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Autore: Taylortot    07/09/2020    2 recensioni
La paura gli si inerpicò in bocca, amara sulla lingua. “Chi sei?” Gli ci volle un momento per registrare il suono della sua stessa voce.
Lei lo fissò e sbatté le palpebre. “Lance, per favore. Non è il momento per una delle tue battute-”
Lui aggrottò le sopracciglia e si mise a sedere a fatica per sfuggire alle braccia di lei. “Non sto- non sto…scherzando.”
*
Dopo essersi sacrificato per salvare Allura, Lance si sveglia in un mondo strano e nuovo dove l’unica cosa che sente è un profondo legame con un ragazzo che non ricorda.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kogane Keith, Krolia, McClain Lance, Takashi Shirogane
Note: Traduzione, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Note dell’autrice: TANTISSIMI AUGURI DI BUON COMPLEANNO, LANCE!!!! Sono riuscita a finire il capitolo più importante di questa storia nel giorno più importante dell’anno! Pazzesco!!

Buona lettura!


 

Nei due giorni successivi, Lance si perse nel da farsi. Sia perché non aveva molto da aggiungere alle discussioni militari del gruppo, sia perché la sua mente era ancora fissata su quel risveglio dolce e pigro a letto con Keith.

Ogni volta che si sentiva risucchiare da quel ricordo – le labbra che pizzicavano, il cuore che batteva forte, le dita che si arricciavano – doveva scacciarlo. Era certo che la sua faccia avesse preso un perenne colorito rosso, anche se nessuno sembrava averlo notato. Nemmeno Keith, che era stato troppo occupato per la gran parte di quei due giorni per riuscire a stargli vicino; il che era sia una terribile benedizione che una magnifica maledizione.

Alla fine, Allura decise che sarebbe stato meglio per la squadra – e per quello per cui avevano sempre lottato – concedere un’udienza a Lotor per dargli la possibilità di spiegarsi. La decisione non venne accolta bene dagli altri, ma era un passo necessario se volevano sbrogliarsi da quella situazione senza usare la violenza, se volevano mantenere la fragile pace che era stata ristabilita fino ai confini lontani delle vicine galassie. Allura stessa sembrava tutto tranne che entusiasta della sua scelta, e probabilmente era per quello che Keith si fidò di lei, anche se era stato uno dei più accesi sostenitori di un attacco diretto.

La condizione che pose Allura fu quella di avere rinforzi. Alleati, nel caso in cui qualcosa dovesse andare storto, nel caso in cui fosse una trappola.

Dato che Lance aveva trascorso tutta la sua seconda vita in un periodo di tregua tra i Galra e il resto dell’universo, non era sicuro di cosa aspettarsi. La Spada di Marmora si stabilì nel castello, come pure alcuni ribelli della Coalizione come il fratello di Pidge, Matt. Lance sapeva combattere, la sua mira con il fucile era ancora impeccabile, ma non era mai stato costretto a usare le sue abilità prima. Non in quella vita. Quindi non sapeva cosa sarebbe successo e avrebbe voluto essere più pronto di quanto non si sentisse.

Che quell’incontro si trasformasse o meno in un combattimento, voleva essere al suo meglio per ogni evenienza. Solo così avrebbe potuto proteggere se stesso e la squadra. Solo così avrebbe potuto proteggere Keith. Gli sembrava di essere già in guerra, più di quanto non lo richiedesse la situazione.

Il primo giorno, Lance, Keith e Krolia vennero trattenuti da una riunione tra i leader della Coalizione: Allura, Kolivan e un paio di persone alla testa delle fazioni ribelli più numerose. Parlarono per ore, esponendo tutti i dettagli che ricordavano sul tempo che avevano trascorso nella luna dell’abisso quantico. Il che fu terribilmente noioso dato che non avevano visto granché di eccezionale. Tranne quanto la tecnologia alteana non si era risvegliata e aveva cercato di farli saltare in aria. Dopo un po’, congedarono Lance, solo lui, e prima di lasciare la stanza si scambiò una lunga occhiata con Keith che gli fece ribollire lo stomaco per ore.

Il secondo giorno, Lance passò tutto il tempo nella sala allenamenti. Non era solo – c’erano anche alcune persone che non conosceva; essenziali per il piano, ma non per la strategia che avevano elaborato. Si sentiva abbastanza affine a loro e ci parlò tra una pausa e l’altra, imparando ogni volta cose nuove su tutto quello che non aveva mai pensato di chiedere quando si era risvegliato senza memoria.

Keith, in qualità di principale anello di congiunzione tra La Spada e Voltron (e in qualità di una delle uniche due persone che aveva visto i veri orrori di quella luna), era occupato con riunioni e brevi missioni secondarie. A Lance mancava di più ora che quando ancora non lo conosceva, ed erano passati solo due giorni dalla loro ultima lunga conversazione (labbra che pizzicavano, cuore che batteva forte, dita che si arricciavano). Provava meno tristezza, ma il dolore che provava era reale e acuto. Per renderlo sopportabile, dovette stringere i denti e sudare copiosamente con un work out pre-impostato nella stanza degli allenamenti.

Entrambe le notti furono… semplici. Keith entrava nella sua stanza con insistenza e rimaneva sulla porta, chiedendogli dettagli sulla sua giornata fino a quando non c’era più niente da dire. O forse sì, ma nessuno dei due sembrava essere coraggioso abbastanza da aggiungere niente. Erano i dieci minuti più importanti della giornata. Attiravano l’attenzione quando altri passavano per andare a dormire, ma a Lance non importava; era quasi del tutto ignaro della loro presenza quando Keith si sporgeva verso di lui dalla porta, la spalla contro lo stipite, abbastanza vicino da poter sentire il suo calore nel solito freddo notturno del castello.

Era l’unico momento che avevano per loro, lì sulla porta della sua camera, e Lance avrebbe voluto chiedergli di entrare e rimanere, ma Keith sembrava sempre esitare. Era lui quello che non voleva superare quel limite. Lance se ne sarebbe preoccupato, avrebbe posto domande stringenti, se solo Keith non lo guardasse come sempre, con quei suoi occhi scuri, come se fosse morto se non l’avesse fatto.

La seconda notte, Keith si limitò a dire piano: “Shiro ha detto più di una volta che aveva mal di testa oggi. Potresti tenerlo d’occhio per me, domani?”

Lance aggrottò le sopracciglia, le mani ficcate in tasca. Una parte di lui rimpiangeva la lettera che aveva portato con sé così a lungo, ma dopo averla mostrata a Keith nel leone rosso non era più riuscito a trovarla. Poteva anche averla persa per sempre; chissà dove andavano a finire gli oggetti smarriti in un mistico leone robot. “Tu dove vai?”

“Devo prendere delle armi di scorta da una delle nostre basi vicine.” Keith lo studiò nella penombra, le sopracciglia folte e basse sugli occhi. “Dovrei tornare presto.”

Lance annuì, felice che si trattasse di un altro lavoro facile. Sorrise, cercando di nascondere il tremore nel petto che si rifiutava di lasciar andare Keith di nuovo. Una parte di lui avrebbe voluto tirare su un casino, ma sarebbe stato… Keith voleva farlo. Lance non poteva stargli appiccicato tutto il tempo, per quanto la cosa lo rendesse triste. “Okay, controllerò Shiro. Lascia fare a me. Non si accorgerà mai di niente, lo prenderò alle spalle.”

Keith storse le labbra, divertito. “Non devi spiarlo Lance. Né colpirlo né… qualunque cosa tu sia venuto in mente di fare.”

