggio innevato bagnato dalle luci del tramonto. Me ne vergognai, ma non smisi di guardarla, di ammirare la sua fragile compostezza.
Quando avvertii che il mio silenzio si stava facendo troppo lungo e sconveniente, dissi: “Mi dispiace tanto.”
Lei si voltò a guardarmi, ed una parte di me gioì nel vedere pienamente la sua triste bellezza.
Quando scende la notte, Darktown cambia il suo volto.” I suoi occhi mi fissavano, e nel loro riflesso vidi il mio viso sbiancare.
“Cosa...?” mugugnai con un filo di voce, mentre il disagio e la paura ricomparivano.
Senza smettere di guardarmi dritta negli occhi, aggiunse: “Me lo diceva sempre, a ogni tramonto, sempre la stessa frase da anni.”
“Ah... ahm, era malata?” le chiesi, sperando di non essere indelicata, ma allo stesso tempo non cercai neppure di celare il mio sollievo: per un momento avevo pensato stesse facendo la pazza.
“Era bipolare, ma certamente non pazza”, mi rispose, tornando a concentrare la sua attenzione all'esterno.
Non era esattamente quello che intendevo...
Il bipolarismo non uccide le persone, non se non aggiunto ad altre patologie depressive, ma dubitavo, per qualche ragione, che la causa della morte fosse il suicidio. Certamente non erano affari miei, ma la cosa m'incuriosiva: da quando ero diventata orfana, la morte esercitava uno strano fascino su di me... quasi come un'ossessione.
“Sono indelicata o maleducata, se ti chiedo cosa è successo?” dissi, allentando leggermente il nodo della sciarpa: cominciavo a sentire troppo caldo.
Si irrigidì, o forse fu solo l'effetto visivo del suo corpo che si muoveva sul sedile.
“Suv, spegni riscaldamento.” 
Davvero notava ogni mio minimo movimento ed interpretava i  miei pensieri con tanta precisione? Nah, che sciocchezza! Ovvio che se uno cerca di svestirsi è perché non ha freddo! Anche se c'era da considerare pure l'episodio della portiera... sempre se davvero aveva capito che la mia intenzione era quella di fuggire.
“Un branco di lupi l'ha aggredita”, mi rispose, interrompendo i miei ragionamenti.
“Dio...” mi sfuggì, mentre la mia immaginazione ricreava un possibile scenario.
“L'ho trovata la mattina dopo... o meglio, ho trovato ciò che ne restava”, mormorò. Poi si voltò verso di me, e con quello che sembrava un imbarazzato sorriso di scuse, aggiunse: “Mi dispiace, non so perché ti sto dicendo tutto questo.”
“No, ma figurati! Sono stata io a chiedere. E poi dicono che parlare aiuti... insomma, credo”, bofonchiai, mentre raddrizzavo la schiena.
“A te aiuta?” mi chiese, continuando a guardarmi.
Deglutii. “Ahm, a volte...”
In realtà preferivo scrivere le mie emozioni, perché spesso avevo la sensazione che le parole, una volta uscite dalla mia bocca, prendessero l'importanza che il mio interiore poteva attribuire loro a piacimento, mentre sulla carta rimanevano forti e sentite. Era quasi una violenza unita al terrore che il mio interlocutore non capisse o banalizzasse.
“Lei non usciva mai di notte, mai.” Si morse il labbro inferiore. “Non so cosa sia successo quella notte. Mi sento in colpa: non mi sono svegliata, non l'ho sentita uscire...” Abbassò lo sguardo.
“Non è stata colpa tua!” Le parole mi uscirono d'istinto, ma sperai che non suonassero banali o dette a mo' di frase di circostanza.
“Già...” annuì, ma non aggiunse altro.
“Anche io ho perso qualcuno...”
Che diavolo stavo facendo? Forse un tentativo di empatia...
Il suo sguardo si alzò, posandosi sul mio viso. 
“Mi dispiace. Chi hai perso?”
Lasciai il suo volto per concentrarmi sul movimento dei tergicristalli del Suv.

