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Autore: Cassandra caligaria    01/09/2020    3 recensioni
Tutti umani, trentenni. Le vicende narrate saranno ambientate per la maggior parte nella Boston dei giorni nostri.
La narrazione sarà tutta dal punto di vista di Edward, con qualche extra dal punto di vista di Bella.
Dal primo capitolo:
Mi guardai intorno ammirando l’eleganza dell’ambiente quando ad un certo punto rividi la ragazza del parcheggio che parlava con Rosalie vicino all’ascensore.
«Lei lavora qui?» domandai a Jasper.
«Chi?»
La indicai con un dito e proprio in quell’istante i nostri sguardi si incrociarono.
«Oh, lei! È l’amministratrice dell’azienda» rispose Jasper divertito.
«Merda.»
«Non conosce altre parole?» mi domandò divertita lei. Ma quando si era avvicinata a noi?
Genere: Commedia, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Emmett Cullen, Isabella Swan, Jasper Hale, Rosalie Hale | Coppie: Alice/Jasper, Bella/Edward, Carlisle/Esme, Emmett/Rosalie, Leah/Sam
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film, Contesto generale/vago
Capitoli:
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La sveglia suonò alle sei come ogni mattina. L’ouverture de Le nozze di Figaro mi rammentò che era venerdì. La data lampeggiante sul display mi ricordò che quel giorno compivo gli anni.
Trentatré anni. Era venerdì tredici settembre.
Mi ritrovai a pensare al numero tredici e al trentatré.
Trentatré come gli anni di Cristo mi avrebbe detto mia nonna.
In Italia, a differenza dei paesi anglosassoni, il tredici era considerato un numero porta-fortuna.
A Cristo, però, il tredici non aveva portato molta fortuna.
Fortunatamente non ero mai stata molto superstiziosa e quei numeri erano solo numeri.
Mi rigirai nel letto, scacciando via dalla testa numeri, pensieri e cavalieri templari sul rogo di venerdì tredici.
Che fosse un giorno fortunato o sfortunato, io avrei tanto voluto continuare a dormire quel giorno, non vedere nessuno, restare a casa a poltrire. Avevo ancora sonno quella mattina: i crampi mestruali mi avevano svegliata nel bel mezzo della notte e avevo dovuto prendere un antidolorifico per riuscire a riaddormentarmi.
Proprio un buon compleanno, Bella.
Mi sentivo molto spossata, avrei tanto voluto restare nel letto. Avevo tante ferie arretrate, avrei potuto tranquillamente allungare il weekend. Non sarebbe stata la fine del mondo se mi fossi assentata per un giorno.
Sarebbe stata la mia fine, però, se mi fossi assentata per dei banali dolori mestruali. Io non ero debole né pigra, non restavo a casa per un piccolo malessere, non trovavo scuse di fronte alle difficoltà, non poltrivo a letto. Mai.
Lì dove altri vedevano delle difficoltà, io vedevo delle opportunità. Sempre. Era la chiave del mio successo. Era la mia stessa essenza.
Mi alzai e presi un respiro profondo, come ogni mattina, feci colazione con calma ascoltando online i concerti trasmessi da BBC radio 3: era il penultimo giorno dei Proms. La giornata era tutta dedicata a Beethoven, in quel momento stava iniziando il Fidelio.
Mi ripromisi di andare a Londra il prossimo anno per il mio compleanno per assistere ai concerti di persona. Scossi il capo e sorrisi sorniona per i miei stessi pensieri: a settembre non avevo mai preso le ferie e non avrei mai avuto il coraggio di farlo. Troppo lavoro.
Da quanto tempo non festeggiavo un compleanno? Troppo, neanche me lo ricordavo.
Da quanto tempo non facevo qualcosa che desideravo fare per il solo gusto di farla nel giorno del mio compleanno? Anche in questo caso, la risposta era troppo.
Da quanto tempo non ricevevo un regalo per il mio compleanno? Troppo.
Sospirai. Non mi era mai importato granché dei miei compleanni. Forse da bambina, perché la nonna sapeva come renderlo un giorno speciale. Crescendo le cose erano cambiate e mi andava bene così. Io avevo voluto che andassero così.