Gli rispose con uno sbuffo. “Okay, e come mi dovrei divertire allora? Devo pur fare qualcosa domani o uscirò di testa. Non tutti hanno missioni fighe sotto copertura da portare a termine, Keith. Qualcuno rimane confinato nella sala allenamenti per ore e ore. Ore, Keith. Non è divertente! Considerato che Shiro è molto più impegnato di me, non è che posso entrare a caso nella plancia di comando e interrompere conversazioni serie per chiedergli come va la giornata. Abbiamo un Grande e Grosso Casino da risolvere- okay, perché stai ridendo?” Assottigliò lo sguardo e fissò Keith, che non stava tanto ridendo quanto sorridendo, un lampo di denti catturati da una lama di luce.

“Niente.” Lo rassicurò Keith, condiscendente, gli occhi che brillavano nella penombra. “Prego, continua.”

Lance arrossì dalle clavicole all’attaccatura dei capelli. “Non importa.” Borbottò, il cuore che fluttuava come un aquilone catturato da un vento particolarmente forte. “Non ho altro da dirti.”

“Peccato.” Mormorò Keith.

Lance sbuffò di nuovo, sentendosi fin troppo accaldato con la maglia addosso. Si sarebbe tolto la giacca se solo Keith non avesse annotato la cosa con interesse. Nonostante la sua espressione fosse quasi scherzosa, era molto concentrato, e Lance era fin troppo cosciente di quanto lo stesse osservando per ignorarlo. “T-tu-!” Boccheggiò con malagrazia. “Keith-!”

Quella volta, Keith rise davvero. Una di quelle risate di pancia che faceva espandere il calore che Lance sentiva sul volto anche in tutto il corpo. Avrebbe voluto sentirsi offeso, ma ne era troppo abbagliato, troppo felice per anche solo fingere di essere arrabbiato. Quando Keith smise di ridere gli rimase il sorriso sulle labbra e Lance poteva sentire il tempo scorrere; sapeva di dover andare a dormire, ma avrebbe potuto rimanere lì davanti alla porta tutta la notte, così com’era, se Keith avesse continuato a sorridere.

“Attento a ciò che desideri.” Gli disse Lance, ammonendolo. “Un giorno parlerò così tanto che ti sanguineranno le orecchie, e te ne pentirai.” Voleva mezzo sgridarlo per averlo preso in giro, ma Keith assottigliò lo sguardo e il suo sorriso sghembo si fece malinconico. Lance si sentì nudo, ma non vulnerabile; gli tremavano le ginocchia e stava quasi per tirare una mano fuori dalla tasca per sostenersi al muro. Si rifiutò di distogliere lo sguardo, anche se il suo povero cuore avrebbe funzionato molto meglio.

“Chissà perché, ma ne dubito.” Gli disse Keith.

Era troppo. Se ne andava in giro tutto severo e accigliato, e poi era lì così, guardandolo a quel modo, tenero e soffice come la peluria sulle orecchie di Kosmo. Sentì il cuore sobbalzargli nel petto con violenza per la sincerità assoluta nella voce di Keith, gli occhi che tracciavano la sagoma delle sue spalle larghe, la curva dei muscoli delle sue braccia incrociate. Avrebbe potuto toccarlo, se solo lo avesse voluto. Avrebbe potuto.

“D-dovrei andare a dormire.” Disse Lance, quasi nervoso, decidendosi ad abbassare lo sguardo sul pavimento, e diede un piccolo strattone alla giacca con la mano. “A-anche tu dovresti, immagino. Sicuramente partirai prima che io mi svegli, no? Quindi non dovrei trattenerti oltre; domani sarà una lunga giornata per te. Non vorrei che ti stancassi, dato che dovrai essere bello concertato. Quindi-”

“Posso vederti domani?” Gli chiese Keith, interrompendo il suo farfugliare.

Lance sbatté le palpebre per la sorpresa, fissandosi i piedi. Quando ebbe processato la sua domanda, si passò i denti sul labbro inferiore con fare assente, pensandoci un momento. “Mi vedi ogni giorno.” Strofinò il tallone della scarpa da ginnastica sul pavimento.

Keith motivò subito la sua richiesta, scaldandogli il cuore. “Mi sono perso due giorni.”

Lance si rimise le mani in tasca, le guance in fiamme, e fece un verso impacciato mentre poggiava le spalle allo stipite. “Voglio dire… okay?”

Keith sbuffò, ma nella sua voce c’era un che di soddisfatto quando si chinò su di lui, eliminando la distanza che c’era tra loro, lì con quella semplice barriera. “Beh, non ti sto obbligando. Non farlo se non ti va.” Disse, stuzzicandolo.

Lance sollevò lo sguardo, il cuore in gola. Tremava e si poggiò con più convinzione al muro. “No, cioè… va bene. Puoi vedermi. O… Io posso vederti. O qualcosa del genere. Possiamo… possiamo vederci.” Era palesemente imbarazzato, morendo dentro per quanto le sue parole suonassero stupide, ma Keith si rincuorò e ritornò mezzo istupidito all’improvviso.

“Davvero?”

“Davvero.” Sospirò Lance, conscio di quanto quel suono fosse caldo e pieno e affettuoso.

Keith sorrise in quel suo modo affettato e devastante e si sporse per posare un bacio inaspettato sulla sua guancia. “Grazie.” Disse, senza perdere un colpo. La sua voce era bassa e scura come cioccolato, e dolce la metà. Lo stava ringraziando – Lance aspettò che si ritraesse dopo quel primo bacio, se l’aspettava tanto quanto lo temeva, e Keith lo fece, a malapena, per poi indugiare rimanendo fin troppo vicino, come se non riuscisse ad andarsene fisicamente, fermo e risoluto nella sua vicinanza.

Lance non osava muoversi e chiuse gli occhi mentre annaspava per respirare. Baciami, pensò disperato, quasi delirante, ammutolito da quel suo desiderio improvviso. Il suo volto era in fiamme. Il suo cuore incespicava. Le sue mani tremavano nelle tasche. Baciami. Se avesse voltato la testa, i loro nasi si sarebbero sfiorati. Il loro respiro si sarebbe mescolato. Si domandò che cosa avrebbe potuto dire o fare per fare in modo che Keith lo spingesse dentro la sua stanza, premendolo contro un muro. Si domandò perché non poteva essere lui a tirarlo a sé, trascinando Keith vicino a lui.

“Sogni d’oro, Lance.” Mormorò Keith, e poi piano, dolorosamente piano, si scostò. Lance sentì un improvviso senso di vuoto e la tensione tra loro si ruppe come vetro incrinato.

Sentì il respiro bloccarsi in gola contro un nodo di emozioni che non riusciva a comprendere, ma annuì, aprendo gli occhi solo quando lo spazio tra loro non fu più così denso e Keith era tornato nel corridoio.

“Stai attento lì fuori, domani.” Disse, la voce bassa e irregolare.

Keith annuì, bruciante, intenso. “Certo.”

Lance si pettinò qualche ciocca dietro l’orecchio e gli rivolse un piccolo cenno di saluto con la mano rientrando nella stanza per poi chiudere la porta, interrompendo il loro scambio di sguardi. Inspirò una tremula boccata d’aria e nelle due ore successive cercò di addormentarsi, lamentandosi contro il cuscino quando il suo cuore non smise di battere.

***

Il mattino seguente, si svegliò con il lupo spaziale nel letto.

Sbatté le palpebre e, assonnato, osservò Kosmo. Quando l’animale, uggiolando come un cucciolo, strisciò verso il cuscino per leccargli il mento notando che era sveglio, Lance gli spostò il muso. Sentì la coda frustargli la caviglia e, anche se avrebbe voluto sentirsi irritato per quelle asfissianti attenzioni la mattina presto, rise e lo baciò sulla fronte morbida.

“Keith ti ha lasciato di nuovo solo?” Mormorò, chiudendo gli occhi, la gola secca per il sonno. Passò le dita tra la folta pelliccia dietro le orecchie di Kosmo. “Mi dispiace, bello.”