“Tutti.” 
La sentii sospirare. “So cosa vuol dire essere soli al mondo. Mia zia era l'ultimo membro della mia famiglia.”

Passarono diversi minuti, immersi nel silenzio ovattato dell'abitacolo. Poi presi di nuovo la parola.
“Io... ahm, non ho contante con me; pensi che all'hotel mi lasceranno pagare con carta di credito?” le domandai, senza lasciare i tergicristalli.
Con la coda dell'occhio colsi il movimento della sua testa che si voltava verso di me. 
“Non capisco.”
“Sì, sai per stanotte”, replicai, ostinandomi a non voltarmi.
La sentii ridere piano. “Darktown non ha posti del genere. Sarai ospite a casa mia.”
No... non volevo passare la notte con lei. Certo ora il pensiero che fosse una pazza omicida mi stava abbandonando, ma continuavo a non sapere chi fosse o quali fossero le sue reali intenzioni.
“Non riesci proprio a fidarti di me, eh?” 
Presi un respiro profondo e la guardai. 
“Non è così. E' che non ti conosco, capisci?” Ero una persona ansiosa, lo sono sempre stata e sempre lo sarò.
Rise di nuovo, a volume più alto questa volta. 
“E cosa dovrei dire io? Ti ho recuperata su una strada mezza abbandonata ad un centinaio di chilometri da dove hai dichiarato dovessi essere. Dici che le tue IA ti hanno abbandonato. Hai con te pochissime cose e dici di venire dall'altra parte del mondo! Nonostante questo ti ho fatta salire sul Suv, e sono disposta ad ospitarti a casa mia... neppure io so chi tu sia, ma ho scelto di fidarmi dei tuoi occhi.”
Difficile replicare, a quel punto...
Comunque, perché non avevo pensato a chiederle di usare il suo cellulare per chiamare i soccorsi...? Perché non ci avevo pensato?!
Cambio di strategia. 
“Cosa vedi nei miei occhi?” volli scoprire.
Lei sorrise; un sorriso strano, enigmatico e triste. “Il mio stesso vuoto”, mi rivelò infine.
Okay, ora ero davvero a disagio.
“Guarda”, il 
dito affusolato  puntò in avanti, “le luci di Darktown.”
Seguii la direzione da lei indicata e vidi qualcosa di davvero suggestivo: in lontananza, incastonata fra il nero della notte e quello ancora più scuro degli alberi, c'era una specie di opaca sfera arancione che espandeva la sua calda luce scivolando sul bianco della neve e riflettendola fino al cielo. Era davvero uno spettacolo che fu capace di togliermi il fiato. 

La tempesta si era decisamente calmata, e ne fui estremamente grata poiché riuscii a godermi quella vista spettacolare fino alle porte della città.
 