Il giorno del mio compleanno era un giorno come un altro. Non c’era niente di speciale da celebrare.
Nessuno in ufficio conosceva la mia data di nascita, solo Rosalie, che per ovvi motivi legati alla sua posizione aveva accesso alla mia scheda personale.
Fortunatamente era sempre molto discreta e si limitava a farmi gli auguri quando eravamo da sole. La discrezione era una delle tante qualità per le quali l’avevo subito messa a capo del suo settore. Mi fidavo di lei, mi piaceva ed era una delle poche persone di cui tolleravo la presenza per più di un’ora. Dal momento che ci trovavamo spesso a collaborare, era un aspetto fondamentale che tollerassi la sua presenza a lungo.
Quasi tutti gli altri dopo dieci minuti diventavano orribilmente indigesti, specialmente quando era palese che mi stessero adulando per ottenere qualcosa.
 
 
Avevo già ricevuto i messaggi di auguri dai miei cugini in Italia e per fortuna a Seattle era ancora notte. Sperai che lui non se ne ricordasse, non avevo alcuna voglia di sentirlo.
Ogni volta che lo sentivo, i demoni del mio passato che avevo faticosamente messo a tacere si riaffacciavano nella mia mente.
Sapevo che la giornata sarebbe trascorsa senza grossi clamori, ma iniziavo già a sentire il sapore dolceamaro, quasi malinconico, che accompagnava sempre il giorno del mio compleanno. Lo scorrere del tempo mi rendeva sentimentale e quasi vulnerabile. Sorrisi sarcastica. Io ero tutto tranne che vulnerabile.
Avevo realizzato tanto, da sola, e ne andavo fiera. Ero giovane e di successo. Ero soddisfatta della mia vita, amavo quello che facevo, ero felice di essere la donna che ero diventata, ero orgogliosa di chi avevo scelto di essere.
Non mi era mai pesata la solitudine, anzi, mi piaceva. Amavo la mia compagnia e sopportavo poco quella altrui, forse perché non avevo mai incontrato persone così interessanti da ricercarne la compagnia: avevo degli standard molto alti nel lavoro, nella vita privata – se possibile – lo erano ancora di più.
L’unico giorno nell’arco dell’intero anno solare in cui la solitudine diventava un pensiero fastidioso era il giorno del mio compleanno. Anche se per me era un giorno come un altro, inconsciamente qualcosa dentro di me mi diceva che non era giusto che fosse così. Non era giusto che stessi da sola quel giorno. Ma ero brava a mettere a tacere queste voci interne; quindi, visto che era un giorno come tanti, tanto valeva iniziarlo come tale.
Indossai la tuta e le scarpe da ginnastica e andai a fare una passeggiata nel parco vicino casa. Era un’abitudine che avevo preso da quando mi ero trasferita a Boston, l’alba era il mio momento preferito della giornata e camminare aveva sempre avuto un effetto rilassante su di me: mi concentravo sul rumore dei miei passi e automaticamente i miei pensieri si allineavano allo stesso ritmo dei miei passi e un profondo senso di armonia mi pervadeva. Era la terapia migliore del mondo. Era un buon modo per iniziare la giornata.
Mi sedetti sulla panchina su cui di solito trascorrevo qualche minuto la mattina per ammirare il sole che faceva capolino tra gli alberi. Sempre la stessa immagine uguale nel tempo. Avrei potuto essere seduta lì nel 2019 come nel 1919 e avrei visto sempre il sole illuminare gli alberi e il fiume.
Era un pensiero potente, un’immagine piena di energia primordiale.
Mi concessi di restare qualche minuto in più del solito, non sarebbe stata la fine del mondo se per un giorno non fossi arrivata per prima in ufficio. Era il mio compleanno, diamine, potevo concedermi un po’ di lentezza.
Nonostante i buoni propositi, inevitabilmente il pensiero andò al lavoro e al programma della giornata. D’altronde, il mio lavoro era tutta la mia vita.
