Capitolo
16
Non si dovrebbe
mai bere
idromele mentre i musici suonano canzoni tristi. Loki
ricordò di averlo detto a
Sigyn per scherzo, quando lei non osava mostrargli il polso, dove
scintillava
il bracciale che lui le aveva riparato. Pensava che una futura ancella
non
avrebbe dovuto sfoggiare alcun gioiello, ma l’idea di essere
la scintilla,
insinuandosi dentro di lei, aveva provocato una sorta di sottile
ribellione nel
suo cuore. L’inverno diventava ogni giorno più
gelido e rigido, e la ragazza
spalancava gli occhi mattina dopo mattina chiedendosi se il potere che
l’aveva
condotta fino ad Asgard si sarebbe rivelato. Ma non accadeva mai nulla.
Ripercorrendo le tappe della sua vita negli ultimi mesi, Sigyn si
sentiva in
trappola. Era come se le Norne avessero tessuto così
fittamente il suo destino,
da non lasciarle alcuna scelta se non essere nella terra degli
Æsir. Loki aveva
ammesso di averla voluta perché era riuscito a captare, in
lei, la presenza di
qualcosa d’inconsueto che avrebbe potuto essere utile a
Odino, ma era andato
nella terra di Sigurdr anche e soprattutto per vendicarsi di lui.
Seppure lei
non avesse posseduto la scintilla, il perfido principe
l’avrebbe comunque
reclamata come proprio ostaggio. La scelta dei suoi genitori di darle
un’educazione rigida e tesa a prendere i voti rendeva
solamente le sue giornate
più amare, perché si trovava catapultata in una
realtà in cui il suo pudore
destava il riso e dove ogni passo sembrava condurla verso una sola
direzione. Nella
sua prigione dorata, continuava a pregare gli antenati, ma presto
scoprì di
farlo senza il giusto fervore, perché era l’ultima
delle scintille e, se non lo
fosse stata, forse Loki non si sarebbe incaponito nel volerla
trattenere nella
magnifica, spaventosa Asgard. Invece, lui e suo padre la volevano
lì, per
carpire profezie e indizi che avrebbero sfruttato per il loro
tornaconto personale.
A che serviva essere pia e devota, se le Norne l’avevano
scaraventata presso un
popolo che aveva in odio suo padre? Perché ostinarsi nel
pregare gli antenati,
che aveva iniziato a servire con offerte e orazioni quand’era
solo una bambina,
se poi gli stessi si rifiutavano di proteggerla dagli eventi e la
mettevano
alla prova con pensieri così oscuri? La febbre da cui il
figlio cadetto di
Odino l’aveva curata se n’era andata dopo molti
giorni, lasciandola spossata
per settimane. Loki, senza guardarla negli occhi, sentenziò
al riguardo che
l’origine della sua debolezza era da imputarsi alla notizia
riguardo la sua
natura. Il fisico rifletteva le sofferenze dello spirito, ritardando la
sua
completa guarigione. Lo disse sapendo perfettamente di starle
nascondendo la
parte peggiore: quella che la voleva sacrificata alla tenebra e
all’oscurità,
che strisciava e si muoveva tra le radici marce
dell’Yggdrasill e che lui si
era messo a studiare.
In una delle
recenti
nottate passate sveglio a consultare i testi, si era imbattuto in
dettagli così
raccapriccianti da spingerlo a correre in bagno a rimettere[1].