OoO


“Eccoci qua.”
La luce arancione di un lampione penetrava nell'abitacolo, tingendo i suoi capelli di un rosso ancor più caldo e acceso, e rendendo i suoi occhi quasi demoniaci.
“Quella è la tua casa?” Mi abbassai per guardare l'edificio in legno: mi ricordava in modo impressionante alcune baite che avevo visto in Trentino.
“Casa dolce casa”, confermò. Poi il suo tono cambiò e si fece serio, quasi ostile, quando disse: “Ora scenderai da questo lato e correrai dietro di me fino a dentro. Non fermarti e non allontanarti da me o dalla luce dei lampioni, chiaro?”
Non sapevo come reagire... voglio dire, ma faceva sul serio?
A giudicare dallo sguardo, sembrava proprio di sì...
“Cosa?” mugugnai.
“I lupi escono di notte,” fu la sua risposta.
Cosa diavolo centrava la luce con i lupi? Non mi risultava ne fossero spaventati! Ebbi un brivido, immaginando che cose ben più oscure si muovessero fra gli alberi lì attorno.
“Va bene...” mi limitai a dire.
Mi fisso intensamente per alcuni secondi, come se volesse essere sicura al cento per cento che il messaggio fosse stato recepito.
“Dammi la mano”, disse, allungandola verso di me. “Voglio solo essere sicura.”
Esitai: il suo comportamento mi disorientava non poco.
“E la mie valigie?” chiesi, decidendomi ad afferrarle la mano che ora, per qualche assurda ragione, era gelida.
“Le prendiamo domani, saranno al sicuro qui. Non possiamo rimanere fuori di notte, te l'ho già detto.”
La storia di sua zia doveva averla davvero traumatizzata, forse segnata a vita. Non me la sentivo di sminuire le sue paure: sarebbe stata una mancanza di rispetto troppo grande al suo recente lutto.
“Ho capito. Ti seguo”, annuii.
“Okay...” sospirò. Sembrava davvero impaurita. “Okay. Suv, fra dieci secondi spegni il motore”, ordinò.
Vidi che sullo schermo del cruscotto scomparvero le indicazioni relative a luci, velocità, olio, e comparve invece un timer che cominciò a contare all'indietro da dieci.
“Andiamo!” La presa si strinse attorno alla mia mano, mentre lei apriva la portiera e si lanciava all'esterno. 
Non fu facile starle dietro, nonostante fossero appena pochi metri quelli da percorrere. 
Mi voltai un secondo appena e, mentre le luci blu del Suv si spegnevano, avrei potuto giurare di vedere qualcosa di scuro muoversi veloce e scomparire inghiottito dall'oscurità oltre il lampione.
“Veloce, entra!”
Praticamente mi lanciò oltre la soglia.

L'interno era immerso nell'oscurità, poiché la luce del lampione illuminava appena qualche centimetro oltre il davanzale delle due finestre che riuscivo a distinguere.
“Ahm... Robin? Non vedo niente...” dissi, guardando nella direzione in cui immaginavo lei si trovasse.