Quella mattina era previsto l’arrivo di un nuovo dipendente, il suo curriculum mi aveva parecchio incuriosita. Avevamo la stessa età, era nato il 20 giugno, solo qualche mese di differenza e avevamo anche un percorso accademico simile. Entrambi umanisti, dirottati poi nel campo economico. Manageriale, nel mio caso; finanziario, nel suo.
Aveva una laurea in storia e una in economia.
In realtà, prima ancora di leggere il suo curriculum, era stato il suo nome ad aver catturato la mia attenzione, Edward: un nome un po’ fuori moda, ma molto evocativo.
Non avevo mai conosciuto nessuno di nome Edward, nessuno dei miei compagni di scuola o dei ragazzi miei coetanei che avevo conosciuto si chiamava così.
Un nome da principe, osai pensare e mi ritrovai inconsciamente a sorridere.
Mi piaceva come suonava nella mia testa il suo nome.
C’era una certa armonia tra il suo nome, quasi antico, e la scelta del suo percorso di studi. Quasi come se avesse ricevuto un imprinting alla nascita e non avesse potuto fare altro che studiare il passato con un nome così evocativo di tempi passati. Le persone sottovalutavano troppo spesso il potere dei nomi. Era un potere quasi divino: dare un nome a una cosa o una persona significa farle esistere, restituire loro un volto. Chiamare le cose con il loro nome le rende reali.
Chissà com’era Edward lo storico. Chissà com’era il suo volto.
Mi ritrovai a passare in rassegna i pochi studenti di storia che avevo incontrato all’università e rabbrividii. Alcuni tendevano a confondersi con i fossili, altri avevano la spocchia tipica della peggiore categoria di studenti: quelli che erano convinti che la loro facoltà fosse superiore alle altre.
Sperai che il mio quasi dipendente non appartenesse a nessuna delle due categorie.
Provai a immaginare un tipetto gobbuto e minuto con gli occhiali spessi, con i capelli già quasi brizzolati e con un indosso un completo di fustagno marrone, poco incline alla socialità. Magari avrebbe avuto quell’aspetto, però sentivo che sarebbe stato un tipo interessante. Tra le esperienze figurava anche un tirocinio nella redazione di un giornale sportivo. Era un tipo poliedrico, aveva diversi interessi in campi apparentemente distanti tra loro, e io ero stranamente curiosa di incontrarlo.
Era venerdì 13, una data che a uno storico non sarebbe di certo passata inosservata.
Chissà se era un tipo scaramantico.
Mi sorpresi a sorridere al solo pensiero.
Il mio smartwatch vibrò per avvisarmi che stavo ferma da troppo tempo: erano le sette e trenta. Ero rimasta mezz’ora a fantasticare sul mio nuovo impiegato.
Sto proprio invecchiando, ghignai tra me e me.
Feci con calma la doccia e lo shampoo e scelsi con cura gli abiti che avrei indossato. Di fronte allo specchio passai in rassegna il mio corpo e feci il mio annuale inventario: ancora nessuna ruga, per fortuna, pochissimi sporadici capelli bianchi che si nascondevano benissimo nella mia folta chioma scura. Ero diventata un po’ più morbida da quando vivevo a Boston, colpa della pessima cucina della mensa aziendale e dei miei orari, ma per fortuna niente di eccessivo, ero aumentata solo di una taglia rispetto a quando avevo vent’anni. Cercavo di tenermi il più possibile attiva, infatti ero tonica e non c’erano cedimenti da nessuna parte. Mi piaceva avere delle curve più morbide, mi faceva sentire più donna e meno ragazza. Ero, se possibile, ancora più sicura di me. Mi ero sempre piaciuta, anche perché non mi ero mai fissata troppo sul mio aspetto fisico, neanche da adolescente. Era sempre stata la mia fortuna, la capacità di tralasciare i dettagli inutili e fuorvianti e di andare dritti alla sostanza delle cose. Un tratto poco femminile forse, ma assai efficace in tutti gli aspetti della vita. Se non avessi avuto la capacità di andare sempre dritta al sodo, probabilmente non sarei arrivata dov’ero.
Asciugai con cura i capelli e mi truccai; indossai il mio profumo e appuntai alle orecchie gli orecchini che portavo sempre.
Presi anche una giacca: la sera iniziava a rinfrescare.