Lui, che da anni non si lasciava impietosire dai campi di battaglia che
odoravano sangue, ferro, fango e morte. Ancora in preda ai conati, dopo
essersi
sciacquato la bocca, si era asciugato col dorso della mano, imputando
il
malessere al troppo vino, alla cena spiluccata distrattamente davanti
alle
pergamene ingrassate dalla polvere. La scintilla era maledetta,
promessa ad
altro, ma immolarla era rendersi complici di qualcosa di disgustoso,
che
inorridiva persino lui. E il desiderio di lei si infilava sotto le sue
costole,
gli stringeva la gola, eccitava i suoi fianchi, corrodendogli infine le
vene, i
muscoli e la testa, altrimenti razionale. Fingeva di non guardare la
pelle
bianca che usciva fuori dallo scollo castigato e immaginava le braccia
nascoste
dalle maniche, sognava di disfare le fitte trecce in cui, come tutte le
donne,
Sigyn imprigionava i capelli. Solo che accanto alle fantasticherie
giustificate
dal desiderio, la sua mente svelta ipotizzava anche il resto: la
immaginava
seminuda, legata su un altare, preda di un mostro, persa nei
vagheggiamenti
instillati da una droga in grado di distrarla da una fine imminente e
orrenda. Anni
dopo, mentendo, avrebbe raccontato di non ricordare più
– o di non aver saputo
mai – quale fu l’istante preciso in cui decise che
non avrebbe permesso a
niente e a nessuno di toccarla. In realtà, ebbe sempre ben
presente il momento
esatto in cui scelse, in piena coscienza, di tradire la fiducia di suo
padre
agendo deliberatamente nell’ombra. Sigyn fu il primo dei
sotterfugi pericolosi cui
si dedicò nell’età adulta.
Rappresentò la cesura tra quelle che erano state le
bravate di un ragazzo e gli atti scellerati di un uomo volitivo e
spietato, la
cui intraprendenza calpestava qualsiasi interesse non fosse il proprio,
arrivando a contestare e a mettere in dubbio persino
l’autorità del proprio
padre.
Lei era ancora
convalescente; Loki le si avvicinò sfoggiando il suo sorriso
sghembo e il solito
portamento fiero, notando le ombre che velavano i suoi occhi grigi.
“Non si
dovrebbe mai bere idromele mentre i musici suonano canzoni
tristi.”
La scintilla lo
trafisse
con lo sguardo.
Sigyn non
avvicinava mai
le labbra all’idromele, durante i banchetti. Osservava Loki
farlo, però, così
come fissava il bel principe dal sorriso beffardo mentre corteggiava e
seduceva
le dame più belle. A volte lo faceva per noia, si era resa
conto, altre per
effettivo desiderio o per portare a termine qualcuno dei suoi intrighi.
In
entrambi i casi, la vista delle avventure amorose del principe
suscitava in lei
una ridda di emozioni difficilmente districabili, su cui spiccava una
riprovazione feroce, capace di farle attorcigliare lo stomaco.
Avvampava d’ira
quando lo vedeva sussurrare all’orecchio della compagna di
turno qualche frase
sicuramente falsa e melensa, stornava il viso, rapida, quando
l’Ase catturava,
con un bacio lascivo, le labbra di un’amante, ammaliata dai
suoi racconti affascinanti.
Sentiva di odiarlo e di disprezzarlo con ogni fibra del suo essere, ma
sarebbe
morta pur di non lasciar trapelare il benché minimo
interesse circa gli affari
di Loki. Che si appartasse con le sue numerose donne, che le stregasse
e
tradisse per il gusto di farlo. A lei non interessava il suo
comportamento
sfacciato – e perché avrebbe dovuto, in effetti?
Sigyn era stata cresciuta ed
educata per servire gli Antenati, e i costumi dei Vanir erano rigorosi
e severi[2].