Sentii la sua voce provenire dalla mia sinistra: doveva essersi allontana dalla porta, muovendosi nel buio.
“Certo, scusami. Baita, accendi la casa.”
Un lieve ronzio e fui accecata da una lampo di luce giallo-arancione, non troppo dissimile da quella dei lampioni esterni.
“Oh, wow...!” Rimasi a bocca aperta: se lavoravo con un minimo di fantasia, potevo anche trovarmi in una baita dei monti della Carnia o del Trentino. “La tua casa è davvero bella...” le dissi, una volta che i miei occhi si furono riabituati alla luce. 
C'era una leggera sfumatura country e tutto quel legno, misto alla luce, infondevano in me una sensazione di calore e appartenenza.
“Ti ringrazio.” Anche lei lasciò vagare lo sguardo per spazioso ingresso come se lo vedesse per la prima volta, o controllasse che tutto fosse in ordine.
Una parte di me era tentata di tacere, ma l'altra fu più forte: “Ehy... ahm, credo di aver visto qualcosa là fuori, mentre i fanali si spegnevano.”
Il suo volto leggermente abbronzato sbiancò. 
“Ti ha vista?!” inquisì, precipitandosi verso la finestra più vicina.
Corrugai la fronte ed esclamai: “Chi?”
Non mi rispose e continuò a scrutare l'oscurità aldilà dei vetri.
“Mi stai facendo paura...” decisi di informarla, abbracciandomi con le mie stesse braccia.
“Baita, sigilla la casa!” ordinò, staccandosi dalla finestra. 
Un secondo dopo ci fu un leggero rumore metallico di qualcosa che scorre ed infine si posa: delle sbarre d'acciaio -come avrei capito in seguito- proteggevano ora le finestre.
“Ma...! Ma scherziamo?!” urlai, sentendomi prigioniera come mai prima. “Non mi puoi tenere qui dentro contro la mia volontà! E' sequestro di persona!” guaii.
“Non ti sto sequestrando, ti sto proteggendo”, rispose, continuando a guardare fuori.
“Da chi?!” 
“Lupi.”
Avanzai verso di lei. “Guarda, ho capito che ci sono dei lupi qui. Ma tu mi hai chiesto se qualcuno mi avesse vista. Qualcuno, non qualcosa!”
“Hai capito male.” 
“Oh no, no, no! Non puoi giocarti la carta della lingua; ho capito benissimo e conosco la differenza fra 'who' e 'what', okay?!” sbraitai.
Finalmente si voltò verso di me, e raddrizzandosi mi sovrastò con tutta la sua altezza 
“Calmati” mi intimò.
“Voglio uscire” palesai.
Mi diressi a grandi passi verso la porta, ma lei con due semplici falcate mi superò, sbarrandomi la strada. 
“Non puoi uscire, lo vuoi capire?” 
“Un corno!" sbottai, senza preoccuparmi di averlo fatto in italiano. "Baita, apri la casa, togli le sbarre o qualunque cosa!” urlai invece in inglese, volgendo lo sguardo verso il soffitto.
Inutile dire che non accadde assolutamente nulla...
“Risponde solo agli ordini dati dalla mia voce...” disse, spazientita come se parlasse ad un bambino lento di comprendonio.
Scattai all'indietro, allontanandomi da lei prima che potesse impedirmi di fare qualsiasi cosa e urlai: “Ransung J396, chiama 911, e invia loro le coordinate della posizione attuale!”  
Sentii la tasca dei jeans tremare e poi la voce del mio cellulare dire: “Spiacente Vittoria, le funzioni di RansungJ396 subiscono interferenza di Baita606; impossibile procedere.”
Alzai gli occhi su Robin, la quale si teneva la mano sulla fronte con aria perplessa e preoccupata.
“Perché la tua baita mi impedisce di comunicare con l'esterno?!”
“Vittoria... la polizia, sul serio?” 
“Giuro che se non mi permetterai di comunicare con l'esterno, io... io...” Eh, io cosa?
“Tu cosa, Vittoria...?” chiese, avvicinandosi a me.
Appunto...
Più lei avanzava, più io indietreggiavo; la mia marcia all'indietro fu però fermata da una parete.
“Io ti aggredirò!” decisi, cercando di apparire minacciosa e determinata.
Si fermò. 
“Buon Dio...” sospirò. “Baita, chiama il 911...”
Rimasi a bocca aperta: fra tutte le reazioni che avevo immaginato potesse avere, quella non era neppure l'ultima.
“Nove-uno-uno qual è l'emergenza?”  La voce di quella che doveva essere un'operatrice echeggiò fra le pareti.
Mi ci vollero diversi secondi per riordinare le idee. 
“Buona sera, ahm... sono tenuta prigioniera da una donna; potete mandare qualcuno, per favore?” supplicai, senza sapere dove guardare.
Sentii la risata incredula di Robin, poco prima che la voce della donna la coprisse.
“Sei sola?” s'informò.
“No, lei è con me...!” risposi, “è qui davanti a me...”
“La persona è armata?”
“Non penso sia armata", comunicai, guardando brevemente la donna che avevo dinanzi. “Ora può mandare qualcuno, per piacere?!” guaii.
“Intanto che rintraccio le tue coordinate, puoi dirmi se sei ferita, o se devo attivare anche un'ambulanza?”
“No, sto bene, voglio solo andarmene!” sbottai.
“Il sistema non riesce a rintracciare la telefonata. Non preoccuparti, inserirò i dati manualmente. Sai dove ti trovi?”
“Ahm, sì... più o meno ad un centinaio di chilometri a nord di Toronto, Canada, in una cittadina di nome Darktown.” Guardai Robin, ma lei non sembrava intenzionata a fermarmi, si limitava invece a fissarmi con le braccia conserte.
Ci fu un tempo in cui il silenzio regnò sovrano, poi: “Sei consapevole si tratti di reato?” La voce aveva perso tutta la dolcezza  e la cordialità di pochi secondi prima.
“Certo! E' sequestro di persona! Se no avrei chiamato un idraulico, no?!” sbraitai.
“No, signorina, questo è procurato allarme!" sbraitò a sua volta. "Dalla voce capisco che non sei una bambina, quindi preparati a ricevere una denuncia. Fornisci le tue generalità, avanti!” 
“Cosa diavolo sta dicendo...?” mugugnai, attonita.
“Non esiste alcuna città con quel nome! Vergognati! Il tempo impiegato per prestare attenzione alla tua burla potrebbe essere costato la vita ad una persona”, mi sgridò.
“Ma... ma... ma...” boccheggiai.
“Baita, interrompi telefonata”, mormorò Robin, prima che la donna potesse continuare a inveirmi contro.