Kosmo sbuffò e gli posò il muso sul petto, impaziente; poi, strofinò il muso su di lui quando Lance rimase immobile. Gli pungolò la guancia con il naso umido e uggiolò di nuovo.

Lance gemette e aprì un occhio. “Non ti ha dato da mangiare? Cosa vuoi da me?”

Kosmo scese dal letto, ma non prima di aver pestato con forza lo stomaco di Lance nella foga del momento. Teneva le orecchie ritte e attente e la coda fremeva. Si sedette davanti alla porta della stanza e si girò per guardarlo, carico di aspettativa. L’intelligenza negli occhi dell’animale era sia divertente che spaventosa.

“Ow, merda, che male… Okay! Mi alzo, mi alzo. Che palle.” Lance si massaggiò lo stomaco e si tirò su a sedere, riluttante, per poi scivolare giù dal letto. La sua routine mattiniera venne accorciata dall’impazienza del lupo e Lance se ne lamentò ad alta voce fino alla cucina, dove la gran parte dei residenti temporanei del castello si erano riuniti per la colazione.

Krolia non c’era, quindi Lance pensò che fosse andata con Keith ed era per quello che Kosmo era rimasto con lui. Non capiva perché Keith non lo portava con sé; sapeva che c’era spazio a sufficienza nelle navicelle alteane perché anche Kosmo potesse unirsi alle sue piccole missioni.

Prese un piatto per Kosmo e per sé, e una volta mangiata la maggior parte della sua razione in un angolo della stanza da solo, scrisse un breve messaggio a Keith.

Hai abbandonato di nuovo il tuo cane, e lo inviò.

La risposta di Keith arrivò qualche minuto più tardi, mentre Lance punzecchiava quello che rimaneva del suo pasto. Non ti sta dando fastidio, vero?

Lance guardò Kosmo che, sazio, era steso immobile ai suoi piedi. “Sei fastidioso, Kosmo?”

Quando non ricevette alcuna risposta, fece una risata nasale. No. È solo appiccicoso. È per questo che non te lo porti dietro? Doveva essere uno scherzo. Un semplice test. Ormai si trovava bene con Keith, gli era familiare, e si scambiavano frecciatine con naturalezza, che si adagiavano tra loro con una grazia e una facilità sorprendente.  Anzi, sembrava che a Keith piacesse: gli brillavano gli occhi e la dura curva del suo sorriso era più grande che mai, per quanto si vedessero poco e fossero distanti.

No, gli ho chiesto di rimanere con te, disse a mo’ di spiegazione. Poi, dopo una pausa, Pensavo che poteva tenerti compagnia mentre non ci sono.

Lance fissò il messaggio per un lungo momento. Lo fissò fino a quando le parole non furono impresse a fuoco nel suo cervello; poi, posò il tablet a faccia in giù sul tavolo e abbandonò la testa tra le braccia, il volto caldo quanto una stufa. Oh, per l’amore di tutto ciò che era buono e puro, perché – Dio mio, perché – non aveva ancora baciato quel ragazzo?

***

Dopo colazione, Lance gironzolò per un po’ alla ricerca di Shiro e trovò sia lui che Allura seduti da soli nella sala comune. Allura sembrava provata, stanca come se non avesse dormito per giorni interi, i capelli raccolti e fermati in uno stretto chignon. Poggiava la schiena contro lo schienale del divano, le spalle incassate, e la sua espressione era scrupolosamente neutra mentre ascoltava Shiro che le parlava con voce bassa, lo sguardo attento su di lei.

Lance si fermò sulla soglia, imbarazzato, quando gli occhi di Allura si posarono su di lui; si chiese se aveva interrotto qualcosa. Quella sensazione si fece più intensa quando anche lo sguardo di Shiro si concentrò su di lui, mettendolo a disagio. Shiro sembrava distante nonostante il modo in cui stava parlando con Allura, come se stesse guardando Lance attraverso un muro d’acqua senza capire bene chi fosse.

“Uh, ehi.” Disse Lance, impacciato, mezzo rivolto verso il corridoio e pronto a scappare se necessario. Non sapeva quanto sarebbe potuto essere veloce, però, con Kosmo seduto sui piedi.

“Ciao, Lance.” Disse Allura, amabilmente. “Cercavi qualcosa? Keith è ancora-”

Lance scosse il capo, ricacciando indietro a forza il calore sulle guance. Allura lo conosceva fin troppo bene; aveva visto troppo del suo cuore. “Ah, no, sono- beh, volevo solo sapere come stavi, Shiro.”

All’improvviso, la nebbia sul volto di Shiro scomparve e la sua espressione si increspò, confusa. “Io?”

“Uh, sì.” Lance si mise le mani in tasca, rimpiangendo la mancanza della sua lettera. “Keith mi aveva accennato che non ti eri sentito bene ieri, quindi volevo sapere come stavi.” Nella stanza calò un silenzio inquietante. Allura sembrava presa in contropiede tanto quanto Lance, e il suo sguardo si posò su Shiro, seduto lì fermo con una faccia sempre più stupita.

“Dev’essersi sbagliato.” Disse infine con lentezza, sfregandosi il mento come se stesse cercando di ricordare se il giorno prima aveva detto qualcosa del genere. Lance sentì lo stomaco sottosopra; Keith non si sarebbe mai sbagliato sulla salute di Shiro dopo tutte le stranezze che capitavano al paladino nero. “Mi sento bene.”

Allura lo squadrò. “Ne sei sicuro, Shiro? Se non ti senti bene-”

“Sto bene, principessa.” Disse Shiro, così tagliente che Kosmo si alzò, il corpo teso. Questo fece scattare l’allarme nella mente di Lance, che fu veloce a posare una mano sul collo di Kosmo, affondando le dita nella sua pelliccia folta come per calmarlo. Shiro spostò lo sguardo sul lupo e poi su Lance, per poi alzarsi. Senza guardare Allura, disse: “Continueremo più tardi. Adesso ho fame.”

Lance fece un lungo passo di lato per permettere a Shiro di passare, incapace di distogliere lo sguardo, e una volta che se ne fu andato riportò lo sguardo su Allura, che lo fissava corrucciata.

“Ti spiacerebbe spiegarmi il perché di tutto questo?” Domandò, la voce ferma che esigeva una spiegazione. Sedeva con la schiena leggermente più dritta di poco prima, gli orecchini che catturavano la luce, il volto ancora più chiuso di prima. Lance si torturò il labbro inferiore con i denti, poi entrò nella stanza con Kosmo che lo seguiva come un’ombra.

“Hai notato niente di strano in Shiro?” Le domandò. Vide che inarcava un sopracciglio e si corresse: “A parte quanto hai appena visto.”

Lei lo fissò, le sopracciglia calate sugli occhi brillanti come gemme, e incrociò le braccia al petto. “Immagino che si comporti in maniera leggermente diversa da quando Keith è tornato. Hanno forse litigato a mia insaputa?”

Lance si sedette di fianco a lei sul divano. “No… affatto. Keith è preoccupato per lui.” Kosmo si fece posto di fianco a lui e gli posò la testa sulle ginocchia, menando la coda in segno di approvazione quando Lance gli passò una mano sulla testa per grattarlo dietro le orecchie a punta. “Ieri Shiro gli ha detto che aveva mal di testa, e Keith pensa il fatto che sostenga di lasciar entrare Lotor nel castello senza alcuna precauzione… non sia da lui.”

Allura strinse le labbra, pensierosa. “In effetti, mi era sembrato strano. Di solito lui è quello che mette le mani avanti pensando alla nostra sicurezza. Per quanto vorrei che non ci dovessimo preoccupare di un tradimento da parte di Lotor, è già successo una volta.” Distolse lo sguardo da Lance e si schiarì la voce. “Perché mai dovrebbe mentire a Keith sul mal di testa?”