Loki Odinson perdeva tempo ed energie facendosi corrodere dai sensi e
quello
che suo padre e le sue maestre le avevano detto per una vita intera era
vero. I
feroci Æsir erano nient’altro che dei pirati
arricchiti: avevano deciso di
scendere dai loro drakkar dalle prue spaventose per costruire palazzi e
città,
ma dentro restavano dei selvaggi, dei barbari. E, a quel pensiero,
l’immagine di
Loki emergeva con forza stampandosi nella sua mente, beffarda e
inopportuna
come mai: lo vedeva com’era stato quando avevano viaggiato
insieme, con il
mantello foderato di pelliccia e il sorriso sghembo e ironico dipinto
sul viso
affilato, dai tipici tratti nordici – zigomi alti e
taglienti, occhi chiari e
mobili, su un corpo slanciato e fiero, che si muoveva con la grazia di
un
predatore. Nel rievocare la figura del principe, il suo corpo si
tendeva,
fremeva, scosso dal ricordo dei passati, rapidi contatti –
l’abbraccio sul
drakkar, il momento di smarrimento vissuto dopo la cerimonia
– e Sigyn si
scopriva ancora più confusa e infuriata.
Quando
l’ingannatore le
disse per gioco che il vino e le ballate struggenti non andavano
d’accordo,
alzò le ciglia scure su di lui, infastidita. Lo
squadrò sollevando il mento e
ricordandogli che nel suo corno c’era solamente acqua.
L’Ase
fece dondolare il
suo, colmo per metà. “Il medico sostiene che
dovresti bere vino per riprenderti
dalla febbre,” disse. “Io dico che dovresti
accettare la tua natura. Dacci ciò
che ci serve, scintilla. Sarai in pace, dopo.”
La ragazza colse
una nota
d’impazienza, nella voce di lui. Odino festeggiava
l’anniversario della sua
incoronazione e tutta Asgard brindava al suo regno ricco e prolifico,
chiedendosi sottovoce, però, quale dei suoi figli avrebbe
ereditato il trono,
se il coraggioso Thor o l’astuto Loki. I due principi
parevano non pensarci e, in
pubblico, facevano sfoggio di un disinteresse quasi manierato,
soprattutto il
secondo, dato che il tonante non dubitava affatto che governare gli
Æsir fosse
un suo imprescindibile diritto.
“A
cosa vi servono, le
scintille?” rispose altera, quasi con sdegno. Lo vide piegare
in un ghigno
sornione le labbra sottili e ripensò a quando le aveva
rivelato quel terribile
segreto, e lei, scossa dalla febbre, era in camicia da notte, esposta,
vulnerabile, nelle sue mani – ma non tra le sue
braccia, la tradì un
pensiero imprevisto e feroce.
“Rivelati
utile alla
nostra causa, Sigyn. Padre Tutto ti ha accolta non come un ostaggio, ma
in
qualità di nostra gradita ospite. Di sorella,”
aggiunse, allargando il
sorriso fino a farlo diventare una risata stretta, ma un simile
termine,
pronunciato da lui, aveva un sapore sospetto, strano. Sigyn
rabbrividì e
continuò ad ascoltarlo. “Ci sono, però,
delle condizioni, che ancora non conosci,
riguardo alla tua permanenza qui. Per questo ti invito ad accettare il
destino
delle Norne e a sfruttare a tuo vantaggio ciò che hai.
Così facendo, farai
anche i nostri interessi,” concluse.
A Sigyn il
discorso
dell’ingannatore sembrò criptico.
“È un consiglio o un ordine? Dici che non
sono il tuo ostaggio, ma questa non è
libertà,” lo sfidò.
“Prima
di noi, tu vivevi
fin dall’infanzia dentro un enorme palazzo scandito da una
serie di riti sempre
immutabili. Pregavi, studiavi, ricamavi e cos’altro? Questa
è libertà?”
s’interessò l’ingannatore con voce
cattiva e occhi scintillanti.
“E tu?
Tu sei libero?”
rispose Sigyn, pallida in volto.