Mi godetti più degli altri giorni il tragitto che percorrevo a piedi da casa al lavoro. Forse dovevo iniziare ad andare più tardi più spesso in ufficio, se l’effetto era così benefico.
Normalmente, se fossi arrivata anche solo leggermente in ritardo, mi sarei rovinata la giornata da sola. Quando pianificavo qualcosa, doveva essere quella, non potevano esserci cambiamenti.
 
 
Stavo attraversando il parcheggio del vicino McDonald’s quando vidi un ragazzo scendere dalla macchina palesemente agitato; era così nervoso che aveva fatto cadere perfino le chiavi per terra.
Ero ancora troppo lontana per udire le sue imprecazioni, ma le immaginai e sorrisi tra me e me.
Forse era in ritardo.
Raccolse le chiavi e iniziò a camminare tutto trafelato.
Sì, era decisamente in ritardo.
Provai un senso di profonda empatia nei suoi confronti: anch’io detestavo essere in ritardo, ma quel giorno no. Se fossi arrivata al solito orario mi sarei persa tutto quello spettacolo. Era goffo e ansioso, a giudicare da come si martoriava i capelli con la mano sinistra e da come la tracolla della borsa non trovava pace sulla sua spalla e scivolava di continuo – sicuramente la giacca di pelle che indossava non aiutava a tenerla su ferma.
Mi fece sorridere e provai un insolito senso di tenerezza nei suoi confronti.
Nel frattempo – complice il tempo che aveva perso per recuperare le chiavi – avevo accorciato un po’ la distanza che ci separava e potei notare, quando drizzò la testa e le spalle per guardarsi intorno, che era proprio un bel ragazzo. Davvero ben fatto.
Le gambe lunghe e muscolose, un gran bel fondoschiena, la schiena dritta, le spalle forti e ampie e il collo fiero e aggraziato. Aveva una bella postura elegante, molto piacevole da osservare.
Aveva i capelli castani che al sole riflettevano il colore del rame, la pelle del collo era chiara, quasi quanto la mia. Sembrava avere anche delle belle mani, le dita bianche e lunghe, tipiche di chi svolge lavori d’intelletto o d’ufficio e non manuali; sembravano delicate ma forti, da uomo.
Quando fui ancora più vicina a lui, notai che aveva un neo sul collo e trovai tremendamente sexy quel puntino scuro sulla sua pelle diafana e delicata del collo. All’improvviso, provai un’insolita curiosità verso quella figura sconosciuta. Volevo sapere di che colore erano i suoi occhi e com’era il suo viso. A giudicare dal complesso, ero sicura che non sarei rimasta delusa e che fosse sicuramente all’altezza di tutto il resto.
Un momento: stavo davvero facendo tutti quei pensieri su uno sconosciuto? Doveva essere sicuramente colpa del ciclo e degli ormoni in subbuglio. Guardare, però, non faceva mica male, quindi continuai a osservarlo mentre camminava a poca distanza davanti a me.
Stava guardando e si stava anche dirigendo verso la sede dell’azienda, sembrava… interessato?
Era completamente incantato dalla maestosità dell’edificio. La sede della Volturi faceva spesso questo effetto. Sorrisi tra me e me, fiera della mia creatura.
A un certo punto, finì con tutto il piede sinistro su una bella chiazza marrone che sembrava piuttosto recente. Evidentemente non si era accorto che quel parcheggio era praticamente una toilette per cani a cielo aperto.
Certo, quella lì sembrava averla lasciata un cavallo, ridacchiai.
Poverino, mi ritrovai a pensare sorridendo e poi quando gli passai accanto e lo sentii imprecare «Merda!» con il tono frustrato tipico di chi ha iniziato la giornata proprio con il piede sbagliato, trattenni a stento le risate.
Normalmente tiravo dritto di fronte a queste situazioni imbarazzanti, ma c’era qualcosa in lui che mi attirava come una calamita e non riuscii a trattenermi.
Era il mio compleanno, potevo concedermi di fare una battuta a uno sconosciuto.