Lance scrollò le spalle e si poggiò con la schiena al divano, inclinando la testa fino a quando non si ritrovò a fissare il soffitto. Arricciò le dita nella pelliccia di Kosmo con fare assente. “Perché mai avrebbe dovuto mentire sul fatto di aver detto a Keith che aveva mal di testa?”

Allura rimase in silenzio per un momento e rimasero entrambi seduti in un silenzio confuso e condiviso. Kosmo si abbandonò sempre più sulla gamba di Lance, il suo corpo caldo contro quello del ragazzo, e Lance si sentì improvvisamente grato del fatto che il lupo fosse appiccicoso tanto quanto lui. Lo confortava molto più che quella piccola e terribile lettera, il cui pensiero lo torturava se ci pensava troppo a lungo. Gli ricordava l’assenza di Keith, mentre Kosmo era la prova della sua presenza.

“Devo riferirlo a Coran.” Mormorò Allura dopo un po’. “Saprà dirmi se questo cambiamento è un effetto collaterale di una malattia. Forse Keith e sua madre hanno portato una qualche malattia con loro dall’abisso quantico senza accorgersene.”

Lance sapeva che non aveva niente a che fare con Keith. Anche se quello era stato il momento in cui la situazione si era fatta più strana, Lance aveva registrato un vlog mesi prima parlando dello strano comportamento di Shiro. “Non sono stati né Keith né Krolia.” Le disse.

“Come fai a esserne sicuro?”

Lance le spiegò del video che aveva trovato Pidge e abbandonò la testa sulla spalla, guardandola da quella strana angolazione, osservandola mentre interiorizzava quella nuova informazione.

“Penso che dovrei comunque informare Coran.” Fissò a lungo e con durezza le sue ginocchia, come se l’avessero offesa, e tenne le braccia incrociate al petto con fare grave. “Tutto questo non interferirà con i nostri piani di stasera, non credi, Lance?”

Venne scosso dalla sorpresa a quella domanda. Con “i nostri piani” intendeva il piccolo party di benvenuto e d’attacco che avevano in mente per Lotor quando sarebbe entrato nel castello per spiegarsi. Non c’erano forse persone più importanti di lui che avrebbero potuto rispondere meglio a quella domanda? Al suo silenzio, lei alzò lentamente lo sguardo e ricambiò il suo volto incredulo con uno dei suoi cenni con il capo.

“N-no.” Disse Lance, raddrizzando la schiena. “Uh, no, non penso… Voglio dire, siamo così in tanti. Anche se dovessimo escludere Shiro, penso che riusciremmo comunque a farcela.” Non aveva importanza che Shiro fosse il leader di Voltron – Lance sperava ancora che Lotor avrebbe cooperato al 100% senza storie. Inoltre, voleva bene ad Allura e si considerava bravo abbastanza da riuscire a proteggere i suoi sentimenti, che Lance sapeva che comprendevano anche Allura.

Lei rifletté con serietà sulle sue parole. “Pensi che dovremmo escluderlo?”

Lance si passò di nuovo i denti sul labbro inferiore, soffocando lo shock che seguì la sorpresa. “Penso che sia una domanda da fare a Keith.”

Lei annuì, soddisfatta. “Giusto. Glielo chiederò quando tornerà dal suo giro per le armi.” Il suo sguardo duro si addolcì un poco. “Grazie per la tua sincerità.”

Lui le sorrise. “Grazie di essere una persona con cui posso parlare di queste cose.”

Allura rispose con un sorriso appena accennato. “Beh, mi sembra giusto, no? Se devi sorbirti i miei discorsi sui miei sentimenti per un uomo che è anche il mio più grande nemico, il minimo che posso fare è ascoltare le tue preoccupazioni.” Prese la sua mano nella sua. “Voglio che tu sappia che ci sarò sempre per te, Lance. Come tu c’eri per me.”

Lui rise appena alle sue parole; era incredibile che Allura si sentisse ancora in debito con lui dopo che aveva fatto per lui tutto quello che una persona sarebbe capace di fare. “Mi hai salvato. Penso che questo ci abbia legato per la vita, che ti piaccia o no.”

Lei arricciò le labbra, mostrando un accenno di bianco. “Immagino che ci possa essere di peggio.”

Lui girò la mano, palmo con palmo, e le strinse la mano in segno di solidarietà. Il suo rapporto con Allura era stato così? Era così a suo agio con lui e così interessata delle sue opinioni, si fidava di lui. Tutto quello che era riuscito a scoprire del suo passato prima della morte non combaciava con quella fiducia innata che aveva in lei. Avrebbe voluto avere le parole per esprimere la sua gratitudine ma, da come lei lo guardò, si rese conto che Allura sapeva e che ricambiava il suo affetto con la stessa intensità.

Lei sospirò e ritrasse la mano per un momento. “Ho come il sospetto che Keith verrà dritto da te al suo ritorno. Potresti mandarlo da me?”

A quelle parole così tranquille, Lance strinse il pugno nella pelliccia di Kosmo, sentendo il calore accumularsi nelle guance, già piene di chiazze rosse e traditrici. “Non- non è detto che trovi me per primo. E se Kolivan lo prendesse con sé di nuovo? O Krolia? E se-”

Per la prima volta da quando Lance era entrato nella stanza, Allura si abbandonò sul divano e alzò gli occhi al cielo. “Lance, ti prego. Ho gli occhi e un cervello con minimo un neurone funzionante. Non insultarmi.”

“Allura…” Il suo gemito di disperazione si disperse nella sua risata imbarazzata e si coprì il volto con una mano, nascondendo più che poteva alla vista di lei gli occhi e le guance in fiamme.

“Dovresti ringraziarmi per non averti chiesto i dettagli.” Disse, e sembrava una principessa, abituata a far andare le cose come voleva lei, che aveva scelto di concedergli la grazia solo perché le faceva piacere assecondare questo suo capriccio. “Ti risparmierò, per ora. Ma dopo che tutta questa storia sarà finita, esigo sapere ogni cosa. In quanto amica curiosa, ovviamente; non come tuo capo.”

“Molto gentile.” Disse lui, secco.

Lei ghignò, divertita. “Chi altro lo sa?”

Lui si tolse la mano dal volto. “Non c’è niente da sapere. Non- nemmeno io lo so.”

Lei sbuffò. “Beh, io lo so.”

“Ci stai facendo fin troppo caso.”

“Non è colpa mia se Keith è discreto come un sasso.”

Lance fremette al sentire quell’osservazione perché… beh, perché era vero.

“Va bene! Gli dirò che lo stai cercando!” Alzò le mani al cielo, sconfitto.

“Grazie. Era così difficile?” Gli diede un buffetto sul ginocchio e si alzò in piedi. “Puoi dirgli che sarò nella plancia di comando con Coran. Devo parlargli di Shiro prima che altro richieda la mia attenzione.”

“Okay. A dopo.” Disse con un sospiro, accasciandosi di nuovo sul divano.

Lei gli rivolse un altro sorriso e se ne andò, lasciandolo con i suoi nuovi pensieri su Keith. Keith, sorridente nella penombra del corridoio la notte precedente. Keith, che gli teneva la mano sul suo petto, con il cuore che batteva come impazzito, sporto verso di lui con le palpebre semi abbassate. Keith, nelle cui braccia stava così bene, le cui spalle larghe lo circondavano in un modo adorabile che gli faceva sentire una morsa allo stomaco. Sentiva il volto bruciare a ogni ricordo, a ogni sensazione tatuata che frizzava sottopelle come champagne. Incrociò le braccia sopra il volto, nascondendosi nell’incavo delle braccia.

Forse aveva mentito dicendo che non lo sapeva.

Forse avrebbe dovuto dirlo a Keith per primo, però.