Vedendola
così furiosa,
Loki provò un sottile, infimo divertimento. Le avrebbe
risposto volentieri e si
scoprì ad ammirare, come la prima volta in cui si erano
incontrati, il
principesco sdegno di cui lo faceva oggetto, ma Sif venne a
interromperli,
adducendo come motivazione certe questioni relative a una recente
azione di
guerra. Nei confronti del principe cadetto, l’abile guerriera
si dimostrava, da
sempre, fredda e sgarbata, e anche in quel momento era evidente il
fastidio che
le procurava il dover richiamare Loki. Sigyn notò che,
mentre l’altra lo
ragguagliava, le loro spalle quasi si toccavano appena e, sebbene la
guerriera
non avesse occhi che per il primo figlio di Odino, sentì
qualcosa pungerle il
petto. Si allontanò con una riverenza breve, mescolandosi
con la folla
festante, ma su di sé continuò a sentire le
occhiate pervicaci e beffarde del
bel principe.
Sognava
Loki, e a volte, nelle albe fredde o
prima di addormentarsi, lasciava che le sue dita
s’insinuassero tra le sue gambe
e si sfiorava, scoprendo una consolazione brusca e istintiva alla
solitudine e
all’incertezza. Soffocando i sospiri, ignorava volutamente il
perché il dio
degli inganni, col suo volto affilato e il corpo nervoso e svelto,
finisse
sempre per abitare le sue fantasie incerte. Dopo, la schiacciava il
senso di
colpa e, abbassando gli occhi, prometteva di non rivolgere
più al mago il
benché minimo pensiero. Lui era l’uomo che
l’aveva reclamata come ostaggio,
strappandola alla sua famiglia, ma nelle ore incerte tra la notte e il
giorno, era
anche il solo fantasma capace di consolare una parte di lei che non
doveva
esistere, eppure esisteva.
Sif esigeva da
Loki che
controllasse un bottino di guerra prima della sua spartizione.
C’erano degli
artefatti, al suo interno, alcuni dei quali si diceva che fossero
stregati: l’ingannatore
doveva visionarli e togliere dal tesoro i pezzi più
pericolosi. Lui e Odino si
sarebbero occupati, nei giorni successivi, di studiare come impiegare
gli
oggetti incantati o renderli innocui. La vicinanza tra i due, che Sigyn
aveva
notato senza, però, coglierne le reali implicazioni, era un
segreto che
entrambi custodivano gelosamente: avevano avuto una relazione che non
era mai
sfociata nella dichiarazione di alcun tipo di sentimento e viveva di
fasi
alterne. Loki trovava divertente che Sif gli si concedesse: era la
prova della
sua ipocrisia. Professava di amare suo fratello e di voler dare la sua
vita per
lui, ma intanto cedeva all’istinto di andare a letto con uno
che, sulla carta,
disprezzava. E Loki, che pure detestava essere considerato un rimpiazzo
di Thor
da chiunque, lei compresa, spesso la cercava quasi rabbiosamente,
perché
sporcare l’amore sbandierato che la bella guerriera ostentava
gli provocava un
piacere malsano. Da alcuni mesi i loro incontri si erano fatti
più radi e meno
intensi; ciò non era strano. Erano unicamente compagni di
letto, e Loki, dal
canto suo, spesso s’incapricciava di qualche dama o progetto
particolare e si
dimenticava di tutto il resto, comprese le passate amanti. Sif non era
mai
stata gelosa e sapeva, non senza dispetto per se stessa, che, prima o
poi, la sua
vergognosa relazione col figlio cadetto di Odino avrebbe ripreso ritmi
più
serrati. Eppure, negli ultimi tempi, Loki le sembrava più
inquieto e meno
incline a cedere alla passione. Nella penombra del sotterraneo, lo
osservò
svolgere il suo compito con perizia e abilità, ma non le
sfuggì la fretta con
cui si rigirava tra le belle mani di mago coppe, spade e collane. Lo
vide
soffermarsi su un gioiello in particolare e sorridere appena, sempre in
silenzio. E ciò era strano, perché Loki aveva la
lingua sciolta e raramente
sceglieva di tacere: in altre occasioni l’aveva riempita di
battute allusive e
vagamente canzonatorie, volte a suscitare la sua ira e il suo
interesse, ma
quella sera, no. L’ingannatore era concentrato in
ragionamenti da dove lei,
Sif, era esclusa. E non sapeva se ciò le recasse sollievo o
sgomento o
entrambi.