“Cosa diavolo era quello?!” esplosi.
Lei alzò le spalle. “Succede spesso: inventano scuse per non intervenire. Questo posto è molto isolato e a nessuno gliene frega nulla.”
Mi lasciai scivolare lungo la parte fino a ritrovarmi seduta per terra. 
“No... no... no... dev'essere uno scherzo... il 911 non può rifiutarsi d'intervenire!” gridai, prendendomi la testa fra le mani.
Mi si avvicinò lentamente, forse temeva uno scatto violento da parte mia.
“La stazione di polizia più vicina si trova a sessanta chilometri da qui. E' un miracolo se intervengono d'estate, figurati d'inverno, per di più durante una tormenta. Comunque, spero che la tua scenata isterica sia finita. O devo aspettarmi ulteriori psicosi, da parte tua?”
“Perché mi hai portata qui...?” borbottai, continuando a nascondere il viso fra le mani.
“Mi faccio la stessa domanda. Forse sarebbe stato più facile lasciarti morire su quella strada.” Fra le fessura delle mie dita vidi le sue gambe che si allontanavano.
Quelle parole mi avevano ferita, ma una parte di me era cosciente di essersele, in parte, meritate.
Rimasta sola, mi abbandonai ad un pianto silenzioso ma decisamente isterico.
Forse dovevo semplicemente smetterla di opporle resistenza, insomma, fare buon viso a cattivo gioco... alla fine dovevo solo aspettare il giorno, poi me ne sarei andata e non avrei mai più dovuto sentir parlare di lei e delle sue assurde vicende.
Rimasi per terra per minuti che potevano tranquillamente essere ore. Ma alla fine, col naso che colava come quello di un moccioso, mi diressi dove avevo visto scomparire le sue gambe.


Mi appoggiai allo stiepide della porta della cucina e la osservai. “Hai un fazzoletto?” Avevo la voce nasale di un cavernicolo e le corde vocali impastate di muco. 
Lei sedeva ad un piccolo tavolo con una tovaglia a scacchi bianchi e rossi, la classica tovaglia della nonna, o della zia... insomma. Posò la tazza da cui stava bevendo e rimase a guardarmi per alcuni secondi.
“Certo.”
Si alzò e, avvicinandosi al piccolo lavandino, aprì un mobile di legno scuro da cui prese tre strappi di carta da cucina. Si fermò a una distanza considerevole da me e allungò il braccio.
“Grazie...” Presi la carta e cominciai una lunga serie di soffiate di naso tutt'altro che eleganti.
“Va meglio?” mi domandò, tornando a sedersi.
Esitai e, respirando ancora a fatica, mi avvicinai al tavolo. 
“Posso?” chiesi, sfiorando una sedia con i polpastrelli.
Lei annuì, poi riprese a sorseggiare il liquido scuro che aveva nella tazza.
Rimanemmo in silenzio mentre il vento ruggiva.