***

Qualche ora dopo, Lance si trovava di nuovo nella sua stanza, riordinando le idee nell’attesa che Keith tornasse dalla sua chiacchierata con Allura. Avrebbe voluto odiare il fatto che aveva avuto ragione su Keith – era andato diretto da lui non appena tornato, senza neanche cambiarsi la tuta di Marmora –, ma si era perdutamente innamorato dell’immagine mentale di Keith che si faceva strada per i corridoi in tutta fretta, con i suoi occhi scuri e la sua bellezza e i capelli scompigliati dal vento, le guance arrossate, solo per vedere Lance il prima possibile.

Quanto era affascinante?

Non era certo di come riuscisse a rimanere ancora saldo su due piedi – per un momento, aveva vacillato. Era stato tutto un tremolio di ginocchia e battiti accelerati e mani che artigliavano la testiera del letto per reggersi in piedi. Forse si stava abituando a quei ridicoli effetti collaterali di Keith, il che era un sollievo. Non voleva preoccuparsi di cadere col culo a terra o meno con una sua singola occhiata.

Aprì l’armadio – l’unica parte della stanza che non aveva toccato – e si ritrovò faccia a faccia con la vecchia giacca di Keith, ancora appesa verso il fondo, schiacciata contro il muro da un lato come un segreto. Stordito, senza pensare, carezzò una delle maniche – morbida, usurata, familiare; sicura, pensò subito Lance, un ricordo del sollievo che gli aveva dato durante l’assenza di Keith. Gli trasmetteva calore; si sorprese a sorridere, sia per la familiarità che per il fatto che non aveva più bisogno di raggomitolarsi dentro quella giacca ora che poteva abbracciare quello vero quasi quando voleva.

Iniziava a pensare di essere ovvio anche lui nei suoi atteggiamenti. Allura era solo stata fin troppo gentile nell’ometterlo.

Tirò fuori la giacca dall’armadio e si sedette sul letto, poggiandola sulle ginocchia, passando la mano sulle cuciture del colletto quasi con reverenza.

Forse era arrivato il momento di restituirla.

Era… a voler essere onesti, probabilmente a Keith non andava neanche più. Si sfilò la giacca e si mise quella di Keith. Se la sentì stretta sulle spalle, e Keith era poco più alto e largo di spalle di lui. Quindi… no, non gli sarebbe andata bene. Per niente.

Si trattava più della cosa principale, dunque. Uno degli ultimi pezzi di quel muro che aveva tenuto in piedi quando si trattava di ammettere a Keith cosa provava per lui. Di quanto si ricordasse di lui, a modo suo. Per quale motivo avrebbe dovuto aggrapparvisi?

Ripensandoci ora, pensava che tutte le sue preoccupazioni e i segreti del passato erano sciocche e infondate. Persino adesso, in quel momento, si sentiva stupido per aver esitato a eliminare la poca distanza che li aveva separati. Di cosa aveva paura? Keith non l’avrebbe rifiutato. Ne era sicuro. Ci avrebbe scommesso la sua stessa vita.

I suoi pensieri vennero interrotti da un bussare alla porta, come una secchiata di acqua gelida.

“Sono tornato.”

Il suono della sua voce, attutito dalla porta, lo faceva sentire come se potesse superare qualunque cosa. Non capiva come poteva essere possibile; non capiva come un attimo prima si sentisse estremamente fragile e l’altro così invincibile, e senza rendersene conto. Il respiro gli uscì tremulo e la tensione sulle spalle si allentò mentre cercava di controllare le sue emozioni. La porta si aprì e lui sollevò lo sguardo, ricordandosi troppo tardi che non stava solo tenendo tra le mani la giaccia di Keith… la stava indossando.

Keith si fermò subito sulla soglia – ora indossava i suoi soliti vestiti – e sollevò le sopracciglia per la sorpresa, tornando poi a aggrottarle come suo solito. Lance sentì il calore assalirlo dalle clavicole all’attaccatura dei capelli. Per un breve momento, contemplò l’idea di togliersi la giacca, ma ormai il danno era stato fatto e non voleva dare l’impressione di essere imbarazzato, anche se si sentiva incredibilmente in colpa per aver preso per sé qualcosa che non gli apparteneva.

“Ehi.” Lo salutò Lance, optando per ignorare il suo palese rossore in favore di una certa nonchalance. Spostò il peso all’indietro, sorreggendosi con le mani, e cercò di sorridere come se non fosse appena stato colto in flagrante con la mano dentro un immaginario vaso di biscotti. “Uh… tu e Allura avete parlato?”

Keith rimase fermo dov’era. “Sì.” Disse, con la voce più neutrale che potesse esistere. “Le hai detto tutto di Shiro.”

Lance scrollò una spalla, la gola tremula. “Ho pensato che avrebbe dovuto saperlo anche lei.”

Keith annuì. Finalmente, superò la soglia e prese posto di fianco a Lance. Il suo sguardo scivolò dal colletto della giacca fino al bordo poggiato all’inizio dell’anca di Lance e poi su di nuovo, indisturbato, a quanto pareva, dal fatto che Lance sapeva che si stava prendendo tutto il tempo che voleva per osservarlo.

Lance sentì il rossore farsi rovente, incapace di smettere di guardare Keith che lo guardava.

“Mi ha chiesto come stava Shiro.” Disse Keith dopo un lungo momento, decidendosi a incontrare di nuovo lo sguardo di Lance. “Le ho detto che penso che dovrebbe andare tutto bene finché lo teniamo d’occhio. Non mi piace il fatto che Shiro abbia detto che non si ricordava di avermi detto che aveva mal di testa, ma Allura dice che forse Coran ci può aiutare.” Sembrava sollevato in un modo che Lance non avrebbe mai potuto prevedere. Sapeva che il comportamento di Shiro lo aveva turbato, ma non aveva capito quanto avesse influenzato Keith. avrebbe voluto saperlo. Avrebbe voluto che Keith gliel’avesse detto.

Lance studiò la sua espressione, parte del calore nel suo volto si stava dissipando. “Va bene che io le abbia parlato di Shiro?”

Keith aggrottò le sopracciglia, quasi facendole toccare all’improvvisa calma nella voce di Lance. “Sì. Probabilmente è la cosa migliore per lui, a questo punto.” Si sporse in avanti e poggiò i gomiti sulle ginocchia, guardando Lance dal basso da dietro le ciocche scure dei suoi capelli. “Quindi, grazie.”

Il calore del suo corpo lo toccava attraverso lo spazio tra le loro spalle e cosce e Lance si era quasi poggiato su di lui senza pensarci. Sentiva la gola stretta e calda per l’emozione, per la gratitudine che provava per essere lì in quel momento con Keith, per essergli d’aiuto nel rendere più leggero il suo fardello senza neanche sapere che ci fosse. Si sporse e si sporse fino a quando non ebbe poggiato il capo sulla spalla di Keith e metà del suo corpo non fu contro il fianco dell’altro, gli occhi che disegnavano le curve del suo braccio fino al polso snello e alla punta callosa delle sue dita.

“Prego.” Borbottò, con Keith ancora fermo e saldo e caldo sotto di lui. Si mise la mano in tasca, gli occhi ancora persi sulle mani di Keith, e ne tirò fuori i guanti che aveva trovato tempo fa. Li tenne in mano con esitazione, il palmo verso l’alto, la guancia schiacciata contro la spalla di Keith. “Questi sono tuoi.”

Nella voce di Keith si accese una nota di sorpresa quando vide cosa teneva in mano. “Pensavo di averli persi.” Li prese, carezzandoli tra il pollice e le dita come a voler imparare di nuovo a memoria la loro morbidezza.

“Erano nella tua stanza.” Gli disse lance, sentendosi improvvisamente timido mentre lo osservava mettersi i guanti. Non li aveva mai visti addosso a Keith, ma capì subito che li aveva indossati spesso e volentieri. Era un’altra parte del suo passato che tornava da lui, un altro pezzo di Keith non conosceva. Prese un respiro senza far rumore, attingendo ai pozzi profondi della calma di poco prima, e chiuse le palpebre.