“Hai
voglia di tornare al
banchetto?” indagò circospetta.
“È
l’anniversario della
presa di potere di mio padre,” spiegò il mago
senza sollevare gli occhi da un
vistoso scudo finemente lavorato. “Ci sono ancora tante botti
di idromele
pregiato da assaggiare.”
Il disinteresse
dell’Ase
fece arcuare in una smorfia le labbra della guerriera, ma
l’orgoglio le impedì
di replicare. Attese che l’ingannatore finisse il suo compito
a braccia
incrociate, tuttavia, accorgendosi con stupore che si era appropriato
già di
uno dei tesori. Lo vide lasciare un breve messaggio su una pergamena,
colse la
soddisfazione con cui rendeva noto il privilegio che si era arrogato.
Fatto
ciò, il principe s’incamminò verso le
scale strette che conducevano ai piani
superiori e all’ampia sala del banchetto. Di nuovo, non aveva
approfittato della
circostanza favorevole per appartarsi con lei, anzi: le
sfilò di fianco come se
tra loro non fosse mai successo niente, nessuna cosa.
Sigyn se
n’era appena
andata, quando Loki tornò al banchetto. Glielo disse Thor.
Il fratello,
visibilmente alticcio e con gli occhi lucidi e arrossati, stringeva due
valchirie per la vita, una per ogni braccio. Una delle guerriere aveva
i
capelli neri come la notte e lo sguardo rapace di un corvo. Anche la
sua pelle
era bruna e liscia. L’altra, aveva leggere efelidi rosse su
un viso pallido
quasi da bambina, ma il fisico snello e slanciato era quello di
un’abile
guerriera. Sif deglutì a quella visione:
l’indifferenza brutale di Loki si
scontrava con quella, molto più amara e senza risoluzione,
di Thor. Le due
valchirie ridevano col maggiore dei figli di Odino come lei, che pure
combatteva al suo fianco da anni, non aveva fatto mai. La bruna gli
sfiorava le
spalle tornite, la mascella virile e squadrata, ammirandone la
prestanza e la
bellezza con uno scintillio compiaciuto negli occhi. Avrebbero passato
la notte
insieme, era palese, evidente, e lo volevano entrambi. La rossa si
sciolse a
malincuore da quell’abbraccio, lasciando alla coppia il modo
di scambiarsi un bacio
ansioso. Scherzò con Loki per un momento e poi si
allontanò in cerca delle sue
compagne.
“Fratello,”
disse Thor
carezzando la chioma scura e scomposta della donna al suo fianco e
sporgendosi,
al contempo, verso il mago. Non voleva che altri lo sentissero, nemmeno
Sif o
la valchiria. “Quella ragazza ha qualcosa che non va.
L’ho tenuta d’occhio per
te, ma… non fare cose di cui potresti pentirti. Di cui potremmo
pentirci,” si corresse, abbassando il tono.
Loki non diede
alcuna
prova di aver apprezzato le premure del tonante. Ascoltò
impassibile
l’avvertimento dell’altro, sfoggiando la sua solita
posa fiera. Lasciò correre
lo sguardo sulla sala gremita e festante, assaggiò un corno
ben colmo
dell’idromele speciale che Odino aveva fatto aprire per
l’occasione e si ritirò
poco dopo, da solo.