«Ehm, sì, direi che è la definizione più appropriata!» esclamai mentre gli passavo accanto. Lui non aveva occhi che per le sue scarpe, non mi degnò di uno sguardo.
Di nuovo, un moto di inspiegabile tenerezza mi pervase.
Mi concessi il piacere di una seconda battuta. Ero in vena di spirito.
«Non se la prenda troppo, dicono che porti fortuna!»
Volevo forse rassicurarlo scherzandoci su? Dirgli che sarebbe andato tutto bene, nonostante l’inizio della sua giornata fosse stato letteralmente di merda?
Aveva ancora lo sguardo abbassato sulle sue scarpe, quindi non riuscii a vederlo in volto.
Peccato.
 
 
Una volta arrivata in ufficio, controllai subito la posta elettronica personale e poi quella aziendale. Sconti su sconti da parte dei vari siti di e-commerce sui quali abitualmente facevo acquisti. Gli auguri di Guido, il mio profumiere fiorentino, che mi inviava uno sconto per il mio prossimo acquisto. Senz’altro ne avrei approfittato. Gli auguri di Felix, l’amministratore delegato della sede di Volterra.
Squillò il telefono. Era Charlie. Sapeva che a quell’ora lavoravo, ma ovviamente non gliene importava nulla. Risposi al terzo squillo: via il dente, via il dolore.
«Charlie» risposi atona.
«Potresti anche chiamarmi papà».
«Hai perso quel privilegio tanto tempo fa» dissi fredda e lo sentii sospirare.
«Buon compleanno» era pugnalata detto da lui. Sapevo che odiava il giorno della mia nascita.
«Grazie» risposi con apparente nonchalance. Negli anni ero diventata brava a ignorare il dolore.
«Beh, allora, spero che tu passi una bella giornata. Fatti sentire ogni tanto o magari vedere» contai fino a dieci prima di rispondere.
Lui non mi aveva mai considerata non dico sua figlia, ma almeno un essere umano. Non si era mai interessato a me. Sua moglie non mi sopportava, tant’è che mi aveva telefonata forse mentre la signora stava ancora dormendo. E io mi sarei dovuta far sentire o peggio avrei dovuto fargli visita?
Mi aveva ignorata per anni. Mi aveva probabilmente odiata per anni. Dov’era quando doveva fare il padre?  Quando da bambina e poi da adolescente avevo bisogno di lui?
Quando ci eravamo trasferite in Italia era completamente sparito, lo sentiva solo la nonna che si ostinava a telefonargli. Era pur sempre suo figlio. Se l’era presa con lei perché non aveva ricevuto niente dalla vendita della casa di Forks, la nonna aveva speso tutto per garantirci una vita dignitosa in Italia e per pagare i miei studi, visto che lui non si era mai interessato a me. Fosse stato per lui, sarei morta di fame, probabilmente.
Sua madre era morta e lui non aveva avuto neanche l’occasione per dirle addio. Non sapevo se provare pena o disprezzo per lui.
Aveva ricominciato a farsi sentire quando ero tornata a Boston a dirigere la Volturi. Quando ero tornata in America ricca e potente. Troppo comodo. Parassiti del genere riuscivo ormai a riconoscerli a distanza, il fatto che uno di questi fosse mio padre era dovuto diventare solo un dettaglio irrilevante per il mio benessere. Faceva troppo male fermarsi a pensare certe cose e a rifletterci su. E io mi volevo troppo bene per farmi del male. Quando ero partita per l’Italia avevo scelto di ignorare tutto quello che era successo prima e quando ero ritornata in America ero una donna forte, molto diversa dalla ragazzina amareggiata e delusa dalla vita che era partita anni prima.
«Grazie» chiusi la chiamata senza neanche ascoltare la sua risposta.
Nonostante i buoni propositi, nonostante la mia notevole forza interiore, la rabbia mi pervase. Succedeva ogni volta che lo sentivo – e per fortuna capitava una, al massimo due volte all’anno.
Mi aveva rovinato la giornata. Lo sapevo. Era partita quasi bene quest’anno, ma puntualmente, quando lui chiamava, il mio umore diventava nero.