“Non te l’ho mai detto,” disse, la voce quasi incrinata nonostante la sua determinazione, “ma prima di incontrarti andavo sempre nella tua camera.” Deglutì, ricordando quella sensazione. “Volevo vedere se riuscivo… non stavo cercando di ricordarmi di te, davvero, ma volevo capire chi eri.” Aprì gli occhi e si fissò le ginocchia. “Eri questo vago imprinting nella mia testa, come un’ombra, ma non così stabile. Non eri ben definito. Pensavo che, forse, avrei trovato qualcosa per farmi un’idea su di te. Volevo… volevo darti una forma più definita, penso. Ero stanco di cercare di afferrare solo fumo.”

La voce di Keith era gentile. “I miei guanti?”

Lance sorrise per un momento, ricordando la sua leggera frustrazione quando aveva trovato la sua stanza praticamente vuota. “Non possedevi nient’altro. Tutti i tuoi vestiti erano piegati e poggiati per bene alla fine del letto e la tua giacca era appesa vicino alla porta. Ero così deluso. L’unica cosa che sono riuscito a capire era che eri leggermente più basso di me e alla fine non era neanche vero.”

“Una volta sì.”

Lance annuì, strofinando la guancia contro la spalla di Keith. “Già.”

“Posso chiederti della giacca?” Gli domandò Keith, piano. Non sentiva il peso del suo sguardo che gli bruciava la pelle. Si sistemò più vicino a lui, comodo, coscia contro coscia, e inghiottì il nodo che aveva in gola.

“Era l’unica cosa tua.” Disse piano dopo essersi preso un momento per scegliere le parole, parlando lento e sottovoce. Keith non si mosse, ma nemmeno si irrigidì. “Volevo… lavarla. Come il resto dei tuoi vestiti e delle lenzuola. Uhm…” La sua voce tremò un poco mentre continuava a esporre i suoi pensieri e segreti più reconditi. “Pensavo che, se fossi tornato, avresti voluto indossare vestiti puliti. Volevo occuparmene per te.”

“Ma era… a parte quella stupida lettera, era l’unica prova tangibile che eri almeno esistito, quindi volevo tenerla vicina. Non sono riuscito a riportarla nella tua stanza.” Si voltò per schiacciare il volto contro la spalla di Keith, imbarazzato e fragile. “La indossavo sempre.”

Keith sistemò la sua posizione, raddrizzando la schiena, e Lance si mosse con lui, il sangue che gli pulsava nelle vene convulsamente mentre Keith lo convinceva a voltarsi verso di lui per farsi vedere bene da quando aveva iniziato ad aprirgli il suo cuore. Gli ci volle un poco per farsi coraggio e guardarlo, e quando lo fece il suo cuore cercò di scappare sprofondando nello stomaco, urlando nel petto. Il ragazzo di fronte a lui era così adorabile e duro e intenso – non proprio quello che si era immaginato quando aveva deciso di confessare tutto. Le sue labbra erano increspate, le sopracciglia severe. Lance voleva baciarle entrambe.

“Posso ridartela, se vuoi.” Disse dopo un momento, la voce inaspettatamente calma.

Keith si alzò; sospirò bruscamente, quasi come se fosse irritato, frustrato, e si passò una mano tra i capelli, facendo qualche passo per la stanza. Poi gli rivolse un’espressione al limite del disperato. “Devo dirti una cosa, Lance.”

Lance sentì un vuoto nello stomaco e cercò di capire perché Keith lo fissava a quel modo. “Okay.”

“Si tratta di qualcosa che è successo molto tempo fa. Prima che tu perdessi la memoria. Non sapevo come dirtelo, prima. Volevo, volevo solo… sei qui a dirmi queste cose e penso che sia… penso di poterlo fare, ora. Dirtelo.” Si interruppe, il volto una maschera di frustrazione selvaggia, e si fermò a qualche passo da lui, di fronte a lui, costringendosi a rimanere sul posto.

Lance lo fissò di rimando; si alzò in piedi per stargli più vicino. “Okay…?”

Non esitò; sembrò che quella fosse l’unica sicurezza di cui Keith avesse bisogno. Quasi inciampò sulle sue stesse parole per la fretta di dirle. “Ti ho quasi baciato.”

Lance sbatté le palpebre. E le sbatté di nuovo. E poi ancora, elaborando quell’informazione. Il cuore gli scalciava nel petto come un tamburo da guerra, veloce e inarrivabile, rapido e forte abbastanza da lasciargli un livido. Prima di qualunque altro pensiero, prima che qualunque altra cosa potesse ridestarlo dal suo stupore improvviso, sentì il sapore dell’anticipazione.

Poteva sentirlo bene, come una memoria fisica, dolce e densa come miele sulla sua lingua. Sentire il calore che avrebbe portato con sé, intenso e senza fine, che lo avrebbe bruciato da dentro – era ogni sogno a occhi aperti ammassato nella sua mente con una chiarezza accecante, alimentati per la prima volta dalla possibilità effettiva. Fermo, sospeso nello sguardo di Keith, si fece inamovibile, vibrava sul posto mentre il sangue gli ronzava nelle orecchie come un coro da chiesa, scosso dall’elettricità che gli pizzicava la pelle senza neanche la premessa di un contatto fisico.

Huh?” La sua voce era alta e flebile, strozzata – più uno squittio che una parola.

Keith si limitò a fissarlo, lo sguardo scuro come una notte senza stelle e pieno di una sincerità assoluta e disarmante. La sua voce si fece più gentile e un tocco di tenerezza gli incurvò un angolo delle labbra. “Ti ho quasi baciato, Lance.”

“T-ti avevo già sentito!” Quasi urlò; rabbrividì e l’universo si fermò di colpo in maniera devastante. Ora c’erano un sacco di cose che gli tornavano. La lettera fu la prima che gli venne in mente; il desiderio che incapsulava, il senso di quel silenzio non scritto. La fitta nel petto la prima volta che aveva sentito il nome di Keith, completo e vasto eppure ancora così privo di significato. La calda familiarità che a volte si infiltrava nella voce di Keith quando gli parlava, le domande precise che mettevano alla prova i suoi ricordi perduti. L’intimità che era sbocciata così naturale tra loro quando Keith era tornato. Tutto.

Tutto.

Lo fissò, sentendo troppo tutto nello stesso momento – così tanto che si intrecciava con tutto e niente. Così tanto da fargli tremare le ginocchia. Così tanto da poter quasi sentire un ricordo premere contro il buio della vasta distesa della sua mente – un’impressione, una sensazione non facile da dimenticare. Keith, pensò, guardando il ragazzo in piedi di fronte a lui con gli occhi come due lune nere. Sentì tutto questo, emozioni rigonfie nella sua gola e dietro il suo sterno.

“A-aspetta.” Balbettò, incerto, impaurito dalla domanda e smanioso di sapere, torcendosi le dita. “Ho capito che è successo… prima. Uh, prima che morissi, ma… quando?” La sua voce si spezzò. “Per quanto abbiamo- abbiamo- quando, Keith?”