Fu quella la
notte in
cui, per la prima volta, ebbe gli incubi. Sognò di vederla
morire secondo il
rituale e vide a chi era
promessa,
osservando la sua figura mostruosa e potente, frutto di
un’immaginazione condizionata
da incisioni antiche e descrizioni vaghe e imprecise. Si
svegliò di
soprassalto, con uno scatto. Senza nemmeno rendersene conto, si
ritrovò seduto
sul letto, madido di sudore, a maledire l’idromele,
ricostruire le ultime ore e
raccogliere i frammenti dell’incubo appena vissuto, che
già svanivano dalla sua
testa. La prima cosa che fece, fu cercare dell’acqua. Aveva
la bocca impastata
e una sensazione di ribrezzo e desiderio appiccicata addosso. Del suo
sogno a
brandelli, ricordava una Sigyn discinta come non era mai durante il
giorno,
ammiccante e sfuggente, svestita quel tanto che bastava per fargli
intravedere
le forme flessuose sotto un abito leggero. Il resto, erano scene
confuse e
violente, intrise di sangue, perché Sigurdr aveva promesso
la sua figlia più
giovane a un mostro che dimorava – marciva – sotto
le radici dell’Yggdrasill,
immolandola a lui in cambio di una vittoria. L’essere
l’avrebbe pretesa come
pasto o moglie o entrambe le cose – a Loki non sarebbe dovuto
importare, ma
invece gli interessava. Secoli prima, l’accorto re Bor, padre
di Odino, aveva
condannato una simile pratica. La razza che viveva sotto le radici
doveva estinguersi
lentamente, non ricevere doni che ne avrebbero, in un modo o
nell’altro, proseguito
e accresciuto la stirpe. Sigurdr aveva violato quell’ordine
antico, offrendo
alle creature superstiti non una ragazzina qualunque, ma la scintilla.
E lei si
struggeva per un destino che considerava avverso, senza immaginare,
ancora,
quanto in realtà fosse sporco ed empio e ingiusto. Loki si
ritrovò a camminare
per i corridoi bui del palazzo, accaldato e inquieto. Nonostante la
frizzante
aria notturna, indossava solo dei pantaloni di stoffa e una tunica
leggera. Era
uscito per schiarirsi le idee e scaricare l’adrenalina che
gli era rimasta in
corpo dopo il suo brusco risveglio. Finì a girovagare nei
pressi della
biblioteca, dentro cui avrebbe saputo orientarsi persino bendato. Alla
fioca
luce di una fiammella evocata pronunciando un paio di rune,
trovò gli scaffali
che lo interessavano: erano una raccolta di vecchie fiabe, filastrocche
e
poesiole per bambini, ma Loki non ignorava che, nelle storie narrate
d’inverno
dalle nonne di fronte ai camini, si celassero spesso significati
inquietanti,
visibili solo a chi sapeva o voleva cercare.
Con
i volumi sottobraccio, s’incamminò col suo
passo svelto e felpato verso i propri appartamenti, ma nel farlo prese
una
strada diversa, inconsueta, che lo portò a fermarsi davanti
a una porta chiusa,
da cui filtrava una sottilissima lama di luce. Loki Odinson
sbatté le palpebre
gonfie di sonno: la notte era così fonda da essere irreale e
forse anche quel
bagliore lo era: altrimenti, stava fissando il segno che Sigyn, oltre
la
soglia, era sveglia.
Per un momento,
si figurò
nell’atto di bussare e aprire la porta – non era
casa sua, del resto? – e
coglierla nell’atto inutile di pregare gli antenati o immersa
nella lettura di
un libro. L’avrebbe sorpresa in camicia da notte, la stessa
con cui l’aveva
vista la sera della febbre, e si sarebbe deciso a rivelarle la parte di
verità
che ancora le mancava. Immaginò il terrore dilatarle
nuovamente gli occhi e si figurò
le sue labbra, schiuse e ben disegnate, tremanti e colme di maledizioni
verso
di lui, che era un bugiardo, e contro suo padre, che l’aveva
venduta. Oppure,
avrebbe potuto inghiottire ancora una volta la verità e
stringerla tra le
braccia, come desiderava, riscuotendo il premio chiesto per una
battaglia in
cui aveva quasi perso la vita. E allora la camiciola sottile di lei
sarebbe
stata sfilata bruscamente, per svelare le forme sognate dei fianchi
rotondi e
ben fatti, del seno piccolo e sodo. Alcune scene del suo incubo
tornarono a
pungergli la mente, suggerendogli quanto dovessero essere dolci i suoi
baci,
squisito il corpo che avrebbe spogliato e ammirato e posseduto nella
penombra
notturna. Era stata promessa a un altro, ma si trattava di un
giuramento empio,
che andava fermato. Nemmeno Padre Tutto desiderava spegnere
così la scintilla,
sebbene non potesse interferire con giuramenti e promesse[3].