“Vuoi del caffè? Giuro, non proverò ad avvelenarti”, mi chiese, dopo molti minuti di silenzio ostinato.
Immagino mi fossi guadagnata quella frecciatina...
“A quest'ora?” 
Lei scrollò le spalle. “Ogni momento è buono per il caffè. Ma per te sarà meglio una camomilla...”
Seconda frecciatina...
“Sarà meglio... sì”, concordai. “Sei gentile.” Già, come se non lo fosse stata per tutto il tempo...
“Già...”
Terza...? Non saprei.
Bevve ancora un sorso, svuotando il contenuto della sua tazza, e si alzò.
Mi voltai a guardarla mentre con movimenti sicuri si muoveva  nella piccola cucina per rimediare il necessario alla preparazione della bevanda. 
Osservai le sue scapole danzare sotto il tessuto della camicia e mi ritrovai a pensare di volerla toccare. Per scacciare quei pensieri inopportuni, cominciai con la domanda più facile, prima di passare a ciò che davvero mi tormentava.
“Perché riuscivi a stare nella bufera nonostante tu fossi così poco vestita...?”
La danza delle sue scapole si fermò solo per pochi istanti, per poi riprendere più frenetica, quando mi rispose: “Genetica, suppongo.”
“Quindi è una cosa di famiglia?” continuai.
Mise in funzione il bollitore e si voltò verso di me. 
“Non dobbiamo farlo per forza.”
“Che cosa?”
Lei allungò il braccio e lo alzò; un movimento veloce, spazientito. “Questo. Conversazione. Ho capito di non piacerti, e non dobbiamo fingere che non sia successo nulla”, espose, evitando il mio sguardo.
Prima di perdere tutto il poco coraggio accumulato, chiesi: “cosa c'è realmente... là fuori?”
“Ooof...” esalò. “Te l'ho già detto.”
“L'ombra che ho visto era troppo alta per essere un lupo. Pensavo di essermelo immaginata, ma poi tu hai cominciato a dare fuori di matto.”
Si colpì il petto col indice con una violenza tale, che il suono sordo del suo sterno mi fece freddo ai polsi. “Ora sono io quella che fa la matta?!” ridacchiò, incredula.
“Cosa c'è la fuori che ti terrorizza tanto?” Ero decisa a non cedere.
Con uno scatto veloce fu sopra di me e le sue grandi mani impattarono sulla superficie del tavolo, producendo un rumore simile a un boato. 
“Quale parte di 'mia zia è stata sbranata da dei lupi', non riesce a entrarti in testa?!” mi urlò a pochi centimetri dalla faccia. “Buon Dio, cosa c'è che non va in te?”
Cercai di sostenere il suo sguardo, ma cedetti quasi subito: i suoi occhi erano così grandi; ed ora, le pupille dilatate, scintillavano di quella che presumo fosse ira.
“I lupi non sfondano porte o finestre”, borbottai, abbassando lo sguardo sulle sue mani: erano davvero grandi e davano un'idea di sicurezza e forza. 
Ammetto che fu stupido da parte mia, ostinarmi tanto, quella sera. Insomma, non avevo appena detto che sarebbe bastato aspettare l'alba? Ma il tarlo del dubbio e della paura mi tormentavano.
“E va bene, se ci tieni tanto a scoprirlo...”
Vidi la sua mano muoversi e impugnare il mio braccio, chiudendolo in una morsa talmente dolorosa da costringermi a gemere.
“Vieni!”
Praticamente mi alzò di peso e, trascinandomi per il braccio, mi riportò all'ingresso.
“Mi fai male! Lasciami!” urlai, cercando in tutti i modi di divincolarmi, ma la sua era una presa d'acciaio.
“Baita, rilascia la casa”, ordinò, fermandosi alla porta d'ingresso.

Il rumore metallico di prima tornò a stridere.
“Cosa stai facendo...?!” Gridai nel panico.
Con la mano libera afferrò la maniglia e spalanco la porta. Mi tirò verso l'uscita ed il gelido vento mi ferì il volto.