“Il giorno in cui ho lasciato la squadra per andare con La Spada.” Rispose lui, subito, come se fosse desideroso di raccontare quanto Lance di sapere. Il suo volto non era dolce, anche se si stava aprendo. “Me l’avresti lasciato fare.” Disse, le sue parole così commoventi e piene e sincere che a Lance mancò l’aria e gli credette. “Mi hai fermato mentre andavo all’hangar dopo aver salutato la squadra. Eri da solo. Non hai detto niente, non ce n’era bisogno. Penso che lo volessi anche tu, ma non sapevi come e io non potevo… non potevo. Sapevo… che cosa stavi pensando. Il modo in cui mi guardavi-”

“Perché non mi hai baciato?” Quelle parole abbandonarono le sue labbra più come una richiesta che una domanda, sgorgando da lui prima che avesse il tempo di analizzare il filo ingarbugliato dei suoi pensieri. Sentì qualcosa di caldo sorgergli nel petto, spavaldo e vicino, denso e fitto e umido come una notte d’estate. Sapeva di rabbia nella sua bocca, ma nel suo petto faceva male come la solitudine. “Se sapevi che io- se sapevi come mi sentivo, allora perché-”

Keith era implacabile. “Perché sarei rimasto.”

Lance tentennò di nuovo e il mondo si capovolse di nuovo; sbatté le palpebre, a bocca aperta, annebbiato da quel lento processo di maturazione e consapevolezza.

La voce di Keith rimase forte e salda. “A quel punto, ho pensato che la cosa migliore che potessi fare per te fosse andarmene. Quindi, non potevo rimanere.”

Lance si sentì la bocca riarsa. “Avresti… avresti dovuto baciarmi.”

Keith scosse il capo e si fece più vicino, e quella crescente vicinanza incendiò Lance come carta nel fuoco, tutto desiderio, calore lambente, vorace, che lasciava solo tizzoni, con il suo cuore accoccolato lì come una fenice rinata. La sua faccia doveva essere dannatamente rossa. “Volevo farlo.”

Lance aggrottò le sopracciglia, ma il cipiglio serio di Keith esitò appena, come un’alba, permettendo a qualcosa di incredibilmente tenero di brillare.

“Avresti dovuto.” Mormorò Lance. La vicinanza di Keith pesava su di lui, anche se doveva ancora toccarlo. Avrebbe voluto distogliere lo sguardo, riprendere fiato, ma non poteva.

“Te ne saresti dimenticato.”

Lance si immobilizzò.

Keith studiò gli occhi di Lance, cauto. “Ci penso sempre.” Era così saldo. Così sicuro di sé, con la voce bassa di tuono, secca e devota. “Di come te ne saresti dimenticato. Non voglio che ti senta in colpa, non è questo il motivo per cui te lo sto dicendo. Io-” Si interruppe un attimo, innaturale. “-te lo sto dicendo perché voglio che – ho bisogno – ho bisogno che tu sappia che lo volevo. Che lo voglio ancora.”

“Baciarmi?” Sussurrò Lance per chiedere conferma, e la sua voce si incrinò anche se parlava così piano.

Le guance di Keith si riscaldarono un poco, le pozze nere dei suoi occhi attente mentre si avvicinava a Lance, serio. “Sì.”

Costruirò dei nuovi ricordi con te.

Lance non riusciva neanche a fare un passo indietro – non voleva. Ripensò di nuovo a quella lettera e alla singola parola in cima alla pagina spiegazzata. La sua voce era sconnessa. “Perché non me l’hai detto?” Perché non mi hai ancora baciato?

Keith rispose, disperato, e la sua espressione si increspò quando gli prese la mano con cautela. “Non volevo costringerti in alcun modo. Non volevo che pensassi che dovevi pensare o comportarti in un certo modo solo perché io avevo detto qualcosa. Ripensandoci, credevo che la mia assenza sarebbe bastata a cancellare qualunque sentimento provassi per me, anche prima della tua morte. Per te sono passati mesi, per me anni e… quindi, aveva senso. L’avevo accettato, me l’aspettavo, ma-”

“Che mi dici dei tuoi sentimenti?”

Keith si immobilizzò. “Ti vedevo ogni giorno nell’abisso.” Si addolcì, calmandosi, la sua voce dorata e calda come un bentornato. “Ti vedevo ogni giorno, Lance. Ti ho amato sempre di più.”

Lance sentì il cuore spezzarsi al vedere le emozioni pure sul suo volto, gli occhi che pizzicavano per le lacrime. Ogni cosa dentro di lui si espanse, il mondo si ridusse diventando solo Keith e quella verità frustava l’aria tra loro come una conflagrazione. Lance non era sicuro di come comportarsi; come avrebbe dovuto reagire a una verità che sapeva e non sapeva? Come avrebbe dovuto raccapezzarsi di fronte alla parola amore, pronunciata con così tanta facilità e prontezza e risolutezza?

Un paio di lacrimoni gli sgorgarono dagli occhi e ritrovò la voce per gracchiare: “Come hai potuto anche solo pensare che ti avrei dimenticato così?” Era la prima cosa che gli era venuta in mente di dire, quasi ferito da come Keith aveva trascurato i suoi sentimenti per lui.

“Hai un cuore grande.” Gli disse Keith, passando il pollice con gentilezza sulla montagnola di una nocca, la voce quasi spezzata. “Ami con troppa facilità e sapevo che provavi qualcosa per Allura. Sono sparito per mesi. Mi sono allontanato dalla squadra per più di un anno. Perché ma non avresti dovuto dimenticarmi?”

Lance inclinò la testa, aggrottando le sopracciglia, incredulo. “Perché anch’io ti amavo, Keith.” Pronunciò con ardore, la vista che gli si appannava leggermente ai lati, incontrando e studiando lo sguardo di Keith. “Quando mi sono svegliato, sapevo che ti amavo.” Strinse le dita nella mano di Keith, tenendolo stretto. “Ho- ho dimenticato tutto tranne quello.”

Keith abbassò le mani e trovò la vita di Lance, stringendolo a sé, al petto, senza vergogna. Lance posò le mani sulle sue spalle, un piccolo sussulto di sorpresa incastrato in gola che si trasformò subito in qualcosa di decisamente più imbarazzante quando le mani di Keith lo strinsero con più sicurezza. Si permise di bruciare sotto quello sguardo inceneritore, con le palpebre a mezz’asta, famelico. L’aria tra loro era come sospesa, piena di tensione, ferma sul ciglio di un’esplosione. Lance avrebbe voluto lasciarsi cadere, accendere quella miccia, voleva che Keith lo guardasse sempre a quel modo. Non voleva sapere nient’altro.

Keith deglutì quasi impercettibilmente, lo sguardo immoto, le mani così ferme che Lance poteva sentire quella sicurezza fin nelle ossa, e ne voleva di più. “Chiedimelo.”

“Che cosa?”

“Ho aspettato che me lo chiedessi. Per favore.”

Lance lo fissò. “Pensavo che ci fossero cose che non serviva ti chiedessi.”

“Questo è diverso. Chiedimelo.”

In che senso, diverso?” Mormorò.

Keith si sporse e premette la fronte contro il sopracciglio di Lance, chiudendo gli occhi come se provasse dolore. Il modo in cui sentiva le cose era così genuino e sincero, glielo si leggeva in faccia chiaro come il giorno. “Voglio darti tutto quello che vuoi, come lo vuoi. Voglio sentirtelo dire. Non… Lance, non-” Si interruppe di colpo.

Per accontentarlo, Lance portò le mani al volto di Keith e cercò di appianare le sue rughe d’espressione con le dita, dolcemente. Indugiò sulle fossette vicino alla sua bocca, consapevole che se avesse anche solo inclinato leggermente la testa a sinistra non ci sarebbe più stato alcuno spazio tra loro. Sembrava che Keith si stesse godendo il suo tocco, il suo respiro palesemente incastrato in gola mentre le sue mani rimanevano calde e presenti sui fianchi di Lance, tenendolo saldo come un salvagente. Come se fosse lui ad aver perso tutto e Lance quello ad averlo ritrovato.

“Posso baciarti, Keith?” Sussurrò Lance, sentendosi al tempo stesso fragile e invincibile e coraggioso e terrorizzato, le lacrime che gli solcavano le guance. Il sangue pulsava sotto la pelle, bollente e denso, scrosciante nelle orecchie, il cuore che gli ammaccava il petto da dentro. Chiuse gli occhi e rabbrividì al sentire il respiro di Keith carezzargli la pelle delicata del polso.