Avevo bisogno di un caffè, ma poi mi ricordai che avrei dovuto incontrare il nuovo dipendente, quindi decisi di aspettare. Strano che Rosalie non mi avesse ancora chiamata, erano le nove e trenta, doveva essere arrivato da un pezzo. Non mi piaceva essere in ritardo e ancor meno mi piacevano i ritardatari.
 
 
Rosalie mi avvisò tramite la linea interna che il nuovo dipendente era arrivato e si era sistemato. Era arrivato un po’ in ritardo, ma lei non gli aveva detto nulla a riguardo. Sospirai. Non gli avrei detto niente neanche io, in fondo, era il suo primo giorno, poteva capitare. Con lo stato d’animo in cui mi trovavo per colpa della telefonata di Charlie, probabilmente sarei stata meno gentile del dovuto e io non ero così. Non scaricavo mai sui miei dipendenti le mie frustrazioni. Misi da parte la rabbia e feci finta che quella telefonata non ci fosse mai stata: non potevo presentarmi al nuovo dipendente amareggiata. Non se lo meritava e io non volevo essere meno che perfetta con i miei dipendenti. Come sempre.
Mi era stato insegnato che i dipendenti erano come dei neonati agitati perché avvertivano l’ansia della mamma: ed era vero. Se io apparivo calma e sicura di me, di riflesso loro lavoravano bene, sereni. Ma se io mi mostravo tesa o preoccupata, era la fine. Potevo anche essere nervosa e agitata dentro di me, ma non dovevo mai far trasparire nulla. Potevo concedermi di preoccuparmi a casa, quando ero sola, non di certo davanti al mio staff.
Ero forte e sapevo indossare la mia migliore maschera di perfetta manager sicura di sé. Dopo un po’, a furia di far finta che tutto andava bene, le cose andavano bene davvero e della maschera non restava neanche l’ombra e tutto diventava naturale.
Fa’ finta finché non ce la fai. Era stato il mio mantra nei momenti più difficili e quella telefonata non era niente rispetto a quello che avevo dovuto affrontare.
 
 
Andai in bagno a controllare che l’espressione del mio viso non facesse trasparire nulla. Ero un po’ più pallida del solito quel giorno, colpa del sangue che stavo perdendo e della nottata passata quasi in bianco, ma per fortuna non avevo occhiaie evidenti. Ero impeccabile, come sempre.
Mi diressi verso l’ascensore per scendere al terzo piano per conoscere Edward. Era una mia abitudine. Nessun manager faceva quello che facevo io. Ci tenevo a conoscere ogni nuovo assunto e a scambiarci due parole il primo giorno di lavoro davanti a una tazzina di espresso: ero convinta che fosse importante far sentire i nuovi membri dello staff i benvenuti. Il tempo mi stava dando ragione, gli affari andavano benissimo e il livello di soddisfazione dello staff era alto.
Mi recai nell’ufficio di Rosalie che con estremo garbo e un timido sorriso mi fece gli auguri per il compleanno. La ringraziai, accantonando definitivamente la sgradevole telefonata che avevo avuto prima. Il primo impegno della mia giornata mi attendeva e io ero pronta.
 
 
«Oh, eccolo lì. Jasper gli sta facendo fare il giro del piano» Rosalie indicò inclinando il mento in avanti suo fratello e… non era possibile. Non poteva essere lui.
Edward era il ragazzo del parcheggio.
Alla faccia del bipede fossile vestito di fustagno che mi aspettavo di incontrare.
Per un attimo mi sentii quasi mancare, quando i suoi occhi verdi incrociarono i miei. Non avevo mai visto due occhi più belli e magnetici in tutta la mia vita. Aveva uno sguardo estremamente gentile e penetrante.
Spostai velocemente lo sguardo a tutto il suo viso per evitare di perdermi nei suoi occhi e notai che mi stava indicando.
Dannazione. Avevo ragione, più che ragione.
Il suo viso non solo era all’altezza di tutto il resto, ma elevava di parecchi punti il tutto. Era perfetto.
Sembrava rispettare i canoni matematici degli antichi greci e dei pittori del rinascimento.
Il rapporto aureo, la proporzione divina. Sembrava un dio greco.