“Vai!”
Tutto ciò per cui avevo lottato era a portata di mano, ma improvvisamente era diventato tutto ciò che proprio non volevo.
“Okay...” Avevo il fiatone e il vento contribuiva a causarmi problemi. “Okay, starò buona... lo prometto!” uggiolai.
La presa sul mio braccio -se possibile- si fece ancora più stretta e un sorriso esasperato le deformò i bei lineamenti. 
“Va' fuori...” Sibilò, lasciandomi finalmente andare.
“No, ascolta, per favore... morirò di ipotermia là fuori!” supplicai.
“Ho detto...” La vidi portarsi una mano dietro la schiena e, probabilmente dalla tasca posteriore dei jeans, estrasse un coltello a farfalla. “... Va' fuori...”
“Oddio!” gemetti.
“Ora!” urlò, avvicinando la lama al mio petto.
D'istinto indietreggiai fino a trovarmi oltre la soglia; il vento era talmente impetuoso da spingermi e da rendere i fiocchi dei proiettili di ghiaccio.
“Ti prego, mi stai condannando a morte!” le gridai, tentando di sovrastare il fragore del vento.
“Sono ore... ore, che provo a salvarti! Ore! Hai capito? Ora ne ho abbastanza di te e della tua pazzia! E' chiaro che tu sia in cerca della morte. Eccola, è alle tue spalle, vai!” gridò in risposta, mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime, forse di rimorso, o forse solo a causa del vento, non seppi dirlo.
Non riuscivo più a sentire le orecchie, il naso, le mani e lentamente neppure più i piedi, e una fitta dolorosa mi stava perforando la schiena. 
“Ti prego...” Mi lasciai cadere in ginocchio, incapace di rimanere in piedi. “Ti prometto che non farò più nulla... lo prometto...!”
Lei rimase ferma, a fissarmi. 
L'ultima cosa che ricordo è il bagliore della lama che rifletteva la luce arancio. Poi le tenebre mi presero. 

 

OoO


Riemergere dal pozzo dell'incoscienza fu un processo graduale e per nulla semplice.
Percepivo la mia bocca come qualcosa di enorme, sospeso in un vuoto nero, sembrava fatta di sabbia e granelli dal sapore sgradevole: ero decisamente disidratata. Quand'era stato l'ultima volta che avevo ingurgitato dei liquidi? Non ne avevo idea... non sapevo neppure che ora fosse o dove mi trovassi; i miei occhi erano pesanti e rifiutavano di aprirsi.
Avevo dei pensieri sconnessi e continuavo a percepire le diverse parti del mio corpo come cose a sé stanti, che fluttuavano o erano schiacciate da qualcosa che non conoscevo o riuscivo a spiegare. 
Sentivo freddo, ma una parte di me era cosciente di essere madida di sudore. Probabilmente avevo la febbre alta, questo avrebbe spiegato i deliranti pensieri della mia mente.
Provai a muovermi nella nebulosa bolla nera in cui sentivo di trovarmi, ma il mio corpo non apprezzò l'iniziativa. Il dolore si propagò come delle radici che crescevano ad una velocità incredibile.
L'oblio mi riprese con sé ancora prima che potessi veramente provare a sfuggirgli.

Non sapevo quanto tempo fosse passato dall'ultimo mio, chiamiamolo così, risveglio.
La bocca era ancora riarsa ed il mio corpo continuava a dolere, ma i miei pensieri erano leggermente meno confusi. 
I ricordi cominciarono a riaffiorare a scatti e frammenti difficili da interpretare, almeno all'inizio. Con molta lentezza e un grande sforzo di concentrazione, cominciai a riunire i puntini.
Ricordavo il momento in cui avevo perso il controllo della mia Lancia... le IA che mi avevano abbandonato... e poi un viso, un viso davvero bello e triste, incastonato in morbidi capelli rosso scuro.
E poi fu come essere investiti da una cascata; ogni ricordo tornò nitido e vivo.
Mi aveva obbligata ad uscire... puntandomi contro un coltello...! Quella era l'ultima immagine che avevo. Mi trovavo sul suo portico? Per questo motivo, sentivo così freddo?
Aprire gli occhi fu molto doloroso: avevo le palpebre completamente appiccicate e cercando di sperarle mi stavo strappando delle ciglia. Per quel motivo e per quello che vidi quando riuscii a mettere a fuoco, forse sarebbe stato meglio continuare a tenere gli occhi chiusi.
L'enorme muso di un lupo torreggiava su di me. 
Urlai... o credo di averlo fatto. Ma stando a quello che accadde dopo, no, non emisi un fiato.

   
 
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