Keith esalò piano, così immobile sotto al tocco di Lance da sembrare una statua. Come se avesse paura di muoversi. Come se pensasse che un solo spasmo dei suoi muscoli avrebbe potuto mandare tutto in pezzi, facendolo scomparire. Lance voleva stringerlo di più a sé; voleva che Keith conoscesse tutto quello che aveva dentro il cuore perché non sapeva ancora come dirlo, voleva prendersi cura di lui e stare con lui in ogni modo possibile in quella guerra e per il tempo che gli rimaneva in quella vita. Era sicuro che avrebbe ritrovato Keith anche nella prossima. Era già successo prima.

“Sì.” Rispose Keith, rauco, stringendo la presa sui suoi fianchi.

Grazie.” Disse piano, la voce densa di desiderio, quasi inebriata. , gli suggerì la sua mente con un sibilo di grande intensità mentre lasciava cadere le mani dal viso di Keith alle sue spalle, stringendole con le dita. Keith inclinò la testa e sospirò e sembrava contenere anche il peso di una risata, ma Lance non ci stava pensando mentre tremava e si stringeva a lui un po’ di più, inclinando leggermente la testa all’indietro fino a quando…

Le labbra di Keith erano calde quando sfiorarono le sue. Il primo tocco fu esitante, gentile, come a chiedere il suo permesso. Lance sentì lo stomaco sprofondargli fino alle ginocchia quando Keith fece scivolare piano una mano su per la sua schiena per tenerlo a sé, stretto al petto. Lance affondò in lui, un flebile suono di approvazione gli crebbe nel petto, in accordo con le premurose attenzioni di Keith – la gentilezza delle sue labbra in contrasto con la presenza impietosa delle sue mani. Gli faceva volere di più e di più e di più. Ogni momento, per quanto breve, sembrava scuoterlo fin nel profondo, fino a quando l’unica cosa che gli impediva di andare in pezzi non furono le labbra di Keith, perfette sulle sue. La giacca gli costringeva le spalle, fastidiosa, e bruciava sotto di lei, le tempie imperlate di sudore.

Si scostò da lui con gentilezza, la sua voce un lamento senza fiato. “Fa caldo. Scusami, fa troppo caldo, ti prego non smettere di baciarmi, lo voglio da troppo tempo, ma devo-” Cercò di togliersi la giacca, ma Keith era troppo vicino e lui non voleva allontanarsi di più. Senza una parola, Keith strattonò il capo incriminato con durezza, sfilandolo, tirando la stoffa, e a Lance mancò subito la presenza di quelle mani sui suoi fianchi, Era rimasto così intontito ed ebbro da quel semplice sfiorarsi tra labbra, così incendiato da quel casto bacio, ed erano così vicini – non riusciva a credere che stesse succedendo.

“Non ci posso credere.” Sussurrò contro la mascella di Keith, quando si sfilò finalmente la giacca dai polsi, lanciandola sul letto alle loro spalle.

“Sta succedendo.” Mormorò Keith, i suoi occhi scuri oltre l’immaginabile da così vicino, riscaldati da una fame divina mentre seguivano ogni dettaglio del volto di Lance – arrossato, le labbra schiuse per respirare, gli occhi lucidi di lacrime e annebbiati di desiderio. “Merda. Sta succedendo.” E così, lo tirò di nuovo a sé, quella volta con labbra meno gentili e Lance fremette, il sangue che cantava elettrico nelle vene.

Si tenne di nuovo alle sue spalle, le dita arricciate con forza nella stoffa della maglia di Keith, prendendo una boccata d’aria nel bacio, quasi sorpreso da quella ferocia e al tempo stesso ispirato da essa. Ora Keith lo baciava come se quella fosse la sua ultima occasione. Come se baciarlo con abbastanza foga l’avrebbe reso un momento impossibile da dimenticare. Schiuse le labbra contro quelle di Lance, passando la lingua sul suo labbro inferiore, e Lance sentì le ginocchia tremare con violenza, supplicandolo di cedere sotto il suo stesso peso.

Keith dovette percepirlo, o sentì lo spostamento nel baricentro di Lance, perché le sue mani si strinsero con più forza su di lui e Lance ebbe un fremito, balbettando un piccolo e flebile “Oh mio dio” mentre Keith lo spingeva contro una parete per reggerlo meglio. Da quando lo conosceva, Keith era stato il pinnacolo delle emozioni represse, trattenendosi tranne quando gli veniva chiesto il contrario, ma il Keith di adesso – spalmato addosso a lui come se non riuscisse a stargli più vicino, le mani smaniose, le labbra sicure di sé e fameliche – era impulsivo e avventato e così pieno di desiderio, e Lance lo sentiva in ogni punto di contatto tra loro.

Nonostante la disperazione, Keith non era così brusco. Il suo tocco era sicuro e presente, ma dolce – lo toccava come Lance aveva sempre desiderato, come aveva sempre sperato che facesse, riverente e possessivo. Gli passò le braccia intorno al collo per tenersi stretto a lui, per stringerlo, e si buttò in quei baci languidi e bagnati, eguagliando con facilità l’ardore di Keith. Gli girava la testa e si sentiva – finalmente – deliziosamente sazio da quell’intimità.

Dopo un altro momento, le labbra di Keith si fecero più gentili e iniziò a passare le labbra sullo zigomo di Lance, salendo fino a scostare alcune ciocche spettinate dal suo volto.

“Sei così bello, Lance.” Sussurrò Keith, senza fiato, il petto che si sollevava contro quello dell’altro. “Ho sempre voluto dirtelo.”

Lance inclinò la testa di lato, rabbrividendo, e passò le dita tra i capelli di Keith. “Anche tu sei bellissimo.” Mormorò, esalando, riaprendo gli occhi e chiudendoli di nuovo sentendo il percorso lento e caldo delle labbra di Keith. “Ingiustamente bello. A volte riuscivo a malapena a respirare standoti vicino.”

Keith infilò il naso dietro l’incavo del suo orecchio, un sorriso malizioso nella sua voce. “E anche a stare in piedi.”

Lance proruppe in un attacco di risatine – probabilmente si sarebbe sentito più imbarazzato o indignato se Keith non lo stesse baciando lungo il collo, premendolo contro un muro. “E sono felice che questo sia il nostro primo bacio, Keith.” Gli disse Lance, sottovoce, timidamente, riaprendo di nuovo gli occhi. Keith sollevò il capo per incontrare il suo sguardo, i suoi occhi scuri erano uno sciroppo e attizzavano un fuoco selvaggio sotto la sua pelle. Lance gli toccò la mandibola. “Sono felice di non averti dimenticato.”

“Anch’io.” Borbottò Keith, carezzando la linea della guancia di Lance, studiando per un momento la sua espressione. Trovò qualcosa, se ne innamorò, si sporse e posò un lungo e dolce bacio sulle labbra di Lance che non finiva mai.

E Lance bruciò.


 

Note dell’autrice: Quindi. Che ne dite di questo, huh?

Sentitevi liberi di venire a piangere da me. Ho tenuto stretto quest’ultimo capitolo da 3k di parole per mesi e sono così contenta di poterlo finalmente condividere lmfao. Grazie per la vostra pazienza in questi ultimi due mesi, mentre riversavo per iscritto questo mostro di capitolo. Grazie di cuore a tutti coloro che sono rimasti per leggere questa storia fino alla fine.

Note della traduttrice: Spero che questo capitolo vi sia piaciuto! In realtà, ne mancano altri due, quindi questo non è quello finale. L'autrice all'epoca pensava di finire qui la storia, ma ha deciso di aggiungere ancora qualcosa <3

   
 
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