Avevo di gran lunga sbagliato a definirlo solo un bel ragazzo.
Era l’uomo più attraente che avessi mai visto.
La mascella squadrata, le labbra dritte e sottili, e quell’accenno di barba rossiccia sulle guance… mi ero avvicinata a lui automaticamente, quasi spinta da una forza maggiore.
Stava parlando con Jasper, quando lo sentii dire per la seconda volta quel giorno nel giro di un’ora: «Merda».
Avrei voluto ridere in quel momento. Ma rimasi impeccabile come sempre e aggiunsi alla mia solita nonchalance un pizzico di ironia.
«Non conosce altre parole?» il mio tono era molto più allegro di quanto pensassi.
Non volevo prenderlo in giro e sperai che non l’avesse intesa in quel modo. Non c’era la minima ombra di sarcasmo nella mia voce, ero semplicemente divertita da tutta quella situazione.
C’era qualcosa in lui che mi spingeva ad agire con spontaneità, che tirava fuori il mio lato spiritoso e leggero.
Era dannatamente attraente eppure si comportava come se non se ne rendesse conto. Uno con quell’aspetto doveva guardare in alto, non in basso. Lui, invece, continuava a guardarsi le scarpe, stavolta, per l’imbarazzo.
Riconobbi la tenerezza provata prima nel parcheggio mista a qualcos’altro. Una sorta di strana vicinanza emotiva. Potevo sentirmi così vicina a un estraneo appena conosciuto?
Addolcii automaticamente il tono quando lo invitai a salire con me nel mio ufficio.
Emanava un profumo di bucato pulito che insieme alla fragranza agrumata che indossava e a quel viso perfetto erano una combinazione letale.
Era proprio gradevole stargli vicino.
Durante tutto il viaggio in ascensore sentii il suo sguardo su di me. Un paio di volte lo beccai intento a fissarmi il decolté. Non me la presi troppo: in fondo, io avevo squadrato per bene lui prima e neanche lo sapeva. Eravamo pari.
E, in fondo, dovetti ammettere che mi faceva piacere che mi guardasse così.
Camminando lungo il corridoio che conduceva al mio ufficio continuai a sentire il suo sguardo su di me: potevo immaginare cosa stesse pensando, sapevo che effetto faceva vedere il mio piano e osservare me nel mio ambiente.
 
 
Quando gli offrii il caffè, per poco non feci una gaffe e io non facevo mai scivoloni del genere, specialmente sul lavoro.
Lo avevo chiamato per nome e non ci eravamo ancora presentati. Fortunatamente ero abilissima a cavarmi d’impaccio e lui sembrò accettare come spiegazione la storia del tesserino. Era vero che lo indossava e che c’era il suo nome scritto lì sopra, ed era vero anche che Rosalie mi aveva detto il suo nome; ma non era per quello che lo avevo chiamato per nome.
Io l’avevo chiamato per nome perché il suo dannato nome antico ce l’avevo in testa da un paio d’ore e mi sembrava già di conoscerlo. Era una sensazione strana.
Quando gli strinsi la mano, quella bella mano calda, sentii un piacevole nodo nel basso ventre e non potevo di certo prendermela con i crampi mestruali.
Che cosa mi stava succedendo?
Approfittai della preparazione del caffè per disintossicarmi dall’effetto della sua presenza.
Non gli piaceva il caffè. Mi concessi il capriccio di fare un’altra battuta, ormai la giornata era partita piena di spirito. Era facile scherzare con lui e poi speravo di alleggerire un po’ la tensione che lo attanagliava palesemente.
E mi fece di nuovo tenerezza quando si scusò per avermi indicata poco prima. Era arrivato in ritardo il suo primo giorno di lavoro, con le scarpe nuove sporche di escrementi di cane e ovviamente non si aspettava che la ragazza che aveva incrociato in un parcheggio fosse il suo capo. Se prima avevo provato empatia nei suoi confronti, adesso dovevo coniare un nuovo termine per quello che sentivo, perché empatia non era affatto sufficiente.
Avvertii di nuovo quell’urgenza di volerlo rassicurare, come era successo nel parcheggio, e optai nuovamente per buttarla sullo spirito. Sembrava funzionare e poi ero stranamente in vena di battute scherzose con lui. Ero spontanea.