Per un momento,
Loki
valutò davvero l’idea di entrare.
Sfiorò la maniglia con le punte delle dita,
inebriandosi del piacere maligno che nasce dai divieti violati.
Chissà che
sapore aveva.
♥
Non si dovrebbe
mai bere
idromele mentre i musici suonano canzoni tristi. Loki
ricordò di averlo detto a
Sigyn per scherzo, una volta, ma era passato molto tempo da allora e
lei adesso
era cieca, lontana, perduta. I festeggiamenti per la prossima
incoronazione di
Thor proseguivano da ore, ma l’alcol non lo inebriava
né rallegrava più. Costringeva
la sua mente a percorrere sentieri contorti, carichi di un rancore
fatto di
molti altri rancori, ognuno con un proprio nome. E quello della
maledetta
scintilla spiccava su tutti, perché l’ingannatore
era convinto che molte cose
sarebbero andate in modo diverso, se le loro strade non si fossero mai
incrociate, se suo padre, incauto, non l’avesse promessa -
venduta. Thor blaterava
assurdità sul proprio futuro regno, fantasticando di
battaglie e scontri, e
Loki pensava all’ombra in cui avrebbe continuato a
strisciare, ai rimpianti che
tiravano come fanno le vecchie cicatrici.
S’inumidì le labbra e si alzò per
abbandonare la sala. La festa gli risultava odiosa, così
come la scelta scriteriata
di Padre Tutto. Serrò i denti con ferocia: quel pensiero
era, già di per sé, un
tradimento. Uno persino peggiore di quello già compiuto.
Sentì il respiro farsi
irregolare, il sangue pompare irregolarmente nelle sue vene: Padre
Tutto non
poteva sbagliare. Lui, Loki, provava, verso il genitore, un affetto
incondizionato, un’ammirazione senza pari. Fin
dall’infanzia, incantato dal
fascino irripetibile di quell’uomo con un occhio solo che
raccontava a lui e a
suo fratello delle storie fantastiche, si era ripromesso di dimostrarsi
degno
ai suoi occhi, copiandone senza nemmeno accorgersene le movenze e
persino il
modo di pronunciare certe parole. Crescendo, l’ammirazione si
era tramutata in
orgoglio; era il figlio di Odino, il principe di Asgard: non
c’era impresa che
non potesse o dovesse essere compiuta per il bene di
quest’ultima. Persino strappare
Sigyn al suo destino poteva giustificarsi nel tentativo di far
rispettare le
leggi di Bor, da sempre difese da Padre Tutto. Così si era
discolpato, quando Odino,
pallido per l’ira, lo aveva accusato di essere egoista e di
badare solo al
proprio tornaconto. Eppure, la scelta, alla fine, era ricaduta su Thor.