Se potevo risollevare in qualche modo la sua giornata – che dal suo punto di vista doveva apparire proprio di merda –, forse in qualche modo avrei risollevato anche la mia, che già grazie al suo arrivo trionfale era migliorata di parecchio.
Non ricordavo di aver vissuto un tredici settembre così spensierato da tempo.
La telefonata era ormai definitivamente archiviata nei ricordi da cancellare.
La breve conversazione fu una delle più piacevoli che avessi mai avuto in quell’ufficio. Era intelligente e interessante. Proprio come avevo immaginato. Non aveva cercato di gonfiare il suo curriculum o le sue esperienze, anzi. Era stato onesto e temevo si sottovalutasse anche un po’. Ero abituata ad avere a che fare con toni boriosi e saccenti duranti i colloqui conoscitivi, era la prima volta che mi capitava un neo impiegato così poco incline a esaltare le sue qualità e le sue esperienze.
Mi piaceva.
Mentre parlava, a un certo punto, si era toccato i capelli con la mano sinistra e dal polsino della camicia era sbucato il cinturino giallo dell’orologio. Mi fissai su quel particolare e pensai che dicesse molto della sua personalità, molto più di quanto avesse fatto lui stesso.
Il giallo è un colore allegro, appartiene alle anime gentili e leggere, alle persone che si sentono in armonia con sé stesse e che di riflesso trasmettono un senso di benessere a chi li circonda. Non avevo mai avuto difficoltà a relazionarmi con le persone, ma ricavare piacere da una conversazione di lavoro non era una cosa che capitava spesso. Non capitava quasi mai.
Inoltre, ci voleva una certa dose di coraggio per indossare al lavoro uno Swatch giallo, pensai sorridendo tra me e me.
 
 
Era curioso e aveva un modo di fare le domande senza porle direttamente decisamente pericoloso. Sapeva come farmi parlare. Nessuno era mai riuscito a estorcermi informazioni sul mio passato. Lui, appena arrivato, con una banale frase – assolutamente coerente nel contesto – stava per farmi cedere. Ed era la seconda volta quel giorno che rischiavo di sbilanciarmi troppo con lui. Stavo quasi per raccontargli il mio percorso accademico, ma mi fermai in tempo e lo congedai forse in maniera più distaccata di quanto avrei voluto. Ma lui era un mio dipendente e io ero il suo capo ed era assolutamente indispensabile mantenere una certa distanza.
Meno sanno di te, meno potere avranno su di te. Era una regola fondamentale nel mio lavoro.
 
 
Quella notte mi svegliai di nuovo di soprassalto. E non per colpa dei dolori mestruali.
Avevo sognato Edward. Io e lui in ascensore per la precisione. E le sue belle mani che mi facevano cose deliziose.
Scossi la testa. Non avevo mai fantasticato su un mio dipendente. Mai. Non vedevo mai i miei dipendenti come degli uomini, ma come degli esseri asessuati. Era un’altra fondamentale regola.
Eppure… se io non fossi stata la donna seria e impeccabile che ero e se non avessimo dovuto condividere due terzi del viaggio con altre persone, gli sarei saltata addosso in ascensore. Ed ero sicura che lui non mi avrebbe respinta.
Non mi sentivo così viva da tanto tempo. Non mi sentivo così attratta da un uomo da troppo tempo. E non ero mai stata così attratta da uno sconosciuto in tutta la mia vita.
Era sempre stato un mio sogno erotico farlo in ascensore e lui era decisamente sexy.
Ma io ero io, non eravamo soli e per giunta avevo anche il ciclo quel giorno.
Quasi non riconobbi i miei stessi pensieri. Era tutta colpa degli ormoni e di quei bellissimi e gentili occhi verdi e di quelle mani... Mi riscossi dalle mie fantasie.
Edward era un mio dipendente e quindi era off-limits.



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Come promesso, il primo dei pov di Bella. Copre i primi due capitoli di Espresso.
Fatemi sapere cosa ne pensate e a presto con il nuovo capitolo!
Un bacione

  
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