Gli
tornarono in mente le parole, cariche di un mesto risentimento, che
erano state
pronunciate dall’infelice Oddr. Come lui, Loki viveva in
un’ombra, che anziché diradarsi
si faceva sempre più fitta, inghiottendolo. Dopo aver perso
lei, si era
ritrovato a vedersi scivolare via dalle dita la possibilità
di essere re. Che altro
restava al cadetto, all’eterno secondo? Perennemente sul
punto di sfiorare la
luce e sempre, invariabilmente, escluso dalla stessa? Le sue belle dita
di mago
tamburellavano stancamente sul legno della propria scrivania che,
frattanto,
aveva raggiunto. Il fuoco crepitava appena nel largo camino, spandendo
una luce
rossastra e tremolante. Loki non aveva freddo né desiderava
illuminare
maggiormente la stanza. Se l’avesse fatto, i suoi occhi
mobili e inquieti si
sarebbero soffermati sulla cassapanca dove, sepolto sotto mantelli e
tuniche,
era nascosto uno scialle di seta impalpabile, appartenuto a lei. Il
primo
fallimento. Verso l’alba, il fuoco si ridusse a poche braci
tiepide. Fu allora
che il dio degli inganni si alzò e, avvicinando una mano
verso la cenere,
pronunciò a bassa voce una serie di rune il cui suono
cadenzato sembrava quello
di una nenia. Lentamente, una pergamena ancora sigillata riprese forma.
Loki,
però, non l’aprì. La
curiosità lo mordeva, ma l’orgoglio gli impediva
d’invischiarsi
ancora in una situazione irrisolvibile. E poi, un altro piano si andava
formando nella sua testa, perché se Sigyn era perduta,
Asgard ancora non lo
era. Thor non meritava il posto di suo padre. Loki doveva solo
dimostrarlo,
creando ad arte l’occasione giusta che rivelasse la vera
natura del fratello.
L’angolo di Shilyss
Care Lettrici e cari Lettori
del mio cuore (perché lo sapete che vi si lovva moltissimo,
vero??)
So che molti di voi
attendono anche l’aggiornamento di Accordo
e vi prometto che la prossima
a essere aggiornata sarà lei, ma comprendetemi:
lì siamo nella fase finale
della storia (leggete: l’ultima tranche di capitoli) quindi
mi serve tempo per
fare le cose bene e poi è stata un’estate
complicata, ve lo confesso. Ma torniamo
a Scintille. Vi avviso che nei prossimi capitoli saremo quasi sempre
nel
passato. È giunto il momento di scoprire
cos’è successo, cos’è andato
storto e
perché Sigyn non è stata salvata.
Qualcuno si chiederà
come
mai non posto più settimanalmente: cercherò di
essere sempre più o meno
presente e di non far passare più di 14 giorni senza mie, ma
a ogni modo vi
ricordo che esiste la paginuccia fb per seguirmi e anche
instagram. Lì
avete mie notizie più o meno giornalmente (inserite risata
malefica qui).
Ringrazio chi ha listato,
recensito o semplicemente letto questa storia: siete importanti e sappiate che
leggo tutti i vostri
commenti e non vi mangio. Spesso non rispondo pubblicamente, ma se vi
palesate
lo faccio e sono molto alla mano, ecco. Se avete piacere, passate su
Ombre e
fate attenzione agli avvertimenti. Piacerà anche a chi ama
il canone.
Ricordo che il personaggio
di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce
“Sigyn” su Wikipedia, è una mia
personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Non vi
autorizzo a
ispirarvi o peggio a questa versione o alle altre storie da me postate
né qui
né altrove (peggio mi sento con le fiabe) e lo stesso vale
per gli headcanon su
Vanheim, su Loki o su Asgard stessa. Creare un mondo con usi e costumi
non è
uno scherzo.
A presto e grazie per tutto
l’affetto/sostegno/cose, vi si lovva (e spero voi lovviate
me).
Shilyss
[1]
Perché questi hanno le astronavi, non posso e non voglio
credere che sanno come
far volare una macchina e non abbiano a loro disposizione un sistema
idraulico
e fognario decente. Prima di volare, occorre risolvere
l’annosa questione dei
bisogni, ché farli nel secchio pare proprio brutto.
[2]
Tutto ciò che leggete su Sigyn e sui Vanir (compreso il
fatto che lei sia una
Vanir) è un mio headcanon.
[3]
Un mio headcanon riguardo alle promesse e ai giuramenti,
così come la cosa che
vive nelle radici.